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sabato 19 maggio 2012

Valkiria - Here the Day Comes

#PER CHI AMA: Gothic Doom, primi Katatonia e Anathema, Draconian
Una cover con un raggio di sole che filtra attraverso gli alberi; un titolo, “Here the Day Comes”, che ha un forte sapore malinconico, cosi come i nomi delle song, che segnano i vari momenti della giornata; infine, un’intro dal pesante flavour nostalgico, ci introducono nel mondo dei Valkiria, band vicentina che da ben tre lustri popola il fitto underground metallico italiano, ma che ahimè soltanto oggi, sboccia come un fiore in primavera. Eccolo il nuovo album della band capitanata da Valkus, coadiuvato dal buon vecchio Mike (chitarrista anche degli Stighmate) e che vede alla batteria in veste di guest, Giuseppe Orlando, degli ormai scomparsi Novembre. Il sound proposto dai nostri è un black (poco in realtà) doom gothic (parecchio), che trae sicuramente origine da un album meraviglioso quale è stato “Brave Murder Day” dei Katatonia e dalle ultime produzioni in casa Draconian, senza dimenticare quel feeling che solo i già citati Novembre, erano in grado di imprimere nelle loro composizioni. Dopo aver dischiuso i nostri occhi ancor prima che le luci dell’alba si mostrino al giorno, con i suoni lontani di “Dawn”, è con le melodie dolci e suadenti di “Sunrise” che i nostri mi conquistano pienamente: si tratta di una song intrisa di dolore, e di arrendevolezza di fronte al proprio inesorabile destino, che attraverso uno splendido lavoro alle chitarre, mi trasmette tutto il proprio desolante dissapore. Tristi, ricchi di pathos, crepuscolari, fino a quando il sole non si staglia finalmente nel cielo, ma probabilmente è un mattino coperto da una fitta nebbia, perché “Morning” ha un’andatura per certi versi affranta, funerea; Valkus con il suo growling/screaming assolutamente intellegibile, ha un che di disperato, che evoca il cantato di Jonas Renkse nell’indimenticabile “Dance of December Souls”, prima perla dei Katatonia. Tra le nebbie apparentemente diradate, il pomeriggio porta con sé un pizzico di ardore in più, ma è solo una pia illusione, perché i nostri risprofondano già nel finale di “Afternoon”, nella drammatica angoscia di cui è permeato l’intero album. Si conferma splendido il lavoro alle chitarre, nonché quello alla batteria da parte di uno dei migliori drummer in circolazione, senza dimenticare il lavoro di rifinitura delle tastiere di Alberto Pasini. Il tramonto si sa, segna la fine della giornata, e forse anche delle nostre speranze, che si spengono con “Sunset”, un altro esempio di bellezza musicale senza tempo, che pescando dai classici degli anni ’90, “The Silent Enigma” degli Anathema o “Icon” dei Paradise Lost, delizia ulteriormente il mio palato. Poche luci si accendono nella buia sera, ma si affievoliscono da li a poco dietro le nuvole, presagio di una pesante e fredda pioggia incombente. La notte è pronta ad avvolgere nelle sue tenebre ogni cosa, prima che la luce segni nuovamente il ricominciare del ciclo del giorno e della vita. Piacevole come back discografico all’insegna di sonorità decisamente autunnali, che vede la band debuttare per l’attenta Bakerteam Records. Fortemente consigliati. (Francesco Scarci)

(Bakerteam Records)
Voto: 80

Joyless Jokers - Taste of Victory

#PER CHI AMA: Swedish Death Metal, Dark Tranquillity, Carcass
Un due tre, pronti via e si parte con la feralità nuovamente espressa dai vicentini Joyless Jokers, che avevamo già avuto modo di ospitare, sia sul sito del Pozzo dei Dannati che all’interno dell’omonimo programma radiofonico. Ed eccolo ritornare il combo guidato dai tre fratelli Girardello (voce e basso, chitarra e tastiere), ad offrirci nuovamente il loro granitico e fiero death metal, che ancora una volta irrompe nelle casse del mio stereo, con un sound ancor più monolitico rispetto al suo predecessore, “Arms of Darkness”. “Rain” e “Murder in Me” sgretolano immediatamente il mio lettore, mostrando una lieve evoluzione in termini di songwriting, rispetto al debut EP. Le linee di chitarra, sempre ruvide e pesanti, pescano ancora una volta dalla scuola svedese, non dimenticandosi tuttavia i tecnicismi “carcassiani”, soprattutto in chiave solistica. Le perniciose growling vocals di Tom (alla lunga un po’ troppo piatte però, per cui suggerisco un inserimento “pulito” qua e là), si mostrano costantemente incazzate col mondo, ostentando tutto il proprio dissapore ed odio lungo le otto songs qui incluse, ma soprattutto nella settima splendida “I’ll Watch You Die”, che insieme a “Hopeless”, rappresentano le mie tracce preferite. Nel frattempo, il quintetto veneto martella che è un piacere e rimaniamo quasi compressi dalla tellurica prestazione di Giove dietro le pelli, senza dimenticare di sottolineare la sempre precisa quanto mai piacevole opera dei due axemen, Michele e Rudy, che intrecciano le loro chitarre tra vibranti e melodici assoli, stop’n go e ritmiche che finiscono per trarre ispirazione non solo da Dark Tranquillity e soci (At the Gates, Meshuggah o Arch Enemy), ma in taluni frangenti, anche dalla scuola “core” americana. A stemperare la furia dirompente del quintetto, ci pensano ancora una volta gli inserti di tastiera del buon Jader, che ha il compito fondamentale di donare un certo equilibrio a “Taste of Victory”. Insomma il “Sapore della Vittoria” ha sempre un inconfondibile gusto che i nostri stanno lentamente saggiando… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75
 

giovedì 17 maggio 2012

Bauda - Oniirica

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, Black depressive, Liam
Ancora una volta ci addentriamo nell’oscuro mondo dell’underground, recandoci questa volta in Cile, alla scoperta di una band che avrebbe largamente potuto stupire con effetti speciali e colori ultra vivaci invece, complice l’assenza di un vocalist, alla fine questo “Oniirica” si rivela ahimè un album che stenta a decollare, che mostra le enormi potenzialità della band sudamericana, che a breve avremo comunque modo di riassaggiare, in un nuovo lp. Nel frattempo passiamo brevemente in rassegna quello che ha da offrire il full lenght d’esordio del terzetto di Santiago: si tratta di un cd di 5 lunghi pezzi che sfiora i 50 minuti di musica. L’act cileno propone sonorità decisamente a cavallo tra il post rock sonnacchioso, intermezzi ambient, qualche rara fuga in territorio black depressive (“Trastornos”) ed aperture eteree; inoltre l’utilizzo del didgeridoo, del flauto e dell’accordion, rendono il tutto più etnico e interessante, ma con l’enorme limite, spiace ancora una volta sottolinearlo, della mancanza di un cantante che riesca a dare un’anima a quanto partorito dai nostri bravi musicisti. Non c’è nulla da fare: anche le musiche più belle, sensuali, feroci o melodiche che siano, necessitano di un ultimo indispensabile strumento, la voce. E i Bauda ne hanno un grande bisogno per dare energia e vita ad un lavoro, che avrebbe meritato molto di più, ma che per ora ha il solo pregio di dischiudere al mondo la nascita di una nuova interessante realtà da tener sott’occhio. Peccato però… (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto:65


martedì 15 maggio 2012

Ne Obliviscaris - Portal of I

#PER CHI AMA: Metal, Dream Theater, Dimmu Borgir, Skyclad, My Dying Bride
Spettacolo! Punto. Finito. La mia recensione si chiude qui, con quello che era uno dei lavori che attendevo in assoluto da più tempo… ecco gli australiani Ne Obliviscaris, che mi avevano conquistato nel 2007 con un demo cd di tre magnifici pezzi (contenuti anche in questo full lenght), “The AuroraVeil”. Da allora, ho cercato segnali di vita da parte della band e in effetti qualche contatto epistolare l’ho anche avuto, li ho spronati a firmare per un’etichetta italiana, ma niente da fare non c'era verso, fino alla conclusiva firma per l'Aural Music (che qualche grosso merito me lo dovrà pur dare). Ma veniamo alla notevolissima proposta dei nostri: se superate il primo devastante minuto in cui vi sembrerà di ascoltare un piattissimo disco death black, vi garantisco che non ve ne pentirete perché entrerete nel magnetico mondo targato Ne Obliviscaris. “Tapestry of the Starless Abstract” è la prima perla, che già conoscevo dal precedente demo e che dimostra un tasso tecnico esagerato, un gusto per le melodie assai raro, che si esplica attraverso progressivi pezzi di chitarra, inserti di violino da brivido, parti acustiche e vocals che si alternano tra le harsh di Xenoyr e quelle stupende pulite di Tim Charles. 12 minuti di pura delizia per le mie orecchie che proseguono attraverso le mirabili orchestrazioni della successiva “Xenoflux”, che a livello di ritmiche sa molto di Opeth, con una ritmica ben più tesa e serrata, che non lascia via di scampo. Frustate severe sulla batteria, aggressivi giri di chitarra, stemperati (e neppure poi tanto) da sinistri suoni di violino e dall’ambientale break centrale di chitarre arpeggiate. Ecco, siamo al cospetto di rock psichedelico che va già a porre “Portal of I” tra i miei 2 dischi preferiti di questo sorprendente 2012 (l’altro è quello dei Sunpocrisy). Le sorprese e il piacere derivante dall’ascolto di un cd, non finiscono certo qui: “Of the Leper Butterflies” è un altro bel pezzo tirato in cui continua il dualismo tra il growling e le clean vocals, prima che a mettersi in mostra siano questa volta gli assoli di Benjamin Baret e il basso di Brendan Brown. Mi manca solo di citare il fantasioso drumming di Nelson Barnes e la ritmica possente e nervosa di Matt Klavins, cosi non faccio un torto a nessuno. E andiamo avanti perché un triste violino apre “Forget Not”, altra song del “passato”, altro tuffo al cuore, altra cascata di emozioni che riempiono la mia testa di splendide vibrazioni. Ma come può la musica dare tutto questo piacere, queste tangibili sensazioni, questo senso di smarrimento e di immediato ritrovarsi. La musica penetra il cervello e da li inizia il tutto; e in questa traccia i nostri danno il meglio del meglio della loro proposta che travalica ogni definizione di genere. La musica dei Ne Obliviscaris è totale. Inutile negarlo. Sciocchi quelli che non provano neppure ad avvicinarsi perché spaventati da una parvenza di estremità. Questa è musica che riempie l’anima, musica suonata col cuore, musica che mi rende felice e triste al tempo stesso, musica per cui una volta avrei anche potuto dare 100, il massimo, ma solo il fatto che io mi possa aspettare un lavoro ancor migliore la prossima volta me lo impedisce. Vogliamo parlare della paradisiaca “And Plague Flowers the Kaleidoscope” il cui titolo dice in effetti tutto: un caleidoscopio di colori, aromi che popolano l’aria e suoni che si agitano nell’etere. Non posso farne a meno, questa è la terra promessa e i Ne Obliviscaris il messia che attendevo da molto tempo, da una vita… L’album definitivo, che trova il modo di calare altre due splendide manifestazioni di se stesso, con le rimanenti due spettacolari tracce di un pathos grandioso, che trovano il modo di chiudere una release unica nel suo genere, di grande impatto, forza, melodia, compostezza, intelligenza, aggressività, fierezza e chissà quante altre cose potremo scoprire nell’ascoltare “Portal of I”. Ne Obliviscaris, la via verso il paradiso o la perdizione totale? Per me la via per soddisfare il piacere dell’anima. (Francesco Scarci)

lunedì 14 maggio 2012

Formloff - Spyhorelandet

#PER CHI AMA: Black Avantgarde
Bella gatta da pelare mi sono trovato questa sera. No, non è il vicino che fa rumore fino a tarda ora o quell’altro che mi lascia la spazzatura puzzolente vicino il portone di casa, quest’oggi a mettermi in crisi c’è la recensione dei norvegesi Formloff, in quanto dopo ripetuti ascolti non sono ancora riuscito a mettere a fuoco la loro proposta, di certo non cosi abbordabile. Forse dovrei prendermi una pausa, ascoltare altre sette volte questo “Spyhorelandet” e decretare se alla fine possa piacermi o meno. Correrò il rischio di scrivere cazzate. Quante volte queste forme di creatura avanguardistica mi hanno gettato in crisi: iniziai a metà anni ’90 con i Fleurety e i Ved Buens Ende, per proseguire con l’incarnazione di quest’ultimi, i Virus, e ancora oggi mi viene da domandarmi se come genere soddisfi i miei gusti. Ebbene, i Formloff mi hanno procurato lo stesso mal di pancia delle band succitate che per molti rappresentano ottimi esempi di genialità: chitarre disarmoniche, improvvisazione totale, vocals gutturali cantate in lingua madre, qualche sfuriata qua e là di matrice black, sorretta da grida sguaiate, frangenti che esulano letteralmente dal metal, andando a pescare da sonorità quasi jazzistiche e decisamente rock progressive. Ecco questi momenti di sperimentazione solleticano il mio sempre più esigente palato; peccato poi che l’uso delle inopportune vocals storpi il tutto, o che quelle serrate ritmiche black, deturpino un risultato che altrimenti rischierebbe di avere del miracoloso. Con questo voglio dire, che il duo scandinavo ha ottime carte da giocarsi in divenire, però nel frattempo auspico possano limare le imperfezioni di cui sopra e lasciare più spazio alle fughe rock-psichedeliche, dando maggiormente spazio a quel basso fulminato, e alle angosciose atmosfere. Indicando un paio di pezzi che mi hanno entusiasmato, direi senza ombra di dubbio la psicotica, nonché geniale ed evocativa title track (dove il cantato assume connotati addirittura puliti) e la seconda “Harde Ord Pa Kammerset”, in cui ad ammaliarmi è il battito convulso del basso, insinuato in un’ambientazione al limite del funeral doom. Interessante infine “Faen!”, song in grado di miscelare un black furioso con un mid-tempo doomeggiante. Insomma album ancora un po’ acerbo e di difficile digestione. Forse una citrosodina sarebbe ideale questa sera per addormentarsi, e il mal di stomaco passa che è un piacere. Da risentire. (Francesco Scarci)

(Eisenwald Tonschmiede)
Voto: 65

sabato 12 maggio 2012

Ophelia's Dream - Not a Second Time

#PER CHI AMA: Ethereal, Neoclassic, Dead Can Dance
Per chi ha apprezzato i primi due lavori del gruppo di Dietmar Greulich, il ritorno degli Ophelia's Dream costituisce una gradita sorpresa. Ci avevano lasciati ben cinque anni prima, dopo l'uscita di “Stabat Mater”, per chiudersi in un lungo silenzio spezzato solamente dalla ristampa del primo album, “All Beauty is Sad” (pubblicato in origine per la defunta Hyperium nel lontano 1997), comprendente anche le otto canzoni facenti parte dell'ep. Sentir nuovamente parlare del progetto tedesco, che a suo tempo non riuscì a godere di grande esposizione, almeno qui in Italia, ha risvegliato il ricordo sopito di atmosfere neoclassiche e di aggraziati arrangiamenti ed ha caricato di una certa aspettativa l'attesa dell'uscita del nuovo album. Un ritorno firmato Kalinkaland che ci presenta gli Ophelia's Dream per nulla mutati, sia nella forma sia nella sostanza: ad accompagnare Dietmar troviamo, infatti, ancora Susanne Stierle alle voce e, inoltre, il cambiamento è praticamente minimo da un punto di vista stilistico, tanto che i nuovi brani sembrano non aver affatto risentito della pausa "compositiva" e proseguono in modo genuino e coerente il discorso lasciato in sospeso. In quest'occasione Dietmar ha preferito, tuttavia, non incentrare il proprio lavoro su melodie squisitamente neoclassiche, per arricchire il suono di ricami atmosferici tessuti con arrangiamenti sintetici che hanno il pregio di infondere maggiore pienezza e riverbero emotivo ai brani. Elementi già riconoscibili anche in “All Beauty is Sad”, ma se in quell'album essi costituivano un requisito di contorno, in “Not a Second Time” divengono caratteristica principale e si contrappongono al suono naturale del violino e del violoncello. Le partiture sono enfatiche, cariche di inquietudine e i suoni, colmi di colori dalle tonalità meste, abbracciano armoniosamente la voce garbata di Susanne, che raggiunge vette di fragile eleganza. In alcuni passaggi è riconoscibile un'evidente ispirazione ai Dead Can Dance, ma vi sono momenti nei quali Dietmar cita addirittura sé stesso attraverso il richiamo a melodie da lui già composte o eseguite in passato, come nel caso di “Saltarno”, il cui incipit ricorda inequivocabilmente la sua versione del “Saltarello” apparsa in “All Beauty is Sad”. “Not a Second Time” non si distingue, dunque, per originalità ma ciò non sguarnisce il lavoro della sua bellezza pittoresca e sontuosa che si mantiene intatta nel tempo, anche dopo numerosi ascolti. (Laura Dentico)

(Kalinkaland Records)
Voto: 70

My Sixth Shadow - 10 Steps 2 Your Heart

#PER CHI AMA: Love Metal, HIM, The 69 Eyes
Per lo spazio “Back in Time”, andiamo a pescare il debutto tanto atteso dei My Sixth Shadow! La band che nel 2002 aveva raccolto così tanti consensi presso tutte le testate giornalistiche italiane, torna a breve distanza dal demo-cd “Sacrifice” con l'esordio discografico “10 Steps 2 Your Heart”. Freschi di un nuovo contratto con la tedesca Voice of Life Records, i sei ragazzi romani si apprestano ad esportare il proprio nome oltre i patrii confini e ad accrescere sempre di più quel seguito di estimatori che il loro gothic metal è riuscito a conquistare in così poco tempo. Anche se la tracklist dell'album riporta un totale di dieci brani, “10 Steps 2 Your Heart” non va inteso come il vero e proprio full-length ma piuttosto come un assaggio di quali siano le attuali capacità del gruppo: i pezzi nuovi sono infatti solo quattro, a cui si aggiunge una cover di “Rain” dei Cult e le cinque tracce dell'acclamato demo-cd “Sacrifice”. Dall'ascolto di “Intoxicate My Heart” salta subito all'attenzione il notevole miglioramento del cantato di Dave, il quale dimostra di sapersi inserire con maggior grazia tra le note dei nuovi brani. Inoltre i passaggi più movimentati vengono interpretati con un'impostazione vocale grintosa e decisa, del tutto priva di quelle stucchevoli "scivolate" in cui lo stesso Dave si era imbattuto in passato nell'affrontare certi acuti. Proseguendo con “Death is My Rebirth” e “Throw Me Away” l'impressione è quella di assistere alla fusione della tradizione glam-rock americana (Mötley Crüe, Skid Row e Cinderella su tutti) in un contesto più attuale, che può trovare un'attinenza con le melodie romantiche e affilate di HIM e The 69 Eyes. I My Sixth Shadow non possiedono ancora la maturità e lo charm delle due band finniche ma “10 Steps 2 Your Heart” si presenta ad ogni modo come un lavoro ricco di brani d'impatto e dai cori facilmente memorizzabili, con un'attenzione particolare riposta nella scelta delle melodie e nell'uso sempre parsimonioso dei synth. Un lavoro, insomma, che nonostante qualche sbavatura qua e là può costituire un punto di partenza ottimo per avvicinarsi al pubblico gothic-metal. Consigliandovi di tenere d'occhio questi ragazzi, vi anticipo anche che la band è già al lavoro sulla registrazione delle dodici nuove tracce di “Love Fading Innocence”, full-length che vedrà la luce per gli inizi del 2005. (Roberto Alba)

(Voice of Life Records)
Voto: 70

Any Face - The Cult of Sickness

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death, Origin, Atheist
Uscito nel 2010 per la Buil2Kill Records, questo è il sesto album degli emiliani Any Face. Lo stile musicale è quello claustrofobico del death metal old school americano con molte influenze del tecnicismo e sferzate stilistiche di casa Origin e Atheist. Nel primo brano “Suicide Surge”, in più occasioni degli stacchi improvvisi portano la band a sperimentazioni su ritmiche dal sapore tropicale in acido che lasciano ben sperare gli amanti dell'innovazione: In “Stabbing the Core” si riparte dal death più efferrato e, guidati dalla voce di Yuri Bianchi, che sembra un “Barney” (aka Napalm Death) a rallentatore, si arriva alla terza traccia, un massacro ben studiato. Nella quarta traccia, dopo soli 33 secondi, ci si imbatte in una costruzione ritmica figlia dei migliori Voivod sperimentali, per poi ripartire gutturali più che mai. La preparazione tecnica è buona e in alcune parti ci si trova in bilico con il grind. Nella cover “Happy Tantrum” tratta dall'album “The Musical Dimension of Sleastak” del 1993 della band O.L.D., il nostro bravissimo e cadaverico Yuri, duetta con Alan Dubin, originale cantante della band “coverizzata”. Il brano che segue è standardizzato, una lobotomia continua e soffocante. “The Unspoken Son” mostra delle chitarre velocissime e cariche di tecnicismo, in puro stile Atheist o Massacre con un bell'assolo centrale lungo, “strano” e carico di atmosfera delirante, che sfocia in un rallentamento abissale, seguito da una ripresa molto riuscita. “Portrait of a Nihilist” chiude il disco e parte con una spinta non comune, la voce growl è sempre più padrona e tutto fila al meglio disseminando violenza qua e la. Quest'ultima traccia racchiude un po' tutto il sound degli Any Face con passaggi “particolari” e trasversali, una chitarra “cosmica” e stacchi dediti ad un certo progressive metal e un finale che lascia sfumare il tutto su di una ritmica che abbraccia il modo di interpretare il metal dei Flotsam and Jetsam. Alla fine ci troviamo di fronte ad un lavoro ben fatto e per palati fini, carico di buoni spunti e padroneggiato da un'ottima monotona voce “cavernicola” che fa la differenza... suonato molto bene e a tratti molto coraggioso, come negli stacchi del primo brano (il mio preferito!). Per Any Face si presenta un roseo futuro se continueranno a suonare e ad evolversi su questi territori. Se riuscite a immaginare l'esatta concentrazione di Atheist mescolata a Massacre e spruzzatine di Napalm (Death ovviamente) questo è un altro disco da non perdere! Bravi e coraggiosi! (Bob Stoner)

(Buil2Kill Records)
Voto: 80

Moloken - Rural - English

#FOR FANS OF: Post Metal, Sludge
We had left them just over a year ago, in the fall of 2010 with their brilliant first full length, "Our Astral Circle" and now finally the brothers Bäckström return, as always very well supported by Discouraged Records, with a new job. The sound does not blatantly changes compared to the previous album, and certainly is not bad if you were pleasantly impressed by that release. Their music, therefore, continues to travel in post-metal/sludge territories, however, in some darkest shades, less accessible, fuller of anger and certainly less full of easy melodies. "Rural" is an angry album. In its seven songs in its long fifty minutes, moods are alternating by winding between fury and irascible, occasionally leaving room for breakers in the limit of post-rock (the second half of "Ulv"). What amazes me most in the new work of Moloken, is a certain combination of the sounds that come from the strings of the guitar, sometimes really delusional or completely discordant (I am thinking of the psychotic ending of "Waltz of Despair" for example or the hypnotic beginning of the aforementioned "Ulv" pachydermic song - lasting 16 minutes - fierce yet obscure, that reminds of those wanderings of the school of Ved Buens Ende), which contribute confuse the listener a bit. The tribal and schizophrenic "Casus" serves as a bridge connection with «Blank Point " and I am gradually beginning to realize the good things contained in "Rural", a job to say the least controversial, certainly difficult to digest, but given its complexity, of important progress. The vocals of Niklas continue to be those in the limit of the caveman, so as it was outlined in the previous review, but it is of little importance because I measure the band in its ability to vary their own sound, and I guarantee to you that there is not one single minute of respite in which runs the risk of dozing off or lying down, although we have the impression that their sound can be trapped in doom like or even psychedelic sounds (and I think the suffocating and sick "Thin Line"); no fear though, because the quartet of Holmsund comes out even more fiercely and ready to crash your bones. I am shattered by their impetuousness, by their dark gray, almost the same while watching the sun setting fast on the horizon, leaving soon place for a dense fog which possesses you with the darkness of the night. Hostile, neurotic, glacial, fearful, are just some of the adjectives that come out of my mind after listening to this disfiguring "Rural", an album to have in your collection at any cost. Raving! (Francesco Scarci - Translation Sofia Lazani)

Algol - Complex Shapes

#PER CHI AMA: Swedish Death, Thrash, At the Gates, Dark Tranquillity
Melodic Death Metal tutto all’italiana quello degli Algol, e lo posso dire con fierezza stavolta: sono orgoglioso di essere nato nel Belpaese. Tralasciando gli ovvi paragoni-metafora riguardo al nome della band (Algol infatti oltre ad essere una stella è anche il nome di un personaggio di Soulcalibur), posso confermare la generale ermeticità del songwriting e la crescente complessità che si sviluppa durante il primo ascolto. Con un nomignolo così evocativo e un titolo estremamente ragionato, ho dovuto trovare dei momenti particolari per poter procedere all’ascolto di quest’opera senza tralasciare un secondo delle atmosfere presenti al suo interno. Facendo questo, ho solo guadagnato. Gli Algol presentano un sound tutto personale, molto caratteristico in ambito death e che sarà d’obbligo seguire nella sua evoluzione nelle prossime uscite. Alcuni passaggi di tempo e melodie vengono riprese più volte tra una canzone e l’altra, conferendo serietà e compattezza ad un genere che di questi tempi tende a imitare più che sperimentare. Degli omaggi a dei maestri del death, comunque, non si fanno mancare (credo di aver trovato alcuni stralci degli At The Gates e dei Dark Tranquillity degli albori). Non ho mai amato una recensione a pari passo con le singole tracce, preferisco citare quelle che più mi hanno influenzato e fatto riflettere musicalmente. Quindi scusate se non seguo in modo matematicamente freddo la scaletta di undici tracce. Adotto un sistema molto più emotivo. “Still in My Eyes, Burning” rappresenta forse l’unico esempio di una componente ‘sinfonica’ e gothic dell’intero album. Una voce femminile subentra improvvisa e una voce pulita domina i ritornelli. Tastiere di sottofondo risultano estremamente avvolgenti e le chitarre si lasciano coinvolgere in passaggi che sono una manna per le orecchie, decretando un puro melodic death come era da tanto che non si ascoltava. A canzoni più ‘lente’ (diciamo così) come “Gorgon” e “Empire of the Sands”, si contrappongono le rapide sfuriate influenzate apertamente da un thrash old style. “Subvert” si configura perno centrale di quest’ultima tipologia. Voci in growl e screaming duettano in un sottofondo di accecante violenza sonora, perfettamente accompagnata da una batteria che sa il fatto sua (ottima anche la produzione). E poi c’è lei, la title track. “Complex Shapes” racchiude bene o male tutti i diversi fattori che portano gli Algol ad essere quello che sono. Chitarre apertamente swedish-death style su veloci riff di alti e bassi (su questo punto di fondamentale importanza è “Hate Serenades”), grande attenzione all’aspetto tecnico (magnifiche ‘plettrate’) e melodia del ritornello coinvolgente. Necessita di più ascolti. È un lavoro decisamente complesso e ci sarebbe molto altro da dire. Questi padovani sono già all’apice. Hanno creato un album di ampie vedute in un death metal melodico con influssi progressive certamente non convenzionale. Superano i maestri del genere… Si, mi sono permesso di pensarlo a volte… (Damiano Benato)

(Punishment 18 Records)
Voto: 85
 

giovedì 10 maggio 2012

Generation of Vipers - Howl and Filth

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge, The Atlas Moth, Planks, Unsane
Dopo tanto black metal, finalmente le mie membra trovano il tempo di lasciarsi cullare da un dannatissimo e fangoso sludge, quindi che c’è di meglio che trasferirsi negli States, in Tennessee per l’esattezza, prenderci un bel whisky e assaporare il gusto del vero sound americano? Amanti di Neurosis, Tombs e tutto ciò offre un post-qualcosa nella propria proposta, si facciano avanti e ascoltino questi misconosciuti Generation of Vipers. “Ritual”, “Silent Shroud” e via via dicendo, tutte e sei le lunghe song che compongono questo malsano lavoro, scavano nell’anima con i loro suoni abrasivi, carichi di emozioni, grondanti rabbia, esasperazione e paranoia. Sarà anche il fatto che nei GoV troviamo alle percussioni un membro di U.S. Christmas e A Storm of Light, potete ben comprendere quale oscura e asfissiante opera, ingombri con il suo claustrofobico incedere, il mio stereo. Sarà forse il sole bollente della città di Knoxville, ma il sudore che gocciola dalla mia madida fronte è dovuto anche alla lenta, nevrotica e lacerante proposta di questo trio del sud-est degli US. Le ritmiche, belle pesanti e costantemente corrosive, ma mai su di giri, ingarbugliano un bel po’ le nostre menti, assai ricettive. La voce di Joshua non è mai preponderante nei confronti degli altri strumenti, preferisce farsi percepire nel suo “vetriolico” ardore, lasciando il resto della scena, alla dannata musica. Non saremo di sicuro di fronte ai maestri incontrastati del genere, ma di sicuro i Generation of Vipers sanno il fatto loro, e non lasceranno delusi i fan di un genere, che sta vivendo il suo momento d’oro. E allora, tanto vale, cavalcarne l’onda… (Francesco Scarci)

(Redwitch Recordings/Translation Loss)
Voto: 75
 

Destrudo - Falx Cerebri

#PER CHI AMA: Techno Death, Thrash, Progressive, Cynic, Pestilence
La destrudo, rappresenta per la psicologia freudiana, l'energia dell'impulso distruttivo, l’essenza di Thanatos, la pulsione di morte, o in parole povere, l’istinto aggressivo, insito in ogni individuo, che spinge all’annientamento di se stessi. Non so se dietro al monicker della band capitolina, si celi tale definizione, tuttavia la “cerebrale” copertina mi lascia presupporre che questi siano i giusti riferimenti. Riferimenti che forse ci aiuteranno a definire meglio il progetto dell’ennesima band italica, che popola meritatamente le pagine del Pozzo. La proposta dell’act romano non è proprio immediata, anche se quel chitarrone un po’ grezzo, posto in apertura di “Matter in a Ghost World”, mi fa pensare di trovarmi fra le mani la consueta disagiata band delle periferie, dedita ad un gretto thrash metal. Niente di più sbagliato e superficiale, che dare giudizi su due piedi; già perché dopo 2 minuti le vocals di Lorenzo “Wakana” passano da un canonico growl ad un qualcosa di più cibernetico e ricercato di scuola Cynic, mentre la ritmica, ci lascia intendere che non sarà facile l’ascolto di questo disco, causa repentine variazioni nel pattern chitarristico. Abbandonati infatti i richiami thrash death dei primi minuti, la band sembra quasi mutare camaleonticamente nel corso del brano, cosi come pure il vocalist che trova anche modo di proporsi nella sua veste, un po’ più scarsa a dire il vero, pulita. Poco male, perché la musica seduce per le sue partiture progressive, che non fanno altro che incrementare il senso di disorientamento che trasuda questo cd. Proseguo nel mio ascolto, con “Concussion” e di sicuro quello che emerge immediatamente è quel suono maledetto di basso che pulsa nelle mie orecchie: Nevermore, Cynic, i Pestilence di “Spheres” convogliano tutti in questa traccia, che vede ancora una volta i nostri difettare nella sezione vocale pulita. Vado via veloce, perché al mio terzo ascolto, pregusto di riassaporare nuovamente quel meraviglioso assolo di sax posto che contraddistingue la title track, sublime. Un po’ (tanto) Pan.Thy.Monium, un po’ Love History, una bella dose di synth, e mi lascio bruciacchiare qualche neurone qua e la, prima della conclusiva “Lord of War”, che prosegue il discorso iniziato con questo “Falx Cerebri”. Peccato solo che continui a mal digerire la voce del povero Lorenzo, in versione clean, altrimenti la musica mai eccessivamente incazzata, ma costantemente ragionata e tenuta sotto controllo, per dominare il desiderio di annichilimento personale, è assai interessante soprattutto nella seconda parte dell’ultima traccia dove emerge una componente avanguardistica di scuola norvegese, prima di un riff che sembra estratto da “Walk this Way” e di un delirante finale destrutturato. Non c’è che dire, le qualità ci sono, la follia pure, ora serve un pizzico di fortuna! Destabilizzanti. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75
 

Hour of Penance - Sedition

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death, Morbid Angel, Nile, Behemoth
Rullo compressore: si tratta di una macchina che ha la funzione fibrante che permette di compattare al meglio l’asfalto o il terreno attraverso dei rulli che possono essere di ferro-gomma o ferro-ferro. Dopo questo breve cappello introduttivo, oserei dire che la musica dei nostrani Hour of Penance, potrebbe essere assimilabile a quello di un rullo ferro-ferro. Non tragga infatti in inganno la intro con canto gregoriano incorporato, perché quando deflagra nel mio stereo “Enlightened Submission”, sono assolutamente innondato dalla devastazione sonora della band capitolina, da poco sotto contratto con la statunitense Prosthetic Records (e cosi dopo la fuga dei geni nella scienza, stiamo ormai assistendo alla fuga anche delle nostre migliori band, complimenti alle etichette italiane!): ritmiche assassine, qualche breve assolo, ma soprattutto una prova tecnicamente ineccepibile del quartetto guidato dalle brutali vocals di Paolo Pieri. La terza “Decimating the Progeny of the Only God” si conferma immediatamente il mio pezzo preferito, incarnando al meglio il repertorio dei nostri, sia in termini di velocità che di malsane atmosfere, una song che per certi versi mi ha richiamato nei suoi secondi iniziali i Morbid Angel, per poi irrompere furente come un mix tra Behemoth e Nile, con una ritmica spaventosa e delle meravigliose e stranamente melodiche aperture di chitarra. Diabolica. Neppure il tempo di rifiatare ed ecco ancora la brutalità essere perpetrata questa volta con un pezzo iper tecnico, fatto di repentini cambi di tempo e stop’n go, che ci introducono alla evocativa e tranquilla (rispetto alla velocità della luce) “Ascension”, che si fa notare oltre che per il suo incedere ritmato, anche per i suoi chorus. Mai lasciare comunque il fianco scoperto però, perché quando si mostra il punto debole, il nostro nemico se ne approfitta e colpisce a fondo e a morte: ecco perché l’epica “The Cannibal Gods” e le restanti tracks (soprattutto l’irraggiungibile “Deprave to Redeem”) inferiscono gli ultimi colpi mortali, vibrando la spada nell’aria e piantandocela giusto nel mezzo del petto. Non ho molte altre parole da accostare a questa cavalcata intitolata “Sedition” se non che gli Hour of Penance hanno partorito uno dei più bei lavori di techno brutal death degli ultimi dieci anni! Ottimi. (Francesco Scarci)

(Prosthetic Records)
Voto: 85