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domenica 12 giugno 2011

Talbot - Eos

#PER CHI AMA: Doom, Psichedelia, Stoner, Cathedral, Electric Wizard
Ho ricevuto il promo di questa stuzzicante release e successivamente sapete cosa ho fatto? Sono andato sul sito dell’etichetta russa Slow Burn Records ed ho acquistato il cd del duo estone, senza alcuna esitazione e questo sarà quello che al termine di questa recensione vorrei suggerirvi di fare. Intro doomish affidata a “Threshold”, il cui riffone di chitarra viene ripreso anche dalla successiva “Cayenne”, che ci spara in faccia un sound che sembra saper coniugare alla grande gli insegnamenti dei primi Cathedral (riffs granitici e ultra slow) con lo stoner degli Electric Wizard, e con la voce di Magnus Andre che si diletta tra il growling più cavernoso e quello pulito (in taluni momenti addirittura cyber, per l’uso dei riverberi), mentre la musica perde ben presto quella sua linearità iniziale per aggrovigliarsi su se stessa in una delirante psichedelia, qui amplificata alla grande, dall’ampio spazio concesso ai sintetizzatori e dall’uso di chitarre dal forte flavour seventies. Con i minuti iniziali di “Observer X” vengo inglobato dalle visioni allucinogene della band di Tallin, come se mi spingessi pericolosamente in un viaggio di esplorazione spirituale, ovviamente solo dopo essermi calato pesanti dosi di acido lisergico. Cosi come accadde a Homer Simpson in una puntata del noto cartone animato americano, in cui il protagonista, dopo essersi mangiato un peperoncino super allucinogeno, ha delle visioni completamente distorte della realtà, e il suo spirito (un coyote) gli suggerisce come affrontare la vita, allo stesso modo, Magnus e Jarmo, ci prendono per mano e ci conducono alla ricerca di noi stessi attraverso la loro proposta musicale estremamente interessante. L’eco dello space rock emerge fortissimo nella breve title track, per poi lasciare il posto alla lunghissima (più di undici minuti) “Combat Zen Speech” che come una danza tribale attorno ad un grande fuoco, con i tamburi che picchiano ripetutamente, ci persuade ad abbandonarci alla sacralità della cerimonia, contraddistinta dal forte odore dell’essenze che saturano l’aria e di conseguenza le nostre menti. Ragazzi che botta, neppure l’uso delle droghe più forti del mondo, credo possa spingerci in un trip del genere, dove il battito del cuore accelera in modo pauroso, seguendo l’intensità sonora di questo “Eos”, il respiro si fa quanto mai affannoso e inaspettatamente ci ritroviamo barcollanti con i sensi totalmente alterati. Pur non essendo un amante di questo genere musicale, mi sono lasciato andare alla proposta dei Talbot, sono stato conquistato dall’impatto forte che ha avuto sui miei sensi, e ne sono rimasto da subito affascinato. Ultima nota da segnalare, oltre all’ottima produzione, è che il cd è stato rilasciato in versione digipack limitata alle prime 500 copie. Deliranti! (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records)
Voto: 85

sabato 11 giugno 2011

The Interbeing - Edge of the Obscure

#PER CHI AMA: Cyber Death, Djent, Meshuggah, Fear Factory
La Danimarca non è famosa solo per aver dato i natali ad Amleto, King Diamond o Lars Ulrich, ma anche per avere una florida scena underground che consta di nomi più o meno famosi, come Mercenary, Raunchy, Mnemic e ora questi ultimi The Interbeing, che in realtà esistono fin dal 2001, ma che solo quest’anno sono giunti al tanto sospirato debutto (non considerando l’EP del 2008 autoprodotto, “Perceptual Confusion”). ”Edge of the Obscure” ha il tipico marchio di fabbrica danese, con le sue chitarre ribassate stracariche di un groove contagiante; è un sound che si rifà ai soliti mostri sacri, Meshuggah e Soilwork in primis, ma che comunque brilla di luce propria, grazie alla vivacità intrinseca del quintetto scandinavo. Uno due e tre, e si parte dopo la consueta intro, con “Pulse Within the Paradox”, in grado fin da subito di mettere in chiaro qual è la proposta del combo: cyber death molto tecnico, grondante di contaminazioni provenienti dall’industrial (Fear Factory docet), ovviamente dal djent, proprio per quelle sue chitarre distorte con accordatura downtuned, ma anche dal progressive, per quel largo uso di ritmi sincopati e poliritmie che rimbombano nei nostri cervelli (ascoltare le scale di “Tongue of the Soiled” per capire di cosa sto parlando), costantemente in compagnia di samples che generano plumbee atmosfere stracariche di un feeling da fine del mondo. Senza dubbio l’elettronica gioca un ruolo da protagonista nelle note di questo brillante lavoro, cosi come non vorrei trascurare la perizia tecnica (assai elevata) dei nostri e il ricercato gusto per la melodia, sempre in primissimo piano e di grande spessore. Le voci corrosive, seguono la scia dei connazionali Raunchy e Mnemic, anche se molto spesso Dara Toibin si lascia andare a clean vocals (fantastiche in “Face Deletion”), sussurrate o robotiche (come in “Shadow Drift” o in “Swallowing White Light”). Trattandosi di cyber death, è lecito non attendersi eteree vocals femminili: cosi quando leggo che “In the Trascendence” c’è come ospite Elin Kristina Segel ho un sussulto, ma tranquilli perché trattasi di una voce cibernetica al femminile, a sancire la definitiva ecletticità di questi danesi. Se il tipico sound scandinavo che rappresenta la matrice di fondo dell’ensemble danese, alle orecchie dei più non rappresenta nulla di nuovo, vi garantisco che l’apporto dei synth nell’economia della release in questione, assume un ruolo fondamentale (meraviglioso il break centrale di “Fields of Grey”). Sono a dir poco entusiasta dal dinamismo di questi sconosciuti The Interbeing, che da oggi seguirò con molta attenzione, per poter capire quali siano le reali potenzialità in vista dei prossimi lavori. Per ora il mio voto si ferma a 80, perché il sound può risultare ancora derivativo, ma sono certo che con le giuste dritte, l’esperienza e le funamboliche idee, i The Interbeing calcheranno il palcoscenico metal per lungo tempo. Una bombastica produzione e un eccellente songwriting completano un lavoro da cui è lecito aspettarsi un successo oltre le attese. In bocca al lupo ragazzi! (Francesco Scarci)

(Mighty Music)
Voto: 80

giovedì 9 giugno 2011

Injury - Unleash the Violence

#PER CHI AMA: Thrash Bay Area, Testament, Exodus
Credo che il thrash metal sia un entità immortale: mai una flessione, mai un momento di crisi, sempre migliaia di band a proporre una genere musicale che difficilmente riesce a produrre qualcosa di nuovo o innovativo, un genere che si evoluto dai demotapes ai vinili, per arrivare fino ai cd o al download digitale (e far di nuovo ritorno ai vinili); eppure a distanza di trent’anni dai primi lavori di Metallica, Slayer e Megadeth, nel lettore del mio stereo gira ancora del sano e incazzatissimo thrash metal. E che dire che già non sia stato detto di un tipo di musica sulla quale sono state già spese milioni di parole? Bah, non saprei; però partiamo col dire che gli Injury sono una band italiana e la cosa mi rende fiero alla luce del buon risultato finale. Ottima la base di partenza, data da una super produzione che esalta alla grande lo sfrenatissimo headbanging che “Unleash the Violence” riesce ad emanare, contribuendo in modo sostanziale allo scarico della adrenalina, dopo l’ennesima pesantissima giornata lavorativa. Volume a manetta, sound tipico della Bay Area (quell’assolo di “Busy Killing” non richiama forse i primi Testament? E quel riffing corposo e nevrotico di “Violence Unleashed” non vi riporta con la mente ai primi Exodus?), ritmiche incalzanti, assoli taglienti ma sempre melodici, look anni ’80 e cosa volete di più dalla vita? C’è chi direbbe un Lucano, ma a me basta questo sound; mi godo il mio tuffo nel passato e trascorro un’armoniosa serata in compagnia della musica degli Injury, che mi fanno sentire di nuovo giovane e mi ricordano quando anche il sottoscritto sfoggiava quel look un po’ trasandato e ribelle, circa vent’anni fa. Bravi ragazzi ad aver sfoderato questa genuina prova con il vostro platter di musica sincera e brava la Punishment 18 Records che continua nella sua ricerca di realtà poco affermate, che qualcosa di interessante, hanno da proporre. Certo, “Unleash the Violence” non sarà il disco dell’anno, però tutti gli amanti del thrash d’annata, quello della costa ovest degli Stati Uniti per intenderci (senza dimenticare tuttavia quei fantastici coretti alla Over Kill di “Under the Influence”), un ascolto attento lo dovrebbero concedere a questa release. Un plauso anche alla copertina, che in realtà mi sembra più orientata verso al death metal, con tutto quel rosso che non fa altro che richiamare il sangue. Morbosi! (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records)
Voto: 70

Blindead - Devouring Weakness

#PER CHI AMA: Sludge, Isis, Neurosis, Cult of Luna
Andiamo a scoprire, quello che fu il debutto discografico di una delle più interessanti realtà polacche nell'ambito sludge doom. Dopo gli ottimi insegnamenti di Neurosis, Isis, Pelican e Cult of Luna, tanto per citarne solo alcuni, il 2006 segna l'esordio, sulla lunga distanza, dei polacchi Blindead. In circolazione già dal 1999 e con tre demo all’attivo, rilasciano per la connazionale Empire Records questo “Devouring Weakness”. Sei lunghi brani per un totale di 44 minuti di suoni angoscianti, pachidermici, asfissianti, in cui è il quel senso di vuoto incolmabile, che caratterizza questo genere, a prevalere inevitabilmente al termine dell’ascolto dell'ascolto. Solo i titoli dei pezzi sono indicativi per ciò che riguarda i contenuti, sia emotivi che lirici, delle sei tracce qui comprese: suicidio, desolazione, senso di sconforto e depressione sono infatti alcuni dei temi trattati all’interno di “Devouring Weakness”. Le tracce, tutte molto simili tra loro, sono contraddistinte da pesanti riffs di chitarra, sui quali si stagliano le vocals gutturali di Nick, molto simile, per alcuni versi, al suo collega ben più famoso dei Cult of Luna, anche nella sua versione più intimista e riflessiva. Anche il sound si può avvicinare a quello della band svedese, la differenza risiede nella classe dei master scandinavi, nel costruire brani più articolati e atmosferici. I Blindead, da questo punto di vista, sono ancora un po’ acerbi e lontani anni luce, dai gruppi succitati. Però, se siete amanti di questo genere di sonorità, così malate, marziali, ripetitive, oscure e suicide, un ascolto è caldamente consigliato, nonostante il mio voto si sia mantenuto così basso. Di sicuro gli album successivi dei Blindead mi hanno dato ragione e mostrato quale caratura tecnica risiede nelle corde di questo eccitante combo polacco. (Francesco Scarci)

(Empire Records)
Voto: 65

Nickelback - All the Right Reason

#PER CHI AMA: Pop Rock
Un paio d'anni di duro lavoro, e i Nickelback se ne vengono fuori con il quarto studio album. "All the Right Reason", è il nome dato a questo capolavoro (definito cosi da molti, ma non dal sottoscritto) che apre le porte ai tanti fan con un mix di suoni che variano dal pop rock molto soft, ad un rock più intenso e duro. Con questo album , Kroeger e soci, hanno cercato di levarsi di torno l'etichetta di band commerciale che molte volte (e non ingiustamente) gli è stata affibiata. Undici canzoni per un album per certi versi strano, infatti ad alcune di queste non si riesce a dare un giudizio ben preciso. In questa release troviamo il singolo "Far Away", che ha giocato un ruolo importante nella carriera dei nostri, perchè entrato nella top ten americana, addirittura alla posizione numero 8. Una lenta ballata made in Nickelback, che ha fatto capolino nelle radio di tutto il mondo, e sopratutto nelle teste dei fan, perchè una delle belle caratteristiche di questa band è di creare dei singoli che riescano a rimanere impressi nelle nostre menti. Il rock duro lo troviamo in "Follow you Home"; un ritmo molto coinvolgente con un testo, che rende altrettanto bella la canzone, in un mix tra un film d'azione in stile "Die Hard" e una piccola aggiunta del loro solito romanticismo che molte volte declassa i loro lavori. Resta una canzone apprezzabile anche se dopo il terzo ascolto stufa. I Nickelback, che in questi anni hanno guadagnato una buona fama e un buon posto tra le migliori band pop rock, una bella mossa se la deve comunque dare se vuole arrivare ancora più in alto. (Alessandro Vanoni)

(Roadrunner Records)
Voto: 65

mercoledì 8 giugno 2011

The Camp Hours - Wise as a Tree

#PER CHI AMA: Alternative, Rock
Ridurre i The Camp Hours (TCH) a gruppo alternative/rock/pop come descritto da loro stessi nel Myspace, mi sembra alquanto semplicistico. Certo, classificare i gruppi oramai è una mania ma se voglio dirvi qualcosa dei TCH, meglio citare qualcuno che calca la scena che possa accendere una luce nella vostra mente. Se dico Pink Floyd, Porcupine Tree, Radiohead, etc., vi state strappando i capelli? Beh, qualche influenza effetivamente c'è ma non aspettatevi una mera copia dei sopracitati perchè i TCH sono molto di più. La qualità del lavoro prodotto è alta, a partire dalla produzione fino agli arrangiamenti, dopo tutto i musicisti non sono degli sprovveduti e qualche capello grigio (per chi ha la fortuna di vederli spuntare) ce l' hanno. Restando in campo tecnico, il digital recording appiattisce fin troppo le sfumature rock/prog e molti pezzi mancano di dinamica. Sarà la mia fissa ma un passaggio nel buon vecchio analogico l'avrei fatto, i pezzi ne avrebbero giovato sicuramente. Comunque la sostanza c'è e posso dire che pezzi come "A Liquid Sky" e "Falling Down" tracciano un profondo solco negli animi rock utilizzando melodie a volte psichedeliche, a volte graffianti e malinconiche come solo pochi sanno produrre senza cadere nel banale o scontato. Il vocalist (nonchè chitarre, synth e molto altro) non dimostra un'estensione vocale degna di nota ma cerca di utilizzare al meglio la sua timbrica per rimarcare i passaggi più eterei e gli incisi classicamente rock. Pecca nella pronuncia anglosassone ma non soffermiamoci a questi dettagli, dopotutto noi italiani ci porteremo questo peso ancora per molto tempo. Il risultato è quello che è, nel senso che rischia di annoiare alla lunga e ci porterebbe a desiderare quanche parte strumentale in più. Tuttavia le doti strumentali sono invidiabili, considerando che tal Carlo Di Buono si occupa di gran parte della sezione strumentale dei TCH. Batterista (Francesco Filardo) e bassista (Francesco Amendola) completano al meglio il trio. L'utilizzo di synth ricercati ed effettistica varia su voce e chitarra, dimostra l' attenzione dei TCH alla cura dei particolari e all' atmosfera che deve scaturire dalle singole tracce."The Road To London" è un pezzo che risulta molto influenzato dalla vena brit pop di qualche anno fa, con sonorità alla U2 e Cold Play. Per quanto riguarda le altre tracce, tutto è al posto giusto, ben equilibrato, basta solo saper apprezzare il genere. Quindi, a chi consiglio i TCH? Dai nostalgici della Pantera Rosa a chi trova i nuovi Radiohead troppo alternativi, oppure solamente per fare da intermezzo ai cd più cattivi del buon Franz. (Michele Montanari)

(Vacation House Records)
Voto: 75

Lingua - All My Rivals are Imaginary Ghosts

#PER CHI AMA: Post Rock/Indie, Tool, Dredg
Recensire questa band è un po’ come ritrovare dei vecchi amici che non vedevi da tempo, eh si perché grande fu la sorpresa quando nel 2006 ascoltai per la prima volta il disco di debutto di questi svedesoni Lingua, poi diversi passaggi in radio, i primi contatti con la band e infine l’aver contribuito, in un qualche modo, alla firma da parte del combo scandinavo con la nostrana Aural Music. Ed ecco poi finalmente arrivare il nuovo lavoro nelle mie mani. Devo ammettere di averci messo un bel po’ di tempo prima di decidere di recensire “All My Rivals are Imaginary Ghosts”, perché fino all’ultimo mi sono chiesto se il mio contributo potesse essere utile alla causa dei Lingua o se forse sarei stato troppo fazioso nei loro confronti. Chi se ne frega mi sono detto, ho rotto gli indugi ed ecco a parlarvi della seconda release dei nostri, nel modo più obiettivo possibile. E vorrei proprio esordire dicendo che il primo album, mi aveva impressionato molto di più del qui presente, a dimostrazione che le mie parole saranno quanto mai sincere. Sebbene le palesi influenze “tooliane”, “The Smell of a Life That Could Have Been” ci aveva consegnato una band dal suono fresco e originale, con un vocalist dotato di una sorprendente tonalità vocale. Nel nuovo corso, la band scandinava sembra aver ammorbidito il proprio sound, mettendo da parte le reminiscenze post metal che emergevano di tanto in tanto nel debutto e proponendoci uno stile pur sempre riconoscibilissimo, ma un po’ più ruffiano, complice anche il fatto di aver prodotto brani più brevi e diretti. La ritmica iniziale di “Leave us Yours” è arrogante, palpitante nel suo pezzo centrale, con il cantato di Thomas sempre assestato ad alti livelli, e pronto ad annunciare la seconda “It’s a Massacre”, prima vera hit (dal ritornello super canticchiabile), che sembra essere stata concepita da una band indie piuttosto che metal, ma a chi importa. Anche la terza song viaggia su un oscuro binario mid-tempo, che fa dell’eccellente estensione vocale di Thomas il suo punto di forza. Pian piano i nostri vengono fuori e il primo pezzo Lingua style, che ricalca quanto sentito nel precedente lavoro, è sicuramente “It’s There, it’s Life”: si tratta di un bel pezzo ritmato, malinconico, efficace, si mi piace parecchio. Si procede e anche con ampio interesse: un altro esempio di come siano diventati semplici ma estremamente incisivi i Lingua di oggi è offerto da “Prodigal Son”, forse il pezzo più tirato delle 14, con quel suo tocco quasi punk, che emergerà anche nella parte centrale e più incazzata di “Centerpiece”. “I’m Not” riprende ancora una volta i Tool, mescolando il sound della band californiana con un certo dark anni ’90 della scena inglese e il risultato è più che buono. La band di Stoccolma continua a sorprenderci con brillanti trovate: è il caso della tribale “Cobalt Sky” che attacca con una litania che pare estrapolata quasi da un cerimoniale voodoo: ne sono profondamente attratto, ipnotizzato dalla litania reiterante del vocalist e dall’oscura melodia di fondo; un brivido percorre il mio corpo quando Thomas inizia a cantare, e quel basso continua a pulsare nelle mie orecchie, e mi spinge ad ondeggiare paurosamente alla ricerca di quel ritmo frenetico che verrà. Eccola, trovata la mia song preferita di questo avvincente cd. Se “All My Rivals are Imaginary Ghosts” fosse finito qui, credo nessuno si sarebbe offeso, anzi. Le ultime song calano un po’ di tono e finiscono per sembrare semplici riempi pista (salvo tuttavia la conclusiva “Disperse!”) per un cd che ci ha regalato diversi frangenti di ottima musica, ci ha confermato che in Svezia non esiste solo il death metal, che i Lingua sono una band di assoluto valore, carisma e personalità, e che voi avete un obbligo da rispettare: non perderli mai di vista! (Francesco Scarci)

(Aural Music)
Voto: 75

martedì 7 giugno 2011

Shattered Hope - Absence

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema e My Dying Bride
La Solitude Productions continua imperterrita nella sua ricerca di talenti in giro per il mondo, dediti al death funeral doom ed ecco questa volta saltar fuori dalla Grecia questi Shattered Hope (da non confondere con gli omonimi metallers olandesi). La band di Atene, in giro ormai da quasi dieci anni, giunge finalmente al debutto dopo un paio di demo datati 2005 e 2007. La proposta del combo dell’Attica, come avrete capito, è un death doom che si rifà ai primissimi Anathema (quelli di “Serenades” tanto per capirci), sia per la considerevole lunghezza dei pezzi, sia per la plumbea atmosfera che ivi si respira, capace di farci sprofondare nella malinconia più totale, fin dall’iniziale “Amidst Nocturnal Silence”, song dotata di un forte flavour gotico. I primi tre pezzi (per la cronaca in “Vital Lie” compare come guest vocals anche Jo Marquis degli Ataraxie) sono la rappresentazione in musica di uggiosi paesaggi autunnali, caratterizzati da ritmi lenti, ossessivi per la loro ripetitività di fondo, dato da un riffing granitico e dalla presenza di un meraviglioso violino, in grado di regalare quell’aura nostalgica tipica dei My Dying Bride, che emerge ben presto e mi fa apprezzare non poco la proposta del sestetto greco. Arriva il momento di “Yearn” e anche delle mie prime perplessità: si tratta infatti di una song a sé stante, della sola durata di 3 minuti e mezzo, che spinge parecchio l’acceleratore grazie ad un death anonimo, che viaggia su ritmiche abbastanza tirate e con il vocione profondo di Nick a fare il verso a Darren White. Con “A Traitor’s Kiss” ricompaiono fortunatamente le melodie crepuscolari e l’influenza delle band della terra d’Albione si fa ancora più forte, a scapito ahimè dell’originalità, anche se a metà pezzo uno screaming mutuato quasi dal black, prende il sopravvento, con le ritmiche che accelerano paurosamente, ma è solo un attimo perché si ritorna ben presto alle decadenti atmosfere iniziali; qui le vocals riescono addirittura a trovare lo spazio in versione pulita e il sound pesca a piene mani anche dal repertorio dei Saturnus (complice la presenza alla voce di Thomas A.G.) e agli irlandesi Mourning Beloveth. È poi il momento di un intermezzo strumentale, prima dei monolitici 19 minuti finali della conclusiva “The Utter Void”, dove l’aria si fa ancora più rarefatta e stancamente si arriva alla fine di questo “Absence” che ci rivela che una interessante, ma ancora un po’ acerba realtà, si è affacciata nel panorama death doom mondiale. Nostalgici! (Francesco Scarci)

(Solitude Productions/Lugga Music)
Voto: 65

domenica 5 giugno 2011

The Project Hate - Bleeding the New Apocalypse

#PER CHI AMA: Cyber Death, Industrial, Progressive
Che io segua i The Project Hate da tempo, lo dimostra la recensione del vecchio “Armageddon March Eternal” su queste stesse pagine. Mi ritrovo ancora qui a scrivere della band di Lord K. Philipson e soci, e lo faccio sempre ancora con estremo piacere, in quanto da dieci anni a questa parte per il sottoscritto, i The Project Hate rappresentano sinonimo di grande qualità. Non è infatti da meno questo “Bleeding the New Apocalypse”, la cui uscita è un po’ passata in sordina ai media (e forse anche ai fan), e allora da parte mia, per poter dare un po’ di enfasi a questa nuova release, ecco dare il mio supporto ad una delle band che più stimo: mi siedo alla scrivania, accendo il pc, inserisco il cd e via all’ascolto del nuovo "Bleeding the New Apocalypse", l’ottavo album dei nostri considerando anche la parentesi Deadmarch. Ebbene, saranno anche passati undici anni dal brillante esordio dell’act scandinavo, ma il sound non è per nulla mutato da allora, e questa non vuole essere una critica nei confronti del four-pieces, anzi vorrei premiare la loro coerenza e costanza nell’arco di questi anni. L’impianto sonoro di fondo continua a rimanere quello del seminale swedish death (Grave e Dismember), su cui si insinuano via via elementi di qualsiasi tipo, dal cyber death all’industrial passando per il progressive, facendo largo uso di elettronica e giocando, al solito, sul dualismo tra le growling vocals di Jorgen Sandstrom e quelle angeliche della vocalist portoghese Ruby Roque, che ha sostituito ahimè, la ben più brava Jo Enckell. Come sempre non mancano neppure gli ospiti e questa volta ad aiutare i The Project Hate, ci pensano Leif Edling dei Candlemass, l’onnipresente Mike Wead (che abbiamo visto anche recentemente nei Kamlath), Jock Widfeldt (Vicious Art) e Christian Ivestam (ex-Scar Symmetry). Il risultato di questo connubio? Quanto mai pazzesco, in grado di certificare la grande qualità della band svedese, all’esordio tra l’altro con la Season of Mist. Da sempre caratterizzati da pochi e lunghissimi brani, anche la release in questione non è da meno, con sei pezzi per un totale di 65 minuti di musica feroce, psicotica, dalle strutture assai complesse, ma al contempo assai melodiche, grazie all’utilizzo sempre indovinato delle keys e dei suadenti momenti in cui Ruby ci delizia col suo cantato, anche se meno convincente della precedente Jo. Da un punto di vista tecnico, la band si conferma ad alti livelli, forti anche di un nuovo batterista, l’esplosivo Tobias Gustafsson (Vomitory) e di un lavoro in chiave ritmica e di solos che si conferma eccelso. Difficile indicare un pezzo piuttosto che un altro (anche se eleggo “Summoning Majestic War” mia song preferita), in quanto tutti si potrebbero giocare la palma di brano più riuscito dei The Project Hate. Insomma credo l’avrete intuito, a me "Bleeding the New Apocalypse" piace parecchio, per quella sua capacità di fondere le ritmiche selvagge del death made in Sweden, con sonorità estranee agli estremismi nord europei, quali gothic, progressive ed elettronica perennemente in grande evidenza. Ottimo il songwriting, cosi come pure eccellente la produzione con tutti gli strumenti ben bilanciati tra loro e un sound davvero pieno ed efficace che mi spingeranno ad eleggere questo lavoro tra i migliori del 2011. Una piacevole conferma, ma non avevo alcun dubbio a tal proposito, i The Project Hate, per quanto ingiustamente snobbati da critica e fan, rappresentano per il sottoscritto tra le band più interessanti e carismatiche del panorama internazionale. (Francesco Scarci)

(Season of Mist)
Voto: 85