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sabato 12 dicembre 2015

Nono Cerchio - Ombre

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal strumentale
Il primo album dei Nono Cerchio è uno di quei lavori in cui ti imbatti tanto casualmente quanto ti lascia di stucco già dopo pochi minuti, ma partiamo dal principio. Il trio nasce a Bologna nel 2013 e vede coinvolti Francesco D'Adamo (Nero di Marte), Andrea Burgio (Nero di Marte, Miotic) e Jonathan Sanfilippo (Caffè dei Treni Persi), quindi musicisti di grosso calibro del panorama musicale nazionale. Da subito la loro idea era di fondere il proprio bagaglio artistico per dare alla luce ad un progetto post rock strumentale, con grosse influenze prog e ambient. Il mix è oscuro, complicato e affascinante come non mai, infatti le sei tracce vi accoglieranno tra le loro lunga braccia e vi trasporteranno in quel posto recondito in fondo al vostro cervello, dove le sinapsi brillano e pulsano come esseri bioluminescenti. "Cocito" metterà subito alla prova le vostre difese mentali e vi avviso che l'unico modo per apprezzare la musica dei Nono Cerchio è l'abbandono totale. Quasi undici minuti di intrecci strumentali, dove batteria-basso-chitarra vi racconteranno una storia che evolve costantemente in una profusione di riff, feedback, delay e ogni altro suono etereo che può essere generato da uno strumento fisico. La classica struttura strofa-ritornello-break viene sbriciolata per non rimanere incatenati ad alcun cliché che limiterebbe l'espressione artistica del trio bolognese. Vi troverete avvolti da un'inquietante atmosfera che non farà altro che accrescere il vostro stato di ansia, con suoni che sembrano unghie su una lavagna o lame che stridono sul vetro, ma un secondo dopo l'esplosione vi annienterà. Tutto grazie a una chitarra distorta, un basso profondo e ad una batteria simile ad un bisturi da quanto è precisa e perentoria. Pochi secondi di vuoto e poi arriva "La Porta Cremisi", un'intro sostenuta da una batteria dai suoni talmente realistici che sembra di averla li in salotto appoggiata sul tappeto buono. La ritmica è intrecciata, complessa e poco a poco, basso e chitarra si appoggiano alla stessa per iniziare a raccontare la loro storia fatta di riff sinuosi e umidi. Il breve break permette un attacco più incisivo, carico e di nuovo il drumming fantasioso conduce i giochi, tra rullate velocissime e tocchi da maestro. Atmosfere liquide e degne di un film di Lynch, semplicemente perfette. "La Caduta" ricalca l'approccio delle precedenti tracce, con una continua iperbole di arrangiamenti fatti di arpeggi delicati di chitarra che si infervorano e portano all'esplosione totale che non ha in realtà mai un vero picco, ma si configura come un saliscendi continuo, con intermezzi noise ed ambient che farebbero ammalare qualsiasi mente equilibrata. Una musica che scrosta la patina di finzione che ricopre la vita di tutti i giorni e porta alla luce i nervi tesi, il sudore e i denti che digrignano in silenzio. "Ombre" è il post rock portato ai massimi livelli, quello introspettivo che non cede alla depressione, anzi sfrutta le debolezze dell'animo umano per scandagliarne le profondità e cogliere ogni singola sfumatura. Immaginate i Vanessa Van Basten redivivi e incazzati, o i Giardini di Mirò che si scrollano di dosso la polvere del pop. Se questa è la musica italiana underground, impegnata e alla continua ricerca del fuoco artistico, mi tengo stretto questo cd e a tal proposito, cercatevi putr la XXXIII Limited edition e cominciate a sbavare. (Michele Montanari)

Morphing Into Primal - Collateral

#FOR FANS OF: Melodic Death Metal, Planet Rain
The Spanish Melodic Death Metal act offers up album number two here, and it’s quite a decent offering a more modern-day melodic death metal with some very enjoyable elements found within. Basically taking the main route that the almighty chug riff is the dominating factor in here, there’s very little else on display throughout here as the band tends to whip through the material quite easily. With these chugging riffs keeping the material for the most part up-tempo and enjoyable, providing this with some intensity as it rages along at a mostly mid-tempo pace that will occasionally kick up into a minor gallop but for the most part dropping down into a series of swirling rhythms and loud, ringing melodic leads played over the top of the weak, shrieking vocals that manages to constitute the majority of Melodic Death Metal these days. In a nutshell, that along harms the album more than anything else, for its’ certainly decent enough when it lets loose but the vast majority of the running time is spent in slower, overly-familiar areas that aren’t really that original or emphatic enough to really rise this up a whole lot despite the seeming competence on display. It’s really more a factor of the band not really doing much of anything extra impressive throughout here to really differentiate with its rhythms and riff-work, which is the main stumbling factor. For the most part, the songs aren’t that bad. Intro ‘When the Evil Wears Gold’ offers furious razor-wire riffing and frenetic tempos with dexterous drumming along the scorching melodic leads and the more up-tempo rhythms that continue along the jagged solo section that continues on into the dynamic finale that makes for a solid starting point. ‘Karma’ features a simple chugging riff with mid-tempo melodic leads flowing through the slow, stuttering rhythm with simple patterns and low-key moments with the minor solo section bringing more urgent intensity into the charging final half for a decent if not altogether thrilling effort. ‘Until You Can Fly’ goes for a similarly simple chugging riff but offers more dynamic melodic leads as the more intense drumming blasts bring the blazing melodic leads into fine fashion with the more technical riffing flowing throughout the strong solo section into the melodic finale for a pretty strong and enjoyable effort. The overall bland ‘My Demons' Words’ starts with a melodic keyboard riff into a steady mid-tempo charge that keeps the hard-hitting chugging on full-display with a melodic tinge offered here with the straightforward riffing that delves into more fervent melodic realms on the solo section in the final half for an overall disappointing and wholly bland effort. Making up for that last effort, ‘Out of the Blue’ launches forth with swirling rhythms and generally more intense melodic leads with plenty of fine rhythms bouncing along at a fine mid-tempo pace as the varying tempo changes fire away into the scorching melodic solo section with the melodic rhythms carrying through the finale for a decent if unspectacular effort. Instrumental ‘Road 317’ offers a simple acoustic guitar strumming away on a one-note performance throughout for a fine mid-album break before segueing into the vicious ‘Bucle’ features rapid-fire drum-blasts and plenty of frantic razor-wire riffing that allows the rather intense mid-tempo chugging rhythms to take over after swirling and diving through the intense solo section with plenty of bombastic drumming running throughout the blistering tempos of the final half for the album’s best song overall. ‘She...incomplete’ continues with more up-tempo chugging and fine melodic leads that bring forth the intense melodies alongside the urgent chugging rhythms that keeps the second half’s tight pace in line through the solo section with the mid-tempo melodies continuing through the final half, making for a solid effort overall. ‘Inhumano’ charges along at a frantic pace with intense swirling riffing and blasting drumming carrying through an urgent, intense series of rhythms diving along at frantic tempos with frantic melodic rhythms running along the intense solo section as the chugging leads into the frantic finale for another strong effort. Lastly, ‘Throne of Two Lands’ blazes through intense razor-wire riffing and dexterous lead rhythms through utterly frantic tempos scorching with melodic leads with a stuttering drop-off into a simply bland mid-section break that kicks back into the more frantic tempos back into the strong melodic leads of the final half for a great ending note here. It’s really just the one main issue here holding this one back. (Don Anelli)

The Wankerss - Blackborn

#PER CHI AMA: Punk Rock
Padova è un'altra provincia ad alta concentrazione di band, questo a conferma che la musica è in ottima salute. Il quartetto dei The Wankerss, composto da Micke Lafayette (voce e chitarra), GG Rock (chitarra), Syracuse Hewitt (basso) e MC Memphis (batteria), ci riprova dopo il primo album 'Tales for a Sweet Demise' lanciato ormai cinque anni fa. Per loro infatti 'Blackborn' rappresenta la rinascita, un nuovo inizio che a leggere la presentazione dell'album sembra un percorso obbligato che la band ha dovuto prendere come unica alternativa per dare un senso alla strada fin'ora percorsa. Lasciamoci alle spalle questo oscuro manifesto ed addentriamoci nella musica dei nostri, un punk rock (o meglio death punk come loro stessi dicono) rude e veloce come vuole la vecchia scuola, ma impreziosito da cambi puntigliosi, potenza quanto basta e sonorità moderne. "And the Legion Goes..." è la opening track, una tirata di ben quattro minuti e mezzo, considerando che il genere predilige brevi excursus, dove salta all'orecchio la potenza del vocalist e della sezione ritmica. Non aspettatevi quindi il classico punk furioso degli anni che furono, con la batteria sempre dritta e quattro accordi ripetuti all'infinito, la band qui arricchisce il brano con assoli in stile Slash, sovraincisioni e cori, per cui alla fine 'Blackborn' si caratterizza per una ridotta velocità di esecuzione che permette di ricamare varie linee melodiche e arrangiamenti rock. C'è spazio perfino per le tastiere che aiutano nei cambi di direzione della traccia con un tappeto di string/pad. Un bel brano, carico ed eseguito con perizia ed esperienza. L'accelerazione finale chiude poi in bellezza; magari non rischiamo di strapparci i capelli per l'originalità, ma la band fa comunque il proprio dovere. Qualcosa cambia in "27 Miles Behind Enemy Lines", ove il sound è ancora più oscuro, la voce esplode e i riff di chitarra danno una sferzata di aria fresca, infrangendo la barriera del punk. Dopo queste tracce mi domando perchè definirsi con questo genere visto che si le song viaggiano a tavoletta, ma il punk ha ben altri canoni e nel caso dei The Wankerss mi sembra alquanto riduttivo. "Geminaìs Drowning" è il pezzo che mi ha catturato maggiormente: in solo settantadue secondi, la band patavina tira fuori un intermezzo oscuro, tra il doom e lo sludge che viene spezzato da una linea melodica di tastiere oniriche. Una divagazione che spero non sia solo il frutto di una jam in studio, ma che nasconda un seme veramente oscuro pronto a germogliare se ben curato. L'ultimo pezzo del quartetto è un mix che sfrutta anche passaggi hardcore, metal e quant'altro, per trasmettere il subbuglio emotivo dei suoi componenti, che sgomitano e si agitano sentendosi a proprio agio nei quattordici brani incisi discretamente per la Jetglow Records. Buona la prova dell'ensemble veneto che in alcuni tratti si trova legata a doppia corda ad alcuni canoni inflazionati, ma che sente il bisogno di una conferma dal pubblico per poter osare di più. Personalmente avete la mia benedizione, avete le palle, quindi osate e sarete ricompensati. (Michele Montanari)

(Jetglow Recordings - 2015)
Voto: 70

https://www.facebook.com/THE-WANKERSS

mercoledì 9 dicembre 2015

VI - The Praestigiis Angelorum

#PER CHI AMA: Avantgarde Black Metal, Deathspell Omega, Blut Aus Nord
La Agonia Records è un portento! Ha una capacità fuori dal comune di immettere nel mercato band dalle potenzialità incredibili, proprio come il trio francese denominato semplicemente VI. La band parigina, formata da componenti di Antaeus, Aosoth e The Order of Apollyon, è straordinaria nel ripercorrere le linee tracciate dai maestri Blut Aus Nord e Deathspell Omega con la stessa classe e fantasia, la stessa ricca composizione dove i brani si evolvono in senso progressivo senza mai dimenticare la furia violenta della fiamma originaria che diede inizio al genere black metal. Il versante transalpino con questa uscita si riconferma scena originalissima e prodigiosa, carica di sostanza e capace di vivere autonomamente, proprio come questo album che passo dopo passo ti incolla allo stereo senza mostrare pietà verso l'ascoltatore. Il trio suona velocissimo, claustrofobico, velenoso ma allo stesso tempo intenso ed evocativo; grazie a una chitarra geniale, si ha la tipica sensazione astratta del black metal d'avanguardia, quel confine labile tra malinconia, follia e ribellione. Gli stacchi nervosi, gli arpeggi distorti dal sapore apocalittico e le dissonanze, modellano le sfuriate al vetriolo in maniera tale che l'intero disco, di ben quarantaquattro minuti, sia una sorta di film devastante a livello emotivo con brevi ma continui cambi di scenario. L'iniziale "Et in Pulverem Mortis Deduxisti Me" non lascia scampo e si finisce in adorazione di una sei corde che fa degli accenti stralunati e dei riff dissonanti le sue armi più letali, una chicca stilistica che si ripete in "Una Place Parmi Les Morts" e che relega la figura del cantante e chitarrista INVRI a leader indiscusso ed insostituibile del progetto. Una sezione ritmica di tutto rispetto ed una produzione calda e reale, li rende super appetibili e facile preda di fans intransigenti, incalliti ammiratori di Forgotten Tomb, Virus, Arcturus, Deathpsell Omega oppure di Pale Chalice. 'The Praestigiis Angelorum' è un colosso sonoro in continua evoluzione, un'esposizione molto personale del black più estremo, una reinterpretazione intelligente e una prosecuzione degna di nota di quello che i maestri oscuri francesi (Blut Aus North e Deathspell Omega su tutti) hanno insegnato fino ad oggi. Ascoltatevi "Il Est Trop Tard Pour Rendre Gloire..." dove il titolo rispecchia perfettamente la trama sonora: affascinante, buia, drammatica e violentissima. Otto tracce divine! Un piccolo gioiello oscuro! (Bob Stoner)

(Agonia Records - 2015)
Voto: 90

martedì 8 dicembre 2015

Martin Nonstatic – Granite

#PER CHI AMA: Ambient/Elettronica
Sono convinto che l'autore olandese di questo splendido album, uscito nel 2015, sia stato colpito nel profondo (come riporta nel booklet interno al suo digipack) dalle atmosfere colte in un viaggio attraverso la nazione austriaca, tra natura e riscoperta del proprio essere, esattamente lo spirito che serve per affrontare un lavoro simile. 'Granite' è un album mastodontico creato ad arte in una forma spettacolare nata per ipnotizzare, aumentare la ricerca della propria esistenza tramite suoni, rumori, umori e ritmiche raccolte dalla natura e fatte evaporare nello spazio libero, mirate all'introspezione, dimenticando la banalità di una vita metropolitana, sfruttando la tecnologia moderna per creare arte senza tempo né spazio. Il suono in hi–fi è d'obbligo, quindi tra bassi profondissimi d'ispirazione dub, tecno e drone music, vediamo intercalarsi retaggi mistico/estatico di Kitaro e tribalità minimal alla Seefeel. Una musica elettronica variegata divisa a metà tra anni novanta e duemila, la dinamica sonora dello stupefacente esperimento musicale firmato John Fox e Luis Gordon ai tempi di 'Crash and Burn' in veste ambient e votata all'atmosfera più riflessiva, nessuna traccia di frenesia e senza dimenticare quanto sia importante la figura del Ryuichi Sakamoto dei momenti più intimi, almeno come fonte d'ispirazione. Album prodotto divinamente con un piede nell'orecchiabilità ed uno nella struttura complessa, ricercata e proiettata verso un ascolto impegnato e mai ostico. Dodici tracce per una durata consistente di circa settanta minuti di pura evasione mentale, un album ispirato e colto per menti libere da preconcetti sonori, proseguo ideale in chiave ambient della via illuminata dalle divinità Tim Hecker e Tosca. Ennesimo gioiellino rilasciato dall'ottima etichetta francese Ultimae Records. (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2015)
Voto: 80

Lachrymose – Carpe Noctum

#PER CHI AMA: Dark/Doom, Nightwish, Candlemass
Una campana a morto scandisce lentamente l'incedere di una spettrale atmosfera. “Precipice Of Bliss”. La notte cala. E con la notte i Lachrymose si destano, presentandosi nella seconda traccia “False God” con un intro in pieno stile doom. Il tempo cresce e viene lasciato spazio alle lyrics. È a questo punto che veniamo colpiti dall'inaspettato cantato della vocalist Hel, con una vera e propria impostazione lirica che ricorda le vecchie vocals di Tarja nei primi Nightwish, anche se le materie sono decisamente differenti. I greci Lachrymose, in questo primo lavoro, si muovono in direzione death/doom, grazie sicuramente alle influenze apportate dai due fondatori Blackmass (guitars) e Mancer (drums), già attivi nei Rotting Flesh, prima di prendere parte nella formazione dei Lachrymose, che si completano poi con la già citata Hel e il bassista Kerk. Il disco prosegue sulla strada intrapresa già nel prologo, senza troppi sconvolgimenti e senza uscire dagli schemi. Buona la prova offerta dai nostri nel brano “My Shadow”: con i suoi 8 minuti sfora leggermente dal minutaggio medio, intro e outro sono dominati dal basso, mentre nel mezzo si articola un brano dalle cupe sfumature, sostenuto da un buon lavoro di chitarre. Piacevoli risultano anche la title-track, in cui il tempo si abbassa e il riffing incessante della sei corde ci accompagna fino alla fine, ed anche la più death oriented “In a Reverie”. Questo pezzo vede la partecipazione speciale di Thomas Vickstrom, già in forze agli svedesi Therion. La sua impostazione operistico/teatrale, impiegata nel duetto con Hel (a cui si aggiungerà poi anche il growling viscerale di Blackmass), contribuisce notevolmente alla buona riuscita di questa song, apportandovi un tocco di particolarità allo stile dei nostri. L'ultimo pezzo prima della conclusione strumentale è affidato a “Thyella”, che insieme al precedente, rappresenta uno dei brani meglio riusciti in questa prima fatica della band ellenica. Nel complesso il debut è sufficiente ma i Lachrymose potrebbero dire sicuramente di più, sfruttando al meglio le proprie peculiarità (in particolare la voce di Hel) e garantendo una maggior cura a particolari e sfumature (che fanno risaltare brani come i già citati “My Shadow” e“In a Reverie”). Questo garantirà alla band greca di non uniformarsi e non cadere nella monotonia, come purtroppo accade in alcuni passaggi di 'Carpe Noctum'. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Pure Steel Publishing - 2015)
Voto: 65

The Pit Tips

Emanuele "Norum" Marchesoni

Equilibrium - Erdentempel
Lachrymose - Carpe Noctum
Trick or Treat - Evil Needs Candy Too

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Francesco Scarci

Sunpocrisy - Eyegasm, Hallelujah!
Odetosun - The Dark Dunes of Titan
Panopticon - Autumn Eternal 

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Don Anelli

Necroblaspheme - Belleville
Agony Divine - March of the Divine
Vermingod - Whisperer of the Abysmal Wisdom

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Mauro Catena

Fine Before You Came - Teatro Altrove (Genova 29.01.2015)
Hugo Race and the True Spirit - The Spirit
Phased - Aeon

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Samantha Pigozzo

Blutengel – Omen
Lordi – Scare Force One
Godhead – 2000 Years of Human Error

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Stefano Torregrossa

Clutch - Blast Tyrant
High On Fire - Luminiferous
Björk - Vulnicura

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Michele Montanari

Nono Cerchio - Ombre
Vanessa Van Basten - Closer to the Small / Dark / Door
Palmer Generator - Shapes

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Kent

Sunpocrisy - Eyegasm, Hallelujah!
Sedna - Sedna
Ben Frost - Steel Wound

sabato 5 dicembre 2015

Atma - Im Nebel

#PER CHI AMA: Post Black/Blackgaze
Tre brani per quarantadue minuti. Non sarà certo una passeggiata affrontare 'Im Nebel', album di debutto dei teutonici Atma. In realtà non so che aspettarmi dal sound di questa band che apre minaccioso con i suoi suoni lontani, imperscrutabili e ambientali. È "Im Nebel I" a segnare l'inizio delle danze o forse dovrei dire dell'incantesimo sciamanico a cui, il duo formato da Malte e Lucas, ci sottoporrà. Suoni ambient dicevo, quasi estratti da un lavoro dei Pink Floyd più sperimentali e stralunati che lentamente prova ad uscire dal proprio misantropico guscio, ove i due loschi figuri si celano. Trascorsi 7 minuti dall'inizio del cd però non ho ancora ben capito con chi o quale musica avrò a che fare. Gli Atma sembrano avvolti da un manto di fitta nebbia nel quale sia quasi impossibile scorgervi dentro. Ci sono accenni di chitarra elettrica, lo sfiorare dei piatti, ma null'altro che lasci presagire a qualcosa di più. Finalmente un accenno fa capolino verso l'ottavo minuto: una chitarra scarna e una batteria minimal sembrano movimentare un disco che stenta a decollare o comunque ad acquisire una forma ben definita. Che genere fanno gli Atma? Non saprei, rock di sicuro, ma non mi è chiaro a quali livelli di violenza dobbiamo porci. Certo, quella chitarra marcia e decadente mi fa propendere per una forma di estremismo sonoro orientato al black metal. Finalmente al minuto 13, sboccia un selvaggio riffing votato al nero a cui mi stavo preparando e forse tra me e me già pregustavo. L'elementarità sonica però, accompagnata dallo screaming belluino e da una produzione non proprio all'altezza, delude quelle aspettative che un po' mi ero creato nell'attesa che il sound del duo della Westphalia si palesasse nel suo ardore. Forse li prediligo nella loro veste più meditativa e la formula di "Im Nebel II", che ricalca esattamente quella della opening track, mi dà modo di rilassarmi nel blackgaze dei nostri, in attesa che si abbatta sulle nostre teste una nuova burrasca di selvaggio e incandescente metallo nero. Una voce narrante, rumori disturbanti in sottofondo, una chitarra acustica di sottofondo preallertano anticipano il primitivo post black degli Atma che puntuale come un orologio svizzero, cala la propria scure con elementari scudisciate di raw black e grida furiose. Una melodia che omaggia un rock anni '90 (non sono riuscito a ricondurre l'abbinata riff/synth ad una canzone ben precisa) apre e conduce il prologo di "Im Nebel III", la traccia più orecchiabile (almeno nella sezione atmosferica) e quella forse meglio strutturata, complice un finale assai intrigante che segue la furiosa cavalcata black. C'è sicuramente ancora molto da lavorare per dar modo all'estro compositivo dei nostri di emergere in una veste meno primordiale e meglio curata. (Francesco Scarci)

Sunpocrisy - Eyegasm, Hallelujah!

#PER CHI AMA: Dark/Post/Alternative, Cult of Luna, Klimt 1918, The Ocean
Ogni numero di magia è composto da tre parti o atti. La prima parte è chiamata "La Promessa". L'illusionista vi mostra qualcosa di ordinario: un mazzo di carte, un uccellino, o un uomo. Vi mostra questo oggetto. Magari vi chiede di ispezionarlo, di controllare se sia davvero reale, sia inalterato, normale. Ma ovviamente... è probabile che non lo sia. Il secondo atto è chiamato "La Svolta". L'illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ma ancora non applaudite. Perché far sparire qualcosa non è sufficiente; bisogna anche farla riapparire. Ora voi state cercando il segreto... ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Per questo ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo "Il Prestigio". Ho voluto parafrasare le parole dell'inizio del film di Christopher Nolan, "The Prestige", in quanto lo svolgimento di questa ennesima perla dei bresciani Sunpocrisy, si muove esattamente allo stesso modo dell'illusionista. Il sestetto infatti parte con qualcosa di (apparentemente) ordinario e tranquillo che ben presto sarà in grado di strabiliarvi con tutta l'innata capacità e l'inventiva di cui sono dotati questi ragazzi, che ormai rappresentano il top in ambito post del nostro bel paese. 'Eyegasm, Hallelujah!' è il secondo mirabolante disco dei Sunpocrisy che in questa nuova release abbandonano quell'approccio più viscerale del funambolico e innovativo 'Samaroid Dioramas', per lanciarsi in un qualcosa di più meditativo che scomoderà, come vedrete, alcuni mostri sacri del panorama metal mondiale. Si parte con "Eyegasm", una song dall'attacco psichedelico che vede Jonathan Panada alle voci, alla stregua di Marco Soellner dei Klimt 1918 all'epoca di 'Dopoguerra'. Dicasi lo stesso delle atmosfere, cosi evocative e che seguono per certi versi quelle della band romana, prima che il sound esploda in un fragoroso e vibrante post dai contorni djent (Born of Osiris e Tesseract i riferimenti rintracciabili). Il raggiungimento della maturazione musicale dei mostri è ufficialmente sancita dalla sola opening track che conferma che il full length di debutto non era stato dettato da un banale colpo di fortuna. In "Eyegasm" c'è tutto quello che possiate pretendere da un pezzo: atmosfere lisergiche, montagne di groove, vocals pulite/growl, chitarroni che si inseguono e susseguono, ubriacandoci di emozioni, colori e suggestioni. Suggestioni che rimangono agganciate anche con la successiva "Mausoleum of the Almost", song incollata letteralmente alla prima, che grazie a una tempesta magnetica di basso e splendide vocals, elabora la nuova magia dei nostri. Una calma magmatica che ribolle ed esplode come quelle fontane di lava che si vedono emergere in questi giorni dal maestoso Etna. La song cresce, le chitarre squarciano l'etere con frastagliati suoni di scuola Cult of Luna che mi emozionano come da troppo tempo non accadeva. La storia continua, quel viaggio fatto di simboli e parole viene ulteriormente affrontato dai nostri. Si passa attraverso la noisy "Transmogrification" per giungere a "Eternitarian", una traccia infinita, come solo i Sunpocrisy e pochi altri sanno condurre, una song guidata dallo splendido connubio di synth e chitarre, una song che chiama in causa anche gli Anathema nelle parti più eteree. Le chitarre continuano ad affrescare l'aire di splendide note con la voce pulita di Jonathan a proprio agio anche sul tappeto post black che deflagrerà verso il sesto minuto e ci accompagna in ipnotici giri di tremolo picking, screaming corrosivi e meditative atmosfere, fino alla fine del brano. Un altro intermezzo acustico che li per li mi ha evocato nella mente i Radiohead di 'Ok Computer': sublimi tocchi di piano che preparano a "Kairos Through Aion", brano dal forte mood malinconico che si riflette in un andamento più ritmato che non tarderà a sfociare in rabbia adrenalinica di scuola The Ocean, uno dei pochi retaggi rimasti delle vecchie influenze (ravvisabile anche in "Gravis Vociferatur" e in alcune movenze in sede live), nei solchi di questo nuovo disco. Ma la traccia si conferma sorprendente verso la sua metà, ancora a voler giustificare le mie parole iniziali ossia partire da un qualcosa di normale che ben presto si trasformerà nel prestigio degli illusionisti Sunpocrisy. Anche questa volta infatti, il sound dell'act lombardo diviene nebuloso, votato quasi a uno space rock onirico, che saprà sorprendervi e illuminarvi. Di "Gravis Vociferatur" abbiamo già detto, forse la song che più avvicina la band al collettivo berlinese ma che comunque spinge i nostri verso le vette del perfetto post-metal. La tempesta stellare a cui siamo sottoposti viene smorzata da un altro splendido break centrale, affidato all'enorme lavoro delle chitarre, per cui vorrei spendere un plauso particolare a quella ispiratissima di Matteo Bonera. Detto anche di una certa originalità in fatto di titoli dei pezzi, arriviamo alla esoterica "Festive Garments" che ha qualche punto in comune col passato recente della band e che non disdegna anche qualche rimando ai Tool, non fosse altro per il growling imperioso di Jonathan e per sprazzi di un dark rock sognante, nella seconda metà. La cura maniacale nei dettagli, musicali ancorchè grafici è minuziosa e ben studiata a tavolino, cosi era lecito attendersi a conclusione del disco "Hallelujah!", con i suoi ultimi incredibili e spettrali 10 minuti. L'inizio è affidato alla celestiale elettronica di Stefano Gritti e poi via via tutti gli altri strumentisti convergono in una traccia che richiama una sorta di Novembre più orchestrali (in salsa post doom) miscelati agli *Shels. Trovo poche altre parole da spendere per i Sunpocrisy se non dire che ormai rappresentano la punta di diamante del metal nostrano che li spinge di diritto nel gotha dei maggiori esponenti del post- a livello mondiale. (Francesco Scarci)

venerdì 4 dicembre 2015

Jungbluth - Lovecult

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore/Screamo
“This one should be clear, but can’t be said too often: we strongly disagree with any pro-views on fascism, racism, nationalism, sexism, homophobia and every other form of oppression”. A volte la musica riesce a creare forti legami empatici, a prescindere dal genere musicale, se fondata su principi che ci toccano da vicino. È quanto mi è accaduto con il terzo album degli Jungbluth, terzetto HC di Münster, che prende il nome da Karl Jungbluth, comunista e antifascista tedesco, che durante la seconda guerra mondiale ha combattuto nella resistenza contro i nazisti. 'Lovecult' è, conviene dirlo subito, un piccolo capolavoro hardcore che riesce a coniugare in modo perfetto furia strumentale, inventiva e testi incompromissori. I tre ragazzi tedeschi riescono a sprigionare una potenza devastante fatta di furiose cavalcate noise, stacchi precisi e un cantato potente e viscerale. 'Lovecult' è un album a tema che, come si evince dal titolo, parla di amore ma, come è facile intuire dalle premesse, non lo fa in modo sognante e piagnone. Niente sofferenze emo da cameretta, in queste tracce, ma una lucida analisi che intende sviscerare il concetto di amore nella società odierna, che capitalizza tutto, anche le nostre emozioni, finendo per renderle dei bisogni come altri, per i quali siamo disposti a pagare. Non è necessario pagare invece per godere di questa mezz’ora scarsa di grande hardcore punk: il disco è infatti disponibile in dowload gratuito, ma se apprezzate il contenuto, e non potrete non farlo se amate il genere, allora è disponibile il vinile, anche in una splendida edizione limitata in vinile verde. Inutile menzionare le tracce migliori: sono 10 gemme che scorrono veloci e inesorabili, e una volta arrivati in fondo non potrete fare altro che ricominciare da capo. E ancora. E ancora. “Don't respect something that has no respect - Fuck nazi sympathy!" (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 85

giovedì 3 dicembre 2015

Cosmic Church - Vigilia

#PER CHI AMA: Black, Burzum, Thy Serpent
Lo ammetto: sono rimasto tremendamente affascinato da quel losco figuro vestito di rosso, immerso nella lussureggiante foresta finlandese. Probabilmente quel misterioso uomo è Luxixul Sumering Auter (LSA), colui che si cela dietro al moniker Cosmic Church, band per cui confesso la mia infinita ignoranza e dispiacere per aver tralasciato un musicista (qui coadiuvato da S. Kalliomäki e Rauka) con ben otto tra EP e split, oltre a due full length all'attivo, dal 2006 a oggi. La cosa incredibile poi, è che nel lasso di tempo dall'uscita di 'Vigilia' a oggi (circa un mese e mezzo), il mastermind finnico abbia già rilasciato un altro split album con Blood Red Fog e Shroud of Satan. Comunque bando alle ciance, immergiamoci nell'atmosfera magica di 'Vigilia', un EP di 4 lunghi pezzi per un totale di 33 minuti, all'insegna di un black metal melodico, contrappuntato da belluine vocals e sfuriate di un serratissimo sound vestito di nero. Il factotum nordico parte con l'eterea "Vigilia I": ottima l'overture melodica, dove non tarda a comparire lo screaming burzumiano del sacerdote rosso, la cui proposta sonora si muove poi tra suoni mid-tempo e feroci galoppate, con un finale decisamente accattivante guidato da magnetici synth in sottofondo. "Vigilia II" è un pezzo di ben 12 minuti, dal piglio inizialmente più rock oriented, ma non temete perché in pochi secondi riemergerà il glaciale e tagliente sound di LSA, fatto di ritmiche funamboliche, blast beat e urla non di questo mondo. Fortunatamente lungo il brano, trovano spazio anche frangenti più atmosferici, altrimenti avrei corso il rischio di essere torturato da cotanta brutalità. Non fraintendetemi però, la tempesta elettrica scatenata dal musicista di Tampere, è sempre ben controllata e negli ultimi 4 minuti, la melodia di fondo assume dei contorni quasi magici pur rimanendo ancorato al suo estremismo sonoro. La furia esplosiva prosegue con il frastuono di "Vigilia III", che prosegue con spaventose rasoiate ritmiche in cui batteria, basso e chitarre si uniscono fragorosamente, vertiginose grida e le sporadiche melodie. Il finale è affidato a "Vigilia IV", la song relativamente più tranquilla del lotto, avvolta da un manto oscuro, più rallentato, spennellato di una certa dose di velate melodie intrise di malinconia, e complici quei timidi synth relegati sempre in background. Insomma, 'Vigilia' può essere anche per voi un ottimo modo per avvicinarsi ai Cosmic Church e approfondire ulteriormente la conoscenza della band finnica, ascoltando la vasta discografia. (Francesco Scarci)

(Kuunpalvelus - 2015)
Voto: 70 

mercoledì 2 dicembre 2015

Hard Reset – Machinery & Humanity

#PER CHI AMA: Post Grunge/Alternative Rock
La band fiorentina dopo un EP omonimo datato 2012, cerca il grande salto sostenuta dalle ali di una forte etichetta come la Sliptrick Records per esportare nel 2015 la sua musica fuori dai confini nazionali. Con i testi in inglese e una formazione a tre, gli Hard Reset mostrano la propria idea di rock in quindici titoli ben amalgamati tra loro. Coscienti di essere i figli legittimi del suono da grande arena di Foo Fighters e Placebo, i nostri portano avanti degnamente la loro visione di post grunge, anche se onestamente manca la caratteristica tensione della musica di Seattle e se devo paragonarli stilisticamente ad una band del periodo, preferisco accostarli musicalmente ai Therapy?, più easy ed orecchiabili (e che ovviamente non sono di Seattle!) . La verve è quella giusta ed il canto gioca bene le sue carte trascinando una band tra ballate rock ed escursioni più rumorose ma comunque sempre contenute ("Drawbridge"), quasi a voler sottolineare la volontà ferrea di creare musica rock valida per i passaggi radiofonici internazionali ("Beautiful Cloud" e "Tweed"). Il fatto è che ci riescono veramente e il tutto è anche accattivante, con testi anche interessanti e un lavoro completo che dimostra come si possa far rock orecchiabile con stile e cervello, mantenendo intatta la propria credibilità. Altri accostamenti che mi sento di azzardare sotto il profilo sonoro, sono quelli con gli Sparta dell'ex Jim Ward degli At the Drive-In, i Biffy Clyro ed i primi Manic Street Preachers, anche se devo ammettere che la band toscana dovrebbe essere più aggressiva in certi frangenti e puntare a suoni più rudi e d'impatto, magari prendendo spunto proprio da "When the Lights go Down" o What I Hope to Find", due brani dove il trio fiorentino osa maggiormente, raggiungendo ottimi risultati in fatto di potenza e tiro. Comunque il terzetto italiano mostra carattere e anche una certa originalità; tra i brani non ci sono lacune e l'insieme delle tracce è omogeneo e divertente da ascoltare, di facile approccio, mai banale, immediato e snello. Un album completo di buon rock moderno, certamente non da sottovalutare, insomma una bella prova! (Bob Stoner)

(Sliptrick Records - 2015)
Voto: 70

New Adventures in Lo-Fi – So Far

#PER CHI AMA: Indie Rock, Built to Spill
Finalmente, dopo un paio di EP di assoluto spessore, arriva anche l’esordio sulla lunga distanza per i torinesi New Adventures in Lo-Fi, grazie ad una coproduzione che ha visto impegnate ben tre etichette: Stop Records, Waves for the Masses e Cheap Talks. Il pezzo d’apertura, “Expectations”, una ballad delicata ma inquieta un po’ Smashing Pumkins un po’ primi Motorpsycho, è uno dei migliori pezzi che mi sia capitato di ascoltare quest’anno, e per quanto mi riguarda i NAILF hanno già vinto. E il resto del programma non delude, mantenendosi sempre su quel confine tra rabbia e malinconia che urla college rock in ogni nota, e cosí ci si trova a trovare qua e là echi di Built to Spill, Modest Mouse, ma anche R.E.M. (a cui il nome pare proprio un aperto omaggio), oltre alla cover di “Shoe-in” di Geoff Farina che è di per sé già un manifesto programmatico. I tre del resto, non avevano mai fatto segreto delle loro influenze, basta ascoltare i loro EP o 'All Mixed-Up', raccolta di cover e rarità disponibile in download gratuito, come tutto il catalogo, sulla loro pagina di bandcamp. Quello che conta, peró, non è tanto questa o quell’influenza, ma la qualità delle canzoni, sempre molto alta, grazie a un suono di assoluto spessore (e che dimostra una volta di piú che le chitarre le sappiamo registrare bene anche qui da noi) e, non da ultima, una pronuncia inglese totalmente credibile. Tra i vari brani, quasi tutti mediamente piú “rumorosi” dell’opener, meritano una citazione almeno, la lunga e epica “Klondike”, con il suo muro di distorsioni, e i saliscendi emozionali delle altre due ballate “Nobody’s Rest” e “WG's New Year's Resolutions, Circa 1942”. Un disco di ottime canzoni, che si staglia sullo sfondo della scena indie italiana alzandone, di fatto, il livello. (Mauro Catena)

(Stop Records - 2015)
Voto: 75

martedì 1 dicembre 2015

Soul Racers - Kill All Hipsters

#PER CHI AMA: Stoner/Psych, Kyuss
A conferma che la scena stoner italiana è in rapida crescita, oggi parliamo dei lombardi Soul Racers. Anzi, per la precisione il progetto è stato fortemente voluto e portato avanti da Vincenzo Morreale (voce e chitarra) che ha riunito i musicisti giusti per dare alla luce questo EP registrato all'Eleven Studio di Busto Arsizio. 'Kill All Hipsters' è un disco sincero e schietto come una grappa nostrana, forte e intenso, ma che non nasconde particolari retrogusti o profumi. Quindi tanto stoner per gente dura, dalla pelle cotta dal sole e la gola secca per le ore passate sotto il sole del deserto. Le influenze di Vincenzo sono quelle di un ragazzotto che ha passato la giovinezza tra Kyuss & co., Nebula, Orchid e affini, facendogli venire voglia di suonare quei riff mastodontici e assoli psichedelici mentre la sua voce urlava al mondo. L'EP apre con "She's Gone", una bella cavalcata stoner con tutti i crismi, veloce e con i suoni giusti. Il riff che conduce è tanto semplice quanto immediato e permette alla traccia di entrare subito nel cervello di chi ascolta e rimanervi li ad oltranza. La sezione ritmica di basso e batteria va dritta al sodo e sostiene con decisione l'intera canzone, mentre la voce matura del vocalist convince e si sposa alla perfezione con il mood sonico. Bello il break a tre quarti del brano, un giro di chitarra fuori dal genere che precede l'assolo finale con annesso raddoppio di tempo. Segue "We are Living" da cui è stato tratto l'omonimo video che vi consiglio caldamente di andarvi a vedere, vi strapperà sicuramente un sorriso e nel frattempo ascolterete questa traccia che eredita l'appeal della precedente. Questa volta la band ostenta della sana arroganza, sempre con riff stoner che puntano al groove e meno al muro di suoni, infatti il mix è sempre ben bilanciato e la canzone si lascia ascoltare senza intoppi. Il disco chiude con "Space Line", personalmente la traccia che preferisco e da cui è stato tratto il secondo video di 'Kill All Hipsters'. Un brano oscuro e da cui si percepisce anche il lato space rock dei Soul Racers, infatti la clip vede il trio milanese suonare in veste di astronauti o simili con l'intermezzo di una vecchia pellicola del secolo scorso. La traccia è più lenta delle precedenti e qui risulta molto piacevole il giro di basso che come spesso accade nel genere, riesce a prendersi una piccola parte di notorietà. Il tocco space è dato in particolare dal finale, dove la chitarra si destreggia in un assolo carico di feedback e delay a richiamare i suoni liquidi che spesso si associano a questo sottogenere del rock. La durata supera i sei minuti e avremmo apprezzato un break più deciso con annesso cambio di direzione, questo per mantenere alto il livello di attenzione per tutta la durata. Resta comunque che l'esordio della band è buono e mette in luce le doti di leader di Vincenzo che con passione porta avanti un progetto che ci auguriamo di veder crescere e arrivare all'incisione di un full length prodotto da una buona etichetta. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 70

lunedì 30 novembre 2015

Regnvm Animale - Et Sic in Infinitum

#PER CHI AMA: Post Black/Punk, Krallice, Radioskugga, Anti Cimex, Agalloch
Prodotto curioso e ricco di variazioni stilistiche quello degli svedesi Regnvm Animale, che con 'Et Sic in Infinitum' arrivano al debutto sulla lunga distanza. Dopo lo scoglio iniziale rappresentato dalla terribilmente old school “Maya”, già dal primo ascolto si nota il sottobosco sonoro richiamante in ampia forma crust in stile anglo-svedese miscelato al black metal. L'ascolto di tracce come “Från Bördig Jord Till Salthed” e “Osäkerhetsprincipen” evoca atmosfere epiche volte ai radiosi anni '90 scandinavi, mentre altre come “Ars Moriendi” e “Förfallet” tendono più verso recenti sonorità americane dal piglio atmosferico e melodico. Menzione particolare necessitano le ultime due tracce “Inåt” e “Grund” che vedo un po' come due bonus track, isolate dal resto dell'opera. L'approccio può certamente ricondursi all'intrinseca malinconia e rassegnazione sprigionata da alcune parti precedenti nell'opera, ma queste la rielaborano con uno stile completamente differente, la prima tendente al post-punk con voce pulita e ritmi ipnotici, la seconda al folk con tanto di banjo e chitarra acustica. Tutte le liriche sono in svedese e le tre voci, grazie ai loro differenti approcci canori, regalano dinamismo durante lo scorrere della musica, sebbene le composizioni siano alquanto semplici. La produzione è limpida e basilare, rende i suoni puliti e brillanti anche nei momenti più oscuri e truci del disco, facendo risaltare le parti acustiche e melodiche. Alla fine, il risultato di questa seconda uscita dei Regnvm Animale, è un'opera dalle molteplici sfumature, con ancora qualche incongruenza nella visione d'insieme per quanto riguardo lo stile principale da adottare, in quanto capace di attirare maggiormente i fan di derivazione del black metal moderno piuttosto che quelli del crust. Comunque interessanti. (Kent)

(Self - 2015)
Voto: 70

domenica 29 novembre 2015

Gloomy Hellium Bath - Sistema Solera

#PER CHI AMA: Crossover/Industrial, KFDM, Pigface, Fear Factory
Il trio francese dei Gloomy Hellium Bath è una band molto strana e impegnativa soprattutto per la varietà dei generi toccati e l'impossibilità di collocare la loro musica in un determinato filone musicale, non che questo sia obbligatorio per carità. Dentro questo lavoro, dal titolo 'Sistema Solera', uscito in questo 2015, vi troviamo tranquillamente la musica dei Fear Factory periodo 'Demanufacture', la follia creativa di scuola Pigface e Iwrestledabearonce, contornate da allucinazioni perverse vicine alle sperimentazioni di KFDM, Chumbawamba e Mark Stewart and the Maffia in salsa dub, punk, pop e tecno. Si salta continuamente da un suono all'altro, con muscolose digressioni hardcore/metal che convivono con aperture pop impregnate di world music e incursioni nel digitalcore che si perdono in rumori d'ambiente e sonorità varie vicine a certi Skinny Puppy d'annata, il tutto con voci da pubblicità di serie B, gorgheggi profondi, ritmi techno, death metal old school e annesse continue atmosfere sarcastico/psicotiche care ai film pulp di Tarantino. In realtà, è ben difficile capire dove comincia la musica suonata e dove la fanno da padrone i campionamenti e gli innumerevoli rumori di disturbo sparsi ovunque all'interno del cd: in "Ouarrrrrrch" una voce in sottofondo somiglia addirittura a "Love Her Madley" cantata da un Jim Morrison passato in candeggina. Il cd ruota completamente intorno a queste stravaganti coordinate stilistiche, con palesata una vena irriverente e distruttiva, di derivazione techno/metal/hardcore oltre a una velata voglia di stupire ed apparire mainstream comunque e ovunque anche con brani di concezione estrema. Un lavoro certosino, di nove brani in poco più di mezz'ora di durata, che fanno di 'Sistema Solera' un album ambizioso, pretenzioso e desideroso di risultati, anche se, per certi aspetti, appare evidente che molte soluzioni compositive siano già state usate e riusate da molte band, soprattutto tra gli anni '90 e il 2000, e questo tipo di meltin pot musicale tra generi diametralmente opposti cosi come espresso in quest'opera, sia oggi stato ampiamente superato. La qualità è ottima e anche l'interesse rimane alto per dischi di questa caratura che rimangono comunque chicche per folli, disturbati, o semplici appassionati del crossover sonoro a 360°. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

giovedì 26 novembre 2015

Postcards From Arkham - ÆØN5

#PER CHI AMA: Prog/Post metal/Atmospheric Rock
Ho sempre un moto d’invidia quando scopro che dietro album così lunghi e complessi c’è un solo uomo, in questo caso il polistrumentista ceco Marek Frodys Pytlik. Me lo immagino a comporre e suonare, traccia dopo traccia; e ancor prima, a pensare un concept come questo 'ÆØN5', ispirato interamente dai racconti oscuri di H.P. Lovecraft e E.A. Poe (che segue, per inciso, il precedente 'Oceansize' del 2012, incentrato sul culto di Cthulhu). Mi aspettavo molto quindi, con presupposti del genere, ma vi avviso subito, questo disco si è rivelato appena sufficiente. La musica anzitutto: le atmosfere oscure e autunnali sono rette da melodie tutt’altro che straordinarie – “Elevate” o “Woods Of Liberation”, con le dovute differenze stilistiche, sembrano scritte per il teen-pop-rock contemporaneo. Chitarre e tastiere sono protagoniste: le prime alternano distorsioni death e arpeggi ricchi di effetti (“Thousand Years For Us”) a lunghi solo; le seconde tessono le linee principali delle melodie, prediligendo strings asciuttissimi e piano elettrici ai synth. Un basso anonimo e una batteria, purtroppo, altrettanto poco curata (sia nei suoni che nelle partiture) completano il quadro. Sopra a questo tessuto metal-melodico, la voce di Marek racconta per contrasto un mondo di orrore, oscurità e mostri in attesa: monotona e cantilenante, ricorda più un reading di poesie oscure che un cantato vero e proprio, men che meno metal (salvo un paio di episodi in growling, vedi “Aeon Echoes”). La voce – per lo più piatta, profonda e cavernosa – crea una dissonanza inquietante con la struttura prettamente melodica della musica. Come se il compianto Peter Steel leggesse Lovecraft sulle strofe di “Wildest Dreams” di Taylor Swift. Un lavoro difficile da inquadrare: l’altalena di atmosfere ed emozioni, tipica del post-rock e del post-metal, si sposa con l’ambientazione horror e il parlato oscuro tipici di un certo metal scandinavo. Le tastiere e le lunghe parti strumentali e solistiche tuttavia, non possono non far pensare ad un prog-metal contemporaneo, pur non particolarmente tecnico e, anzi, piuttosto noioso quanto a scelte di tempo. La voce, vera nota originale di un disco altrimenti banale, che alla lunga si rivela persino troppo piatto. I Postcards From Arkham strappano la sufficienza solo grazie a qualche buona idea qua e là, ma soprattutto per gli incastri melodici di tastiere e chitarre.  Da risentire nella prossima fatica. (Stefano Torregrossa)

(Metalgate Records - 2015)
Voto: 60

Confidead - Rise

#PER CHI AMA: Hardcore/Punk/Metalcore, Pro-Pain, Madball
I finlandesi Confidead esordiscono con 'Rise', album dalle grafiche old school tattoo e dalla musica da loro chiamata “Mudlake Hardcore”, la quale altro non è che del classico hardcore punk in stile newyorkese. Le composizioni qui contenute risultano di primo acchito, pressoché identiche l'una all'altra e per questo rischiano talvolta di farci cadere nella noia: la voce è costantemente urlata con cori armonizzati, riff granitici e un ritmo assai elevato, le dinamiche quasi del tutto inesistenti. A tratti, i Confidead ricordano i Disfear, per quelle veloci melodie, le quali suonano anche piacevoli e ben inserite nel contesto dell'album, come nel caso di “Strength to Prevail” e “Fuck You All”, o alcuni feroci d-beats voluti principalmente all'inizio delle tracce, come si può ascoltare in “Song for the Dead” e “Face First”. Dopo numerosi ascolti però, il disco fatica ancora a crescere, e uscire dall'anonimato di un genere che se non ha detto tutto poco ci manca; alla fine ciò che rimane è solo qualche sporadico ricordo a livello lirico, dal dubbio contenuto intellettuale. Tuttavia la produzione patinata punta tutto su una compressione totale che enfatizza gli stop'n'go e l'impulso ritmico, che contribuisce a conferire un minimo interesse al disco. Alla fine, questo debutto per il quintetto di Järvenpää altro non è che una prima prova che dimostra che per il momento, i bad boys finnici hanno appreso bene la lezione e l'hanno replicato perfettamente le band capostipite del genere. Non c'è nulla di sbagliato in 'Rise', né fuori posto, se non una palese difficoltà nel far trasparire una ben definita personalità, che in un prossimo album, auspico possa emergere ben più forte. Avanti, ma con più coraggio. (Kent)

(Kuri Records - 2015)
Voto: 60

mercoledì 25 novembre 2015

Навь/ Deathmoor – De Morte Peccati ad Mortem

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Un bel titolo in latino per accomunare in uno split cd, due interessanti realtà estreme provenienti dalla Russia, in un album uscito nel 2014 per la S.N.D. Production. Le prime tre tracce di 'De Morte Peccati ad Mortem' sono affidate agli Навь, illustre quanto veterana black metal band, attiva addirittura dal 1996 con una numerosa serie lavori alle spalle, che propone un metal oscuro ed estremo, pieno di carica ed energia, non per forza di cose spinto all'eccesso verso le tenebre ma con una vena di puro metallo freddo, tagliente e filtrante che affila le sue armi nella tecnica e in una velocità di esecuzione fatta da riff travolgenti di matrice thrash mittle-europea, e da un sound definito, ricercato e violento al punto giusto, dosato e ben calibrato. Nota speciale per il secondo brano dal titolo "Незримое прикосновение к бездне и смерти" che merita veramente un ascolto più prolungato e attento. Le successive due lunghe tracce chiudono lo split cd, presentando un'altra longeva e attivissima band russa denominata Deathmoor. Attivi sin dal 1999 con ben quattro full length alle spalle (di cui l'ultimo 'Actus Sacrophagia Mortem' in uscita fra qualche giorno), il quartetto di Stavropol ci mostra come lo stesso genere possa avere tante sfumature diverse al suo interno. I Deathmoor suonano un black violento e veloce che spinge le proprie ambizioni verso l'avanguardia di casa Bethlehem, Behexen o Dødheimsgard, aumentando il lato più psichedelico e noise delle dilatate composizioni, ed esponendo, con ottimi risultati, un suono ostico, estremo, teatrale e drammatico. Due tracce di sicuro effetto ma "В потоках сентябрьских ливней", la prima, offre un biglietto da visita non indifferente. Avvolto in una grafica particolare ed insolita, artisticamente ben curata e dal gusto vagamente indie, questo split cd può soddisfare le aspettative di un pubblico esigente e ricercatore di nuovi confini sonori estremi. Due band che si confermano in ottima forma! L'ascolto è consigliato! (Bob Stoner)

(S.N.D. Production - 2014)
Voto: 70

lunedì 23 novembre 2015

Foret d'Orient - Venetia

#PER CHI AMA: Black/Death Mediterraneo, Janvs
Venezia: oggi forse la città più famosa al mondo, in passato simbolo di raffinatezza nel XVIII secolo, città assoluta padrona dei mari ai tempi delle Repubbliche Marinare. Oggi Venezia viene celebrata dai Foret d'Orient, figli orgogliosi di quella leggendaria terra di Dogi, abili marinai, grandi artisti e commercianti. 'Venetia' è il titolo appunto del full length di debutto del quartetto di amici che abbiamo già avuto modo di conoscere con il loro EP, 'Essedvm' e anche dal vivo in una intervista radiofonica. I Foret d'Orient tornano con un sound un po' rinnovato rispetto agli esordi. Levatisi di torno l'aura magica che ricordava i Nihili Locus, oggi, con una maggior consapevolezza nei propri mezzi, il quartetto veneto propone sette tracce che probabilmente appariranno di primo acchito, meno ricercate che in passato, ove il sound era ancorato a un black atmosferico a tratti barocco. Ascoltando "A Reitia", la traccia dedicata a una divinità venerata dagli antichi Veneti, ci troviamo di fronte un sound più secco, che potrebbe richiamare gli Janvs o gli Spite Extreme Wing, anche se a differenza delle band di Matteo Barelli, la componente mediterranea qui si conferma assai presente nella matrice musicale dei nostri, grazie alla presenza dell'arpa di Sonia Dainese, che riesce a dare alla musica dell'ensemble veneziano più ampio respiro, grazie alle sue suggestive orchestrazioni. "Dal Mare alla Terra" ha un selvaggio attacco black su cui si stagliano le mastodontiche e cavernose vocals di Roberto Catto che esaltano, ovviamente, la grandezza della Repubblica di San Marco. La ritmica è convulsa, largo spazio viene lasciato al basso di Marco Barolo e al drumming funambolico di Emiliano Rigon. Pregevole l'assolo di Marino De Angeli, che non è invece un membro ufficiale della band, pur avendo suonato tutte le chitarre sul disco. Con "Lepanto", i nostri celebrano la battaglia navale omonima che vide opposte le flotte dell'impero Ottomano a quelle Cristiane (costituite da spagnoli, veneziani, genovesi e forze dello Stato Pontificio). La song è una descrizione, ovviamente in italiano (come tutto il disco d'altro canto), di quelle ore di violenza in cui il Leone di Venezia si distinse per la forza delle sue galee che diedero la vittoria alla coalizione cristiana. La musica sembra seguire la descrizione di quegli eventi in un saliscendi emozionale tra ruggiti di chitarra, arpeggi e delicati tocchi di pianoforte. "Sogno de Vis" è una splendida song che vede la presenza di una forte componente sinfonico barocca al suo interno, ove sembra di essere d'improvviso immersi in suoni del '700 con tanto di spinetta e archi. La traccia narra poi le vicende dell'isola di Lissa, che faceva parte della Repubblica di Venezia ma dopo la Seconda Guerra Mondiale, venne invece inglobata nella Jugoslavia. "Dominio da Mar" è dirompente nella sua serratissima ritmica ammorbidita da delicati tocchi di arpa e da uno splendido break centrale in cui compare come guest vocalist, l'epico e "arcturiano" Luca Grandinetti dei Fearbringer (in realtà presente in 4 tracce su 7). La band si muove qui (e negli altri pezzi) in frequenti cambi ritmici assai tecnici, di cui vorrei sottolineare ancora una volta l'importanza affidata al basso metallico di Marco. Il gran finale è una splendida sorpresa, affidata com'è ad "Adagio in Sol Minore", un pezzo famosissimo del compositore veneziano Tomaso Albinoni (noto per essere stata colonna sonora di film, o la base di in un vecchio brano di Mina, musica per cartoni animati o videogames). Il risultato, qui riarrangiato da Antarktica con le parti di arpa suonate dalla brava Sonia, è semplicemente da applausi, da pelle d'oca. Insomma 'Venetia' è un inno all'immenso patrimonio culturale di Venezia, alle sue tradizioni e al suo popolo che si sente (giustamente) fiero delle proprie origini. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 80

domenica 22 novembre 2015

Wovoka - Saros

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal, Cult of Luna, Neurosis
È un vero peccato constatare che molto spesso in Italia non viene dato risalto a certe band dell'underground che meriterebbero invece tutta la vostra attenzione. Ecco, i los angeliani Wovoka sono una di quelle band da tenere sott'occhio, per cui un ascolto è il minimo pegno da pagare per non lasciarvi sfuggire una band dalle potenzialità assai interessanti. Certo non saremo al cospetto di una proposta cosi innovativa, però considerato che i nostri vengono da Los Angeles, città che non è certo la culla del post metal, converrete con me che i Wovoka alla fine ne escono parecchio fortificati nella loro immagine. 'Saros' è un disco infatti di post-qualcosa, se non era ancora abbastanza chiaro, che se fosse stato concepito qualche centinaio di miglia più a nord di L.A., si sarebbe gridato al miracolo per la nascita di un'altra band geniale partorita nella baia di San Francisco. E invece i nostri quattro cavalieri dell'apocalisse se ne fottono di tutto e tutti, rilasciano queste sette tracce che partendo da "Chosen" fino alla conclusiva "Eclipse", sapranno tenere alta la tensione di chi ascolta. L'opening track impressiona per la robustezza del suo riffing nonchè per il catarroso screaming dei suoi vocalist. Poi l'incedere lento e profondo fa il resto, con le chitarre che disegnano una linea melodica convincente, su cui si stagliano i vocioni del duo formato da Eric e Cody, mentre le (loro stesse) chitarre giocano a creare atmosfere plumbee e catastrofiche, degne dei migliori Neurosis. Fighi, devo ammetterlo. Ma anche parecchio malinconici e forse proprio in questo risiede la godibilità e accessibilità a 'Saros'. "Lament" ne è la dimostrazione: una triste linea melodica in sottofondo con chorus annesso e poi ecco smarcarsi un approccio sonoro che affonda le proprie radici nel post rock e nel modo di interpretare il genere da parte dei Cult of Luna. Nel break centrale i nostri divengono ancor più goduriosi, sfoderado accanto a riffoni tipicamente sludge, tenebrose aperture atmosferiche. Un urlo disumano mette a soqquadro l'inizio di "The Sight", song che vorrei ricordare più che altro per le sue minacciose atmosfere nella parte centrale e per un lungo epilogo ambient/noise. "Trials" apre con un ipnotico giro di chitarre e sopra di nuovo l'urlo disperato di uno dei due frontman. Il sound, estremamente ritmato, diventa man mano più claustrofobico inabissandosi in uno sludge contorto e catartico, che vive di forti rallentamenti alternati a delle crushing chitarre davvero schiacciasassi. "Sleep Eater" mette in mostra un mastodontico riffone iniziale, a cavallo tra stoner e post metal, poi un riffing quasi marziale, cede la scena alle abrasive voci del combo californiano. Interessante dopo il break ambient centrale, la comparsa di vocals pulite in sottofondo che aumentano il mio grado di interesse per un album già di per sé buono. Con "Prayer", i Wovoka si spingono oltre, in territori più sperimentali, con uno strumentale ambient minimal noise, che ci conduce alla conclusiva "Eclipse". Siamo cosi arrivati all'ultima traccia di questo 'Saros', una song che sfiora i 14 minuti di durata, e con una manciata di minuti iniziali affidati a quella che è una chitarra ma somiglia di più al ronzare del battito d'ali di una fastidiosa zanzara. La band poi torna a sprofondare nell'abisso di uno sludge parecchio melmoso, quasi al confine con il funeral, segno tangibile che i nostri si trovano a proprio agio anche a sguazzare nel fango più putrido. La song trova poi una propria strada e prosegue sui binari del post/sludge di matrice svedese, con un sound di impatto, ma sempre emozionale, prima di un catacombale e nefasto epilogo di totale assenza di luce. Los Angeles 2015: il sole si è oscurato per colpa dei Wovoka. (Francesco Scarci)

(Battleground Records - 2015)
Voto: 80

Omertà - Crown of Seven

#PER CHI AMA: Stoner Rock/Alternative, Motorpsycho, Karma to Burn
Gli Omertà, a dispetto del significato del loro moniker nella lingua italiana, sanno come fare rumore, vogliono farsi sentire, deliziare le orecchie di chi ascolta e mostrare le loro grandi doti musicali. Gli Omertà, sebbene il nome latino, arrivano da Riga capitale della Lettonia, sono giovani e nel 2015 hanno fatto uscire un album tutto da ascoltare. 'Crown of Seven' è un disco interamente strumentale e consta, ovviamente, di sette brani funambolici guidati da un chitarrista (Renars Lazda) pieno di risorse e capacità da vendere. La chitarra è l'assoluta protagonista in ogni brano, lanciandosi in spericolate acrobazie sonore che prendono spunto dallo stoner dei Karma to Burn, da certo metal stile ultimi Megadeth, e da strutture noise rock alla Steve Albini, con una matrice dura ma inevitabilmente magnetica e cinematica. Il suono, potente ed equilibrato, è ben supportato dalla sezione ritmica che vede in Eduard Bekeris al basso ed Einars Latisevs alla batteria, gli altri due elementi che completano il trio, e si muove possente tra le mille influenze della band, tra echi di moderno blues alla Firebird e cavalcate stoner, assoli sparsi ovunque, alta velocità di esecuzione e una propensione per brani lunghi con evoluzioni in senso progressivo e pesantezza alla maniera dei già citati Karma to Burn, con un che, a livello di tiro, comparabile ai Black Tusk, immaginandoli senza parti cantate. Proprio l'assenza di parti cantate confina gli Omertà in territori in cui si trovano band appetibili solo da intenditori e da chi è alla ricerca di ascolti impegnativi. Detto questo potrei aggiungere che l'album, anche se godibilissimo all'ascolto, risulta per la tanta tecnica esposta, assai sofisticato e necessita di vari passaggi per essere apprezzato a fondo. Fin dalle prime battute del disco si nota comunque, a livello compositivo, una buona dose di personalità, ma va ascoltato attentamente. Prodotto in maniera praticamente perfetta, il sound saltella qua e là tra metal, noise e stoner rock, con una miriade di riff granitici, moderni ed intelligenti, una strana dose adrenalinica di post rock e, dopo averli visti live su youtube (andateveli a cercare), mi rendo conto che dentro la musica degli Omertà si nascondono tracce di una band leggendaria che spesso si tende a dimenticare, i Motorpsycho (quelli di 'Feedtime in Demon Box', per intenderci). Questa band, dall'approccio metal molto easy e alternativo, merita molto rispetto e il loro 'Crown of Seven' è alla fine un'ottima medicina per curare la mia costante voglia di musica nuova. Da non perdere! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 80

sabato 21 novembre 2015

Agony Divine - March of the Divine

#FOR FANS OF: Thrash/Death, Vader
While it may not be the most enjoyable variation on the style, this decent enough mixture of Death Metal and rocking, punk-ish Thrash is certainly enough to make for an entertaining diversion if necessary. The simplistic tone of the material here is quite apparent, usually relying on two or three rousing mid-tempo riffs with a lot of sprawling Grunge-sounding sections that just sound like directionless masses of chords and rhythms without really doing a whole lot to really align itself one way or another into either genre with plenty of consistent marks here as there’s a lot more alternative work throughout here with these sprawling, noisy sections and far more insistent use of clean vocals than either genre readily accompanies. The riffing is simple Death Metal-styled rhythms and patterns played at mid-tempo Thrash-like force while offering up sprawling sections that don’t really seem connected either way around which makes for a disjointed work here with these thrashy rhythms and hard-charging riffs being quite enjoyable only for the slower, plodding efforts to really make no sense and seem somewhat out-of-place here. Though nothing is really a detriment in itself, it’s really more the jarring way they come in that makes this somewhat stand-out, and against the simplistic nature of the rest of the material is really what makes it stick. Otherwise there’s a somewhat decent effort here. Intro ‘Heaven's Hive’ is a nice little bit of cheerful singing and apocalyptic war-noises coming together to lead into ‘False Hope’ taking a raging riff with plenty of intense tremolo rhythms thrashing into the rather charging mid-tempo section which offers plenty of furious leads and dynamic rhythms that carries on throughout here for an impressive opener. The title track gets a droning intro with a stuttering start/stop rhythm that carries a rocking punkish feel to the loose rhythms and near spoken vocals that follow along a series of bland riff-work before kicking back into full throttle rhythms into the later half which is much more enjoyable than what came before. ‘Streets of Terror’ goes charging through a much more energetic pace with some punk-ish thrashing rhythms and a dynamic bit of drum-blasts that are fine enough for the diversionary riffing to again crop up that sounds quite out-of-place on the more thrashing material elsewhere here. The blaring blasts of ‘No Forgiveness’ turn into a raucous thrashy mixture which is quite adept at holding the other elements at bay with the rather furious tempo kept up throughout here as the tempo shifts are off-set with the hard-charging riffs and pounding drumming that makes this one of the most consistent and enjoyable efforts. ‘Denial’ brings some intensity as well with a wieldy intro that delves into a solid mid-tempo crunch that manages to stay within the same pretty consistent approach elsewhere and doesn’t really stand out all that much from the others here. ‘Manipulation’ offers some impressive tremolo rhythms and rocking tempos bringing along some thoroughly rousing energy along the way with the most explosive riff and plenty of pounding drumming that makes for another fine highlight here. ‘Stained With Grief’ brings a rather mid-tempo choppy rhythms that settles out into another raucous series of rhythms that’s continued throughout here quite nicely with the additional running time here allowing this one to get more enjoyable as it carries on. ‘Wither’ offers a rather tired mid-tempo chug throughout the simplistic series of mid-range sprawling riffs that keep the charging riff-work confined to the second half with a sense of blandness that doesn’t overcome the first half which keeps this one down significantly. The ‘Bonus’ song here is a thoroughly confusing sing-a-long chant that doesn’t seem the slightest bit interesting on a Death Metal record and there’s little about it that’s appealing, leaving for a bad taste overall. While this isn’t the greatest first impression made as this is just too flawed to be much better than this decent-enough tag it has, there’s certainly room for improvement here. (Don Anelli)

giovedì 19 novembre 2015

Below a Silent Sky - Corrosion

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale, Long Distance Calling
Quando cerchi un posto su Google Maps, e le foto del luogo ritraggono per lo piú fabbriche e condomini, occasionalmente qualche distesa di alberi ordinati e ricoperti di neve, probabilmente quel luogo non è il posto piú divertente del mondo. Ilmenau, posizionata piú o meno nel centro esatto della Germania, e ugualmente lontana da ogni grande città, si cinfigura un po’ cosí. E se sei un ragazzo, ad Ilmenau, una delle opzioni che hai per movimentare le tue giornate, è sicuramente quella di chiuderti in una cantina, provare ad alzare il volume degli amplificatori e vedere l’effetto che fa. I Below a Silent Sky sono quattro giovanotti che pubblicano il loro esordio in totale autoproduzione, dal semplice titolo, 'Corrosion', un prodotto che si presenta bene nell’elegante digipack dall’immaginario vagamente fantasy. Il contenuto poi è un post metal strumentale che, pur non brillando per originalità, è suonato con passione e sincerità. Si sente che i quattro ci credono e in queste sei tracce c’è tanta voglia di fare per cui riesce a passare anche una discreta dose di emotività, dettata peraltro da momenti atmosferici e fughe post rock, anche se sinceramente non si puó dire che le loro evoluzioni si facciano ricordare per qualcosa di cosi particolare. Pur ristagnando all’interno di un genere ormai ben codificato e ricco di clichè, in questi brani ci sono buoni spunti (pezzi come “Sulfur”, o le due parti di “The Flood”), una discreta dose di potenza e una capacità compositiva mai banale. Se non altro si evita il rischio della noia dovuta a una certa prolissità (legata alle durate medio lunghe delle song), ma c’è ancora parecchia strada da fare, e forse è necessario fare un po’ di chiarezza su quale sia la direzione da intraprendere, e accelerare con decisione in quella direzione, qualunque essa sia. Sarà sicuramente meglio che rimanere intrappolati in un guado che non porta da nessuna parte e che inoltre è decisamente già troppo affollato. (Mauro Catena)