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domenica 7 ottobre 2018

Interview with Nagaarum


Follow this link to know much more about the Hungarian one-man-band Nagaarum, that was able to produce 17 releases in 7 years:



Deadline - Nothing Beside Remains

#PER CHI AMA: Hard Rock, Whitesnake
I rockers francesi Deadline tornano alla carica con la loro terza pubblicazione, uscita quest’anno e intitolata 'Nothing Beside Remains'. Il gangster ritratto in copertina preannuncia la linea tematica del disco, che si snoda fra 12 tracce basate su altrettante storie, oscure e criptiche, da vero romanzo giallo. Quello che ci aspetta all’interno di quest’album è un rock solido, duro e puro, pregno di richiami stilistici a mostri sacri come ad esempio Whitesnake, Ronnie James Dio, Warrant, che si notano decisamente influenzare il sound molto chitarroso della band. Sonorità decisamente americanizzate (nonostante la provenienza europea dei nostri) si articolano su uno spregiudicato 4/4, scandito da un lineare ed imperturbabile drumming. Un discreto lavoro nel complesso, che si fonda certamente sulla passione dell’ensemble per il buon vecchio hard rock, quello sporco, privo di compromessi. Le chitarre di Gabriel Lect e Chris Gatter lavorano incessantemente fra riffoni prepotenti e fraseggi più ricamati, piazzandoci anche qualche notevole assolo e tecnicismo. Molto pregevole per esempio, quello concatenato nel brano "Silent Tears", che fra l’altro è un tributo ai tragici avvenimenti di novembre 2015 a Parigi, la famigerata strage del Bataclan. Altri pezzi da segnalare, l’opener "Devil’s in the Details" o anche "Fly Trap" con delle buone parti strumentali. Si sente dunque quanto i Deadline sappiano muoversi bene sul loro terreno, quello dal sound dritto e sparato, ma bisogna spingersi un po’ più in là con la navigazione, abbandonare le “placide” acque dell’hard rock per poter dar vita a qualcosa di davvero memorabile. Questa terza fatica dei rockettari d’oltralpe, infatti, per quanto risulti ben suonata ed appassionata, finisce un po’ nel calderone del genere, senza riuscire ad esprimere qualcosa di realmente degno di nota… Attendiamo novità che ci possano stupire! (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Bad Reputation - 2018)
Voto: 65

https://www.deadlinehardrock.com/

Aeolian - Silent Witness

#PER CHI AMA: Folk/Death/Black, Amorphis, Insomnium
Siete fan dei Dark Tranquillity, degli In Flames o forse degli Opeth? Avete detto che vi piacciono anche Dissection, Amon Amarth e Amorphis? Siete incontentabili, ma anche tanto fortunati perché oggi arrivano in vostro aiuto i maiorchini Aeolian, che convogliano tutte le influenze di cui sopra, in questo interessante 'Silent Witness', un concentrato di death black folk assai melodico. L'incipit è da urlo visto che "Immensity" ingloba un po' tutte le band citate con una certa eleganza che si concretizza in ottime linee di chitarra, pregevoli growling vocals e assoli da paura che valgono da soli il prezzo del cd. Le melodie folkish a la Amorphis o nella vena dei primissimi In Flames, si materializzano in "The End of Ice", song assai matura che vede sul finale esplodere un altro brillante assolo con dei vocalizzi epici davvero intriganti. Insomma, ci siamo già capiti, a me quest'album mi prende e non poco. Un rifferama stile Nevermore irrompe in "Chimera", un bel pezzone thrash che mi ha rievocato una sfortunata ma altrettanto brava band di fine anni '80, gli Anacrusis, votati ad un thrash progressivo veramente speciale. Questa song ha echi di quell'ensemble, anche se poi ovviamente i nostri nuovi eroi di Palma di Mallorca prendono una strada differente che ammicca anche agli Insomnium. Tanti i punti di forza dell'album per cui eviterei un track by track per soffermarmi invece su quei brani che più mi hanno sconfinferato, a partire dall'intro acustica di "Return of the Wolf King" e da una traccia che segue i dettami degli Amorphis in modo piuttosto personale, coniugando il folk con intemperanze black e divagazioni prog. Bravi, ben fatto. Se l'inizio devastante di "Going to Extinction" mi ha ricordato, per quel suo urlaccio, i Cradle of Filth, la song comunque conferma quanto di buono ascoltato sin qui. Ancora un bel folkish thrash death con "Elysium", cosi come entusiasmante è l'altra intro austica di "Wardens of the Sea" che con il esotismo, evoca gli Orphaned Land, per poi tramutarsi in una più normale canzone death, sicuramente carica di un buon groove. "The Awakening" è la classica quiete prima della tempesta scatenata da "Black Storm", dirompente blackish song tra incessanti ritmiche tiratissime e splendide melodie. Ci sono ancora un paio di brani ad attendervi per il gran finale dove a mettersi in luce sono le ottime linee di basso e un sound che strizza l'occhiolino agli Opeth ("Witness") e in parte ai Cradle of Filth ("Oryx"), per quel suo screaming che si alterna con tutte le linee vocali sin qui godute, in una song oscura ma parecchio variegata. Diavolo, mi ero detto di evitarmi il track by track, ma ci sono cascato in pieno e allora visto che ho saltato solo "My Stripes in Sadness", sappiate che si tratta di un buon brano che vede una rilettura da parte del quintetto delle Baleari, degli insegnamenti degli Insomnium. Alla fine che dire, se non che 'Silent Witness' è un lavoro ben fatto, ben curato, ottimamente prodotto (ma qui c'è lo zampino di Miguel A. Riutort Cryptopsy, Hirax e The Agonist), di cui ne posso solo fortemente consigliare l'ascolto. (Francesco Scarci)

(Snow Wave - 2018)

venerdì 5 ottobre 2018

I Fiori di Mandy - Carne

#PER CHI AMA: Alternative Rock, Afterhours
In qualche modo oggi si parla di Sardegna, precisamente di Oristano, terra affascinante, popolata da persone con idee chiare e tanta forza per portarle avanti. I Fiori di Mandy rispecchiano questa filosofia a livello musicale e credendo nel loro progetto, sono arrivati al secondo EP 'Carne', dopo solo due anni di intensa attività artistica. Il power trio, nonostante la giovane età, affonda a piene mani nel background italiano che ha visto Timoria, Afterhours e Marlene Kuntz maggiori interpreti di due decenni di rock intenso ed emozionale. "Karter" è l'esempio lampante, ove i tre strumenti del rock, lavorano gomito a gomito in una composizione semplice e rabbiosa che vede la chitarra e la suadente voce di Edoardo protagonisti di una ballad struggente. Accordi puliti, basso pulsante e batteria minimale accompagnano un testo dalle pieghe oscure che aspetta il momento giusto per esplodere ed urlare di rabbia. I Fiori di Mandy cambiano faccia invece con "In Virtù del Piovere", pezzo di quasi sei minuti che si destreggia tra la ritmica in levare del buon Raffaele e il basso funky di Luigi, uno spunto per buttarsi in un ballo liberatorio ad invocare la pioggia che lava e purifica l'anima. Il break centrale spezza il ritmo, ci porta nella dimensione psichedelica della band caratterizzata, dall'immancabile vena oscura e introspettiva che caratterizza le band sopra citate. Dopo "Invadere", altro brano energico e veloce, la band si sposta su melodie e ritmiche più lente e cupe, dove vita, amore e morte si susseguono in un vortice cupo al limite della dark wave. Agnelli, Godano & co. hanno segnato, nel bene e nel male, il rock italiano e le band/cantautori che li hanno solamente emulati non hanno fatto molta strada. I Fiori di Mandy cercano una loro identità, a volte convincono trasmettendo quello che hanno dentro, attraverso arrangiamenti ridotti all'osso per far emergere i testi ed il cantato, in altre occasioni sembrano vagare senza meta per gran parte del brano. Se si sceglie la strada dell'immediatezza sarebbe più efficace tagliare gli eccessi e puntare sulla sostanza che il trio sardo ha a disposizione, deve solo indirizzare meglio e centrare il cuore di chi ascolta. (Michele Montanari)

giovedì 4 ottobre 2018

Chorosia - S/t

#FOR FANS OF: Sludge/Psych Doom
Vienna represents, probably second only to Berlin, the European electronic music’s fulcrum. Every night, waves of hopeless people are melting in clubs and the offer of these synthetic rooms is practically unlimited. In a city where techno expresses his sovereignity, a band named Chorosia makes his debut with a 53 minutes album full of hope for the metal scene. The work appears even too sophisticated to be a self-production, these guys indeed entirely wrote, produced and mastered the album and, most of all, released it free from labels: everything sounds definitely way far from a rudimentary project. Hoarse voices are kneaded to hypnotic riffs and elegant arpeggios, the first track introduces clearly Chorosia’s mission: "Priestess of Doom", what else better than a female holy guide to attract new masses and redeem Vienna from his sins? The peak of the album can be identified in the tracks "The Lurking Fear", followed by "Harm", a deep navigation between strenght and harmony. This tracks duetto expresses, in my opinion, what this Austrian ensemble is, aka a living oxymoron: an expert rookie band (they formed in 2017) spreading profound vibrations in a city intoxicated by daw-music and hit hats. Chorosia’s self titled album alternates frenetic rides to slow, profound and introspective moments of decadence, the instrument’s union doesn’t clash for a single second and produces a monolithic result. The rythm choices are surprising and never step into banality, covering practically the entire spectrum of the doom and sludge style. "Place of Planes", the bottom track, is pure chocolate for the lovers of the genre, the perfect conclusion of this outset album: it burns like a fire coming from a rocket ready to be launched. The last seconds of Chorosia is a foggy glaze to a brillant future, what actually this band deserves, no doubt about it. (Pietro Cavalcaselle)

Endarken - Tvoj Je Hram U Srcu Mom

#PER CHI AMA: Black Old School, Darkthrone, Gorgoroth
La fiamma nera brucia che è un piacere in tutte le parti del globo. Il black metal degli Endarken arriva quest'oggi dalla Serbia, grazie al duo formato da Nekrst e N.P.V., due musicisti già ampiamente inseriti nel circuito underground serbo con diverse altre band (Khargash, Paimonia, Samrt). Con gli Endarken probabilmente danno sfogo al loro lato più primitivo, evocando un che dei Darkthrone. Non fatevi però ingannare dall'opener "Šta Vrede Oči Kada Um Je Slep", cruda e veloce nel suo incedere nero come la pece, ma anche melodica nella sua parte centrale. I richiami a Fenriz e Nocturno Culto ci sono indubbiamente, cosi come ai Gorgoroth, però nella proposta maligna degli Endarken ci sento anche un che di magico, nonostante quelle iper veloci ritmiche deflagranti. La band affonda come ovvio che sia, le mani nel tradizionale riffing norvegese di primi anni '90 che vedeva incontrarsi il black col punk thrash, e pertanto non aspettatevi una ventata d'aria fresca; tuttavia devo ammettere che la seconda song, nonchè title track, avrà modo di regalare qualche sorpresa grazie ad un approccio esoterico-tribale, che smuove di certo il mio interesse. La furia divampa in "Alfa I Omega", song più lineare nella sua proposta black thrash, guidata dalle harsh vocals di Nekrst, vero factotum dell'ensemble originario di Apatin. La song nel finale trova modo di esprimere anche una sorta di death/post black che mi consente di mantenere costante la mia attenzione. L'inizio di "Oda Njemu" è più influenzato dalle melodie sghembe a la Deathspell Omega, in una song mid-tempo, ricca in melodia, ove interessante si dimostra anche la componente solistica di questa traccia che ho immediatamente candidato a mia song preferita. Suoni ben bilanciati, voce arcigna ma intellegibile, atmosfere cupe, liriche legate a Satana e compagnia ed una bella sfuriata conclusiva che non guasta mai. Ben fatto, c'è da essere fiduciosi per il proseguio, che non delude neppure nelle terminali "The Old Ones Awakening" (l'unica traccia cantata in inglese) e "Ja, Sve I Svja". Malinconica ma ficcante la prima, ed è strano visto che il tema rimane a sfondo satanico, più roboante l'approccio ritmico della seconda, ma decisamente ricca di groove, che mi pare quasi una bestemmia visto il genere, ma che mi permette di concludere, chiedendovi di dare una chance a questi due musicisti che hanno rivisto il black metal in una chiave decisamente più moderna e con risultati più che discreti. Ecco, se solo ci evitassimo il clichè legato al buon vecchio Satana, credo che si potrebbero far notare maggiormente. (Francesco Scarci)

(Blackest Ink Recordings - 2018)
Voto: 70

https://endarken.bandcamp.com/releases

mercoledì 3 ottobre 2018

Into Eternity - The Sirens

#FOR FANS OF: Melo Death Metal
Debuting its first full-length in a decade, Into Eternity arrives with a vengeance devastating body and mind, triumphing over bitter frosts and radioactive winds alike. As riffs exert themselves across expansive metric swaths, a massive sound aggressively erupts below in tireless blasting and crisp precision. This Saskatchewan quintet brings such a palpable zeal to the opening half of 'The Sirens' that it becomes impossible not to be swept up by the metal trope of screaming into the swirl of a tornado. That is, until the tropes themselves become all too apparent.

The silence behind the opening riff to the album, turning a title track from an isolated classical scale into a willful wail of animated bedlam sets off a series of intense songs that crash like waves against rocks, drawing in fleets with beautiful harmonies until the gravity smashes their cedars and grinds them into the clouds of silt billowing below the black waters. Into Eternity has a knack for lulling a listener into its accessible moments before bewildering them with the death metal intensity buffeting each melody, Homer would be proud. In this vein, with male gutturals and clean vocals from Tim Roth (guitars) and Troy Bleich (bass) joining shrieks and clean singing from Amanda Kiernan, the band has mastered its multi-tiered assault on the senses with drastic and expressive changes that build layers of emotional gravity to the band's overall tone to consistently deliver a gorgeous treble end and spread it across an unrelenting backdrop.

Sure to be crowd pleasers, the straightforward rampage that is “The Fringes of Psychosis” with its very hummable rising chorus, the blossoming solo in “This Frozen Hell” with the persistence and elegance of myriad snowflakes forming rising drifts, and the quick-paced whirl of “Sandstorm” that sweeps in like a whirl of leaves in autumn and dissipates in fewer than four minutes make for an almost perfect first half, worthy of shining as its own EP. Carnage abounds as the snare rattles, beating each meandering riff that strives to squeeze every bit of nectar out of its nuanced noodly notation. Choruses ring out with electric resonance and create sensational leaps of the heart. Though three of these first four songs average about seven minutes apiece, “Sandstorm” is not only an outlier in its brevity but also because it is actually a seven year old single. With the right delay, airy echo, and distortion, the guitar starting “Sandstorm” still opens with such a dopamine inducing deluge of fury that it seamlessly fits in this strong suit as its chorus wails out from the imposing clouds of percussion devastating the mix. Harnessing the fury of a blizzard, “This Frozen Hell” captures the disillusionment people easily have when confronting their treacherous surroundings. Saskatchewan sounds like a truly awful place to live, and the anger of the band at that massive province of only a million people gives rise to one of very few anthems for such an easily overlooked tundra in the center of Canada. Writing about what the band knows while balancing its destructive death metal gravity with NWOBHM theatrics creates incredibly catchy and fantastically hooking songs, a first half worthy of praise and sure to satisfy the devotion of many a fan.

Simultaneously denoting a turn to weakness as well as a break in the basic formula, “Nowhere Near” is a song that shows Into Eternity stepping out of the cocoon it has built around its structure throughout 'The Sirens'. A simply gorgeous song, “Nowhere Near” opens with expressive clean vocals, a great distortion on Amanda Kiernan's voice in spite of her unnecessarily frying affectation, and acoustic guitar dances circles jigs to a beautiful riff with flying electric guitar sliding in and out. This is a drastic difference from the norm presented throughout this album, but a welcome one that shows a bit more nuance to a band preoccupied with pushing too obvious a format. As the song grows, involving the entire ensemble in its eventual return to form, a great drum rhythm comes in halfway through to give an unexpectedly funky bounce to the song, spiting what was a momentary build up to the blasting we all know so well and creatively using that subversion of expectation to make a memorable moment rise from an out of character song. The band plays off this well by turning it into a great harmony between male and female vocals, the backdrop properly punctuating it to give a deeper impact. However, Into Eternity hasn't totally forgotten the reason why the audience is here, and this fleeting Phil Collins aberration falls to the maelstrom that makes crowds headbang and mosh. The payoff, while another dose of the intensity that has become the expectation throughout the first half of the album, has become such a standard that it doesn't readily impress in spite of the immensity of the build towards such violence. Luckily a solo helps to enhance the requirement, but the reality has sunk in. 'The Sirens' has turned into a very by-the-numbers album, and the lifting of the illusion leads to more disappointment as the album spins.

Here the band begins its decline, losing its novelty along with its zeal and cheapening its tone along with its delivery. In an almost immediately disappointing turn at the halfway point of this fifty minute foray, so much of the previous quality of 'The Sirens' must strive to overcome the scattered bits of overwhelming awfulness reaching up from the waters and chaining it down by its burdensome rear end. Devouring itself it in is own sarcopenia as the band overstays its welcome in these aching spaces, the general songwriting formula becomes all too transparent by the end of the first half of the album just to continue without the flavor and fire that made it melt faces at the onset. The opening tone of “Devoured by Sarcopenia” is commercially derivative. With lame highs that echo without any punch, they only annoy as the harmonies lose the magnetism they once had and the song achieves the atrophy for which it is named. Eventually, the guitars find that classical notation again, fighting against the decay, and utilize it well to give a bit of technique to the song, but its chorus is another inanimate repetition. Where Into Eternity could tier its choruses, add another layer of nuance to its music, and make memorable a bit of challenge to its own conventions, the band reprises the basic formula of worming a harmony into an ear with a sixth song on the album that repeats its title ad nauseum for a chorus.

Even so, “Devoured by Sarcopenia” is excusable. “Fukushima” simply isn't. Another single from yesteryear, this time only six years old and just as irrelevant in a brand new album, the opening is the sort of concentrated cringe that strips corpse paint from even the most zealous pizza face. If you don't make an involuntary noise of disgust when hearing that awfully sappy, obnoxiously echoey, horribly crisp combination belting out “the candles were lit for the dead (the dead), Fukushima” you have such a high tolerance for cringe that you may as well write for The Big Bang Theory because this kind of showboating is just up your alley in order to stomp on the pervasive talent that actually holds this album together. Atonal gutturals barely pronounce the title, wails that would make even a lesbian seagull cry for irradiated Easterners invade unlubricated into ear canals, and an ever-focused eye trained on the almighty dollar typify this transparent capitalization on a real world event, lest profit be forgotten. As music has always had great interest in ensuring -so succinctly put by All Shall Perish- “Better Living Through Catastrophe”, this hard and fast “We Are the World” isn't anything new or special, but boy is it annoying to hear the name of a quadrisyllabic Pacific prefecture belted out by Kiernan like she's Joni Mitchell saving the world by being skinned alive by a thousand feral cats. Metal is so well-known for focusing on tragedy and darkness, unfortunately the only tragedy in this cut is from the carcinogens released by its awful microwave dinner delivery.

As aesthetically focused as these complaints are, the instrumentation throughout 'The Sirens' makes even the most painful of moments worthwhile. The balance of beautiful guitars, rapid blasts that uphold the extreme aspect of melodic death metal, and tight deliveries all around keep this album exciting and inspiring in spite of those moments that lose that veneer. An experienced and lauded outfit, Into Eternity shows its strengths so well that they become standard to its songwriting style. Still, this album feels more like a NWOBHM band pushing a death metal gimmick rather than a melodic death metal band with the history that this group has. Granted, Into Eternity tries its own thing rather than reprising the overtly masculine themes of Amon Amarth or the Gothenburg style of At the Gates, but its maelstrom is quick to languish in its momentum, resting on gimmicky themes and tropes rather than running away with inspiration and thriving.

Picking along its depressive riff and surrounded by delicate violins, “The Scattering of Ashes” redeems “Fukushima” and brings 'The Sirens' to an alluring close. The symmetry presented throughout Into Eternity's return is found throughout the meat of the album with such a focus on maintaining structure against all odds, and sometimes against unique ideas, that the album holds itself back in places by dulling its edge in favor of planting itself into memory as a band replete with basic and catchy choruses. Still, the maelstrom from which the vocals and harmonies claw is daunting and terrific, ensuring a palpable, consistent to a fault, and overall awesome experience. Into Eternity has honed and sharpened some of its most impactful aesthetics, hopefully the overall structure can be renovated and modernized as well to allow this band to survive Saskatchewan for the next decades. (Five_Nails)
 

Briganti Sabini - Remusicando

#PER CHI AMA: Folk Rock
Che sia il rocksteady filo-mariachi provvisto di variopinte pennellate di flamenco della introduttiva "Il Brigante", oppure il latin-rock torso-nudo-panciotto-e-dito-medio di "Internet.te" (il panciotto appartiene agli Heroes del Silencio, il dito medio alla mano destra di Cabo dei Litfiba anni '00). Che sia il polka-reggae del singolo "Cammino Lento", una specie di Vinicio Capossela sulle striscie pedonali di Novosibirsk, il folk-eminentemente-autoriale-e-aromaticamente-prog di "Generale" (immaginatevi una Premiata Forneria Marconi da qualche tempo bazzicata da poco raccomandabili Mercanti di Liquori). Che sia la roman-polka lalleggiante di "Che Vai Cercanno" (in un baraccio di Yerevan Serj Tankian pianta un chiodo sul Muro del Canto), o, piuttosto, il modena-city-prog de "La Guerra", beh, la soffi/patchanka dei Briganti Sabini suona come una sorta folk sound-system popolano, immediato eppure liquidissimo e fervido di contaminazioni sonore. Mano Negra, ovviamamente, ma anche, oltre ai summenzionati, Après la Classe, Gogol Bordello, Angelo Branduardi, 24 Grana. Eccetera etcetera et cetera. (Alberto Calorosi)

(Areasonica Records - 2018)
Voto: 60

https://www.facebook.com/BrigantiSabini/

martedì 2 ottobre 2018

Dymna Lotva - Палын

#PER CHI AMA: Black Doom/Depressive
Il disastro di Černobyl' ebbe luogo il 26 aprile 1986 alle ore 1.23 circa, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, in Ucraina, ad una manciata di km dalla città di Pripyat e a pochi km dal confine con la Bielorussia. Quell'evento catastrofico sconvolse il mondo, visto che una nube radioattiva invase dapprima la vicina Bielorussia e poi centro-nord Europa e Nord America. Proprio di quella catastrofe rimasta impressa nella storia, ci narrano i ragazzi di Minsk nel loro 'Палын', album uscito sul finire del 2017 e arrivato da pochi giorni sulla mia scrivania. Solo trenta minuti a disposizione per il quartetto bielorusso per trasmetterci tutte le loro strazianti emozioni, iniziando da "Самотны чалавечы голас", dove una voce sembra voler raccontare i fatti legati a quell'esplosione, in un flusso di malinconico depressive doom. Il sound ha subito presa sui miei sensi, mi avvolge in tutta la sua drammaticità e mi conduce in quei luoghi, a oltre trent'anni da quel funesto episodio. Pripyat è una cittadina fantasma che prima del disastro contava 50.000 anime, oggi zero. E tutta quella sua desolazione si percepisce nelle note decadenti di piano di 'Прыпяць', il nome in cirillico della città. Case, edifici pubblici, scuole sono oramai in balia del tempo, nulla è rimasto come testimoniato da "Пакідаючы родныя дамы" (tradotto in "lasciando le case native"), una song che richiama gli svedesi Shining in una versione più edulcorata, ma in grado di evocare ambientazioni spettrali. E cosa meglio di un violino a suggestionarci, un violino dotato di un'aura sinistra che irrompe nella funerea e splendida title track, un piccolo gioiellino di black atmosferico che ci prepara all'angosciante interludio "Чарнобыль. Ненароджаны", un breve intermezzo noise dove tra un pianto di un nascituro mai nato e il suono di carillon, l'effetto è quello di generare un devastante nodo in gola. Il disco prosegue con "Одинокий человеческий голос" e le laceranti vocals del cantante, solitarie nel declamare, attraverso il convincente depressive black, alcuni passaggi del libro di Svetlana Alexievich, 'Preghiera per Černobyl'. Cronaca del futuro'. Il cd si chiude con "P.S. Пахаванне зямлі" e il funerale per questa terra celebrato da una voce femminile che duetta con lo screaming di Nokt in una song interessante ed estremamente melodica che chiude con somma rilevanza lo scorrere deprimente di 'Палын', album consigliatissimo ai più, non solo per la musica in esso racchiusa ma per i contenuti storici trascritti. (Francesco Scarci)

(Der Neue Weg Productions - 2017)
Voto: 80

https://dymnalotva.bandcamp.com/album/wormwood

lunedì 1 ottobre 2018

Руины вечности (Ruins of Eternity) - Шёпот забытых холмов

#PER CHI AMA: Death Doom
Faremo un'indigestione di band russe nelle prossime settimane, ve lo posso garantire. La band di oggi arriva da Krasnoyarsk, si chiamano Руины вечности, che traslato in inglese dal cirillico, corrisponderebbe a Ruins of Eternity, mentre 'Шёпот забытых холмов' (traducibile in italiano come "il sussurro delle colline dimenticate") rappresenta il debut album. La proposta della compagine russa, che consta di addirittura sette elementi (tra cui un sinistro violino), è un death doom robusto e feroce. Non basta infatti il bieco suono del violino ad incantare l'ascoltatore con le sue sghembe melodie, qui troverete anche un riffing brutale che spezza quella meravigliosa spettralità che trasuda già dall'opening track, "Будни войны" e che pervade l'intero lavoro. L'obliquo sound di quel magico strumento ad arco apre infatti anche la seconda traccia e, fintanto che riveste il ruolo di protagonista nell'economia della band, tutto va bene. Le cose cominciano a complicarsi e a farmi storcere il naso, quando i nostri vogliono a tutti i costi, mostrare il loro lato più muscoloso. E qui iniziano i dolori, perchè in una veste diversa dal gothic doom, i sette russi non sono poi cosi adatti, perdono quella magia che contraddistingue pezzi come "Брест" o "Кто будет первым?!". Per quanto possa anche essere interessante un esperimento in cui i Morbid Angel inseriscono dei violini nella loro matrice sonora, rimane il fatto che i Руины вечности non siano i Morbid Angel e che alla lunga la pesantezza del death rischi di stufare i fan di sonorità più ispirate ed orchestrali, considerato anche il fatto che la band si avvale delle classiche eteree voci femminili ("Танк"). E allora, ve lo chiedo ancora, immaginereste mai i Morbid Angel ricamare la loro musica con violini e soavi voci di gentil donzella? Io francamente faccio fatica, e pur apprezzando tutti i clichè tipici del genere, con violini e female vocals annesse, alla fine faccio fatica a scontrarmi col muro ostico ed invalicabile eretto dal team di sette strumentisti. Se devo scegliere una song che ho però apprezzato più delle altre, citerei "Победа для мёртвых" e sapete perchè? Mi ha rievocato il mitico 'Immense Intense Suspense' dei tulipani Phlebotomized, anche se con meno classe ed ispirazione. Diciamo che la band ha ancora parecchio da lavorare per snellire il proprio sound ancora troppo farraginoso, ed indirizzarlo verso lidi più accessibili, ma sicuramente la strada intrapresa potrebbe regalare grosse soddisfazioni. (Francesco Scarci)

(Grimm Productions/MurdHer Records - 2017)
Voto: 60

https://grimmdistribution.bandcamp.com/album/016gd-2017

Blackberries - Disturbia

#PER CHI AMA: Kraut Rock/Psichedelia
Nel nuovo album dei tedeschi Blackberries, si manifesta una psichedelia leggera e profonda, roba d'altri tempi, scaturita e ispirata dall'esperienza fatta al leggendario Ice Cream Factory in Texas, dove i nostri hanno registrato anche il precedente, 'The Texas Tapes', una gradevole session di quattro brani. Riuscire a suonare ad Austin, ha emancipato il lato colorato ed estatico della band di Colonia, proprio come nella San Francisco di fine anni sessanta, offrendo un viaggio cosmico e intenso, verso ritmi, movenze, suoni e riverberi che resistono agli anni, con sperimentazioni intelligenti e geniali che in tempi odierni vengono spesso dimenticate dalle giovani generazioni, ignorate senza un perchè. In questo contesto, ci si può perdere tra echi di Low ai tempi dell'album 'C'Mon', l'arborescenza degli Opal, l'ipnosi ancestrale del krautrock alla Ash Ra Tempel, un velo di Tame Impala, il revival mancuniano dei primi anni novanta, Ian Brown ed i Charlatans appena nati, a volte ritmico e a suo modo anche etnico, come se ascoltassimo i Kula Shaker senza influenze indiane, il 'Sonic Flower Groove' dei primi Primal Scream, i Mercury Rev che suonano sotto il sole caldo del Texas, il lato romantico di un giovane Anton Newcombe. Un album allucinogeno, lontano dalle mode e carico di nostalgia per il passato più psichedelico ed impegnato, con messaggi e propositi, musica liquefatta, che nasconde una forte vena riflessiva, che cerca di dare una diversa visione per una possibile soluzione ai mali del mondo. Un disco che non cade mai nel plagio musicale, anzi, vive di una luminosità multicolore tutta da gustare, a suo modo perfettamente in linea con la corrente psichedelica dei tempi migliori e comunque originale, un'opera ben riuscita in questi scialbi tempi moderni che hanno dimenticato il vero significato mistico della parola psichedelia. Quindi niente stoner, doom o heavy psichedelico ma un mantra lisergico e sognante in pompa magna. Chiudete gli occhi e ascoltate 'Disturbia', lasciatevi trasportare da "High Moon", ballate al suono lunare di "Snow White Tiger" e trattenete il respiro in "Spinx I" e "II", volerete alti tra le nuvole, non avrete peso e vi sarete persi in un arcobaleno di colori inimmaginabile. Quaranta minuti di pura magia sonora. Liberate la mente ed esplorate il sogno che vi è più congeniale. (Bob Stoner)

(P&C Unique Records - 2018)
Voto: 75

https://blackberries.bandcamp.com/album/disturbia

domenica 30 settembre 2018

Æthĕrĭa Conscĭentĭa - Tales From Hydhradh

#PER CHI AMA: Black/Prog, Sear Bliss
Con un moniker del genere, mi aspettavo una qualche band proveniente da Serbia o da Bulgaria, invece gli Æthĕrĭa Conscĭentĭa arrivano da Nantes, con quello che è il primo album della loro discografia, 'Tales From Hydhradh'. Quattro pezzi per quasi tre quarti d'ora di musica black progressive con tematiche sci-fi, come testimoniato da un titolo che si rifà al concept spaziale qui contenuto e anche al futuristico artwork che ha colpito immediatamente i miei sensi. Diamo poi uno sguardo più dettagliato sul perché porre la nostra attenzione su questo combo transalpino. Innanzitutto direi per l'utilizzo nelle sue trame psicotiche, ancora un pochino acerbe, del sax, che irrompe già dall'iniziale "Mystic Temples Of Hydhradh", in una song violenta e corrosiva che mette in mostra tante idee, ma che ancora non sono focalizzate nel migliore dei modi. Mi spiego meglio. L'utilizzo del sax lo trovo estremamente originale e piacevole, ma sembra faticare nell'amalgamarsi con quel ronzio di chitarre o con lo screaming urticante del vocalist. Eppure, è lo strumento portante della musica del quintetto francese, con quelle sue lunghe fughe solistiche, non troppo ben supportate però dagli altri strumenti. "Sacrifice of the Connected Ones" è la seconda traccia; cosi acida e nevrotica nel suo incipit, sembra esser uscita da uno dei primi album degli ungheresi Sear Bliss, mentre man mano diventa dapprima doomish per poi virare sul versante post black, senza disdegnare anche qualche ammiccamente al death metal. Ecco, in questa trascrizione della prima trasmissione ricevuta dalla città spaziale di Hydhradh, troviamo essenzialmente una miscela black/death contaminata da momenti atmosferici, sprazzi progressivi e avanguardistici che non possono far altro che consentirmi di mantenere l'attenzione costante sulla proposta dei nostri, soprattutto quando a dettar legge è il sax. E voglio essere estremamente franco: senza l'utilizzo di quel portentoso strumento, gli Æthĕrĭa Conscĭentĭa si perderebbero verosimilmente nel marasma infinito di band mediocri, invece con quel magico strumento aerofono, i cinque si trasformano in una realtà interessante da seguire. Abbandonate le malinconiche melodie della seconda traccia, ci addentriamo nelle melodie sinistre, e un po' selvagge, di "Cleansing The Siraxas - The Exalted Ones", in cui di nuovo a farla da padrone è il suono infuocato del sassofono di Simon che si diverte col suo strumento un po' come il nostro Vittorio Sabelli faceva nei suoi Dawn of a Dark Age (anche se lui suonava il clarinetto) o il folle Äag nel mitico 'Dawn of Dreams' dei Pan.Thy.Monium. La song è bella veloce, dinamica, e affonda certamente le sue influenze nella musica classica ma anche nella musica etnica. Arriviamo alla conclusiva "Along The Uncertain Paths Of The Maphoros" ormai frastornati dal delirio musicale dispiegato. Apre manco a dirlo il sax in un brano dal sapore un po' gitano, un po' balcanico, anceh se alla fine si tratta di musica estrema che necessita ancora una bella ripulita prima di mostrarsi in tutta la sua eleganza. C'è ancora parecchio da lavorare per raggiungere alti livelli, ma la strada intrapresa è sicuramente quella giusta. (Francesco Scarci)

The Pit Tips

Francesco Scarci

Sear Bliss - Letters From the Edge
Aethereus - Absentia
Between the Buried and Me - Automata II

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Alain González Artola

Nazrak - Cantiques Fúnebres
Kontinuum - No Need to Reason
Akvan - شکوه فراموش شده/ Forgotten Glory

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Felix Sale

Mass Hypnosia - Death Decay
Omenfilth - Hymns of Diabolical Treachery
Exitus / Rapist - Beast of Chaos Command

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Alejandro Morgoth Valenzuela

Igorrr - Hallelujia
Thy Primordial - At the World of Introdden Wonder
Benighted in Sodom - A Resplendent Starless Darkness
 

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Five_Nails

Into Eternity - The Sirens
Neoandertals - Australopithecus
Sanity Obscure - Codex Incognitus

sabato 29 settembre 2018

Aornos - The Great Scorn

#PER CHI AMA: Cosmic Black, Darkspace, Deathspell Omega
Nella cittadina di Miskolc, ho trascorso qualche giorno lo scorso anno, per motivi lavorativi. Mai mi sarei immaginato che potesse essere la casa di questo progetto oscuro a nome Aornos. Trattasi di una one-man-band, con 'The Great Scorn' a rappresentare il quarto album per il mastermind ungherese. Il suono proposto da Tátrai Csaba (in arte Algras, peraltro, ex membro di Carcharoth e Bornholm) include elementi black e progressive, dalle forti venature cosmiche che chiamano immediatamente in causa gli svizzeri Darkspace. La musica è originale, combinando in modo inusuale, flussi disarmonici con sprazzi di grande atmosfera, come dimostrato dalla seconda "From a Higher Reality" che segue a ruota l'intro iniziale. Accanto allo screaming efferato del vocalist, si affianca poi un cantato più epico, sorretto tra l'altro da delle chitarre che per certi versi mi hanno ricordato i Windir. Sto parlando della terza traccia, "The Kingdom of Nemesis", in cui i vocalismi al vetriolo di Algras, sono sorretti da delle chitarre old school nella vena della tradizione black norvegese (Emperor e Satyricon) e da synth a tratti davvero ispirati. Più thrash oriented invece "Trace to Beckoning Fade", anche se nella seconda parte emergono influenze più vicine ad un epic in stile Bathory. Ma sono soltanto lontane reminiscenze che s'intersecano con il chitarrismo più tradizionale del musicista ungherese, che comunque si conferma abile nel creare ritmiche cupissime inserite in un contesto a tratti claustrofobico. Algras però affonda le sue influenze non solo nella fiamma nera che bruciava negli anni '90 in Norvegia, sento infatti dell'altro nelle linee sghembe della sua chitarra: suggestioni oblique dei Deathspell Omega così come l'aura maligna dei Dødsengel o la carica mistica dei Nightbringer. C'è tanto nelle note contorte di 'The Great Scorn': il mid tempo della title track vive ad esempio di interessanti cambi di tempo, mentre "Funeral March for the Death of the Earth" sembra mostrare una vena più sinfonica vicina ai Limbonic Art e vocalmente, ai primissimi Arcturus. Insomma, l'avrete capito, Algras ha voluto omaggiare i grandi maestri del passato nordico, tributando altre grandi band black del presente, il tutto peraltro trattando temi noetici, ossia relativi alle correlazioni tra mondo fisico e la mente umana, e come essa possa influenzare determinati avvenimenti o processi fisici. La fiamma nera brucia anche nelle campagne dell'Ungheria grazie agli Aornos. (Francesco Scarci)

(Symbol of Domination/Ira Aeterna/The True Plague/Black Metal Records - 2018)
Voto: 70

https://symbolofdomination.bandcamp.com/album/sodp108-aornos-the-great-scorn-2018

Bloodshed Walhalla - Ragnarok

#PER CHI AMA: Viking/Epic, Bathory
Quorthon morì nel 2004. Da allora lo spirito indomito del mastermind svedese aleggia nell'etere alla ricerca di una sua epica reincarnazione. Si sono citati gli Ereb Altor come potenziali eredi, io non tralascerei nemmeno la one-man-band italica dei Bloodshed Walhalla, guidati dal bravo Drakhen, che con questo 'Ragnarok' arriva al ragguardevole traguardo del quarto album. E il musicista lucano lo fa nel migliore dei modi, con un disco che trasuda epicità da tutti i suoi pori sin dall'opener, nonchè title track. Certo, non solo i Bathory rivivono nelle musiche di "Ragnarok", ci sento anche gli Einherjer di 'Dragons of the North' o i Falkenbach più folklorici. Ma non importa e mi lascio travolgere dall'aura battagliera che mi rimanda ai lavori più viking dei Bathory - penso alla saga di 'Nordland' - ma nelle sue rare accelerazioni black, ci sento anche un che dei Finntroll o ancora degli Ensiferum. Le melodie vichinghe, i cori e le vocals mi inghiottiscono nelle loro storie, consentendomi di prendere una pausa dalla merda di tutti i giorni, per abbandonarmi alla pura mitologia della tradizione nordica, nemmeno stessi guardando una punta della serie tv "Vikings". Godimento puro per le mie orecchie, soprattutto quando le solenni orchestrazioni di "My Mother Earth" irrompono nello stereo con quell'esplosività percussiva che ricordo solamente nel masterpiece dei Bathory, 'Twilight of the Gods'. E allora chiudo gli occhi, penso a Quorthon e a ciò che mi trasmetteva l'ascolto dei suoi dischi, e immagino che Drakhen, animato ancor di più del sottoscritto dall'amore per quelle musiche, si sia lasciato guidare dall'ispirazione del maestro svedese, proponendo peraltro anche suoni di matrice settantiana, accostandoli ovviamente alle sinfoniche melodie che accarezzano la testa e solleticano il senso dell'udito. La voce di Drakhen, pur emulando il compianto frontman svedese, è uno spettacolo e costituisce un valore aggiunto per la release. Arrivo nel frattempo alla terza "Like Your Son", che continua nel narrare la battaglia finale tra gli dei e l’ordine del male e delle tenebre. La musica evolve e si muove tra il viking dei Moonsorrow, l'epic dei Bathory e il power dei primi Blind Guardian mantenendo un tono trionfale soprattutto nella lunga suite finale, dove Drakhen regala ben 28 minuti di suoni maestosi, in grado di rappresentare con grande efficacia, il palazzo ove ora risiedono quei guerrieri che sono morti gloriosamente in battaglia. Immaginatevi quella dimora, costituita da ben 540 porte, con i muri fatti con le lance di quegli uomini più valorosi o il tetto fatto di scudi di oro su cui sono raffigurate scene di guerra, e la musica che inneggia in quella sala? Quella dei Bloodshed Walhalla ovviamente. (Francesco Scarci)