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lunedì 4 luglio 2016

Cosmic Letdown – In The Caves

#PER CHI AMA: Psych/Space Rock/Shoegaze
Secondo album per questi alfieri russi della psichedelia: si stenta a credere che sia passato solo un anno, tanta e tale sembra essere l’evoluzione nel suono, ma anche nell’artwork e nell’immagine, dall’esordio autoprodotto 'Venera', risalente al 2015. Se il primo disco era un’interessante quanto straniante declinazione space-shoegaze del verbo psichedelico, in 'In the Caves' questi cinque ragazzi sembrano aver percorso davvero tanta strada. Abbandonato il cantato in lingua madre, il nuovo lavoro mette in fila cinque composizioni per lo piú strumentali nel segno del miglior psych rock disponibile su piazza. Un suono chitarristico stratificato e avvolgente, steso su un drumming potente, vario e mai banale, il tutto innervato da strumenti a corda indiani e una voce femminile che fa capolino qua e là per innalzare il livello di coinvolgimento che arriva facilmente a toccare vette di rapimento estatico. Laddove l’esordio aveva una struttura più convenzionale e rimandava in maniere piuttosto esplicita a band quali Warlocks o Black Angels, per questo 'In the Caves' provate a pensare agli Spacemen 3 o ai primi Spiritualized alle prese con lunghe improvvisazioni ispirate alla musica mediorientale e avrete solo una vaga idea di questo meraviglioso dischetto, destinato a fondere la vostra mente nello spazio di una quarantina di minuti. La struttura di questi brani è decisamente piú libera ma non per questo la musica appare sfilacciata o poco coesa, al contrario il risultato è quello di un corpo unico, un fluire continuo e coerente di pura ispirazione – ecco perchè appare superfluo indicare una o più tracce come migliori rispetto ad altre - ben supportata da capacità tecniche e inventiva al di sopra della media. Può sembrare abusato, ma un termine come “viaggio” è in casi come questo perfettamente calzante per descrivere l’esperienza sonora mesmerizzante prodotta dai Cosmic Letdown. Se avete anche solo una minima dimestichezza con il genere, o se volete semplicemente abbandonarvi ad un’esperienza totalizzante, non dovete farvi sfuggire questo autentico gioiello. (Mauro Catena)

After All - The Vermin Breed

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash Metal, Exodus, Xentrix
Tra le storiche formazioni belghe ci sono gli After All, band la cui fondazione risale al lontano 1992. 'The Vermin Breed', vecchio disco del 2005 è stato prodotto dal mitico Harris Johns (Helloween, Kreator e Sepultura). Sebbene la presenza di Mr. Harris alla consolle e uan certa esperienza della visto che stiamo parlando del loro quinto album, uscito per la semisconosciuta etichetta Dockyard 1 Records, 'The Vermin Breed' mi catapultò, grazie al suo sound, alla fine degli stupendi anni ’80, quando ero un ragazzino che si stava timidamente avvicinando a questo genere musicale. Avrete intuito che tale lavoro è fortemente influenzato dal thrash della Bay Area, zona che diede i natali a Metallica, Megadeth e Testament (tanto per citarne alcuni), ma quelli erano altri tempi. I cinque ragazzi belgi tentano di ripetere la lezione impartitagli dai maestri di sempre, andando a pescare però tra i passaggi dei meno noti Xentrix e Anacrusis, coniugando il tutto, ad un thrash più moderno. Il risultato che ne viene fuori? Mah, forse una sufficienza risicata i nostri la potrebbero anche raggiungere, ma proprio perchè a forza di ascoltare e riascoltare questo cd, si possono cogliere, oltre alle influenze succitate, altri interessanti elementi: uno speed metal analogo a quello degli Agent Steel, una rabbia degna dei mitici Anthrax o dei Nuclear Assault, ma anche un timido tentativo di conferire al sound proposto, quel minimo indispensabile spruzzo di originalità, necessario ad emergere dal calderone di band più o meno tutte identiche che imperversano la scena thrash. Tuttavia il compito non è stato superato: è arduo ascoltare album di tale fattura, fatti con estrema fretta senza la benché minima cura dei particolari. Il suono della batteria è quanto mai pessimo, lo stile del cantante è a dir poco fastidioso (talvolta stonato) e poco si amalgama col contesto generale; gli assoli non sarebbero neppure malaccio, ma non sono adeguatamente sorretti dalla base ritmica, tremendamente scontata. Il desiderio poi di conferire quell’aura eighties all’intero lavoro, con riffoni di chitarra anacronistici e coretti alla Exodus, penalizza ulteriormente un album che non brilla sicuramente di luce propria e assomiglia più ad un demo che ad una release ufficiale. Rimandati. (Francesco Scarci)

(Dockyard 1 Records - 2005)
Voto: 50

https://www.facebook.com/afterallmetal

domenica 3 luglio 2016

Ragin' Madness - Anatomy Of A Freaky Party

#PER CHI AMA: Southern Hard Rock
Farsi rapire da una band al loro primo live senza averli mai sentiti, non è una cosa scontata, ma per i Ragin' Madness (RM) è stato sin troppo semplice. Ma andiamo con ordine. Il quintetto nasce nelle terre padovane attorno al 2014 e raccoglie musicisti che hanno militato in varie band della zona. I RM si buttano a capofitto nella composizione di brani propri e dopo neppure un anno, danno alla luce il loro EP di debutto. Visto che il feeling era tanto e il riscontro del pubblico è stato immediato, in poco tempo arriva anche il full length 'Anatomy Of A Freaky Party', quattordici brani di ottimo hard rock misto ad un southern/metal che rappresentano appieno il modo di essere della band. Infatti, durante il loro concerto all'Isola Rock Winter Edition 2016, complice anche la location, il live set dei nostri ha letteralmente infuocato il pubblico, soprattutto grazie alla loro presenza scenica su di un palco parecchio figo. L'energia scorre a fiumi quando sono on stage, in parte grazie alla vocalist che sembra una scheggia impazzita, salta e balla come non ci fosse un domani, ma anche il resto della band non è certo da meno. Ma parliamo della loro musica, altrimenti rischio di fare un live report piuttosto che una recensione. Il CD apre con "The Guys are in Da Club", un pezzone classic hard rock con le chitarre solide e pregne di groove, e una batteria che conduce con linearità, ma si tratta puramente di una questione stilistica. Fin da subito spicca la gran voce della cantante, Giulia Rubino, dotata di una timbrica potente e modulata che certe colleghe si sognano solo di notte. Cosciente di questo, la cantante gioca letteralmente con i vocalizzi e le linee melodiche, facendo capire che ritmiche veloci sono il suo pane quotidiano. Le due chitarre se la spassano come due compagni di giochi che condividono una giornata insieme, il tutto condito da un basso pulsante e arrogante quanto basta. Un perfetto equilibrio di carezze e schiaffoni, ecco come potrei riassumere questi duecento secondi di rock, un'alternanza di melodie e ritmiche facilmente individuabile, la colonna sonora perfetta per una personalità bipolare. "Never Say no to Manta" la ricordo chiaramente durante il live, in quanto la band ha inscenato una sorta di siparietto dove appunto Manta (il bassista) veniva adorato per placare la sua collera. Un'altra calvacata rock dove basso (5 o 6 corde, non ricordo) in compagnia del bravissimo batterista, hanno srotolato BPM come se i cavalieri dell'apocalisse avessero finalmente dato fiato alle trombe. Di pari livello i due chitarristi che si alternano tra sezioni ritmiche e assoli degni del buon vecchio Slash. "Down in the Hole" è una song fortemente nu metal che vede la collaborazione di un secondo vocalist che duetta alla grande con la nostra beniamina, il tutto sempre condito dall'autoironia dei RM che avrete ben modo di apprezzare ben presto. L'intervento del sax sdogana un altro strumento non propriamente rock, anche se band come gli Shining (norvegesi) ne hanno fatto il simbolo della propria musica. Parecchi altri pezzi sono inclusi in questo 'Anatomy Of A Freaky Party', tutti veloci e potenti, tranne "We Can be Heroes", una straziante ballad ove pianoforte e voce, duettano come fossero un'unica entità. Questo a dimostrare che la band si diverte un sacco, ma sa anche concedersi i giusti momenti di raccoglimento ed introspezione. Bell'album, forse non sarà una produzione che brilla in fatto di sperimentazione e creatività, ma qui abbiamo cinque musicisti di alto livello che hanno sicuramente capito che il pubblico vuole sia un bello spettacolo che della gran musica, senza tralasciare il puro divertimento rilasciato dai Ragin' Madness. E noi non possiamo far altro che apprezzare e portare a casa. (Michele Montanari)

venerdì 1 luglio 2016

Element of Chaos - A New Dawn

#PER CHI AMA: Death Progressive, Edenshade
Alla faccia della globalizzazione, di internet e della facilità di reperire le notizie. Quando ho iniziato a scrivere la recensione degli Element of Chaos (da non confondere con gli omonimi americani), ho trovato sul loro sito l'anno di fondazione, il 2007, la città natale, Roma, e il genere che propongono, un improbabile "post-atomic avantgarde". Sicuramente starete pensando che diavolo mi servisse ancora, effettivamente poco nulla, ero curioso di sapere se avevano già fatto uscire un demo, un EP o quant'altro. Gira e rigira, ho capito che questo 'A New Dawn' segue, non proprio a stretto giro di boa, 'Utopia', quello che credo essere realmente l'album di debutto del sestetto capitolino, datato oramai 2013, che aveva riscosso pareri assai contrastanti. Freschi del contratto con la Agoge Records, i nostri si presentano con un album roboante fin dal suo incipit, affidato a "The Second Dawn of Hiroshima" che ci consegna una band che si muove con una certa disinvoltura all'interno dell'ambito thrash, death, progressive, modern metal e anche avantgarde, perchè no. Le componenti principali del disco si identificano in un corposo riffing di matrice scandinava, un'alternanza vocale tra pulito e growl, chorus catchy e una sapiente dose di synth che arricchiscono non poco la proposta dell'ensemble romano. Per certi versi, ho immediatamente associato il nome dei nostri a quello dei marchigiani Edenshade e al loro album di debutto 'Ceramic Placebo for a Faint Heart'. Man mano che vi addentrerete nell'ascolto del disco, avrete modo di scovare (e apprezzare) altre peculiarità del combo capitolino: l'uso classicheggiante del pianoforte in "Just a Ride", in una sorta di riedizione degli Angizia in salsa speed metal. Gli echi progressivi si fanno forti in "Nothing But Death", anche se il riffing chiama in causa i Meshuggah, sebbene il brano sia guidato da synth cibernetici. Una melodia quasi balcanica introduce a "Mutant Circus Manifesto", brano che poi spazia in territori più alternativi che arrivano addirittura a citare i System of a Down nella parte conclusiva (e tribale) del pezzo. Convincenti non c'è che dire, anche in chiave solistica, sebbene l'eterogeneità di fondo che permea il tessuto musicale di questo interessantissimo lavoro. "Coming Home" è ammaliante nella sua parte iniziale, quasi un omaggio ai Porcupine Tree, prima di esplodere in un death progressive e lasci spazio ad una barbara ondata di riff distorti e psichedeliche keys, che la eleggono inevitabilmente la mia song preferita. Il disco è buono, sotto tutti gli aspetti: songwriting, refrain, groove, orecchiabilità, freschezza, originalità di idee e potenza. Forse il rischio in cui possono incorrere i nostri è proprio quello di essere estremamente vari e forse nel tentativo di voler abbracciare un pubblico più vasto, rischino addirittura di non accontentare nessuno. Per fare un esempio, "Epiphany" viene proposta in chiave death/progressive, citando i Ne Obliviscaris in un paio di spunti di chitarra e poi riproposta remixata (che brutta parola remix in un disco metal) in una versione totalmente stravolta, al limite dell'Industrial/EBM. L'ultima corsa spetta invece a "The Butterfly Effect", brano che compariva già in 'Utopia', e che probabilmente farà storcere il naso al metallaro più estremo visto il tentativo di cantare in stile rappato su un tappeto ritmico un po' troppo confusionario. Una song di cui avrei fatto volentieri a meno, ma che comunque non influenza il mio giudizio finale su questo 'A New Dawn', a cui invito voi tutti a dare un oculato ascolto. (Francesco Scarci)

(Agoge Records - 2016)
Voto: 75

https://www.facebook.com/elementofchaos/

giovedì 30 giugno 2016

The Apparatus - Heathen Agenda

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Black Sperimentale
A volte mi domando per quale assurdo motivo i gruppi scelgano nomi brutti, buffi o assurdi da pronunciare o da scrivere. Gli Apparatus, ennesima dimostrazione di questo trend, appartengono certamente alla prima categoria, de gustibus. Continua la nostra rassegna alla scoperta di vecchi album e oggi ci troviamo di fronte ad una band norvegese, proveniente da Trondheim, che si proponeva di suonare una sorta di “Melodic Extreme Metal”. Nati nel 1999 e dopo essere stati di supporto a bands del calibro di Mayhem, Deicide, Vader e Keep of Kalessin, il sestetto scandinavo si è autoprodotto questo 'Heathen Agenda' nel 2004, lavoro che ha catturato l’attenzione della inglese Dream Catcher Records che ne ha ristampato l’album e gli ha permesso una distribuzione più consona. Il genere proposto dai ragazzi, è un death/black/doom atmosferico, vagamente influenzato dagli Ancient Wisdom, dai primi Fleurety, dalla stramberia dei Ved Buens Ende e dal viking metal, ma anche da un certo groove assai ispirato; insomma c’è né per tutti i gusti. L’album, pur non godendo di una produzione cristallina, è piacevole da ascoltare e soprattutto costituisce l'unica uscita ufficiale prima dello scioglimento della band nel 2005. Assai godibile è l’ottimo lavoro del bassista, ispiratosi fortemente al grande Steve Di Giorgio; la batteria invece appare leggermente ovattata, mentre le chitarre imbastiscono riff non del tutto ortodossi, ispirati appunto alle disarmonie dei Ved Buens Ende. Infine le vocals spaziano dal growl a tonalità leggermente più alte. La musica del combo norvegese è sofferente, malata, con passaggi atmosferici e meditativi, grazie all’abile lavoro ai synths di Per Spjøtvold (ora negli Atrox), che ci permettono di tirare il fiato e rituffarci nella follia degli Apparatus. Un album sicuramente acerbo che lasciava trasparire tuttavia grandi sviluppi per il futuro, peccato... (Francesco Scarci)

(Dream Catcher Records - 2004)
Voto: 65

https://myspace.com/theapparatus

Wendigo – Anthropophagist

#PER CHI AMA: Black'n Roll/Thrash, Venom
L'antropofagia è la pratica di consumare carne umana, spesso sinonimo principalmente di cannibalismo umano, ma è anche il titolo dell'album d'esordio di questo pazzesco duo norvegese, formatosi solo nel 2014 in quel di Oslo. Ingegnosi nel cavalcare una somma di generi molto popolari e spettacolari, nel rivisitarli con un'estrosità ed una maestria tale da renderli unici. Horror thrash metal con punte rivolte verso i Venom ed i Motorhead, quanto al black metal di Carpathian Forest, God Dethroned e Cobolt 60 ed ai quanto mai perversi Cryfemal, il tutto volto ad un universo malato e sacrilego infinito, correlato di istinto punk lacero ma geniale. Kvalvaag suona tutti gli strumenti, mentre il verbo insano è opera della violentissima e teatrale voce insalubre di Jon Henning, uno stupendo Iggy Pop degli albori, indemoniato e in salsa metal, in preda a convulsioni e tetri spasmi. La loro prima opera è a dir poco esaltante, un mix di vero rock sanguinario e sottogeneri del metal, dal thrash allo speed, passando per il black'n roll, un mix perfetto, originale e squisito per tutti i palati, una gemma imperdibile. Generato come fosse un nuovo nato in casa Venom di tanti anni fa, suonato alla velocità della luce come gli ultimi Children of Bodom (ma poco ha a che fare con la proposta dei finnici), omaggiando il Motorhead sound più violento, quindi senza far superstiti, il tutto condito con un glamour nerissimo da far invidia ai 69 Eyes più gotici ed all'horror punk più underground dei seminali e dimenticati T.S.O.L. Lo ammetto, i Wendigo mi hanno letteralmente folgorato: "The Anthropophagist", che dona il titolo all'album, è incredibile nel suo tiro vetriolico, mentre "Wendigo Psychosis" risulta devastante con il suo progredire in stile punk'n roll dal sapore noir. Una carrellata di brani strappabudella, carica di coscienza e conoscenza rock, stradaiola, putrida e malata, infetta e letale. Impossibile resistere ad un album così completo, curato nel sound e creato con l'intento di dare al metal il suo antico significato, generare trambusto e scompiglio e quando si aggiunge il maligno al rock, si sa, nasce una formula violenta, magica, incontrollabile, anarchica e indomabile, degenerata e dal fascino incredibile. Usciti nel 2015 e distribuiti dalla coreana Fallen Angels Productions, i Wendigo non possono passare inosservati. L'artwork di copertina è poi scarno e sotterraneo, ma soprattutto sbandiera apertamente la pericolosità di un disco del genere. Black'n roll e thrash all'ennesima potenza, un disco di carattere e personalità, tanto umore nero, niente di nuovo sia chiaro, ma sicuramente un disco dall'impatto paragonabile ad una pistola puntata dritta alla tempia della moralità. Album da ascoltare a tutti i costi. (Bob Stoner)

(Fallen-Angels Productions - 2015)
Voto: 85

https://wendigonorway.bandcamp.com/releases

Desecration - Process of Decay

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Brutal Death, Suffocation, Morbid Angel
Ancora uno sguardo ai vecchi album del passato questa volta con gli inglesi di Newport, Desecration, che hanno fatto sfracelli oltremanica nel primo decennio del nuovo millennio. Sarà, ma 'Process of Decay' non mi convince per nulla: per essere il 2005, questo era uno tra i tanti album di un banale death metal, che andava a pescare qualche influenza un po’ qua e là tirando a campare, nel tentativo di mischiare il death metal alla Morbid Angel/Suffocation con ritmiche dal forte sapore “slayeriano”, periodo 'Reign in Blood' e altre cosine che strizzavano l’occhio al death nord europeo. I ventotto minuti che compongono quest’album sono di un piattume estenuante: gorgheggi dall’oltretomba, chitarre marcissime e una batteria al limite del disumano, fanno capire che siamo nel più profondo girone dell’inferno e solo degli stop’n go, presi in prestito dai Pantera, ci riportano alla realtà; poi i soliti vagiti brutali e le velocità al fulmicotone del terzetto proveniente dalla terra d’Albione, ci rispediscono diretti tra le braccia di Lucifero. Questo è death metal putrido al 100%, accompagnato da una cover artwork macabra e da relative liriche malsane, nonché da una produzione altrettanto grezza, che non rende appieno la potenza effettiva che scaturisce da questo tremebondo e isterico Lp. Chi è estraneo a queste sonorità, continui a restarne distante, per gli amanti di un sound così mefitico, non so quanto effettivamente valga la pena spendere soldi e tempo per pochi minuti di musica che hanno ben poco da dire, meglio continuare ad ascoltare 'Reign in Blood' fino alla nausea. (Francesco Scarci)

mercoledì 29 giugno 2016

The Pit Tips

Francesco Scarci

Germ - Escape
Skyforest - Unity
Wyrding - S/t

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Bob Stoner

Radiohead - A Moon Shaped Pool
Blixa Bargeld & Theo Teardo - Nerissimo
Elusive Sight - Beyond Light

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Don Anelli

Scolopendra - Cycles
Paradox - Pangea
Nervosa - Agony

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Kent

My Dying Bride - Evinta
Steve Reich - Daniel Variations
Machinefabriek - Stillness Soundtracks
 

Everything Behind - Man From Elsewhere

#PER CHI AMA: Metalcore/Alternative
Il metalcore è un genere tosto. L'ho dato per morto una miriade di volte in quanto svuotato da ogni tipo di significato poichè consumato, usurato, esaurito in fatto di contenuti. Eppure, ogni volta si rialza, si reinventa e ha sempre modo di proporre una variazione al genere, magari contaminandolo con altre sonorità. Un plauso va quindi ai francesi Everything Behind che nel loro 6-track, sono riusciti a buttare dentro alla loro proposta metalcore, un qualcosa di hardcore, un pizzico di heavy metal, una spruzzata di rock e addirittura una glassa di elettronica (e "Welcome to the End" ne è un bell'esempio e anche la mia traccia preferita). Il risultato è questo dischetto intitolato 'Man From Elsewhere', uscito a dicembre 2015 che tra lo scetticismo generale, compreso quello del sottoscritto, è riuscito a sorprendermi non poco. Chiaramente, come detto più volte, c'è ben poco da inventare in questo ambito, ma forse è un discorso che potrebbe essere esteso a tutto il metal in generale. Tornando agli Everything Behind, l'alternanza tra i classici riffoni sincopati, qualche break math o qualche accenno alternative, nonchè la buona prova del vocalist soprattutto a livello di clean vocals, mi fanno considerare questo lavoro un buon lavoro. Per carità, talvolta suonerà ruffiano, inutile nasconderlo, perchè anche voi percepirete in "Will You Let Love" un po' di quella puzza Nu Metal, però 'Man From Elsewhere', nel proseguio del mio ascolto, continua ad essere sempre più piacevole e addirittura imprevedibile. Onirico nella strumentale "13.11.15", feroce e un po' più banale in "Reborn", una traccia che tuttavia vive di saliscendi ritmici e che, nel su spettrale finale, ci introduce alla title track. Quest'ultima song rappresenta un po' la summa di quanto ascoltato fin qui nei 30 minuti di questo secondo lavoro firmato dalla band parigina. C'è sicuramente ancora da lavorare per identificare una propria identità ben definita, smussare gli spigoli e le banalità in cui facilmente l'act transalpino cade per inesperienza (come ad esempio una orribile cover cd); malgrado questo le potenzialità sono assai elevate. Li aspetto al varco, attenzione a non deluderci con il prossimo passo... (Francesco Scarci)

Shyy - Demo 2016

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze
Nel 2012 i brasiliani Shyy uscirono con uno split album in compagnia dei nostrani ... (dotdotdot). A distanza di quattro anni, il quartetto di San Paolo torna a farsi sentire con un demo di due pezzi e un sound che sembra essersi incattivito rispetto al passato. Se a quel tempo avevo avvicinato la proposta dei nostri ad uno shoegaze di derivazione francese, "Desfalecer" prima e "Afogar-se" sembrano offrire un qualcosa di più grezzo che soffre già in partenza di una produzione non troppo limpida, con un riffing un po' troppo caotico e un vocalist che sembra aver fatto un salto indietro rispetto al passato sia nella componente scream che pulita. Certo, le potenzialità ai nostri non mancano, ma questo 'Demo 2016' ha tutte le fattezze di un prodotto troppo "casalingo" che rappresenti semplicemente una forma embrionale di quello che i quattro carioca vorrebbero realmente esprimere. Francamente mi aspettavo qualcosina in più dagli Shyy anche se ci sono delle discrete melodie, il rifferama è acuminato quanto basta, il cantato caustico, ma ciò che manca è quell'accattivante sensazione di benessere che mi aveva conquistato ai tempi dell'uscita per la Pest Productions. C'è da lavorare e anche parecchio per tornare a convincermi pienamente. Per ora, si tratta solo di una sufficienza risicatissima. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 60

https://shyybr.bandcamp.com/

Soulhenge - Anachronism

#PER CHI AMA: Djent/Metalcore, Tesseract, Meshuggah
Il Lussemburgo, pur essendo un piccolo paese, inizia ad avere una scena metal che pian piano prende forma, grazie anche al supporto del ministero della cultura (cose impensabili per il nostro paese). Cosi, dopo aver recensito quest'anno gli Sleepers’ Guilt, ecco che facciamo la conoscenza dei Soulhenge, quintetto di Diekirch, dedito a una forma di modern metal. Nei quattro pezzi inclusi in questo EP, intitolato 'Anachronism', non possiamo che farci investire dal loro djent venato di influenze metalcore e mathcore (che erano assai più marcate nel precedente album 'Fragments'). Le danze aprono con "A New Dance", dove palese è la carica di groove che esonda dalle note della opener track, che ha modo di mostrare il dualismo vocale, in pulito e growl, del frontman Ozzy, il chiaro contrapporsi tra il riffing distorto, creato dal duo di asce formato da Yannick e Milian e la delicatezza dei synth, in una traccia che assimila inevitabilmente gli insegnamenti dei Meshuggah su tutti. I dettami dei gods svedesi vengono fusi nella successiva "The Atomic Age", con il suono accattivante del djent dei Tesseract e dei Born of Osiris, in poliritmici pattern ricchi in melodia, breakdown acustici, vocalizzi catchy e chi più ne ha più ne metta, per risultare ai più, decisamente easy listening. Non vi soffermate però su queste sole parole e lasciatevi trascinare dal ritmo coinvolgente e travolgente dei Soulhenge, capaci di fondere nel loro sound anche influenze progressive e ipnotici intermezzi di tastiera (ascoltate "Serenity" per questo e non ve ne pentirete). Giungiamo con una certa velocità alla conclusiva traccia, la title track di questo EP, che segna senza ombra di dubbio un grande passo in avanti rispetto al debutto, pur senza inventare nulla, ma semplicemente arricchendo il proprio sound a livello di arrangiamenti, pulizia di suoni e ottime melodie, costituendo un buon e solido punto di ripartenza per la band del piccolo granducato europeo. (Francesco Scarci)

(SACEM - 2016)
Voto: 70

https://soulhenge.bandcamp.com/

Master's Hammer - Formulæ

#PER CHI AMA: Occult Black Sperimentale
Era il 1993 quando uscì 'The Jilemnice Occultist', un album che ebbe un forte impatto nella mia crescita di metallaro, grazie ad un sofisticato e progressivo sound black metal, fino ad allora senza precedenti. Sono passati 23 anni da quel lavoro e, dopo una serie di vicissitudini che hanno tenuto la band in standby per quasi tre lustri, i cechi Master's Hammer (MH) sono tornati a produrre dischi con una certa continuità. Ed ecco l'ultimo arrivato, 'Formulæ', una release contenente ben 15 nuovi psichedelici pezzi di black ipnotico ed occulto, chiaramente cantato in lingua madre, come da tradizione in casa MH. L'attacco, affidato a "Den Nicoty", ci consegna l'act di Praga in un buono stato di forma, con un pezzo non troppo lungo ma con una bella melodia di fondo, ancora in grado di riportarmi ai fasti di quel capolavoro che fu 'The Jilemnice Occultist'. È già con la seconda "Maso z Kosmu" che la proposta dei nostri viene contaminata pesantemente dall'elettronica, in un pezzo mid-tempo in cui affiorano più forti che mai gli sperimentalismi obliqui del terzetto ceco. Le caratteristiche di fondo della band sono comunque rimaste immutate nel corso di tutti questi anni: la voce inconfondibile di Franta Štorm cosi come le chitarre distorte e malate di Necrocock, mentre una lunga serie di elementi innovativi, ha trovato posto nella spina dorsale dei MH. Si parlava di sperimentalismi e 'Formulæ' ne è ben ricco: in "Votava" c'è l'utilizzo di un quello che credo che sia un trombone, mentre la successiva "Shy Gecko", oltre ad essere un pezzo assai tirato, offre un chorus molto ruffiano che mi lascia quasi del tutto disorientato. I Master's Hammer filano dritti che è un piacere con pezzi che si assestano tutti sui quattro minuti, contraddistinti da una carica di groove non indifferente e dall'utilizzo di una matrice elettronica davvero ispirata, talvolta addirittura un po' troppo spinta che per certi versi mi ha evocato il periodo più sperimentale dei Samael. Cosi, i synth, in stile elicottero, si affiancano alle vocals e all'impianto ritmico dei nostri in "Arachnid", in una traccia minacciosa e ossessiva. Una serie di break visionari spezzano l'irruenza di "Všem Jebne", mentre il riffing di "Biologické Hodiny" ha un che di spaziale nel suo incedere che la elegge quale mia song preferita dell'album. Nelle note di 'Formulæ' aspettatevi di trovare ben poco di convenzionale: "Phenakistoscope" è un brano etnico e tribale che sancisce il distacco quasi totale dei nostri dal black metal e apre la strada a nuove forme musicali assolutamente fuori dai normali schemi compositivi, cosi come accade nella frammentata "DMT" o nella delirante "Podburka", che ci conduce in altri territori inesplorati del mondo metallico. C'è anche modo di rievocare il passato con il riffing acuminato di "Jazyky", ma delle tastiere liquide e psicotiche, avranno il merito di deviarvi la mente verso la follia più totale. L'unico neo che potrei trovare al disco è relativo all'elevato numero di pezzi che lo costituiscono, forse avrei fatto a meno di almeno un paio di questi, certo non della southern western "Rurální Dobro" o dell'orientaleggiante finale affidato a "Aya", a confermare l'imprevedibile originalità di questo trio che da quasi 30 anni ci travia con le loro suggestive musiche aliene. (Francesco Scarci)

(Jihosound Records - 2016)
Voto: 80

https://www.facebook.com/MastersHammerOfficial

Interview with Wyrding



A funereal echo emanates from deep within the abandoned outskirts of Antigo, Wisconsin... 
Follow this link to know the incredible guys of Wyrding:

martedì 28 giugno 2016

Suicide Commando - Axis of Evil

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: EBM
Era il 2003 quando mi ritrovai tra le mani il nuovo album di Suicide Commando, senza ombra di dubbio l'uscita discografica che quell'anno attendevo con maggior impazienza! Vi posso assicurare che fu veramente sorprendente ciò che Johan Van Roy era riuscito a fare in 'Axis of Evil', un album che ad un primo ascolto poteva anche sembrarvi molto diverso dalla precedente produzione dell'artista belga. In particolare con 'Construct Destruct' e 'Mindstrip', Johan ci aveva infatti abituato ad una forma di EBM talmente personale ed inconfondibile che ogni singolo aspetto della sua musica sembrava perfetto esattamente così com'era, senza bisogno di cambiar nulla e senza che nessun fan si fosse mai aspettato in verità alcun stravolgimento di sorta. Suicide Commando rientrava insomma in quella categoria di progetti musicali ai quali non chiedi altro che i soliti ingredienti per rimanere soddisfatto, come se la forte dipendenza da una formula ormai ben consolidata e familiare ti facesse apparire poco attraente qualsiasi prospettiva di cambiamento. Così anch'io ho dovuto ascoltare 'Axis of Evil' alcune volte prima di riuscire ad abituarmi alla sua diversità che, seppure non eclatante, si poteva sicuramente avvertire in una maggior varietà delle vocals, in una produzione più morbida e soprattutto nella tendenza dei brani ad assumere una struttura più complessa che in passato. Il risultato fu un'apertura intelligente verso un suono che legava violenza e melodia dosando entrambe in quantità pressoché perfette ed eccedendo nell'una o nell'altra solamente quando ne convenisse ad un effetto complessivo di immediatezza, la quale sarebbe stata difficile da ottenere se non fosse che il responsabile di tali equilibri era un musicista con alle spalle già un'esperienza più che decennale nell'ambito dell'elettronica. Quello di 'Axis of Evil' era un flusso ininterrotto ed avvolgente di beat che instaurava un dialogo continuo con i vari campionamenti utilizzati e con le urla rabbiose di Joahn, il quale alternava alla sua tradizionale prestazione vocale inedite vocals robotiche che meglio si adattavano alla vena dance-floor di episodi quali "Face of Death", "Reformation" o "One Nation Under God". Trovo non vi sia nulla di studiato o di "sornione" nell'accessibilità di questi brani moderati ed orecchiabili, ma vi si intraveda piuttosto il desiderio di voler allargare lo spettro emozionale della propria musica su un campo più vasto, che potesse ricoprire una varietà di umori differenti. La fusione tra linee di basso distorte e pesantissime percussioni non venne comunque relegata in secondo piano trovando il suo sfogo più aggressivo in "Plastik Christ", il cui testo confermava ancora una volta la posizione fortemente critica di Johan nei confronti della religione. Ma il concept lirico dell'album affrontava in maniera dura e provocatoria numerosi altri argomenti d'attualità per l'epoca, dal tema del suicidio fino a quello spinoso dell'allora situazione politica internazionale. Non so se fosse corretto chiamarlo capolavoro, le premesse c'erano comunque tutte! Io non posso fare altro che consigliarne l'ascolto a tutti coloro che non conoscono Suicide Commando e a farsi conquistare da 'Axis of Evil', avvicinandosi in questo modo all'esempio forse più attendibile e convincente di quale significato assumesse il termine EBM nel 2003. (Roberto Alba)

(Dependent Records - 2003)
Voto: 85

http://www.suicidecommando.be/