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martedì 7 giugno 2016

Dö - Tuho

#PER CHI AMA: Death/Stoner/Doom, High on Fire
Distruzione: questo il significato di 'Tuho', album di debutto, sulla lunga distanza, dei finlandesi Dö, che abbiamo avuto modo di conoscere esattamente un anno fa, in occasione della recensione su queste stesse pagine, dell'EP 'Den'. I nostri tornano con un lavoro di sei pezzi che dischiude un death stoner doom assai peculiare. Le chitarre si presentano ai blocchi di partenza, costituiti dalla lunga "Born Under Black Wings", come un'arma di distruzione chimica, asfissianti e elefantiache a macinare un riffing corposo e decisamente sludge, su cui si muovono a proprio agio, i vocalizzi growl di Deaf Hank (chissà se nel suo nome c'è qualche riferimento all'Hank Moody di 'Californication'?). Piacevole la possente linea di basso e il fuzzing delle chitarre a metà brano, prima che si sprofondi nei meandri di un pericolante funeral doom. La seconda "Everblast II (The Aftermath)" è più easy listening, in quanto dotata di un maggior dinamismo sonoro, con il rifferama che qui scomoda mostri sacri come gli High on Fire e obbliga ad un ascolto a volumi massimi. Energia, groove, stoner, clean chorus, ispirazioni seventies, confluiscono in una traccia davvero ben equilibrata che trova anche il tempo di sbizzarrirsi con un discreto assolo guidato da un basso alla Black Sabbath. Una traccia strumentale, "Ex Oblivione" (anche se qualche vocalizzo in background si riesce a percepire), è quel che ci vuole per sanare gli animi inquieti in un trip di oltre sei minuti di psych doom, con un arrembante finale southern rock da brividi. La downtuned guitar di Big Dog impressiona in distorsione, profondità e pachidermia nella quarta "Kylmä", la song più melmosa di quelle contenute in questo primo lavoro dei Dö e quella che a mio avviso rende la proposta del terzetto di Helsinki più in linea alle produzioni del genere; tuttavia un devastante finale black/death mi scuote dal torpore in cui stavo cadendo. Che botta ragazzi e che bravi i Dö, nel momento giusto, a virare il proprio sound da quanto di più scontato ci fosse, con un'improvvisa scarica adrenergica. Un inedito intermezzo costituito da chitarra acustica e clean vocals (un po' stonate a dire il vero) e si giunge a "Forsaken Be Thy Name", la degna conclusione di 'Tuho': un pezzo di 12 minuti che chiama in causa, come già fatto anche in occasione del precedente lavoro, Cathedral, i già citati Black Sabbath e un che dei Celtic Frost più oscuri, per una song dai ritmi cadenzati e sulfurei che vanta a metà brano il drumming militaresco di Joe E. Deliverance a dettare la marcia prima che di venir affiancato dal basso del vocalist e dalla sei corde di Big Dog a cui lasciare l'incombenza di un finale pirotecnico e indiavolato, ciliegina sulla torta per questo primo Lp dei finlandesi Dö. (Francesco Scarci)

lunedì 6 giugno 2016

Pugni nei Reni - Bello ma i Primi Dischi erano Meglio

#PER CHI AMA: Alternative Blues Rock
Pugni nei Reni è il nome di un duo bergamasco, chitarre e cassa, che si presenta con un disco di debutto dal titolo 'Bello ma i Primi Dischi erano Meglio'. Le loro canzoni sono scritte in un inglese molto primitivo, pressoché privo di significato ma anche in un italiano alquanto stralunato. Con queste premesse sarebbe facile collocare il loro album nel filone del rock demenziale ma sarebbe riduttivo, assai riduttivo. Nei nove brani inclusi nel disco, si respira una costante ricerca del giusto riff di chitarra come in "Babbuzzi", il brano d'apertura, con la musica che non è mai secondaria al testo; la voce poi viene trattata quasi fosse uno strumento aggiuntivo, filtrata, raddoppiata, con frequente ricorso al falsetto, talvolta anche sguaiata. I Pugni nei Reni sanno maneggiare bene stili espressivi molto diversi tra loro: in “Risposte_di_circostanza alle_domande_esistenziali_di_Jane_Fonda”, l’uso della voce e i battiti di elettronica low-fi ci portano in quelle terre esplorate da Thom Yorke nei suoi dischi da solista, mentre nella veloce “Il_Rock_’n’_Roll” la struttura del brano rimanda ai più scafati Skiantos, senza ruffianeria, condividendone semmai lo spirito ribelle. Al primo posto nella mia personale classifica metto sicuramente “Morning_Brunch” il cui ritmo, sostenuto da una bella chitarra funky, si dilata piacevolmente per quasi sei minuti, diventando quasi un mantra dance. A livello di post-produzione ho trovato poco convincente l’inserimento di alcuni dialoghi estratti da pellicole cinematografiche, l’effetto può sorprendere al primo ascolto ma non agevola i successivi. Molto bello invece l’artwork del disco, incentrato su una grafica old style da IBM Personal Computer DOS. Nel complesso le canzoni hanno le potenzialità per una carica live coinvolgente, cosi dotate di un buon groove e ruvide al punto giusto. I ragazzi sono originali, loro malgrado.(Massimiliano Paganini)

sabato 4 giugno 2016

124C41+ - Mörs/Ërde

#PER CHI AMA: Post Rock/Blackgaze/Ambient
I CentoventiquattroCquarantunoPiù (124C41+) non sono una band come tutte le altre: lo si evince da un moniker che chiama in causa lo scrittore di fantascienza Hugo Gernsback e il suo 'Ralph 124C 41+', un omofono della frase inglese "one to foresee for one". Lo si capisce ancor di più dalle loro uscite discografiche, ridotte all'osso per contenuti. Dopo l'EP omonimo e minimalista dello scorso anno, ecco tornare la band di Terni con un nuovo EP di due pezzi e soli sei minuti di musica. 'Mörs/Ërde' è un'altra uscita all'insegna di un ambient/post rock catartico, ma potrei allargare lo spettro musicale dei nostri al noise, drone, shoegaze e mille altre sfaccettature. Impressiona tutto ciò perché "Mörs" è solo un pezzo di due minuti scarsi, fatto di sonorità intense, cupe e drammatiche in cui, sui tocchi di un malinconico pianoforte, appare il cantato in screaming (in italiano) di Eugenio e Marco dei Die Abete, sorretto da una ritmica distorta ma intimista. Angosciante il testo... "Il diavolo è nelle grida di chi vuol vederci rientrare a casa. Svelto, s'è fatta sera. D'ora in poi avremo per sempre dodic'anni e sugli specchi d'acqua torva imprimeremo i nostri volti. Svelto. S'è fatta sera". Nichilismo totale invece per la successiva "Ërde", che supera i quattro minuti, ma con un tensione emotiva che dilania a dir poco l'animo: la song, completamente strumentale, cresce piano di intensità in un'atmosfera che definirei quella plumbea londinese di novembre. Suggestioni, pensieri e riflessioni si avvicendano rapide nella mia testa rimescolate come un cocktail nello shaker, fino a quando la batteria rimane l'unico strumento pensante a dettare gli ultimi battiti del mio cuore. Poi, solo silenzio e buio infinito. (Francesco Scarci) 

(DreaminGorilla Records/Stay Home Records - 2016)
Voto: 75

Intervista con Skoll

Photo Credit: Dawid Krosnia
Seguite questo link per riscoprire la storia delle antiche culture europee, in compagnia di M (the bard), mastermind dei piemontesi Skoll:

Krigere Wolf - Sacrifice to Valaskjàlf

#PER CHI AMA: Black/Death, Emperor, Dissection, Gorgoroth
Ormai la scena è cosi satura di band che inizio a far acqua da tutte le parti e scopro soltanto oggi che i Krigere Wolf sono una realtà nostrana, catanesi per la precisione, questo 'Sacrifice to Valaskjàlf', (Valaskjalf è nella mitologia norrena, il palazzo ove si trova Odino) inviatomi dalla loro etichetta coreana, è il secondo album e addirittura un terzo, 'Infinite Cosmic Evocation', è già uscito un paio di mesi fa. Che dire, se non fare un mea culpa e parlarvi intanto di questo capitolo della discografia dell'act siciliano, in attesa di aver fra le mani il nuovo cd. Nove le tracce qui contenute indirizzate verso un graffiante black scandinavo stile anni '90. Se "Towards the Black Mass" affonda le proprie radici nell'infernale calderone dei Gorgoroth, in "Disciples of Sacred Fire" convivono, in pacifico equilibrio, thrash metal, death e un raggelante black d'annata, con glaciali linee di chitarra (soprattutto a livello solistico) che mi avrebbero fatto propendere per origini nordiche della band, se solo non avessi saputo la realtà dei fatti. Il sound si fa ancor più martellante con la title track e la successiva "Blood to the Wolves", due schegge d'odio impazzite in cui le chitarre, minacciose e schizofreniche, osano in termini di velocità e acuminatezza, non disdegnando fortunosamente a qualche accenno di melodia ed epicità, soprattutto nella seconda song, la mia preferita. I ritmi costantemente indiavolati, trovano nuovi orizzonti con "Impaled Slaves", ove la brezza norvegese (scuola Ancient ed Emperor) soffia paurosamente soprattutto nella seconda parte del brano, scomodando l'immortale 'In the Nightside Eclipse' a livello delle chitarre. Il suono del basso, il soffio del vento e una voce evocativa, guidano la breve "The End Has a Beginning". Poi è di nuovo l'affilato suono delle sei corde e il drumming a mo' di mitragliatrice, a imperversare incontrastati in "Vision of Death", dilaniando le carni e maciullando le ossa con uno stile vicino al black/death svedese di Unanimated e primi Dissection. L'outro finale è spaventoso: grida di donne messe al rogo, con in sottofondo delle eteree tastiere per un contrasto davvero diabolico. Ultima chicca: il mastering è affidato a Magnus Andersson dei Marduk, a testimoniare la ferocia inaudita dei Krigere Wolf. Non credo vi serva altro per avvicinarvi alla belligerante proposta di questo squadrone della morte. (Francesco Scarci)

(Fallen Angels Productions - 2014)
Voto: 70

venerdì 3 giugno 2016

Love Frame - Forgiveness

#PER CHI AMA: Alternative Rock
Senza essere troppo pessimisti, se guardiamo il panorama musicale main stream italiano sembra francamente dura sopravvivere. Il rischio poi di incappare in jingle de lo Stato Sociale, Calcutta e simili durante l'ascolto della vostra compilation preferita su Spotify è assai elevato, da parte mia cerco di evitare il tutto come la peste o spoiler dell'ultimo episodio di 'Games of Thrones'. Mi riempie pertanto il cuore ricevere un bell'album che contiene musica ben fatta e studiata. Oggi vi presento (se non li conoscete già) i Love Frame, un trio milanese (il bassista è a chiamata) che ha esordito nel 2008 con un EP, poi qualche singolo fino ad arrivare a produrre questo 'Forgiveness', nel tardo 2014. Il sound della band è incentrato sull'alternative rock e sin dai primi minuti denota un'ottima cura nella ricerca dei suoni e una certa perizia in fase di registrazione/mix/mastering. Il cd si presenta poi in modo professionale anche a livello di packaging, con l'artwork che mostra un cuore apparentemente composto da radici tortuose di alberi, ma forse è solo la mia suggestione personale. All'interno trovate i testi delle canzoni, vecchia tradizione che apprezzo tutt'ora, dopotutto a molti piace sapere se sotto un mega riff di chitarra si sta parlando di una bella squinzia o di gare di rutti. L'ascoltatore troverà undici tracce in questo lavoro e l'onore di essere la prima, spetta ad "Halo", una scelta oculata perché non ha un tiro esagerato e permette di immergersi gradualmente nel mondo della band milanese. Il main riff ha il ruolo di essere ossessivo-compulsivo, mentre la suadente voce della brava vocalist ci apre le porte della loro club house. La sezione ritmica costituita da basso e batteria, inizia con un pattern cadenzato e per tutta la traccia ha un ruolo determinante, grazie anche ad alcune finezze stilistiche assai apprezzabili. Nel ritornello la melodia si apre, le note diventano più lunghe e si ha una sensazione fisica di distensione. Si va a chiudere con un assolo classico dotato di una bella accelerazione finale e la sana soddisfazione di dedicare le mie attenzioni a questa band. "Mine" parte subito dopo, come un giocatore di football americano vigoroso che vi placca senza tanti complimenti. La chitarra iniziale ricorda vagamente un famoso brano degli Offspring, ma l'ensemble lombardo cambia presto le carte in tavola grazie al lavoro alla sei corde di Laerte Ungaro, che non nasconde le sue ottime doti tecniche e dispiega tutto il suo armamentario sonoro. I vari passaggi e gli arrangiamenti convincono sin da subito e i brevi break (ottimo quando il bassista ci dà dentro al limite della rottura delle corde) conferiscono un sacco di dinamicità al brano. Giulia Lupica, la vocalist, convince sempre di più, con una timbrica fresca e decisa che, unita ad una gran padronanza tecnica, ripaga chi studia e canta con passione. Finalmente una voce poi che non ripiega sui soliti gorgheggi strampalati e vibrati ripetuti fino alla morte, inoltre scrive anche i testi, quindi una musicista veramente completa. Nell'album troviamo anche delle ballate, una su tutte "Blue", un buon momento per mettersi alla prova e prendere respiro dopo tanto sudore. Struttura classica con tanto di assolo (da manuale) che accompagna la crescita della canzone e la porta alla conclusione con grande dignità. Ci sono ancora molti altri pezzi da recensire, ma invece di annoiarvi con le mie parole, vi inviterei piuttosto ad andare ad ascoltarvi i brani in streaming, i Love Frame sono bravi e fanno ottime canzoni. Troverete qualcosa di innovativo in questi undici brani? Direi di no, ma se avete bisogno di buona musica per depurarvi dall'insano ciarpame che vogliono farci ascoltare e comprare per forza, qui non sbagliate. Affatto. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 80

Homselvareg - Catastrofe

REISSUE:
#PER CHI AMA: Black Old School 
No, non stiamo parlando del nuovo album dei comaschi Homselvareg: 'Catastrofe' è infatti il loro secondo disco uscito nel lontano 2010 e riproposto per la Sliptrick Records lo scorso febbraio, dopo le evoluzioni di line-up intercorse negli ultimi anni che ne hanno stravolto completamente l'assetto, con i soli Plague alla voce e Bazzy alla chitarra, rimasti gli unici superstiti della formazione originale. Per chi non conoscesse la band lombarda, e immagino siate in molti, i nostri sono incalliti blacksters, assimilabili come sound, alla seconda ondata norvegese, con la peculiarità, abbastanza rilevante, di cantare in italiano. E allora, eccole scorrere le tracce di questo oscuro 'Catastrofe', dalla furibonda "L'Inizio della Fine" (che un po' fa il verso a qualche titolo, stile "The Beginning of the End", che imperversava negli anni '90) fino alla conclusiva "Solo Memoria", attraverso un sound caustico e malvagio, degno delle migliori produzioni nord europee. Si parte, dicevamo da "L'inizio della Fine" che vanta una lunga parte introduttiva affidata alle chitarre di Selvan e Bazzy, prima che a metà brano, entri finalmente in scena la voce torva, ma assai comprensibile, di Plague a vomitare tutto il proprio dissapore verso la razza umana, destinata all'inevitabile estinzione. Sembra abbastanza chiaro il messaggio che i nostri vogliono diffondere anche con la successiva "Senza Via d'Uscita", che sottolinea un approccio lirico all'insegna dell'odio nei confronti dell'uomo, e che a livello musicale palesa invece un riffing che per alcuni istanti mi rievoca addirittura i Windir; successivamente la ferocia degli Homselvareg mi trascina in un maelstrom infernale creato dal turbinio sonoro che non trova sosta neppure nella successiva "Terremoto", in cui a mettersi in luce è la mastodontica prova dietro alle pelli di Hell. Le chitarre macinano riff vorticosi, il drumming assume i connotati di iper energici blast beats, le vocals divengono più rabbiose mentre il basso urla come un lupo in una notte di plenilunio. Questa la fotografia di "Rogo", la quarta traccia, che ha modo anche di offrire un duetto vocale tra vocals mefistofeliche e pulite durante uno dei rari rallentamenti del cd. Un rifferama in stile Immortal introduce "Ultimo Lamento Umano", ove una tempesta di riff granitici e una tellurica sassaiola ritmica non lasciano scampo all'ascoltatore. E "Aria di Tempesta", parafrasandone il titolo, ha modo di dissipare violente correnti di putrido black metal che mi rievocano un gruppo italiano che seguivo una ventina di anni fa, gli Handful of Hate. Ci avviamo verso la conclusione del disco: "Inondazione" ha modo di regalarci, almeno inizialmente, un black mid-tempo maligno, prima che la torrenziale efferatezza degli Homselvareg riprenda là dove ci aveva lasciato e ci conduca nei profondi abissi della conclusiva "Solo Memoria" che chiude un album sicuramente intenso, decisamente diabolico... (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 70

martedì 31 maggio 2016

Nervovago - Il Clan Rocket

#PER CHI AMA: Alternative/Noise Rock
I Nervovago sono un duo pisano che nasce nel 2011 prima con una line-up completa con cui pubblicano un paio di lavori e in seguito, si consolidano nel 2015 come chitarra/voce e batteria. 'Il Clan Rocket' è prodotto da (R)esisto Distribuzione e contiene dodici tracce raccolte in un jewel case, anche se i titoli sul retro sono elencati per lato, come se si trattasse di un vinile. La grafica è semplice, tonalità rosa per l'artwork e un bel cono gelato spiaccicato in copertina. Questo ci lascia in effetti un po' interdetti su cosa andremo ad ascoltare, quindi non indugiamo oltre e cacciamo il cd nel lettore. La prima traccia è quella che conferisce il titolo all'album in cui salta subito all'orecchio il cantato, o meglio, un free stytle con una timbrica simile a quella di Salmo per capirci, mentre la sezione ritmica articola una struttura noise dal gusto leggermente sintetico. Le distorsioni ricordano quelle dei NIN, con una certa attitudine hardcore in salsa rock, ove si susseguono diversi break che permettono l'inserimento ripetitivo del riff principale. In centocinquanta secondi non rimane granché e cerchiamo risposte con le successive canzoni. "Breaking Bad" conferma quanto già sentito, questa volta con una ritmica più lenta, ma dal risultato assai simile. Dopo poco subentra una sensazione di noia dovuta alla mancanza di dinamicità sia a livello strumentale che vocale. Quest'ultima ha tra le mani le sorti del progetto Nervovago che, se limitato a chitarra e batteria, necessiterebbe di un elemento di spicco per catturare l'ascoltatore. Cerchiamo conforto altrove, tipo in "È Necessario" e qui lo troviamo: l'introduzione ci avvolge in un'atmosfera industrial che viene spazzata via dall'entrata delle distorsioni, potenti e suadenti allo stesso tempo. Sicuramente il pezzo migliore dell'album, in cui il testo corre via liscio, senza accelerazioni forzate per rincorrere la struttura musicale, inoltre le strofe coinvolgono e trasmettono un forte senso di ansia, rassegnazione, rabbia e voglia di redenzione. C'è posto anche per un finale con pianoforte che sembra arrivare direttamente da un qualche film horror. L'album chiude con "Il Casanova", in cui il duo toscano concentra un quantitativo impensabile di rabbia e potenza, la chitarra continua con il suo suono disintegrato e ricomposto a livello molecolare. Il testo è breve e stavolta viene lasciato più spazio agli strumenti, inoltre si aggiungono degli stralci di screamo che aumentano la rabbia dell'esecuzione, come i vari feedback di chitarra. Il duo italico mostra sicuramente delle buone intuizioni e personalmente li accomuno per attitudine ai Bachi da Pietra in salsa urbana. Per essere più appetibili però servirebbe un esercizio di stile per trovare una via di uscita che porti agli obiettivi prefissatisi dai nostri, che mirano per certo a ritagliarsi un pezzo di notorietà nell'ampio panorama musicale. Sono apprezzabili per la scelta dei suoni, alcune strofe e l'energia che mettono nella loro musica, ma chiaramente si può fare di più, molto di più. (Michele Montanari)

((R)esisto Distribuzione - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/nervovagoFanpage/

domenica 29 maggio 2016

Gort - Pestiferous Worms Miasma

#PER CHI AMA: Black Old School, Darkthrone, Mayhem
Abbiamo incontrato il buon Wolf recentemente nella recensione dei Terrorfront, lo ritroviamo qui con un'altra band partenopea, i Gort, il cui anno di fondazione cita addirittura 2002. Dopo quasi 15 anni di militanza, il quartetto di Napoli conta 4 demo all'attivo, 3 split album e due full length, tra cui il qui presente 'Pestiferous Worms Miasma', disco di otto pezzi, uscito qualche mese fa per la Lupus Niger. La proposta musicale dei nostri si rifà ad un black metal vecchia scuola, che scomoda per intensità i vecchi grandi del passato, da Darkthrone a soprattutto i primi Bathory e Celtic Frost. Le torrenziali e gelide chitarre di "Black Katharsis", coadiuvate dalle caustiche vocals di Lord Lemory (ex frontman dei Tenebra), ci riportano indietro nel tempo, grazie alle sue ataviche melodie e a quel feeling, tipicamente anni '80, abbracciato dai quattro musicisti campani. Non aspettatevi quindi una certa ricercatezza nei suoni, che a dire il vero spesso risultano scarni nel loro corrosivo incedere. “Old Bleeding Scars” esprime perfettamente quanto detto sinora, anche a fronte dei continui "Uh!" che si concede il vocalist, quasi ad omaggiare il vecchietto T.G. Warrior dei Celtic Frost. Stiamo parlando di musica che incarna i dettami in voga 30 anni fa e che qui viene riproposta nuda e cruda, senza tanti orpelli stilistici, lasciando che sia il solo suono tagliente delle chitarre a suggestionarci, a farci rivivere il mito delle registrazioni nelle foreste norvegesi, la follia dilagante delle chiese incendiate, degli inni a Satana o degli assurdi omicidi che falcidiavano la scena scandinava. Nel frattempo le song avanzano minacciose, turpi e sporche nella loro fangosa proposizione, sfoggiando rallentamenti al limite del doom nella mefitica "I Am Thy End", che vanta peraltro un bel basso posto in primo piano a guidare le belligeranti ritmiche dei Gort. Tracce di melodia si scorgono nell'incipit di "The Macabre Show of Life" prima che la furia guerriera divampi nelle linee impetuose di chitarra/batteria e basso, sorrette dalle sempre animalesche scream vocals di Lord Lemory, in quella che trovo essere la traccia più epica e battagliera dei Gort. Si prosegue verso la seconda metà dell'album e non c'è troppo spazio per variazioni al tema, sebbene "The Misanthrope" sveli un'epica voce che mi ha rievocato 'Vinterskugge' degli Isengard, un'altra delle diaboliche creature di Fenriz. Il sound della band italica continua con i suoi rimandi alla tradizione black scandinava, citando l'epicità degli Enslaved di 'Vikingligr Veldi', le sfuriate a la Mayhem, i tenebrosi richiami agli Emperor, il folklore dei Satyricon di 'Dark Medieval Times', l'ardore degli Ancient, senza dimenticare la crudezza dei Darkthrone o dei primissimi vagiti di Quorthon. Se vogliamo aggiungere poi che la band fa l'uso dell'italiano in "Odium Vincit Omnia", è facile accostare i Gort anche agli Aborym di 'Kali Yuga Bizarre'. Per farla breve, 'Pestiferous Worms Miasma' è raccomandato a tutti i nostalgici del black old school, ma anche a coloro, che per la prima volta, vogliono assaporare l'emozionalità di un genere che ha segnato il corso della storia nella nostra musica. (Francesco Scarci)

(Lupus Niger - 2016)
Voto: 70

The Pit Tips

Francesco Scarci

Fallujah - Dreamless
Novembre - Ursa
Convulse - Cycle of Revenge

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Kent

Zoviet France - A Flock Of Rotations
Культура курения - Некрофилия
Psychonaut 4 - Have A Nice Trip

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Don Anelli

Decrepit Soul - The Coming of War
The King Must Die - Murder All Doubt
Wormed - Krighsu

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Matteo Baldi

Converge - All We Love We Leave Behind
Cult of luna - Somewhere Along the Highway
Radiohead - A Moon Shaped Pool

sabato 28 maggio 2016

Scolopendra - Cycles

#FOR FANS OF: Death/Thrash, Legion of the Dead, Slaughterra
After several years between releases, French thrash/death metal group Scolopendra finally unleashes their debut offering, and manages to contain enough quality points to be a viable entry in the style moving forward. Basically making the whole affair a tight, crunchy thrash attack with the scattered deathly riff-work and vocals, this here is a lively affair full of dynamic rhythm changes and wholesale tempo shifts. The riffing here is capable of deftly maneuvering through these shifts with great ease, either at a generous mid-tempo gallop littered with steady, simple drumming, swirling thrash rhythms rattling along at a fine heavy charge or just bursting into full-throttle paces that explode with tight energy and frantic rhythms that allow their death metal roots the most opportunity to shine nicely here. Those are where the band really gets quite a lot of mileage out of this one, and showcase the most promise overall with their style generating it’s best work overall, though the fact that it gets quite so many chances is another story here since there’s a few too many tracks featured which manage to come off a little too bloated despite a shorter running time than expected here due to the shorter tracks on the second half which really comes into making this one quite so troubling. Beyond this though, there’s not a whole lot really working against it as the tracks here come off rather nicely. Instrumental intro ‘Dream Sequences’ takes a series of industrial noise riffing droning on into proper first track ‘Purity’ as the tight, crunchy riff-work and thrashy drumming work through a series of intense patterns with the razor-wire riffing working nicely alongside the furious drumming as the mid-section delves into a series of meandering melodic rhythms that charges back into the frantic blasting in the final half for a strong opener. ‘Awake Nightmare’ gradually works from light trinkling riffing that turns into a strong series of raging rhythms fueled by more frantic, full-throttled riff-work and pounding drumming that keeps building into the rather loose, bouncy rhythms rattling along through the finale for another rather strong and enjoyable effort. ‘Spartan Killer Instinct’ features tight, crunchy mid-tempo riff-work that explodes into utterly frantic and blasting patterns with plenty of charging up-tempo riffing bringing along the intense swirling riffing along throughout the solo section and bringing the stuttering, crunchy rhythms thrashing into the final half for an enjoyable and dynamic highlight. ‘Morbid Psychosis’ is another industrial noise collage offering a lead-in for next track ‘Mental Torture’ features swirling droning riff-work with plenty of plodding rhythms that carry on at a straightforward, simplistic chugging series of rhythms with hard-hitting-yet-simple drumming that picks up some energetic patterns driving along into the frantic final half for a decent enough if overall bland offering. ‘Psychic Paralysis’ features ravenous razor-wire riffing and plenty of blasting up-tempo drumming that settles on a frantic, up-tempo pace with a series of tight chugging riff-work alongside the more thunderous and savage pounding drumming that works through the tight finale for another rather blistering highlight. ‘End of Tunnels’ uses the sampled speech and chaotic noise to lead into next track ‘Pinhole of Diffraction’ as the savage swirling riffwork and pounding drumming burst through the chaotic opening before settling on a bouncy, mid-tempo paces with stuttering rhythms and pounding drumming that soon builds to a frantic finale for another strong effort. Bleeding through into follow-up ‘Pinhole of Diffraction (Part 2)’ with swirling stuttering rhythms with savage drumming taking the furious paces and tight riff-work alongside the savage, unrelenting drum-work that thumps along to rather enjoyable, bouncy patterns that work throughout the enjoyable finale for another rather enjoyable effort. ‘Psychotic Mass Murderer’ gradually fades into a thumping mid-tempo chug with plodding drumming and tight, stylish riffing with a light, sluggish rhythm holding loose swirling riffing into a mindless repetitive series of riffing throughout the final half for an overlong, unneeded and overall bland offering that doesn’t really belong here. Finally, album-closer ‘Soul Dissolution’ features distorted industrial noises and squealing effects driving into the classical piano notes alongside the deep droning sounds leading into the finale for another dull offering that really leaves this on a doubly bad impression. Still, there’s a lot more to like here that makes this enjoyable enough. (Don Anelli)

(Dooweet Records - 2016)
Score: 80

giovedì 26 maggio 2016

Ancst - Moloch/In Turmoil

#PER CHI AMA: Black/Hardcore/Crust
Con mia sorpresa, dopo aver infilato il full length di debutto degli Ancst (all'attivo però anche una distesa infinita di split ed EP) nel mio lettore, convinto di trovare le dieci tracce di 'Moloch', me ne sono ritrovate invece 23, perchè incluse nella mia versione, ci sono anche le 13 della compilation del 2013, 'In Turmoil'. E allora prepariamoci insieme a una scorpacciata di musica feroce, dritta in your face, che sfiora gli 80 minuti di musica. Un avvicendamento costante di brevissime song che oscillano tra i tre e quattro minuti di durata e che scorrono veloci, dipanandosi tra black, crust e hardcore. Si parte con la ferrea title track che apre il cd e mette in chiaro la sostanza dell'album: ritmiche killer, vocals graffianti in pieno stile hardcore, scorribande black, mini assoli e un discreto groove ad ammantare l'intera release. Questi gli ingredienti dell'intenso lavoro dei berlinesi Ancst (termine utilizzato per indicare il sentimento primario della paura). "Behold Thy Servant" ha un approccio più mid-tempo, ma non temete perchè la tempesta metallica ben presto si accanirà sulle vostre teste, soprattutto nella successiva "The Skys of Our Infancy", il cui incipit è di derivazione palesemente post black per poi mantenere, nel suo incedere sprezzante, una velata malinconia di fondo che la eleva immediatamente a mia song preferita dell'esteso lotto. Si torna a correre come assatanati con "In Decline", song micidiale e furibonda nella sua isterica cavalcata. Finalmente un attimo di pace, grazie al prologo più rilassato di "Strife", traccia che dischiude almeno inizialmente, derive post metal fin qui tenute celate; ovviamente il treno impazzito guidato dal quintetto teutonico riprende il suo turbinio sonoro tra violente accelerazioni (ove il suono della batteria non mi fa troppo impazzire) e momenti più compassati, su cui si stagliano le corrosive e arcigne vocals di Terston Bellafonte. Le scudisciate sonore dell'ensemble germanico persistono senza sosta alcuna anche con le successive "Devouring Glass", "Turning Point" e "Human Hive", presentando un sound ancor più infame e selvaggio, ideale per vomitare tutto il proprio dissapore per la società, relegando la melodia a puri sprazzi di spoken words e brevissimi bridge. L'irruenza dei nostri prosegue sugli stessi binari anche con "No More Words" prima che l'apocalittica "Lys" lasci intravedere antri ancor più bui in seno alla band. Esaurito l'olocausto sonoro di 'Moloch', ci addentriamo, un po' più superficialmente, nella compilation 'In Turmoil', che racchiude pezzi sparsi qua e là nell'estesa discografia dell'act di Berlino. Si parte con le spettrali atmosfere di "Ascetic", che mostrano un approccio più meditativo a cavallo tra black e post hardcore. Ovviamente è sempre meglio non lasciarsi traviare da simili manifestazioni, visto che con "Entropie" si torna a pestare sulla tavoletta con delle più consone cavalcate per i nostri, spezzate questa volta da inediti, almeno per il sottoscritto, break acustici, al limite del post rock, che mi fanno sobbalzare dalla sedia. Si picchia con crudeltà, non temete e un'altra folta schiera di tracce, mostrano tutta la veemenza di cui sono dotati questi ragazzi. Tuttavia non mancano le sorprese: l'inizio "cibernetico" di "The Faceless" ne è un esempio, cosi come il crust punk di "Patterns & Dreamers", le asfissianti ritmiche di "Seasons of Separation", il break di "Conditio Humana", la noisy "Howl", o l'intrigante finale affidato all'oscura "Peripheral", a dimostrare le varie facce della stessa medaglia rappresentata da questi baldi giovanotti tedeschi. Un lavoro sfiancante che ha evidenziato un sound molto più vario nella compilation datata 2013 a fronte di un disco più diretto, senza tanti fronzoli, qual è 'Moloch'. Laceranti! (Francesco Scarci)

martedì 24 maggio 2016

Drakwald - Riven Earth

#PER CHI AMA: Folk Death, Ensiferum
Amanti di Korpiklaani ed Ensiferum fatevi sotto e godete anche voi della proposta dei francesi (si avete letto bene) Drakwald. 'Riven Earth' è il secondo disco della band di Tours che sorprende per la proposta di death pagano che strizza clamorosamente l'occhiolino alle band finlandesi sopra citate (a cui aggiungerei anche un che di Amon Amarth e Dark Tranquillity), ma soprattutto agli svizzeri Eluveitie. Si, perchè nella opener "Doomsday Argument" a far capolino, oltre al sapiente death melodico dei nostri, ci sono le cornamuse di Bertrand Renaud. La musica del quintetto transalpino è decisamente dinamico, con essenziali melodiche linee di chitarra che s'intrecciano con il sound inconfondibile della cornamusa, oltre all'utilizzo di flauti folklorici che inquadrano (e limitano) senza via di scampo, la proposta del quintetto. La musica dei Drakwald si muove quindi tra liriche fantasy, accelerazioni tipicamente death/thrash (il riffing serrato di "Chasm of Ignorance" ne è un esempio), contraddistinte dall'utilizzo di efficaci growling vocals (e spauracchi scream) a cura di Thibaud Destouches, aperture melodiche, epici cori ("Blood and Glory") e brevi assoli (date un ascolto a "Primal Dawn" o ancor meglio a "Never Rising Sun") a cui dovrete aggiungere tutto l'armamentario sonoro prodotto dagli strumenti a fiato, che alla lunga però finiscono di sfiancare, almeno il sottoscritto. Tra le altre tracce segnalerei "Despair of the Last Men", per quella sua capacità di combinare lo swedish death con un uso più personale della ormai famigerata zampogna, mischiando appunto la veemenza del death metal con la melodia della componente popolare, in un disco che peccherà alla fine solo la sua monoliticità sul versante folk. Gli amanti del genere avranno invece di che rallegrarsi nel sapere che una nuova realtà popola il sottobosco del melodic death folk metal. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 65

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