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lunedì 23 maggio 2016

Wyrding - S/t

#PER CHI AMA: Ethereal Funeral Doom, Decoryah
Più di vent'anni fa, venni ammaliato dalla musica di una band finlandese, autrice di due splendidi album e due EP; dopo il 1997 se ne persero ahimè definitivamente le tracce. Sto parlando dei Decoryah, un quartetto dedito ad un doom etereo, la cui impronta sonora ho ritrovato quando, per la prima volta, ho ascoltato l'album omonimo dei Wyrding. Non è il solito funeral doom quello che scorre nelle tracce di questo disco omonimo, c'è quasi qualcosa di ultraterreno che permea le song del quintetto del Wisconsin. Si percepisce nelle soavi melodie della opening track, "Poltergeist", cosi intrise di straziante malinconia, che lascia però intravedere un filo di speranza. La musica dei nostri è lenta, vibrante e solenne grazie ad un certo approccio corale che mette quasi in soggezione, come se stessimo entrando in chiesa e ci costringessimo al silenzio per non offendere chi è in preghiera. Tuttavia, lo psicotico video disponibile sul sito bandcamp dell'ensemble statunitense, non rende giustizia alle mie parole, dal momento che rischia di inquadrare erroneamente il quintetto come una black metal band. Per fortuna, ci pensa la poesia di "Longin's End" a palesare le qualità assolute dei Wyrding attraverso dilatati suoni doom e ispirate atmosfere decadenti. C'è gran poco nella musica dei Wyrding di quella matrice funeral che siamo soliti recensire su queste stesse pagine. I brani dei cinque di Antigo seguono la spiccata umoralità della band, senza seguire le regole definite impartite dal genere. La sensazione è, ascoltando la seguente "False Concept of Voyage" e in generale tutte le tracce ivi contenute, che i nostri si muovano senza schemi predefiniti, lasciandosi puramente guidare dall'istinto, da una emotività tangibile che qui fluisce tra anfratti oscuri in cui si insinuano le splendide e lamentose vocals di Troy, le suggestive linee di chitarra di Kyle e le introspettive keys di Bret (che si diletta anche nell'uso dell'organo), in un ritualistico lavoro senza tempo che trova la massima espressione in qualche assolo di chitarra (penso a "Ahold A Wren") che mi lascia senza fiato. Drammatici, eleganti e deprimenti, è difficile trovare aspetti ottimistici in un lavoro dai simili connotati; forse solo l'inedito artwork bianco, potrebbe smuovere pensieri positivi in un tale contesto liturgico, come il devastante strazio interiore che captiamo durante l'ascolto di "Impression II". Quello dei Wyrding è un album bellissimo, che implica un ascolto impegnato e impegnativo: in "Agony In Being I" ad esempio, collidono con il funeral semiacustico della band, altri due generi cosi diversi tra loro, il noise e il neofolk, in una traccia sicuramente più sperimentale, ma che innalza ulteriormente il livello di difficoltà nell'approcciare questo disco, lasciandoci in balia della conclusiva "Agony In Being II". Si tratta del pezzo più lungo del lp, e quello certamente più oscuro (non fosse altro per l'utilizzo del growling) sebbene interamente acustico, le cui ambientazioni dark doom raggiungono qui massimi livelli di delirante follia, in grado di condurci nell'abisso più profondo della coscienza umana. Incredibili, davvero! (Francesco Scarci)

(Small Doses - 2015)
Voto: 85

http://wyrdingtheband.com/releases

domenica 22 maggio 2016

Soundscapism Inc. - S/t

#PER CHI AMA: Post Rock Acustico
Soundscapism Inc. è il progetto solista di Bruno A., ex membro dei portoghesi Vertigo Steps, un duo che aveva riscosso un discreto successo nella scena ambient-prog rock un paio di anni fa. Sulla falsariga del precedente lavoro, l'instancabile polistrumentista lusitano ha deciso di alimentare la sua inesauribile fiamma per la musica ambient/post-rock dando alla luce questo piacevole ed affascinante album. Il tutto è contenuto in un semplice jewel case dai colori tenui, dove in copertina si staglia l'immagine di una inquietante bambola rotta da cui escono degli alberi, una simbologia semplice ma forte allo stesso tempo. Le nove tracce sono la prefetta colonna sonora di un film onirico e surreale, come se Lars von Trier gli avesse commissionato l'intera produzione musicale di un suo film che racconta di spazi infiniti, dove cielo e terra sembrano non poter mai toccarsi, o quasi si trattasse di due amanti condannati all'infelicità eterna. La traccia di apertura, "The Breath Of Life And All Things The Sky Looked Upon", ne è l'esempio lampante. L'intro è una semplice armonia di campanelle che sembra uscito da un libro di fiabe e la sua precoce scomparsa viene rimpiazzata da un arpeggio di chitarra carica di riverbero e delay. Il tutto ricrea l'aura ricercata dall'autore, nel frattempo una voce parla (in tedesco mi pare) con un suadente tappeto di sintetizzatori ad arricchirne la trama che diviene via via più corposa, fino alla conclusione improvvisa, lasciandoci inebriati e allo stesso tempo un po' ansiosi per la repentina interruzione. "The Quiet Grand" fa proprie le sonorità tipiche dei The Cure, tra chitarre acustiche di accompagnamento e riff leggeri e melanconici, fino ad un totale di tre sovrapposizioni a riempire completamente lo spettro sonoro di questa traccia, sospesa tra ambient, post-rock e dark/new wave. Alcuni passaggi non sono ben definiti e rischiano di rubare sinergia al brano. Le tastiere fanno da filler e si arrichiscono anche di un leggero pianoforte, giusto per non farci mancare nulla, completando il tutto con la massima cura. "Sommerregen" cambia direzione: infatti è il primo brano dove si vede la collaborazione di un collega di Bruno alla voce, tal Flávio Silva, inoltre subentrano le percussioni, assenti in precedenza. Nota dolente è proprio la gran cassa che apre il brano, la timbrica è un po' troppo marcata per un brano di questa fattura, ma fortunatamente l'entrata degli altri strumenti ne attutisce il tono. Il brano alla fine è piacevole e l'innesto del cantato lo rende più pop, e potrebbe competere senza problemi con la attuale produzione commerciale, anzi, ne alzerebbe anche il livello artistico. Il vocalist cavalca le armonie e ne segue la corrente, si lancia anche in divagazioni alla Bono Vox, e se le può pure permettere visto che tecnicamente regge il confronto. Forse strizza troppo l'occhiolino alle sonorità dei primi album della band irlandese, comunque niente di illegale da segnalare. Il cambio a tre quarti si contamina di country/folk e la batteria (elettronica) ne rovina le atmosfere, questo a dimostrare che la scelta dei suoni è sempre la base di una buona produzione. Peccato per questo pugno nei timpani, davvero. Le altre canzoni si mantengono su un buon livello, anche se a volte la ripetitività negli accompagnamenti in acustico potevano essere sostituiti da altro più originale. Vorrei infine segnalare "Tomorrow´s Yesterdays", song che spicca per una salto notevole in termini di contenuto e atmosfere. Insomma quest'album di debutto è sicuramente da segnalare per gli amanti del genere, ma anche per chi si vuole concedere una pausa da sonorità più impegnative a livello uditivo. Ascoltato con cura si potranno percepire mille sfumature; per il futuro speriamo solo che Bruno cambi approccio per la sezione ritmica, allora sì che potremmo ritenerci soddisfatti. (Michele Montanari)

(Ethereal Sound Works - 2015)
Voto: 70

https://soundscapisminc.bandcamp.com/releases

Fading Waves - Catching the Phantoms

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal
Da Rostov sul Don ritorna sulle pagine del Pozzo dei Dannati, il mastermind russo che si cela dietro al moniker Fading Waves. Dopo aver recensito positivamente il precedente EP ma soprattutto lo split album con gli Starchitect, riecco la band alle prese con un EP costituito da quattro pezzi usciti dalle sessioni di 'The Sense of Space' (risalenti al biennio 2010-2012), questa volta autoprodotti. Si parte con i riverberi chitarristici di "Zero Point", breve song che prosegue musicalmente quanto fatto in precedenza, enfatizzando qui le partiture più prettamente post rock. La musica continua ad esser guidata da una chitarra collocata in primo piano, con basso e batteria che assolvono al loro compito con una certa eleganza. La voce rimane invece più dietro alle quinte in un'espressione a metà strada tra il growl e l'etereo. Gli arpeggi squisitamente post rock, aprono anche la seconda "Nightmares", brano più complesso da ascoltare, grazie alle sue calde atmosfere autunnali. Ideale per una serata di lettura a lume di candela, la traccia, completamente strumentale, inasprisce la propria ritmica nella seconda metà, tracciando però il sentiero per quello che avverrà in "Distance", dove il sound decadente e malinconico della one man band russa, segue i dettami di gente del calibro di Explosions in the Sky, garantendo otto minuti di commoventi melodie ed esplosioni strumentali. Alexey Maximuk è un ottimo musicista, con idee interessanti, lo scrivevo all'epoca dello split album con gli Starchitect, lo sottoscrivo oggi ascoltando questo EP, peraltro esclusivamente digitale ma che troverete in download gratuito su bandcamp. A chiudere l'EP arriva la sensuale "Spin", la traccia più nervosa tra le quattro, ma anche quella che va alla ricerca di nuove strade di sperimentazione e in cui fa capolino l'angelica voce di Anastasia Aristova. Rimaniamo in attesa di ascoltare nuovo materiale per capire la direzione stilistica intrapresa nel frattempo da Alexey, se dobbiamo attenderci un disco completamente strumentale o se forse il sentiero tracciato dai Katatonia è stato finalmente solcato anche dai Fading Waves. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 70

https://fadingwaves.bandcamp.com/

mercoledì 18 maggio 2016

Fight Cloud - We'll Be Alright

#PER CHI AMA: Noise/Math
Richmond (USA) rappresenta la terra natia dei Fight Cloud, l'ensemble di quest'oggi, già attivo dal 2012 e 'We’ll Be Alright' è il loro secondo LP, preceduto da due ottimi EP, 'Simple Structures' e 'Where’s My Shakespeare'. Con i nostri si va fin dentro al DNA, come vedere un seme dall’interno che lentamente si trasforma in un albero immenso. Difficile però inquadrare in modo definito il sound della band della Virginia, a cavallo tra noise, math rock, qualche slancio shoegaze fino a sfiorare il metal. La delicatezza della voce e le linee vocali sognanti si scontrano con le chitarre vetrose, brillanti e al limite della dissonanza, immerse in una ritmica singhiozzante a tratti, e a tratti fluida come il vento che soffia tra i rami freschi di rugiada al mattino. La sensazione di rassicurante speranza permea tutte le tracce, che si lasciano ascoltare senza tanti intoppi o noie, senza lasciare indietro la malinconia ineffabile di un sottobosco umido e avvolto dalla nebbia. I Fight Cloud suonano come un incidente aereo tra Mars Volta e A Perfect Circle, con un risultato finale davvero convincente. Alla prova del play infatti, la band risponde egregiamente con un violento inizio dettato dalle ritmiche del brano “Bath Method”, song intervallata da ambienti spaziali e parti matematicamente incastrate come rovi di spine. La traccia è seguita da “Poppyseed” che con il suo arpeggio compulsivo e schizofrenico esplora zone sconosciute dell’immensa foresta pluviale dalla quale i Fight Cloud sembrano provenire. Imprezioniscono l’opera alcuni interludi strumentali come il laconico “Long Live Zorp” e “A Rare Thing like Neon”. Degna di nota è “The Real Ricky”, dove scrosci di chitarre in palm muting, guidate da una ritmica serrata e tribaleggiante, aprono la strada ad accordi risonanti che sostengono una voce lontana e ancestrale. Non mancano nel brano alcuni passaggi propriamente math, tuttavia ben mascherati nel sound da non risultare, come spesso accade per il genere, frammentati, ma anzi mostrano una certa scorrevolezza pur mantenendo intatta la particolarità dei tempi scombinati e delle ritmiche scritte attraverso funzioni matematiche. Pur essendo un'opera di alto valore, si sente ahimé la mancanza di un brano che spicchi sugli altri, che possa trainare la proposta della band anche alle orecchie più esigenti. Il talento dei quattro giovani è evidente, l’originalità pure, ci sono le potenzialità per arrivare molto in alto. Ad ogni modo, un plauso è dovuto per la capacità di equilibrata commistione tra generi in sè molto diversi che nella musica dei Fight Cloud convivono in placida armonia. Il disco chiude con “Year of the Bold”, che mischia scenari aritmetici e compulsivi con ambienti incantati quasi da fiabe Disney, a riprova ancora una volta dell’estro del quartetto. Questo disco è un’esperienza: immaginate di percorrere un sentiero incontaminato e surreale con la sola compagnia di pioggia, foschia e vegetazione aliena; la meta sembra molto distante e il viaggio assai lungo, ma nessun timore potrà raggiungere il viaggiatore perchè... 'We’ll Be All Right'. (Matteo Baldi)

martedì 17 maggio 2016

Dimlight - The Lost Chapters

#FOR FANS OF: Gothic/Death Metal, Crematory, Atrocity
The third full-length from Greek dark/death metal unit Dimlight offers even more to like here with the bands’ take on symphonically ornate gothic overtones with death metal ferocity. As can be expected here, lush, grandiose keyboards swirl around throughout the majority of the work here which makes for an over-the-top display of orchestral work here from the keyboards being accompanied rather nicely with the operatic vocals being featured. Mixing the striking clean female soaring vocals with the raspy male counterparts may seem like Gothic metal basics but it works here with the slow, pounding rhythms at the forefront of the bands’ other attacks. Coming complete with pounding drumming and the occasional deluge into romantic arrangements within the rest of the music here, it’s all quite fun and dynamic here with this one mostly utilizing the up-tempo work and offering plenty of Gothic-tinged symphonics to put a lot of enjoyable work on display here. The band does tend to fall into minor trouble with the fact that there’s nothing really unique or creative about this kind of symphonically-charged Gothic/Death Metal as it’s pretty basic and by-the-numbers styled work generating all the rather familiar notes here with one-note blistering drumming, up-tempo riffing and orchestral-styled keyboards offering a bombastic symphonic undertone. They’re clearly competent and cohesive enough but not without a lack of identity to really stand out here even if the songs themselves are enjoyable. Instrumental intro ‘The Inception’ features a deep droning noise intro with a spoken-word storytelling set-up that leads into proper first track ‘Spawn of Nemesis’ featuring blistering drumming amidst grand orchestral keyboards charging along into a frantic series of symphonic flurries while keeping the Gothic rhythms at the forefront with the over-the-top keyboards and drumming continue swirling along into the light choppy rhythms throughout the final half for a fun overall effort. ‘Shattered Idols’ uses grandiose symphonics over blazing drumming and tight riff-work carrying along simple rhythms while keeping the over-the-top symphonics buzzing along through the series of thumping patterns with the extended instrumental interlude carrying the symphonics throughout the finale for a dynamic highlight. ‘Invoking the Hunter’ features a dark, haunting swirling series of riffing alongside the sweeping patterns and pounding drumming into a steady mid-tempo attack as the swirling rhythms lift for romantic keyboards and soft riffing that off-sets the quiet energy throughout the final half for a decent enough effort. The instrumental mid-album breather ‘Dark Things of the Desert’ simply uses a brief storyline segue to lead into next track ‘Children of Perdition’ with swirling riff-work and a blistering series of orchestral symphonics alongside utterly raging drumming that soon settles into a mid-tempo series of meandering rhythms and light melodic work carrying through the slight variances in tempos throughout the finale for a solid if unspectacular effort. ‘Torrents of Blood’ takes a swirling operatic intro with the symphonic keyboards leading into blasting drumming and sweeping riff-work leading the tight chugging riff-work and light symphonics plodding along to a slow, sluggish pace with plenty of sweeping orchestral work in the final half for another overall solid-if-unspectacular offering. ‘Fear of Heavens’ uses strong swirling symphonic keyboards alongside blasting drumming with plenty of tight riff-work that flows into a steady mid-tempo series of chugging symphonic patterns with blasting drumming carrying the bombastic keyboards along into the charging symphonic-led finale for a strong and impressive offering. ‘Clash of Immortals’ features light, soft romantic patterns before exploding into furious drumming alongside sweeping majestic symphonic keyboards and light gothic riff-work that deviates nicely between several strong tempos with sweeping orchestral work coming through into the spoken-work final half for an overall fun effort. Lastly, ‘Fields of Carnage’ takes epic symphonic keyboards and haunting melodic notes to gradually build into crushing drumming blasting throughout the sweeping majestic keyboards that turns into driving mid-tempo symphonics with plenty of tight rhythms and ornate symphonic orchestral movements leading throughout the grandiose finale for a solid lasting impression. It’s mostly all about the lack of identity with this one that keeps it down. (Don Anelli)

(Five Starr Records - 2015)
Score: 80

https://www.facebook.com/Dimlighttheband/

Skoll - Of Misty Fire We Are

#PER CHI AMA: Black/Pagan
Mi domando per quale motivo nessuno in Italia abbia dato una chance agli Skoll. Stiamo parlando di una band attiva nell'underground italico da più di vent'anni, fautrice di un black pagano che affonda le proprie radici nella tradizione folklorica nostrana. Che esce però per un'etichetta coreana e qui sta l'anomalia. Ci hanno comunque visto bene gli amici della Fallen Angels Productions a prendere sotto la propria egida l'act piemontese, che nella propria line-up vanta peraltro membri ed ex di Opera IX, Huginn e The True Endless, tanto per citare solo alcuni nomi. Il nuovo 'Of Misty Fire We Are' segue a distanza di tre anni 'Grisera', che ben aveva impressionato per il suo epico viking black. La sensazione con il nuovo disco è quella di immergersi nella desolata brughiera e li attendere, anche se non so cosa esattamente. E l'evocazione della opener "La Luna del Lupo", oltre a richiamarmi per mal celati motivi, 'Il Trono di Spade', è alla fine un epico e malinconico inno alla Luna e al suo essere in totale equilibrio con quanto di naturale stia sotto la sua luce. Il sound è quello di sempre, capace di miscelare un po' tutte le componenti black, pagane e vichinghe che da sempre contraddistinguono la band di M. e soci. "Into the Misty Forest I Go" è una tiratissima traccia di black thrash in cui a mettersi in luce è il martellare incessante del drummer Mayhem e a sorprendere invece una seconda parte dai forti connotati folk, sia a livello musicale che vocale. "Teutoburgo" è la narrazione di una battaglia, tra il fragore delle armi e le urla dei guerrieri, il tutto cantato rigorosamente in italiano (ma non è la sola traccia del disco ad utilizzare il nostro divin linguaggio), in un epico sound che può essere facilmente accostabile a quello degli Spite Extreme Wing. "Exercitus Antiquus" presenta invece un'importante componente atmosferica, fin qui tenuta in secondo piano, ma che qui assolve invece il ruolo predominante nell'economia di un brano che probabilmente per intensità emotiva, incedere doom e per il contenuto delle liriche, si conferma la più oscura del lotto. Non la mia preferita però, rappresentata piuttosto dalla successiva "Misty Mountains", con quel suo sound a metà strada tra Primordial e i Dimmu Borgir di 'Enthrone Darkness Triumphant', in cui la voce di M. si diletta tra l'evocativo e un growl sempre facilmente comprensibile. Arriviamo a "La Tempesta degli Elementi", il penultimo pezzo dei disco e non possiamo che rimanere piacevolmente colpiti dal suo incedere minaccioso, sorretto da sprazzi tastieristici che si contrappongono alle possenti trame ritmiche. A metà brano arriva anche il vento a sferzare con potenza l'aria, riuscendo addirittura a suggestionarmi e indurmi brividi di freddo, prima che il pezzo si infuochi nella sua seconda metà tra decadenti melodie e cupi fraseggi. A chiudere il disco ci pensa la breve ma efficace "Eternal Path" che in pochi minuti riassume l'epica e suggestiva strada imboccata dagli Skoll. Dei pagani! (Francesco Scarci)

(Fallen Angels Productions - 2016)
Voto: 75

https://www.facebook.com/BandSkollIta

domenica 15 maggio 2016

Дрём - 2

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Bisogna ammettere che il funeral doom ha un fascino eccezionale, riesce a paralizzare ogni momento di ascolto rendendolo immediatamente eterno, divinizzando quel senso di caduta profonda, portando il nostro spazio/tempo in una dimensione astratta e riflessiva, tagliata in due tra romanticismo e malinconia, muovendosi lentamente, costantemente nell'ombra, permettendoci infine di esplorare parti buie e meritevoli oppure malate e dannose del nostro inconscio inesplorato. Il funeral doom lo si ama o lo si odia, nessun compromesso è lasciato al fato. Tutta questa poetica come premessa alla presentazione di un album stupendo uscito lo scorso anno per la solita Solitude Productions, release che non fa altro che confermare l'elevata qualità di produzione dell'etichetta russa. Questa one man band riafferma, qualora fosse stato necessario, la presenza nel mondo del doom e di una scintillante scena russa in grado di soddisfare anche i palati più sopraffini al genere. Pari a tante proposte conterranee, questo artista di nome Дрём (Dryom) sale in cattedra offrendoci un magistrale affresco funeral, dai tratti esasperati e decadenti, pesantissimi, con brani di lunga durata (per una media di 15 minuti), tastiere infinite e una voce sepolcrale ai confini della realtà umana che alla fine risulterà essere il vero protagonista di tutti i pezzi. Dissonanze, suoni atipici e perfino l'utilizzo di un marranzanu - tipico strumento a bocca del sud Italia ma in realtà originario dei paesi del nord Europa, poi importato dai Normanni in seguito alla loro permanenza nel sud del bel paese - una batteria drammatica e ossessiva, una chitarra distorta e tagliente come una frusta, su brani che non si ripetono mai, dotati di una certa propensione verso un suono metal sinfonico che fa da comune denominatore a tutte le quattro lunghe tracce del disco, per un totale di circa sessanta minuti di puro oblio cosmico. L'artwork di copertina è poi cosi affascinante, con immerso nell'oscurità, un paesaggio post atomico invernale carico di suggestione. Ascoltando questo secondo album del mastermind russo si corre seriamente il rischio di perdersi, adorando gli esercizi gutturali di quella magnifica voce spettrale, emarginata, malata e trasudante un senso di vuoto persistente, avvertendo la presenza, anche per soli pochi attimi, di una luce carica di speranza, disseminati tra una composizione e l'altra senza mai cadere nel plagio, e con un'originalità ottenuta scavando nell'anima. Un album da ascoltare con il fiato sospeso! Una vera perla! (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 90

sabato 14 maggio 2016

Otus - 7.83 Hz

#PER CHI AMA: Post Metal Esoterico, Isis, Cult of Luna
Pur non capendoci granché, devo ammettere di essere profondamente affascinato dalla simbologia, dai messaggi criptici e da ciò che non si vede eppure sai che è li e vuole dirti qualcosa. Prendere in mano lo splendido digipack dei capitolini Otus (peraltro il nome di un genere d'uccelli che include i gufi, e dietro a questo moniker a mio avviso si cela qualcosa di misterioso) è un viaggio tra gli oscuri anfratti dell'io introspettivo che mostra l'approccio più empirico e scientifico (piuttosto che religioso), volto a mostrare una possibile via per raggiungere le "Porte della Percezione". Ecco, scritto questo, mi sono già perso per il sentiero della conoscenza, sotto l'effetto della mescalina e delle sue susseguenti esperienze mistico-psichedeliche, che verosimilmente vivrete con l'ascolto di questo lungo concept album, diviso in tre capitoli ispirati alle esperienze dello psicologo Timothy Leary, che appunto provò l'effetto di funghi allucinogeni contenenti psilocibina e poi dell'LSD, coniando lo slogan "Turn on, tune in, drop out" ("Accenditi, sintonizzati, abbandonati"). Tralasciando gli ulteriori aspetti che si nascondono tra le tracce di questo '7.83 Hz' (che si rifà alla frequenza di Schumann di 7.83 hertz del campo magnetico terrestre, e in generale anche del "brain entrainment" relativo allo stimolare degli stati emotivi attraverso l'ascolto di alcune vibrazioni specifiche; ma lascio a voi un più dettagliato approfondimento) mi abbandono immediatamente all'ipnosi guidata dal mantra dell'opener "Avidya" e dal suo successivo incedere tra suoni sludge/postcore a la Cult of Luna, corredato da growling vocals e chorus sciamanici, nonché da una certa effettistica che ricorda la psichedelia dei The Doors. Psichedelia che ritrovo anche nell'intro della seconda "Last Of The Four", traccia che si muove lenta e sinuosa grazie al suo riffing possente e alle voci baritonali del vocalist. Quello che colpisce è la veste seventies che si materializza quando le tastiere salgono in cattedra per cui improvvisamente, vedo apparire al mio fianco Jim Morrison a sussurrarmi nelle orecchie cosa scrivere in questa recensione. Già stordito dai suoni ritual-esoterici degli Otus, inizio anche a provare le prime mistiche visioni mentre scorro il booklet del cd, ove mi pare di intuire che la realtà in cui viviamo è una distorsione dell'Universo, per cui non c'è un dritto o un rovescio della medaglia, forse non esiste neppure un bene o un male e tutto va letto in una visione che fino ad oggi mi era completamente sconosciuta. Il suono nepalese della terza "Echoes And Evocations" prova ad aprire i miei chakra e sbloccare il mio terzo occhio. Che diavolo succede, provo a ribellarmi a questa situazione, ma la musica degli Otus prosegue nel suo intento di mettermi in equilibrio con l'Universo sebbene l'utilizzo di un approccio non del tutto convenzionale qual è il post metal, le percussioni tribali di "Phurba" e del mantra che a metà brano prova nuovamente a catalizzare i miei sensi ormai in balia della proposta, corrosiva e mistica allo stesso tempo, del quintetto di Roma. È un viaggio si, lo confermo, a cui vi suggerisco di non sottrarvi, rischiereste di avere dei rimpianti. Meglio lasciarsi traviare allora dalle magnetiche frequenze sonore degli Otus, e dalle onde della meditazione, quelle che emergono dalla corrosiva "Theta Synchrony", che trova il tempo di curvare la sua arcigna proposta per sprazzi di suoni elettro-ambient che mi consentono di entrare quasi in trance spirituale. Ed ecco quelle fantomatiche frequenze irrompere nella title track, quasi a voler penetrare a tutti i costi il mio cervello che continua ad ostacolare gli accadimenti. Non c'è verso però, la musica degli Otus ottunde i miei sensi, attraverso il delicato arpeggio di "Black Lotus", sulla cui eterea melodia si staglia spaventosa la voce del frontman, mentre l'armonia musicale smuove gli spettri di Isis e Cult of Luna, in quella che è la mia traccia preferita dell'intero lavoro, cosi imperniata di sonorità post a me care, ma anche di un certo ipnotico refrain dal vago sapore orientale. Il flusso dinamico degli Otus prosegue attraverso la fase alfa della meditazione, quella della liquida "Alpha Phase". Parlavo in precedenza di percezione della realtà: la lisergica "Res Cogitans, Res Extensa" accorre in mio aiuto, citando il buon Cartesio e la sua distinzione tra realtà psichica, quella che possiede le qualità di inestensione, libertà e consapevolezza, e la realtà fisica, che è estesa, limitata e inconsapevole. Una song lunghissima che avrà modo di risvegliare i vostri sensi intorpiditi, come una gentile carezza sul vostro viso grazie alle sue splendide melodie psych/post rock. La musica degli Otus si ferma qui dopo un viaggio di oltre settanta minuti tra filosofia, misticismo, empirismo ma soprattutto tanta musica post di pregevole fattura. Esoterici. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 85

The Haunting Green - S/t

#PER CHI AMA: Post-core, Neurosis
Li ho visti dal vivo, in compagnia degli Oranssi Pazuzu, mi hanno subito colpito. Sono arrivati dritti allo stomaco i The Haunting Green con il loro sound minimalista, aggrovigliandomi le budella, complici quei suoi umori stranianti e quell'aura sinistra che avvolge questo loro primo EP. Occhio però che il duo friulano non è di certo di primo pelo: Cristiano Perin, il vocalist nonché chitarrista e responsabile delle parti elettroniche del progetto, e l'affascinante Chantal Fresco (a sedere dietro le pelli) sono stati anche membri di uno dei più talentuosi e sfortunati ensemble della penisola italiana, gli A Cold Dead Body, che recensii su queste stesse pagine anni addietro, forse era il 2010, e che dopo quell'eccellente disco, se ne persero le tracce. I due musicisti tornano con un nuovo progetto di doom sperimentale che vanta puntatine nell'ambito del post metal, nell'ambient e nel drone. Quest'ultimo è già testimoniato dall'apertura "dronica" di "The Mournful Sons", traccia che delinea i contorni musicali dei The Haunting Green. La song ha una partenza contraddistinta da cibernetiche e soffuse atmosfere, che vengono mandate in frantumi dall'arcigno screaming di Cris, mentre la brava Chantal tocca sommessamente rullante e crash, in una traccia dai contorni melmosi, al limite dello sludge più ossessivo dei Neurosis. "Our Days in Silence" persiste nell'essere strisciante nel suo incedere, un po' come mettere in musica la classica immagine del serpente a sonagli che col suo movimento a fisarmonica, scivola nel deserto dell'Arizona. Il brano vira poi verso torbide e contratte atmosfere, prima di dipanarsi verso un lungo e acustico finale malinconico. Con "Eradicate" i toni si fanno ancora più caustici e pesanti, pur non essendoci alcuna vera e propria accelerazione a livello ritmico; quel senso di ansia è alla fine dettato da un sound di chitarra che si dirige verso malate spirali di distorsione che nel suo disarmonico suono, mi ha evocato qualcosa degli ultimi Ephel Duath. Un interludio noise drone, per cui sembra addirittura di udire il classico ronzio dei motori dei velivoli che ormai sorvolano comunemente i nostri cieli, ed è il tempo di "V", l'ultimo capitolo, peraltro strumentale, di questo disco. La song sembra però più un esercizio di stile di Cris, che si muove tra riffoni post metal, porzioni progressive (e jazz), per cui mi sento nuovamente in diritto di chiamare in causa gli Ephel Duath, e break acustici che convogliano il tutto verso l'apocalittico finale di questo interessantissimo EP. The Haunting Green: da tenere assolutamente sott'occhio e soprattutto vedere dal vivo. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 75

Warchief - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock/Sludge
Phonosphera Records ci sta viziando non poco: oggi parliamo di un altro interessante Lp dell'etichetta nostrana, il S/t dei finlandesi Warchief. Il 12 pollici è esteticamente una perla, partendo dalla cover art che raffigura un astronauta esausto che si lascia trasportare da un cavallo per una landa deserta dove sullo sfondo si stagliano arcaici edifici. Un'opera in stile sci-fi che ha lo scopo di attirare l'occhio e ammagliarlo con il suo look onirico. Il vinile è poi di un rosso brillante, quasi a raffigurare un sole incandescente che brucia alto nel deserto, in un cielo che potrebbe essere quello terreste in un prossimo futuro oppure quello di un altro mondo. Anche per i Warchief la stampa è stata fatta su 180 gr. di PVC, una garanzia di qualità per la lettura sul nostro fido giradischi. Il quartetto spazia tra sonorità stoner, sludge e rock, che unite alla loro buona attitudine, regalano quattro brani curati e dall'ottimo groove. Il disco inizia a girare, la puntina si abbassa sul fido piatto della Technics e la traccia di apertura, "Give", riempie la stanza. Un mid-tempo dal mood spirituale ed epico, dove i riff di chitarra sono una goduria per le mie orecchie, grazie anche a distorsioni grosse ma non troppo esasperate, il giusto per lasciar trapelare molte armoniche. Tramite il vinile sembra di accarezzare velluto di ottima fattura. Gli intrecci di basso e di batteria rispecchiano quanto di meglio l'hard rock abbia insegnato durante le decadi d'oro e i Warchief sembra ne abbiano fatto buon uso. La classica alternanza strofa-ritornello crea un ottimo equilibrio tra potenza e introspezione. Il cantato ha un ruolo molto importante nella song perché la sua cadenza e la sua timbrica regalano un non so che di epico, simile ad un canto primitivo che si alza per farsi udire da un dio che non ascolta. "Life Went On" è un'opera rock di nove minuti abbondanti, tramite la quale, la band attraversa varie evoluzioni stilistiche. La parte iniziale è caratterizzata da una ritmica lenta e ossessiva, con un soffice riff distorto di chitarra che cerca di ipnotizzarvi per portarvi nelle lande perdute del subconscio. L'esplosione non si fa attendere, con il vocalist che sale di tonalità fino a toccare le stelle, poi la calma torna improvvisa e si ricomincia daccapo con una variazione semplice ma efficace del tema. Mentre il basso tesse una trama di sub frequenze che smuovono il nostro io interiore, l'esplosione torna e ci investe, forse in modo un po' prevedibile. La psichedelia deriva più dalle ritmiche e dai semplici riff che dai classici assoli. L'influenza dei Truckfighters e affini si percepisce facilmente, ma il cantato e gli arrangiamenti aiutano i Warchief a scrollarsi di dosso questa pesante somiglianza. Il disco chiude con "For Heavy Damage" a cui è dedicato l'intera side b, quindi circa ventuno minuti che sembrano riprendere il tema della precedente traccia, quasi ad esserne essa stessa un'evoluzione. I riff si fanno più cadenzati e sporchi di sonorità blues, ma allo stesso tempo si sente parecchia influenza rock anni '70 che tanto sembra cara alla band. Gli stacchi e le riprese compongono i dieci minuti della prima parte e aiutano a non abbassare mai il livello di guardia, grazie ad allunghi che ci lasciano godere con calma ogni singola sfumatura prodotta dalla puntina del giradischi. Un assolo alla Electric Wizard ci dimostra che la sezione delle chitarre se le cava bene anche sotto quest'aspetto, poi il quartetto si fa prendere da un'isteria musicale e continua con la propria evoluzione. Il brano chiude con un campionamento vocale di qualche film di vecchia data, sempre di grande effetto, anche se un po' troppo di moda nell'ultimo periodo. 'Warchief' alla fine è un buon esordio che mette in chiaro le doti della band finnica, sebbene in un panorama musicale, lo stoner rock/sludge, decisamente affollato; credo tuttavia che grazie ad un ottimo cantato e all'ottima capacità compositiva, i Warchief saranno in grado di ritagliarsi la loro fetta di notorietà. Facile intuire, che questa crescerà proporzionalmente con l'impegno e il sacrificio. (Michele Montanari)

(Phonosphera Records - 2016)
Voto: 75

giovedì 12 maggio 2016

Malevolentia - Répvbliqve


#PER CHI AMA: Black Symph, Fleshgod Apocalypse, Dimmu Borgir, Xerath
Rappresenta la normalità per il terzetto di Belfort prendersi lunghi periodi di pausa tra un disco e il successivo: era successo con il debut album nel 2005, per cui dopo sei anni uscì 'Ex Oblivion' (recensito dal sottoscritto su queste stesse pagine nel novembre 2011) e finalmente dopo altri cinque anni di silenzio, ecco giungermi tra le mani 'Répvbliqve', sempre edito dalla Epictural Production. Che dire di nuovo dei nostri sinfonici blacksters? In realtà non molto, visto che la proposta dei transalpini riprende là dove si era interrotto con 'Ex Oblivion'. Probabilmente l'unica novità sostanziale è l'aver enfatizzato la componente orchestrale, mantenendo comunque inalterata la ferocia di fondo. Lo dimostrano i fatti: "Annuit Cœptis" è la prima selvaggia traccia che irrompe nel disco dopo la classica intro. Sicuramente da più parti si dirà che i Malevolentia vogliano emulare i maestri Dimmu Borgir (o i nostrani Fleshgod Apocalypse), e in parte potrebbe anche essere vero. Tuttavia quello che colpisce maggiormente nella nuova fatica di Spleen e soci, è la carica cinematografica che intride ciascun singolo brano di 'Répvbliqve', che lo rendono cosi maestoso e ricco di contenuti. E cosi in "Völuspá", accanto alle torve e malvagie vocals di Spleen, ecco accostarsi il cantato operistico di una gentil donzella (la si ritroverà lungo tutto l'album), con la musica che comunque prosegue la sua corsa sui binari di magniloquenti orchestrazioni che ben si sovrappongono a sinistre sfuriate black. Chiaramente le tastiere e le orchestrazioni assumono il ruolo cardine nella matrice sonora dei Malevolentia, ma il risultato è sicuramente di rilievo, che mi rincuora del fatto che il black sinfonico ha ancora ragione di vivere e di dire la sua. Cosi "Etemenanki", lungo il suo imperioso scorrere, mi fa venire i brividi per le sue straordinarie orchestrazioni (fortissimo qui l'influsso dei Dimmu Borgir, devo ammetterlo) e mi fa arricciare i baffi per la maligna aura che possiede. Un epico bagno di sangue che avrà modo di esaltare i vostri sensi anche attraverso la pomposità dell'intermezzo "Virtù & Fortuna", che prepara la strada alla maestosità di "Magnus Frater Spectat Te", un brano che mette in evidenza anche alcune linee di scuola death metal, su cui si stagliano cori ritualistici. Splendido poi il break centrale, che ha il ruolo di generare una fortissima suspence. Questa sembra infatti essere la ricetta dei nostri nel loro flusso sonico: creare una certa tensione emotiva, da cui scatenare poi la propria tempesta ritmica. Ovviamente non è tutto oro quel che luccica, e se dovessi cercare un difetto a 'Répvbliqve', lo andrei a identificare nell'eccessivo numero di brani, ben 14, che alla lunga potrebbe distogliere anche l'attenzione di chi ascolta con piacere questa monumentale opera di black sinfonico, che a livello lirico chiama in causa il clima di autoritarismo e oppressione descritto da Orwell, ma anche una certa occulta simbologia massonica, che si ritrova nella grafica del digicd, il tutto poi cantato rigorosamente in lingua francese. Che altro aggiungere se non invitarvi caldamente all'ascolto di 'Répvbliqve', nuova maestosa opera dei Malevolentia. Prossimo appuntamento? Speriamo un po' meno dei canonici cinque anni, mi raccomando, ci tengo! (Francesco Scarci)

(Epictural Productions - 2016)
Voto: 80

https://www.facebook.com/MalevolentiaBM

mercoledì 11 maggio 2016

Funeral - In Fields Of Pestilent Grief

REISSUE:
#PER CHI AMA: Death/Doom
Ho avuto il piacere di ascoltare una recente ristampa di 'In Fields Of Pestilent Grief', album del noto gruppo norvegese Funeral, risalente all'anno 2001. Si tratta del secondo full-length per i nordici veterani del doom metal, che negli anni hanno spaziato e sperimentato all'interno di diversi generi, perseguendo differenti strade stilistiche nel corso della loro carriera. Il disco in questione, appartiene alla fase doom melodica della band, che si era già assestata con il debut 'Tragedies'. La peculiarità di questo periodo è la presenza dietro al microfono di una voce femminile, Hanne Hukkelberg, che senza dubbio contribuisce enormemente a forgiare lo stile caratteristico dei Funeral. Voci acute e spettrali apportano infatti quel giusto tocco gotico al doom pesante dei norvegesi, che tuttavia mantiene anche ricchi passaggi e linee vocali (quasi) melodiche. Il muro sonoro creato da chitarre e basso pesantemente distorti pare infatti impenetrabile, salvo poi aprirsi in fraseggi e passaggi in cui aleggiano melodie taglienti, come nello stacco chitarristico dell'opener “Yeld To Me”, o addirittura sezioni acustiche e pulite. Fanno la loro comparsa persino degli intermezzi strumentali (la title-track e la chiusura "Epilogue"), completamente pianistico il primo, mentre nell'atto conclusivo si articolano orchestrazioni tastieristiche, che terminano l'opera con una leggera sfumatura, in un'atmosfera da brivido. Le ritmiche vengono mantenute lentissime ed inesorabili e il loro incedere straziante è ciò che origina la mesta atmosfera di decadimento e tristezza che pervade l'intero album. Questo trascinarsi di cupe emozioni è acuito anche dalle vocals acutissime e tetre, che sovrastano l'energia e la potenza dell'impianto “Funeraliano”: queste rappresentano il tocco finale, la ciliegina su quest'ottimo lavoro compositivo. Nonostante la monoliticità del genere esplicata attraverso tempi estremamente lenti possa indurre a una certa ripetitività, le notevoli abilità compositive della band fanno si che ciò non accada. Anche nelle situazioni che possono sembrare più monotone e scarne, si avverte come i Funeral riescano a garantire fantasia e varietà ad ogni passaggio, pure con estrema semplicità. Ricche variazioni sul tema sono apportate da molteplici elementi, dalle orchestrazioni cupe delle tastiere, dagli assoli melodici di chitarra, o dai fraseggi mistici ripetuti fino allo sfinimento, senza tuttavia mai annoiare. Basti ascoltare “The Stings I Carry“, in cui il tema chitarristico viene instancabilmente trascinato dall'inizio alla fine, come l'eco di un perpetuo lamento. Altro pezzo notevole è “When Lights Will Dawn” che ci dimostra appieno quanto appena detto: il suo tema onnipresente seguito dai chorus e dagli acuti della Hukkelberg, le ritmiche inesorabili, gli assoli conclusivi e quella costante atmosfera quasi epica, sospesa a metà, contribuiscono a donare una sensazione di ascensione dall'oscurità opprimente. Si tratta del brano più lungo del disco e sicuramente anche del più impegnativo e riuscito dal lato musicale-compositivo. Un brano un po' diverso dagli altri è invece la nona traccia, “Vile Are The Pains”. La definisco differente perché è l'unica dell'album a non essere cantata dalla brava Hanne, ma è eseguita interamente dal tastierista Ottersen. Al termine di questa special edition, si trovano due tracce bonus, altro non sono che le vecchie demo version dei pezzi “When Lights Will Dawn” e “The Stings I Carry”, anch'essi cantati da voce maschile in una versione alternativa davvero pregevole. Penso non serva aggiungere altro per descrivere un disco del genere, che sicuramente ha rappresentato un capitolo estremamente significativo nella storia dei Funeral, band simbolo per tutta la scena doom da vent'anni e più a questa parte. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

martedì 10 maggio 2016

Terrorfront - We Don't Come in Peace

#PER CHI AMA: Black/Thrash Old School, primi Bathory, Possessed
Con una cover cd che richiama inequivocabilmente 'Panzer Division Marduk' dei Marduk (l'affinità con la band svedese rimarrà limitata al solo artwork), andiamo a conoscere i Terrorfront, band nostrana proveniente dalle pendici del Vesuvio, Napoli. 'We Don't Come in Peace' dichiara apertamente la natura guerrafondaia del quartetto partenopeo, che in questa prima loro fatica, ci aggredisce con soli cinque pezzi (che includono l'intro e la feroce cover dei Bestial Mockery, "Necroslut"), dediti a un sound sporco e primitivo. "Human Decline", oltre ad evidenziare la natura decadente della nostra società e a presagire l'arrivo di una nuova apocalisse, mette in mostra la brutalità della proposta old school del combo italico, anche a livello di una produzione casereccia, di quelle che nascevano in una session con amici, registrata nello scantinato di casa. Se vogliamo anche la musica dei quattro teppisti campani scava nelle viscere del metal, scomodando mostri sacri del black thrash primordiale, come Possessed o i Bathory del primo lp omonimo, che si rintraccia nel riffing abrasivo di "The Sons of Radiations". Per chi è nato sotto il segno di queste sonorità scarne e corrosive, a cui aggiungerei anche i Kreator degli esordi e gli Aura Noir, non sarà certo difficile dare un ascolto a questo disco, sarà come un tuffo nel passato, avere l'impressione che gli anni '80 non siano mai conclusi, che 'Morbid Visions' dei Sepultura o 'Hell Awaits' degli Slayer girino ancora come tapes, nel vostro rude impianto hi-fi, privo mi raccomando, di un lettore cd. Per chi invece è abituato a produzioni cristalline, pompose e magniloquenti, nonchè di sonorità contaminate, all'insegna del post-qualcosa, avantgarde o similia, l'EP dei Terrorfront rappresenterà soltanto un'anarchia musicale da cui fuggire. Per pochi nostalgici. (Francesco Scarci)

(Lupus Niger - 2015)
Voto: 60

https://www.facebook.com/terrorfront666

Weird Fate - Cycle of Naught

#PER CHI AMA: Post Black/Avantgarde, Deathspell Omega
Bella scoperta i tedeschi Weird Fate, me li ero stranamente persi per strada, visto che 'Cycle of Naught' rappresenta già il loro secondo album, dopo l'esordio sulla lunga distanza nel 2012 e addirittura uno split datato 2008. I quattro di Rhineland tornano con sei pezzi di black ancestrale in cui convogliano diverse influenze: nell'iniziale "The Worthlessness of Striving", è impossibile non cogliere l'eco dei Melechesh nel saliscendi ritmico imbastito dai nostri nella prima parte del brano, che evolverà poi in un evocativo finale ritualistico, quasi da pelle d'oca. Con "Irretrievable" si cambia registro, conducendoci nei meandri di un funeral doom contaminato da sonorità post black. Ma con i Weird Fate non si possono certo dormire sonni tranquilli, visto che la loro proposta musicale si conferma costantemente mutevole con cambi repentini di tempo, di umori e pure di genere, per cui talvolta il rischio è addirittura quello di perdere il filo conduttore. Non c'è pertanto da stupirsi se in un preciso momento vi sembrerà di udire un che dei Behemoth per quelle sfuriate black/death, il secondo successivo cogliere l'epicità dei Bathory, un attimo dopo le scorribande cascadiane dei Wolves in the Throne Room fino ad arrivare al black "sconnesso" dei Deathspell Omega, tutto questo in otto minuti di totale delirio sonoro che ricordo essersi originato da suoni funeral. Tutto chiaro ora? No, perchè se avete ancora dubbi a proposito, sono certo che i nove minuti della folle "Inside the Sore", potrebbero schiarirvi le idee oppure incasinarvele ancor di più, data l'incredibile capacità del quartetto teutonico di buttare sul fuoco talmente tante idee da indurmi ancora una volta a faticare nel seguirne la proposta, non proprio lineare. Forti anche di un'ottima produzione e sicuramente di una preparazione tecnica di primo livello, i Weird Fate hanno modo di sparare altre significative cartucce nella post rockeggiante (si, avete letto bene) "Foreboding", una traccia che ha il merito di minare ulteriormente le mie certezze, mischiando un prologo post rock con un oscuro pezzo black. Un bell'arpeggio apre "Of Void and Illusion", ma è la classica quiete prima della tempesta, non fatevi ingannare pure voi. Il sound dell'act del Palatinato esplode in un dirompente black che ha modo di evocare nuovamente le ultime evoluzioni sonore dei Deathspell Omega, ma in grado anche di farci sprofondare nelle viscere della terra nel finale, in cui i suoni, ormai totalmente disarmonici, mi fanno pensare di essere in preda agli effetti di non so quale droga psicotropa. Il disco si chiude con la title track, che ci investe con gli ultimi deliranti minuti di questa band tanto incredibile, quanto ostica da approcciare, segno comunque di una forte e spiccata personalità. Coraggiosi. (Francesco Scarci)