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giovedì 28 aprile 2016

Steal the Universe - Ascend

#PER CHI AMA: Metalcore/Djent, Meshuggah, Tesseract
La Francia è diventata ormai un paradiso musicale. Da Dijon giungono oggi i metalcorers Steal the Universe con il loro debut EP, 'Ascend'. Il genere come avrete già capito è all'insegna di un metalcore stracarico di groove in ogni sua singola nota. Si parte alla grande con le ritmiche sincopate di "Breather", song che oltre ad avere il classico piglio ruffiano, trademark del genere, ha modo di sciorinare un breve ma efficace assolo di stampo heavy metal, per poi continuare ad attaccare con sonorità arrembanti, stop'n go, ritmiche serrate, frangenti acustici e growls accattivanti, tutto nell'arco di soli quattro minuti, un lampo se pensate al minutaggio di per sè, un'eternità per le innumerevoli evoluzioni che scorreranno nelle vostre orecchie. "Eternal" è l'atto secondo: le linee di chitarra sono ultra melodiche e costantemente in evoluzione tra cambi di tempo improvvisi, aperture classiche, vocioni e riff pestanti, il tutto sempre catalizzato da una elevata vena melodica e condensato in pochi spiccioli di minuti, tre e mezzo in questo caso. Anche qui l'assolo è da urlo. C'è più cupezza nelle note di "Illusions", song che continua sulla linea delle precedenti, strizzando l'occhiolino inevitabilmente a destra ai Meshuggah e a manca ai Tesseract, per i suoi poliritmici traccianti chitarristici. Quello che continua a stupirmi, oltre a una certa preparazione tecnica, è la fase solistica dell'ensemble transalpino con melodie che si piantano nella testa e non si scollano più, cosi come quella melodia iper ruffiana della successiva "Lonely". Sia ben chiaro che gli Steal the Universe non sono degli sfigati musicisti che suonano canzoncine per quindicenni, nelle note di 'Ascend' c'è davvero buona musica, magari la giudicherete derivativa, ma di idee ce ne sono parecchie e da sviluppare ulteriormente nell'immediato futuro. "Daylight" è roboante nel suo ingresso, con debordate ritmiche che martelleranno non poco lungo tutta la schizofrenica traccia, in cui a confermarsi sopra la media sono però questa volta gli ottimi vocalizzi di Benjamin Doussot. L'ultima "Introspection", come suggerisce anche il titolo, ha una vena più introspettiva, meditativa, quasi malinconica, pur mantenendo inalterato lo stile dei nostri e suggellando il tutto con un altro sorprendente assolo. Magari c'è da rivedere ancora qualcosa (forse il vocalist è troppo incalzante), ma se il buongiorno si vede dal mattino, gli Steal the Universe si trovano sulla strada giusta. (Francesco Scarci)

mercoledì 27 aprile 2016

Un Giorno Di Ordinaria Follia - Rocknado

#PER CHI AMA: Rock/Blues/Stoner
Oggi parliamo di un quintetto che fa tremare il padovano già da qualche anno, gli Un Giorno Di Ordinaria Follia (UGDOF) che giungono alla seconda autoproduzione (la prima risale infatti al 2012). Il gruppo nel suo moniker omaggia chiaramente il film ben interpretato da Michael Douglas nel 1993, assumendone appunto il nome e portando sul palco un look ad esso inspirato, anche se li dovremmo bacchettare perchè si limitano al completo da impiegato e alla mazza da baseball, quando un bel bazooka farebbe la sua sporca figura. La band brucia del sacro fuoco del rock e come la tradizione vuole, lo vive al 100%, dalla sala prove alla vita di tutti i giorni. Il digipack di 'Rocknado' è ben fatto, la grafica è in stile fumetto ed prende esempio dal grande Frank Miller e in particolare dal suo capolavoro 'Sin City'. Un investimento che appaga anche la parte visiva e tattile della musica. Al suo interno troviamo sette brani che gocciolano puro rock mischiato a blues, grunge e pure qualche rimembranza stoner, ossia tutto il bagaglio musicale che l'allegra combriccola ha maturato negli anni. L'album parte in gran carriera con "Polar", una rocambolesca cavalcata rock fatta di batteria che scalcia come un toro rinchiuso, basso che trasuda palpitazioni sub soniche e chitarre che si divertono come bambini in un negozio di dolci. I riff si susseguono in rapida sequenza come un tornado che si abbatte su una città inerme e rassegnata all'accidia, mentre gli assoli potrebbero risvegliare attitudini sexy anche nel novantenne più assopito. Il cantato è rigorosamente in italiano ed il timbro del vocalist è maturo, quello di uno che qualche palco se l'è sudato e non rifiuta uno o due shot di buon doppio malto. Nonostante la band abbia una palese attitudine ironica e goliardica, i testi affrontano anche temi sociali ed esistenziali, questo per insegnare che il rock e la musica in genere, sono sempre un buon strumento per far passare dei concetti importati senza banalizzarli. "The Fonz" è il singolo a cui la band ha dedicato un video continuando con i riferimenti cinematografici/televisivi, in questo caso viene preso in causa il meccanico dal giubbotto in pelle e pollice all'insù più famoso al mondo. Anche qui le ritmiche sono dritte e coinvolgenti, senza bisogno di artifici strani per far si che il piede inizi a battere il tempo in maniera autonoma. I due chitarristi srotolano una miriade di note e riff che fanno passare i centocinquanta secondi di canzone in un attimo. "Cotton Club" piace invece per le grosse influenze blues e soul, un mix di nostalgia e rabbia in cui viene chiesto in continuazione all'interlocutore di trovare qualcosa di più profondo oltre alle lenti degli occhiali indossati dal protagonista. Le scariche di chitarra distorta in contrapposizione alla linea tranquilla di voce-batteria-basso, rappresentano la perfetta metafora dell'irrequietudine che alberga dietro l'apparente calma di una persona qualunque che incrociamo ogni giorno. Un brano meno facile, che mostra il lato più inquieto del quintetto padovano, quello oltre l'inesauribile energia, dove si nascondono le profonde ferite accumulate negli anni. Un bell'album 'Rocknado', di puro rock con le giuste influenze, fatto da persone che hanno lasciato la sperimentazione ad altri e si dannano per fare al meglio la musica che hanno ascoltato e vissuto negli anni. Il valore aggiunto è che gli UGDOF si impegnano a mettere in piedi uno spettacolo oltre il puro live, ricreando una certa scenografia e coinvolgendo il pubblico per portarlo nel loro mondo dove la follia è all'ordine del giorno. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 70 (75 Live)

http://www.ungiornodiordinariafollia.com

martedì 26 aprile 2016

Presumption – From Judgement to the Grave

#PER CHI AMA: Stoner/Doom, Spiritual Beggars, Candlemass
Orange Goblin, Pentagram, Nebula, Trailer Hitch, Candlemass, Acrimony, Sheavy, Sixty Watt Shiaman, Bigfoot, Spiritual Beggars, una lunga carrellata di nomi della prima ondata stoner negli anni novanta che non bastano per inquadrare questa band francese totalmente autoprodotta. Le varie sfaccettature dello stoner rock di scuola Man's Ruin e un artwork di copertina a metà strada tra i Cathedral degli EP 'Statik Majik' e 'Hopkins' e i Karma to Burn di 'Almost Heathen', in una corsa acida e psichedelica verso qualcosa di interessante, fresco e accattivante, pesante, introverso ed energico. Il cd in questione è 'From Judgement to the Grave' che rappresenta il secondo prodotto dalla band di Le Mans dopo un primo album del 2013. Uscito nel 2014, l'EP rispolvera molte caratteristiche del suono psichedelico tipico del deserto, anche se il quartetto francese predilige senza indugi, aggiungere un tocco di classic heavy vintage alla Spiritual Beggars o di doom in stile Candlemass per rendere il risultato più appetibile, fantasioso e variegato. Suonano con abilità i quattro francesini e molto spesso si lasciano andare in cavalcate di acidissimo blues impolverato e sporco cantato in inglese, in modo più che mai coinvolgente, dal bassista/cantante Moomoot che mi ha ricordato spesso l'energia vocale che si trovava nei primi dischi degli Alabama Thunder Pussy o nelle vocals del mitico Christian "Spice" Sjöstrand dei già plurinominati Spiritual Beggars. Solo il brano "La Meffraye" è cantato in lingua madre e devo ammettere che fa uno strano effetto sentire lo stoner rock cantato in francese. Dopo un po' di ascolti, emerge più che mai la qualità dei nostri che dà più valore alla personalità e alla versatilità della band. Il disco scivola veloce senza falle e la cosa che si fa più notare è la facilità con cui questi space rockers transalpini riescono a spostarsi musicalmente dai canyon e i saloon dei deserti americani alle ben più oscure cattedrali europee senza difficoltà alcuna, giocando con intrecci sonori molto contrastanti tra loro collegati spesso con genialità e tanta abilità compositiva. Ascoltatevi l'intro del disco e tutto di un fiato la seguente "Albert Fish Blues" con il suo intermezzo acustico bluesy e progressivo, vellutato e ammaliante, e un finale doom dallo straziante odore di apocalisse per capire l'astratta tipologia di stoner rock che questa band riesce a suonare. La quintessenza dello stoner riveduta e risuonata intelligentemente! (Bob Stoner)

domenica 24 aprile 2016

The Pit Tips

Emanuele "Norum" Marchesoni

Funeral - In Fields of Pestilent Grief
Opeth - Blackwater Park
Persona - Elusive Reflections

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Francesco Scarci

Show Me a Dinosaur - S/t
Cosmic Letdown - In the Caves
Echoes of the Moon - Entropy

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Kent

Swans - The Burning World
Earth - Pentastar In The Style Of Demons
Nick Cave & The Bad Seeds - Let Love In

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Don Anelli

Artillery - Penalty by Perception
Soijl - Endless Elysian Fields
Fireleaf - Behind the Mask

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Michele Montanari

Cult of Luna and Julie Christmas - Mariner
Zippo - After Us
Egypt - Endless Flight

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Mauro Catena

Iggi Pop – Post Pop depression
Motorpsycho – Here Be Monsters
Brad Mehldau – 10 Years Solo Live

sabato 23 aprile 2016

Abhorrent - Intransigence

#FOR FANS OF: Brutal/Techno Death, Atrocious Abnormality, Origin, Deeds of Flesh
The debut effort from Texas brutal/technical death metal psychos Abhorrent features plenty of enjoyable yet somewhat formulaic takes on the merging of the two styles. With the brutality making the most impactful impression here, from the tight, raging rhythms and furious, swirling riff-work on display here there’s plenty to note here of this style which makes the album seem all the more technically challenging when it manages to make these seem all the more devastating by offering the kind of overwhelming musicianship that works nicely alongside that heavy chugging rhythms. This makes for a rather enjoyable time where it manages to mix them even further with challenging, complex riff-work that offers tight, brutally blistering rhythms alongside the fine drumming carrying that alongside its series of blasting charges that work really well together. Though this one does tend to come off a little one-sided with it’s rhythms as the songs tend to blend together into a blur of tight chugging and blasting drum-work, it’s really the one problem here. On the whole the tracks aren’t that bad. Instrumental intro ‘Passage’ offers an ambient sound collage amidst a sea of churning riffing leading into proper first track ‘The Elegance of Asymmetry’ featuring plenty of tight chugging riffing, dexterous drum-blasts and churning patterns keeping the unrelenting pace full of complex tempo changes and rhythm switches as the brutal blasting drumming brings the tempo changes into the final half for a strong opener. ‘Ifrit’ uses swirling technical patterns and charging drumming full of challenging arrangements utilizing tight, frantic patterns alongside the technically-challenging riffing charging into the swirling arrangements and brutal drum-work in the finale for another strong effort. ‘Reward System Malfunction’ utilizes churning rhythms and plenty of tight, blasting drumming that takes the challenging, complex patterns alongside the mid-tempo riff-work churning along through the series of swarming, churning rhythms blasting along through the final half for the album’s clear highlight offering. The mid-album instrumental breather ‘Clarity of Will’ brings deep, thunderous bass-lines and classical piano notes that offer a calming, relaxing air leading into next track ‘A Lightness of Mind’ features tight, blaring rhythms and plenty of technical swirling rhythms charging along throughout the plodding mid-tempo paces with the charging rhythms and blaring bass-lines holding the complex rhythms along into the tight finale for an enjoyable effort. ‘Ill-Conceived’ immediately blasts through tight patterns and chugging rhythms with plenty of frantic and complex arrangements making for a rather charging series of riffing patterns leading into the swarming solo section and chugging along into the complex final half for another solid and enjoyable effort. ‘Eternal Recurrence’ takes frantic mid-tempo chugging and complex riffing alongside the rattling drum-work utilizing plenty of tight, raging rhythms throughout the sprawling tempos charging along the mid-section with the aimless chugging and frantic drumming blasting along in the finale for a mostly bland effort overall. ‘Larva’ uses a light, extended acoustic intro before turning into tight, complex riff-work and dexterous, blistering drum-blasts taking the thumping rhythms along through the sprawling mid-tempo rhythms featuring the challenging riffing turning back into blistering drum-work for the final half into a stylish and enjoyable effort. Album-closer ‘Parasite’ takes a steady, sprawling rhythms and complex, blasting drum-work that soon settles into frantic, unrelenting riff-work alongside the explosive, challenging rhythms leading into the churning rhythms along throughout the steady tribal patterns leading through the finale for a solid lasting impression. There’s not a whole lot here that doesn’t really hold it back. (Don Anelli)

(Willow Tip - 2015)
Score: 80

Expedicion a las Estrellas - The Sentient

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale, Explosions in the Sky
È tempo di partire per le stelle. E farsi cullare dai loro suoni, dalle loro luci. Dopo oltre cinque anni, tornano a farsi sentire i messicani Expedicion a las Estrellas (EALA), che tanto osannai in occasione del loro album '27'. Ho atteso troppo tempo però per ascoltare la nuova fatica del combo di Zacatecas, sebbene saltuariamente il chitarrista della band mi inviasse qualche brano per appagare la mia trepidante attesa. Alla fine eccomi qui, finalmente accontentato, alle prese con 'The Sentient', il tanto agognato secondo capitolo della saga EALA, un lavoro che è uscito un anno fa, ma soltanto ora, nella sua forma definitiva, arriva tra le mie mani. Un album che consta di dieci brani, un disco scarno di per sé, che riesce sempre e comunque ad abbinare sonorità post rock, guidate da un riffing tremolante, con malinconiche melodie ("Nuestras Alas se Vuelven Hielo Roto en el Solitario Frío del Espacio") e sonorità più graffianti (la title track ad esempio, mostra accanto a un rifferama caustico tocchi di pianoforte, campionature vocali e delicati arpeggi). Il disco, strumentale nella sua interezza, scivola via tra un capitolo e il successivo, tra ondivaghi cambi di tempo, strappi rabbiosi, frangenti notturni, sprazzi di lugubri ("No Longer Lost in Space but at Home") e sognanti atmosfere ("Fantasmas Disfrazados de Conejos Atrapados en Sombreros de Infinito Vacío"). Qualcosa però nel giocattolo EALA sembra essersi rotto: diverse infatti sono le differenze rispetto al passato. In primis l'abbandono quasi totale della matrice embrionale post black, per affidare un più ampio spazio a quelle ariose e calde aperture di scuola Mogway ed Explosions in the Sky, un peccato perché era un qualcosa che rompeva gli schemi all'epoca e non poco. Trovo che sia un peccato anche il fatto di aver eliminato le vocals feroci, prediligendo asettiche campionature vocali (peraltro alcune estratte da '2001: Odissea nello Spazio', e altre estrapolate da ulteriori film tra cui anche uno del nostro Pasolini, 'Salò o le 120 giornate di Sodoma'). Si sono perse un po' per strada anche quelle lunghe divagazioni post-metal/post-hardcore che collidevano con le escursioni jazz, math e folk che tanto mi avevano entusiasmato ai tempi di '27', i cui mistici contenuti lirici, rendevano ancor più intrigante e misterioso il contenuto di quel platter. Ebbene, se preso individualmente, 'The Transient' è un disco di interessante post rock, che vede nella schizofrenica "Clavius in Terror" il mio pezzo preferito. Certo che se vado a confrontare questo disco con un passato che trovo ancora geniale quanto mai delirante, ecco che il confronto si fa impari e mi fa vivere questa nuova release come una tremenda delusione. E allora, il mio suggerimento è di avvicinarsi a 'The Transient' e farlo vostro cosi come viene, senza caricarlo di troppe aspettative come ho erroneamente fatto io, lasciandovi ipnotizzare dai suoi psichedelici suoni, dalle sue innumerevoli imperfezioni (da rivedere il suono della batteria), dalle sue stranezze e dai suoi comunque preziosi punti di forza. Cinematografici! (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 70

venerdì 22 aprile 2016

E.N.D. - Demonic8

#PER CHI AMA: Thrash Metal, Machine Head, Testament
I croati E.N.D., formatisi nel lontano 1996, ha pensato bene di riesumare, registrando nuovamente, una decina di demo che hanno accompagnato la band nel primo periodo d'attività tra il 1997 e il 2005. La raccolta, uscita per la Geenger Records sul finire del 2015, mostra il trio in ottima forma stilistica, con un'energia micidiale per un'esecuzione da manuale con cui la band intende confermare la propria visione musicale: dieci brani di granitico thrash metal per una quarantina di minuti dedicati alla devastazione totale. Gli ingredienti sono i tipici del genere: aggressività, chitarre ruvide, voce urticante, doppia cassa da delirio, ritmiche serrate e compatte. Ottima la performance in 'Human Aggression' dove il Thrash con la T maiuscola, emerge per eccellenza mentre "In Spite of Emptiness" mostra un suono più complicato e irrequieto, introverso e sperimentale, tanto da richiamare anche solo in parte, il suono dei mitici Meshuggah. In altri brani si sentono le influenze degli anni '90, tra Machine Head, Sepultura e altri grandi che hanno fatto storia come Testament o Carcass , rivisitati però con il suono moderno di band come Misery Index o Lamb of God. A tratti il sound del terzetto di Zadar sfoga la propria ira verso sonorità veramente taglienti, composizioni al vetriolo che si spingono al limite dello sperimentale, sporcate da un istinto industrial, come nella splendida "Raped Souls", violenta, sinistra, robotica e micidiale. Un album questo 'Demonic8', che ci permette di scoprire un'ottima band, che ha sempre creato buona musica tenendo alto il proprio lato più personale e genuino, anche in quei tempi dorati dove suonando Thrash metal, era facile cadere nelle trame del plagio o della band fotocopia. Una carrellata di brani veloci e fruibili, suonati assai bene, con grande energia e sapiente conoscenza del genere, interpretati da veri e propri cultori, nonchè veterani protagonisti della scena Thrash. Per gli amanti di questo filone estremo 'Demonic8' potrebbe rappresentare una retrospettiva davvero appetitosa. Buon appetito dunque e senza fare complimenti, spaccatevi le budella e pure le orecchie! (Bob Stoner)

(Geenger Records - 2015)
Voto: 75

http://endband.net/album/demonic8-2015

Temple of Dust - Capricorn

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Blues Rock
Oggi, con estremo piacere mi accingo a parlare dell'edizione in vinile di 'Capricorn', debutto degli italianissimi Temple of Dust, uscito per l'etichetta Phonosphera Records. Il trio monzese nasce nel 2013 e debutta l'anno successivo con la versione EP di 'Capricorn', ovvero due brani in meno pubblicati su cd e in digitale. I Temple of Dust si caratterizzano per un blues pesante contaminato da sonorità stoner, doom, noise e post rock, ovvero una mazzata dritta allo stomaco che vi farà ricordare gli Hawkwind e la loro psichedelia acida. Il disco è stato stampato in trecento copie e si contraddistingue per il colore bianco del PVC e l'artwork ben fatto, quindi un bel pezzo da collezione per gli amanti del suono meccanico. Il lato A apre con la title track e veniamo accolti subito dalle note di basso che escono piene e suadenti dalle casse dell'impianto mentre il disco (180 gr.) gira in maniera perfetta sul mio piatto. Le chitarre entrano di prepotenza ed oltre a creare il classico muro sonoro, creano in sottofondo una linea melodica distante, in puro stile post rock. Poi è la volta dell'effetto phaser applicato alle sei corde, tipico dello stoner e del rock psichedelico che crea un turbine di suoni pronto a trascinarci negli inferi. Ritmica pesante e cadenzata, quasi a volere dettar legge su quali siano i giusti bpm che regolano i ritmi circadiani della nostra esistenza. La voce ha subito un processo di distruzione sonoro e successivo ricomponimento con l'aggiunta di una buona dose di effetti. Se tutto questo è stato fatto per regalarci qualcosa di diverso dal classico cantato, non possiamo che apprezzare. La miscela è ben riuscita e dona una carattere evocativo a tutto il brano mantenendo un elevato impatto. "Requiem for the Sun" accelera rispetto a quanto sentito fin'ora e acquista parecchio in groove, con i riff di chitarra belli spavaldi anche se qualche arrangiamento ha quel non so di già sentito che permane nella nostra testa. L'assolo aumenta lo stato di ansia già di per sè elevato del brano, insieme a un cantato che è molto più comprensibile, ma sempre carico di riverbero e/o delay. Un brano che vi farà dondolare la testa anche se non vorrete, è assicurato. "Szandor" chiude il lato A del disco ed è un diamante parzialmente grezzo: la ritmica di basso è molto new wave e i tocchi di chitarra vi faranno attraversare mondi lontani dove la sabbia del deserto è blu e il cielo verde. Per tutto il brano è presente il campionamento di un monologo dalla provenienza non meglio precisata, una scelta già fatta da altri, ma comunque azzeccata. Un'ottima colonna sonora dove le chitarre liquide della band vi faranno compagnia per oltre sei minuti. Del side B, vorrei segnalarvi "Goliath", probabilmente il brano che preferisco, infatti in poco più di cinque minuti, il trio mette in piazza il meglio del loro repertorio. Un classico blues imbastardito da una sezione ritmica accattivante ed un fantastico riff di chitarra che come un mantra si ripete all'infinito, ipnotizzandovi in un piacevole stato di meditazione. L'alternarsi del riff principale, in versione pulita e distorta, permette al brano di avere una sua dinamicità e verso la conclusione si aggiunge anche una lieve linea di synth che da un tocco sci-fi che non guasta. 'Capricorn' alla fine è un LP ben fatto, sia musicalmente che a livello di registrazione e post produzione; il feeling del vinile è indiscutibilmente un orgasmo per le nostre orecchie martoriate da migliaia di file mp3 che hanno la dinamica di un manico di scopa. Lunga vita alla buona musica prodotta altrettanto bene. (Michele Montanari)

(Phonosphera Records - 2016)
Voto: 80

https://templeofdust.bandcamp.com/album/capricorn-lp

mercoledì 20 aprile 2016

Chrch – Unanswered Hymns

#PER CHI AMA: Doom, Solitude Aeturnus, Earth, Cathedral
Non esistono compact disc dei Chrch ma solo audiocassette o vinili, ed io sono il fiero possessore di uno di quest'ultimi. Tre tracce, quarantacinque minuti. Il combo californiano, con questo debut album, evoca un doom ipnotico, estenuante, con tratti psichedelici e poderosi fendenti sonori. “Dawning” si apre con movimento paradossalmente veloce, ove le chitarre granitiche dettano il ritmo, il basso è enorme, distorto e riempie ogni poro dell'anima. La voce pulita di Eva si alterna con lo screaming arcigno di Chris in un orrorifico dialogo. Verso metà brano si entra in un banco di nebbia sostenuto da arpeggi puliti dai contorni liquidi, dove la voce femminea accompagna l'ascolto tra il monolitico pronunciarsi della linea ritmica e un'eterea chitarra solista. Durante quest'onirico viaggio, la nebbia si dirada progressivamente fino a far tornare le distorsioni sovrane e aumentando il ritmo esponenzialmente fino a ritrovarsi nel movimento iniziale, che colpisce con ancor più forza e malvagità. Segna l'inizio del lato B “Stargazer”, song che si rivela la parentesi melancolica del disco e culla l'ascolto nell'agonia della saturazione sonora. Le chitarre sono melodiche e l'atmosfera sognante non si perde nemmeno quando nella seconda metà del brano, il tutto s'incupisce con sporadici scream e chitarre maggiormente aggressive. La conclusiva “Offering” rallenta ulteriormente il ritmo trascinandoci in un buio e interminabile oblio. Le pennate si fanno ancor più lente, il sustain e i feedback invitano la materia grigia a dissolversi, le urla angoscianti avvertono dell'impossibilità della salvezza, le basse frequenze non lasciano quartiere. 'Unanswered Hymns' è un disco a dir poco mastodontico a livello di suoni, volumi e songwriting. Riesce a catturare, emozionare, distruggere e tumulare tutto ciò che si è provato. L'ascolto è altamente consigliato sia ai proseliti della scena stoner-doom americana che a coloro che sono più affezionati alle funeree atmosfere continentali. (Kent)

(Battleground Records - 2015)
Voto: 80

Heartbeat Parade - Hora de Los Hornos & Some Sort of Naked Apes


#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Math Rock
Dopo 'Digital Tropics' dei Mutiny on the Bounty, è la seconda volta nel giro di un mese che mi trovo alle prese con una band proveniente dal Lussemburgo. La musica del trio è un intrigante insieme di math, hardcore e post-metal strumentale, sul quale vengono però sapientemente innestati samples di spoken words provenienti da film, documentari, notiziari radiofonici o televisivi, per un risultato davvero interessante. Saranno state le aspettative non proprio altissime, ma confesso di essere rimasto piacevolmente sorpreso dalla freschezza di questi due album e di averli ascoltati molto piú a lungo di quanto non mi sarebbe stato richiesto ai fini della sola recensione. Niente di rivoluzionario, sia chiaro, ma di sicuro un concentrato di ottime idee realizzate nella migliore maniera possibile. Gli Heartbeat Parade sono musicisti dotati di ottima tecnica ma hanno l’intelligenza di non abusarne e in piú hanno l’inventiva che gli permette di trovare sempre soluzioni intelligenti e sorprendenti. 'Hora de Los Hornos' è il loro terzo lavoro, del 2013, il primo vero e proprio album e quello con cui arrivano alla piena maturità espressiva. L’equilibrio tra le componenti math e hardcore riesce sempre a reggersi in modo mirabile nonostante la sua fragilità, e la scelta dei campionamenti risulta sempre estremamente suggestiva, ovviando nel migliore dei modi all’assenza di un cantato vero e proprio. In particolare, questo espediente permette alla band di affrontare tematiche sociali affidandosi alle voci della cronaca, che unite alla loro musica travolgente, permettono di ottenere un risultato dall’alto tasso emotivo. 'Some Sort of Naked Apes' è invece il loro ultimo full-length, uscito sul finire del 2015, e rappresenta un ulteriore passo in avanti nella proposta della band lussemburghese, che si arricchisce di sfumature, cementa il suono e consolida un’intesa tale da raggiungere vette di quasi perfezione in brani quali “Choc et Stupeur”, “Another One Wipes the Dust” e “Bottom up!”, dove si realizza quell’ideale connubio di potenza e delicatezza, tecnica e passione che vorremmo fosse sempre presente in tutti i lavori di questo tipo. Dischi consigliatissimi (in particolare l’ultimo) per una band davvero notevole. (Mauro Catena)

(Hora de Los Hornos - 2013)
Voto: 75

(Some Sort of Naked Apes - 2015)
Voto: 80

domenica 17 aprile 2016

Filth in My Garage - Songs From the Lowest Floor

#PER CHI AMA: Post-Hardcore, Amia Venera Landscape
L'Argonauta Records prosegue la propria politica votata alla scansione delle migliori realtà nostrane e non solo: dopo aver assoldato Nibiru, Wows e Kayleth, giusto per stare in casa nostra, l'etichetta ligure ha messo sotto contratto i bergamaschi Filth in My Garage, che giungono con questo 'Songs From the Lowest Floor', al tanto agognato Lp di debutto dopo due EP usciti nell'arco di quasi dieci anni. Non proprio prolifici è il caso di dirlo, ma la band ne ha la consapevolezza e comunque i nostri hanno speso il loro tempo con lunghi e proficui tour all'estero. Nel frattempo i lavori sono andati avanti per dare in pasto ai fan nuovi brani in una veste grafica davvero elegante. Il disco infatti esce in cd ma soprattutto in vinile, con un lavoro minuzioso fatto di scrittura a mano da parte di un calligrafo professionale e un booklet pazzesco (in stile cd) con delle illustrazioni deliranti, a cura del vocalist (chissà quali funghi allucinogeni avrà ingerito), associate ad ogni song del disco. Bando alle ciance ora e concentriamoci sulla musica dei cinque. Musica che si apre subito con una sorpresa: la sensazione è infatti quella di trovarci nel set del film 'Il Buono, il Brutto e il Cattivo' con tanto di colonna sonora firmata da Ennio Morricone, il classico spaghetti-western italiano. Neanche il tempo di adattarci a questa situazione che la band ci attacca con "Black and Blue" e il paragone potrebbe essere quello di un frontale con un bus. L'acido e contaminato post-hardcore dei nostri ci investe infatti con il proprio ritmo incalzante corroborato dall'ottimo scream/growl dell'allucinato Stefano, mentre i nostri ci concedono solo un brevissimo break che mi ha ricordato alcune cose degli At the Soundawn e degli Amia Venera Landscape. Il corrosivo sound dei nostri prosegue in "Devil's Shape", anche se qui le ritmiche non si rivelano cosi serrate come in precedenza, ma giocano piuttosto a rincorrersi tra cambi di tempo e break acustici, dove le voci abrasive vengono sostituite da un cantato pulito. "Greenwitch" è una strumentale che inzia col delizioso pulsare del basso di Simone, a cui via via si aggiungono gli altri strumenti per una rincorsa vorticosa contro il tempo per raggiungere "The Awful Path". Una song dal sapore quasi blues rock, a cui aggiungerei anche lo sludge, dove l'ensemble lombardo strizza l'occhiolino ai Neurosis, una traccia dall'incedere ondivago che mette in mostra la complessità strutturale della musica prodotta da questi ragazzi. Chi pensa infatti che l'hardcore sia semplice da suonare perchè mera derivazione del punk, e dei suoi suoni dritti, ascoltando 'Songs From the Lowest Floor', dovrà ricredersi completamente, dati i notevoli cambi di ritmo, di umori e tensioni che si avvertiranno durante l'ascolto del disco, che diventano ancor più profondi nella lunga e magnetica "Red Door", la traccia in cui fa capolino anche una certa influenza di scuola Isis: buone melodie, ritmiche che ondeggiano tra ipnotici downtempo e sfuriate di derivazione mathcore, alla The Dillinger Escape Plan, in una song davvero completa e massiccia, che non scorda neppure di palesare il classico break "prendi fiato". "The Lowest Floor" ci concede ancora il tempo di rifiatare con una traccia carica di groove ma anche della caustica attitudine screamo. Mi avvio a chiudere il disco con l'ascolto di "Owl Feather", un'altra, l'utlima traccia in cui il quintetto orobico ci delizia alternando momenti atmosferici e malinconici con sferzate di rabbioso hardcore. Insomma, 'Songs From the Lowest Floor' è l'ottimo biglietto da visita dei Filth in My Garage, far finta di niente e non concedergli un ascolto, sarebbe indegno da parte vostra. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://filthinmygarage.bandcamp.com/

sabato 16 aprile 2016

Swan Valley Heights - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Colour Haze, Truckfighters, Fu Manchu
Potrei chiudere questa review all’istante. Vi basti sapere che sullo splendido packaging di questo lavoro del trio tedesco Swan Valley Heights c’è scritto “Please listen at full volume”. E che le sette tracce (mai sotto i 6 minuti l’una, più spesso oltre i 9) sono un capolavoro di fuzz e bigmuff con le rotelle a fine corsa, basso distorto e pulsante, batteria minimale ma sempre precisa, arpeggi spaziali imbevuti di delay e una voce pulita e distante (forse l’unico neo del disco, per la sua scarsa personalità), leggermente grunge nelle scelte melodiche. Se esistesse una scuola di riffing, gli Swan Valley Heights sarebbero i prèsidi onorari a vita: potenti, lineari, ossessivi, precisi. Talmente in fissa per il groove, che non ho trovato un singolo riff noioso, banale o semplicemente riempitivo. Vi sfido a non canticchiarvi in testa il giro portante della spettacolare "Mammoth" (11 minuti abbondanti tra crescendo magistrali e cavalcate in pieno mood Truckfighters), a non muovere la testa a tempo su "Let Your Hair Down" o a non stupirvi ascoltando i cinque quarti di "Caligula Overdrive". Non si corre, qui: c’è molto mid-tempo ben sfruttato. Un paio di pezzi rallentano fino allo spasmo, tingendosi di cupe tinte doom ("Slow Planet", "Mountain"). Poi, quando meno ve lo aspettate, il viaggio tra stoner e sludge lascia la terra e si spinge nello spazio: "Alaska", o l’intro della splendida "Caligula Overdrive" sono gemme di psichedelia lisergica. A completare questo lavoro, metteteci una produzione magistrale: tutto il suono vi arriva in piena faccia, come un pugno. Cassa, basso e rullante fanno sobbalzare il torace e rimbalzano nel cranio (sentitevi il minuto 4.00 di "Mammoth"); la voce è morbidamente in secondo piano, dove dovrebbe essere; la chitarra è definita pur restando pastosa, grassa, gorgogliante di distorsione. Sono senza parole: un disco straordinario, in grado di far incontrare lo psych-stoner più tedesco con la scuola americana, il riffing di derivazione blues con l’ispirazione metallara di un certo stoner di oltreoceano. Comprate questo disco. (Stefano Torregrossa)

(In Bloom Publishing - 2016)
Voto: 85

https://swanvalleyheights.bandcamp.com/releases

Valgaldr – Østernfor Sol

#PER CHI AMA: Black Old School, Satyricon
La nota tela di Theodor Kittelsen è un piacevole primo impatto con il debut album dei norvegesi Valgaldr. E proprio come il dipinto è stato più volte ripreso da altri gruppi (Burzum in primis), il duo propone un black metal privo di qualsiasi originalità. Purtroppo, questa scelta di riprendere gli stilemi anni '90 si scontra con una mancanza di oltranzismo che non riesce a esaltare il prodotto finito. Il disco si apre con “Tusen Steiner”, traccia energica e dinamica la quale mi rimembra la tipica aggressività di un arcinoto gruppo elvetico, mentre la seconda “Et Slott I Skogen” si addentra con il suo riffing sgargiante su territori riconducibili alle melodie tipiche di gruppi come Satyricon, le quali ritroveremo pure in “Slagmark”, la traccia a mio parere più inconsistente dell'opera. “Taakenatt” è veloce, granitica, diretta e grazie alla sua monotonia rispetta tutti i canoni della genuinità tipica del metal oscuro scandinavo. Questa song, insieme alla traccia successiva rappresentano le prime composizioni dell'opera capaci di evocare un minimo di oscurità, soprattutto “Aske Til Aske” con il suo arpeggio semplice ma efficace.“Vargnatt” segna l'inizio della seconda parte del disco e saccheggia spudoratamente la musicalità di 'In the Nightside Eclipse'. Questa seconda metà, grazie a tracce come “Over Fjellheimen” e “Begravelsesferd”, placa la rabbiosità e la grinta thrash/black per affacciarsi verso parti più pacate ed evocative grazie anche a un approccio corale a livello vocale. A livello sonoro invece, le pecche principali del disco si potrebbero ricondurre a un songwriting matematico e ripetitivo, il quale nonostante i plagi non riesce ad amalgamare pienamente il tutto. Inoltre, troviamo una batteria debole e prevedibile che manca totalmente della furia tipica del genere; infine, un taglio delle frequenze alte che invece di enfatizzare una ricercata cupezza o suono wannabe “old school” non fa altro che togliere dinamica alle ritmiche. In conclusione, questa prima fatica non colpisce granchè nel segno e la sua piattezza è gravata ulteriormente dal potenziale derivante da tutte le idee riciclate. Perseguire uno stile sorpassato e esaurito nel suo ambito non è un male anche se è limitante, ma la mancanza di creatività non può essere giustificata. (Kent)

(Fallen Angels Productions - 2015)
Voto: 60

https://valgaldr.bandcamp.com/

A Time to Hope - Full of Doubts

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Math
Gli A Time to Hope (ATTH) sono un quintetto di Montpellier (Francia) che debutta con questo interessante EP autoprodotto, ma promosso dalla Dooweet Agency. ll sound della band francese è un post-hardcore/rock potente ed evocativo, come se gli Architects si fossero fusi con i Mogwai e avessero tentato di intraprendere un nuovo percorso musicale. Il giovane quintetto ha le idee chiare ed una buona tecnica di base, lo si capisce subito da "RosaRosa", la opening track di questo EP. Una potente scarica ritmica di basso e batteria sostiene infatti i velocissimi riff di chitarra, mentre il vocalist si destreggia tra canto melodico e screaming, ad enfatizzare nella maniera corretta i vari passaggi della canzone. I suoni sono quelli giusti per il genere e la gli arrangiamenti sono ben fatti, dove la ritmica complessa si fonde a meraviglia con i diversi intrecci di chitarra, rendendo il brano ben fatto e piacevole. In alcuni frangenti si sembra di percepire una sorta di influenza math che non guasta, rendendo più personale il lavoro fatto dalla band. Il cantato in inglese aiuterà sicuramente la band ad internazionalizzarsi, anche perchè l'uso della lingua madre avrebbe comportato uno sforzo che difficilmente sarebbe stato ripagato. "VII" si sporca di elettronica con una drum machine ambient appena percettibile che lascia quasi subito spazio alla versione acustica della stessa, mentre le chitarre si destreggiano in un fraseggio post rock carico di riverbero a ricreare un'atmosfera evocativa ed onirica. Un brano breve ma sufficiente a dimostrare che gli ATTH sanno soffermarsi e divenire più introspettivi quando vogliono. Piccola dimostrazione di personalità e padronanza di stile. "Catfish" rimette le cose a posto riportandoci di punto in bianco a dove avevamo lasciato la band quanche minuto fa, cioè a un post hardcore sincopato. Ancora degno di nota è il cantato, con il vocalist che riesce a trasmettere una vena triste e riflessiva alle melodie grazie a una timbrica abbastanza originale. I riff di chitarra convincono sempre di più, con un innesto di arpeggio pulito e il ritorno della drum machine a completare il disegno. Molto bella la coda del brano che ci spinge verso l'alto e ci regala una pausa, perfetta per meditare ed assimilare questo 'Full of Doubts', il perfetto biglietto da visita di una band giovane, ma pronta a farsi valere. Ben fatto mes amis! (Michele Montanari)