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mercoledì 9 marzo 2016

Veratrum - Mondi Sospesi

#PER CHI AMA: Black/Death, Fleshgod Apocalypse, Behemoth 
I bergamaschi Veratrum sono ormai amici di vecchia data: li abbiamo ospitati su queste pagine (ma anche in sede di intervista radiofonica) in occasione del demo cd 'Sangue' e successivamente per il debut album 'Sentieri Dimenticati'. Dopo una chiacchierata face to face prenatalizia e l'ascolto di alcune tracce del nuovo disco, eccomi qui a parlare più dettagliatamente di 'Mondi Sospesi', il secondo lavoro sulla lunga distanza, per il terzetto guidato da Haiwas. Ancora una volta vorrei partire elogiando l'artwork estremamente curato e suggestivo, un artwork che cela misteri, simboli e profezie qui espressi palesemente dalla torre di Babele che cappeggia nella parte destra della cover. Passando alla musica, qualche novità rispetto al passato è riscontrabile nei contenuti di 'Mondi Sospesi', ma andiamo con ordine e partiamo da quelle che sono le certezze dei nostri. Si parte con l'assalto sonoro di "Un Canto", che ricorda, qualora ce ne fosse bisogno, di che pasta sono fatti i nostri: ritmiche assassine di stampo black death, alla stregua di Behemoth e Belphegor, che confermano la solidità dell'ensemble lombardo. I nostri poi, continuano sulla strada del cantato in italiano e questo è assai apprezzabile; infine, la tecnica del trio, supportato nel disco da una serie di guest star, a confermarsi sempre eccellente. Detto questo, andiamo ad analizzare quelle che sono le novità che risiedono in questo lavoro. "Il Culto della Pietra" mostra una buona dose di melodia frammista a sfuriate ipertrofiche e alla presenza in sede vocale, di una gentil donzella, Aeon (vocalist degli Holy Shire), che presta la sua delicata voce su un tappeto ritmico che ondeggia tra una batteria simil contraerea e atmosfere ben più ariose alla Fleshgod Apocalypse. Ecco proprio i Fleshgod Apocalypse potrebbero essere la band a cui potremmo accostare il nuovo sound dei Veratrum, con il gruppo perugino in realtà più orientato verso lidi sinfonico-orchestrali. Nel sound dei Veratrum non troverete nulla di tutto questo, però la band ha imparato a pestare con stile offrendo parti più atmosferiche, sorrette da buoni arrangiamenti e aperture ricche di groove. Ma quando c'è da picchiare come fabbri (e penso a "Etemenanki"), i nostri non si tirano certo indietro e anzi spaccano culi che è un vero piacere. Ma la crescita dei Veratrum sta anche nell'alternare song prettamente feroci ad altre in cui la melodia ha la meglio su tutto il resto ("Il Tempo del Cerchio"), pur mantenendo una dose di violenza sopra la media, con le lyrics, sebbene in growl profondo, che diventano più chiare e addirittura canticchiabili (perdonami Haiwas), e dove splendidi assoli disegnano iperboli incantevoli nell'etere. Le ritmiche schizofreniche iper tecniche, in stile Nile sono ancora presenti nella matrice sonora dei nostri, non temete e "Quando in Alto" lo conferma chiaramente con velocità sostenute, cambi di tempo e ritmiche vertiginose che poco hanno da regalare in termini melodici, fatto salvo per un altro lavoro di cesello alle chitarre nella seconda metà del brano. L'alternanza violenza/melodia porta a confezionare poi "Davanti alla Verità", un pezzo più controllato che potrebbe evocare un ipotetico ibrido tra Dissection e Ecnephias, e in cui compaiono anche dei cori a cura di Alessandro Carella e Francesco Carbone degli Haddah, compagni di etichetta dei Veratrum e dove alla chitarra c'è in prestito Riccardo Lanza dei Death the Bride. Giungo velocemente all'ultima rasoiata black/death, "H Nea Babylon", che senza accorgermene, mi dice che sono passati 40 minuti di piacevole musica infernale. (Francesco Scarci)

(Beyond Productions - 2015)
Voto: 75

martedì 8 marzo 2016

Ambientium – Digiseeds

#PER CHI AMA: Experimental Ambient/Elettronica/Downtempo
'Digiseeds' è l'ultima produzione firmata Ultimae Records, uscita lo scorso dicembre e nel cui interno vi troviamo riuniti alcuni artisti che gravitano attorno all'etichetta francese in una compilation raffinata e di classe. L'opera è del musicista/DJ/compositore/eco–attivista ceco, Lubos Cvrk che qui esprime tutta la sua volontà di estendere questo genere musicale ad un pubblico più ampio, mettendo insieme una sequenza di brani davvero ispirata e omogenea, per un viaggio all'insegna della psichedelia digitale, il downtempo e l'ambient più ricco e ricercato. Tra tanti suoni dilatati, carillon fanciulleschi, elettronica minimale, peculiarità hi -fi, suoni d'ambiente naturale, paesaggi astratti e riflessivi e una ricerca maniacale dell'effetto ipnotico, i brani si susseguono con una scorrevolezza impressionante, con una forza rigeneratrice che coinvolge tutti i sensi, che gioca con la malinconia più sottile, che induce alla riflessione e alla fuga da ogni cosa, all'isolamento per ricaricare la nostra volontà di esistenza. Undici brani carichi di suggestive alchimie sonore, curatissime e ad altissima fedeltà, undici brani più uno che non è altro che il remix del brano "The Circadian Clock" di Sonml451 per un totale di sessantasei minuti avvolti (e che avvolgono) in un'atmosfera surreale, ancestrale che trova a mio avviso in "Seven Years of Summer" dell'artista One Arc Degree, il suo massimo splendore, con un'evoluzione del brano incredibile, fatta di composti ritmici tratti da continui rumori e interferenze, piccole imperfezioni che compongono una tela perfetta di micro sonorità rarefatte, allucinate, giocate al confine tra la new age e la psichedelia da colonna sonora per film d'avanguardia, tra William Basinski e la follia più estrema di Alva Noto. Una compilation ad alta densità tecnologica e dal taglio ricercato, intimista, surreale, con composizioni di altissima qualità e bellezza, da ascoltare tutta d'un fiato sospesi nel vuoto a fluttuare e perdersi in paradisi alternativi. Un ottimo lavoro per Ambientium, un'ottima released per la Ultimae Records che conferma la sua fama di produttrice di opere di qualità, sempre sofisticate e assai ricercate. Un album perfetto per i viaggiatori psichedelici moderni, per i ricercatori di libertà a 360°. Consigliato anche il suo ascolto ripetuto e approfondito ad alto volume e in cuffia, per una resa a dir poco spettacolare... divertimento e riflessione assicurati, buon ascolto! (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2015)
Voto: 80

Broken Down - The Other Shore

#PER CHI AMA: Industrial Rock
Oggi ci spostiamo in Francia, precisamente a Bordeaux, città natale dei Broken Down (BD), progetto della one-man band Jeff Maurer, che sta sotto l'egida della Altsphere, etichetta nata nel 2003 per promuovere principalmente l'estro creativo di quest'anima tormentata. Un lavoro interessante e soprattutto molto sfidante, dove l'industrial, il metal e la sperimentazione elettronica si fondono per dare alla luce nove tracce che passano dalla pura genialità all'irrazionalità più spinta. Il packaging è il classico jewel case con grafica che richiama la musica ambient, cioè un panorama lacustre di tonalità verde forzata in post produzione. Le radici musicali di Jeff affondano nei vecchi dischi dei NIN, Ministry e Killing Joke e questo si riflette pienamente nel suo progetto BD. Sonorità artificiali e meccaniche, come in "Mr Sun", dove la batteria elettronica sembra un metronomo militare che scandisce il conteggio dei caduti in guerra. Le chitarre sono in linea con il genere, forse un po' troppo zanzarose se vogliamo essere pignoli, ma se il risultato che si cercava era l'artificialità del suono, allora ritiro quando detto. La batteria è sovrapposta a percussioni metalliche ed insieme alla voce che decanta proclami di protesta, aumenta il rigore del brano che sarebbe un perfetto inno di rivolta. "Scribble Your World" cambia appeal, troviamo meno rigore e più sperimentazione musicale dove la contorta fusione di suoni di pianoforte, sono sostenuti dalla compatta trama di batteria e chitarra distorta. Anche qui il cantato ha un ruolo importante, nel senso che cambia vorticosamente da una leggera filastrocca ad uno screamo rabbioso e psicotico. Anche le evoluzioni ritmiche contribuiscono a dare dinamicità al brano, pur rimanendo sempre molto minimalista. Jeff riesce a tradurre i suoi stati mentali ed emotivi in maniera chiara e d'impatto, nonostante sia spesso difficile seguire la melodia principale della canzone. "Speculator" trasuda maggiormente le influenze metal dell'autore, qui addirittura si sconfina nel sinfonico con aggiunta di cori eterei ed archi che gonfiano la composizione. La programmazione della batteria elettronica limita notevolmente il groove del brano, infatti viene persa tutta l'umanità che un batterista in carne ed ossa riuscirebbe a trasmettere tramite l'uso di bacchette e pedali. I cambi di tempo sono sempre netti, perfettamente in stile industrial, ma una ricerca più approfondita di stile e ritmica avrebbe giovato maggiormente alla traccia. In generale l'autore dimostra di aver fatto un buon lavoro, giostrarsi tra strumenti e computer non è semplice e il rischio di perdere il filo è sempre alla porta. Il risultato è complesso e strutturato, una musica che difficilmente ascolterete come sottofondo per le vostre faccende quotidiane, ma che merita un'attenzione particolare per essere apprezzata a pieno. (Michele Montanari)

(Altsphere - 2015)
Voto: 75

domenica 6 marzo 2016

Show Me A Dinosaur – Dust

#PER CHI AMA: Post Metal/Post Rock strumentale 
Oscuro, pesante e nero, nerissimo. A tratti melodico, intendiamoci, ma di una melodia dissonante e carica di malinconia, suonata con grandissima sensibilità. E poi feedback, lunghissimi delay, fuzz e riverberi a tonnellate. Le distorsioni, cupe e potentissime, trasformano ogni esplosione in un soffocante muro di suono, che travolge e lascia sbalorditi (“Bhopal”). Il quartetto russo non lascia frequenze libere: là, sotto terra, il basso – sentite che registrazione perfetta! – è potente e preciso come una pulsazione primordiale (adorerete i 9/8 del gran finale della opening “Man Made God”). Le chitarre si dividono lo spettro sonoro: una, sulle corde più basse, costruisce architetture monumentali e oscure; l’altra, un paio di ottave sopra, traccia linee melodiche vibranti su singole, lunghissime note che si avvolgono in spirali di oppressione. La batteria, minimale nella sua insistenza sui crash e su cassa-rullante, dà all’intero disco la costante e inesorabile velocità di un enorme mostro marino, che emerge dai flutti per annunciare il giorno del giudizio. Gli Show Me A Dinosaur attingono a piene mani dalla tradizione post-rock (la scelta strumentale, i cambi di dinamica, gli arpeggi distanti, la predilezione per gli accordi pieni rispetto ai riff mononota, i lunghi break melodici), ma condiscono il risultato con tantissima personalità: nei suoni, negli arrangiamenti, nell’effettistica, nelle influenze – prog, doom, persino death (sentite l’inserto vocale in scream nella velocissima e violentissima “Rain”). Il disco si perde un po’ nel finale, preferendo tonalità maggiori e un aumento di velocità che, personalmente, mi ha lasciato un po’ stupito. Ciononostante, 'Dust' – pur avendo un paio di anni e con e con il nuovo lavoro “Vjuga” in uscita – è un disco ben fatto, equilibrato, ricco di momenti memorabili. Da ascoltare a volume esagerato. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 75

sabato 5 marzo 2016

Wreck Of The Hesperus - Light Rotting Out

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black Doom
'Light Rotting Out' è un album non nuovissimo ma di ottima fattura che la Aestethic Death Records ha riesumato dalle lande desolate del black/doom più intransigente, dimostrando ancora una volta di far centro nelle sue uscite con musiche di confine, violente, funeree, sperimentali ed estreme. Il cd, ormai datato 2011, si snoda in tre lunghissimi brani aprendo le danze con "Kill Monument" che lascia esterrefatti per le urla lancinanti d'estrazione molto black e gli infiniti lassi di totale silenzio usati come pause tra una colata di doom nero come la pece, sinistro, primordiale e cavernicolo e le successive trame più articolate e rumorose. Violentissimo l'impatto sonoro, con atmosfere da black metal viscerale, tanto difficili da trovare in un classico album funeral; la velocità del disco è ridotta, rallentata e soffocante, l'ambientazione tra il sacro e il profano, sempre e comunque meravigliosamente doom. Il sound è buio, crudo, malato sempre tirato all'estremo per una forma espressiva portata avanti da un'aurea drammatica dal marcato istinto animalesco, tetro e orrorifico. Sarà la splendida e disumana performance vocale di AC Rottt che ci macera il cuore e le carni con i suoi vocalizzi, a rendere il tutto così folle e disincantato, una forma di tortura che non brilla certo per suoni ad alta fedeltà ma che ci offre piuttosto un collage underground selvaggio, rarefatto, scarno, visionario e istintivo. Gli oltre dieci minuti di "Cess Pit People" spostano il tiro verso un corridoio d'avanguardia, incrociando il suono della nuova creazione di Lee Dorian, i With the Dead, con quello che fu il mito dei primi Napalm Death ed i Naked City per un'orgia di suoni dal secco odore industriale, un sound pronto a confrontarsi con gli ultimi Twilight e l'oscurità dei Vallenfyre vista al rallentatore. "The Holy Rheum" nella sua maestosa durata di ben oltre 20 minuti, è divisa in due atti, "Night of Negative Stars" e "Hologram Law", con il vuoto ancestrale che le divide e la cui evoluzione potrebbe creare molti problemi ad ascoltatori deboli di cuore. La sua veste sperimentale ed il sax ululante e folle, alla maniera del signor Zorn, esalta la potenzialità psicotica e la voglia di varcare il limite introducendo una splendida seconda voce in stile Death in June, marziale e pulita nel finale, a combattere con lo screaming forsennato e una batteria che regna incontrastata e paranoica, che mi ha ricordato l'estraniante capolavoro dei PIL, 'Flowers of Romance', ovviamente da immaginare in chiave rigorosamente black/doom/sperimentale. Rinchiuso in un digipack geniale formato A5, prevalentemente nero e dal gusto vintage, senza titolo né nome in copertina e quattro inserti tipo cartolina artistica a spiegare l'opera attraverso i testi dei brani, 'Light Rotting Out' si presenta come un diamante grezzo, pregiato, da essere ascoltato con le dovute maniere e meritare un posto d'onore nei vostri cuori. Questa band irlandese (in attività dal 2004 con una costellazione di release), sebbene cerchi con ogni mezzo di rimanere nell'anonimato più assoluto, deve essere scoperta ed apprezzata, anche se non tutti riusciranno a capirla, ma è innegabile che gli intenditori l'ameranno alla follia. Devastante per la psiche! (Bob Stoner)

(Aestethic Death Records - 2011)
Voto: 85

https://www.facebook.com/Wreck-of-the-Hesperus

Grey Heaven Fall - Black Wisdom

#PER CHI AMA: Black/Psichedelia, Deathspell Omega, Oranssi Pazuzu
I Deathspell Omega ormai fanno scuola a livello planetario e quest'oggi la loro ombra si è allungata fino a Podolsk, nella regione di Mosca, incarnandosi nelle note di questo 'Black Wisdom', secondo capitolo dei Grey Heaven Fall. La band russa mette a disposizione sei tracce per dar sfoggio del proprio black death acido e visionario. Proprio la opener, "The Lord Is Blissful in Grief", dà dimostrazione di come il terzetto abbia fatto propri gli insegnamenti dell'act francese (ma anche di un qualcosa degli Oranssi Pazuzu) e li abbia espletati in una forma assai efficace di sonorità estreme che deliziano le mie orecchie con scorribande di ferocia inaudita, inframmezzate da sprazzi di cupa e delirante psichedelia. Il risultato che ne vien fuori dalla prima traccia è senza dubbio vincente (oltre che di valore) e con gli oltre undici minuti di "Spirit of Oppression", la band sembra addirittura far meglio, sprigionando una ritmica serrata, che di sovente muta, divenendo instabile e psicotica, coadiuvata anche dall'eccellente voce di Arsagor, dotato di una timbrica feroce ma le cui parole sono facilmente comprensibili. Il brano viaggia su ritmiche abbastanza infuocate, non disdegnando tuttavia in taluni frangenti, rallentamenti da brivido, proprio come mostrato nel bel mezzo della seconda traccia, glaciale e mortifera al tempo stesso. I ragazzi nella loro furia primordiale non si fanno neppure mancare deliziose aperture melodiche o assoli malinconici, mantenendo comunque un costante flusso tensivo per l'intero brano e in generale in tutto il disco, prediligendo peraltro un più dilatato approccio strumentale. Le ombre dei Deathspell Omega, pur serpeggiando lungo gli oltre 50 minuti di 'Black Wisdom', vengono dissolte dalla spiccata personalità dei nostri, anche nel lisergico intermezzo strumentale di "Sanctuary Of Cut Tongues". "Tranquillity of the Possessed" inizia lentamente con ritmiche sghembe che mostrano ancora una volta la disinvoltura dei Grey Heaven Fall nell'incanalarsi in territori non cosi semplici da affrontare. E proprio qui risiede la forza di questo ensemble, non suonare scontati, ma affrontare senza timore le proprie paure, guardando la bestia infernale direttamente negli occhi. La cavalcata non si placa neppure nella inizialmente corrosiva "That Nail In A Heart", ultimo schizoide atto di questo imprevedibile 'Black Wisdom', che rappresenta a mio avviso il top di quanto ascoltato sinora, soprattutto quando a parlare è un meraviglioso assolo che da solo vale il prezzo del disco e per cui i nostri meriterebbero tutta la vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(Aesthetics of Devastation - 2015)
Voto: 75

https://greyheavenfall.bandcamp.com/

Downlouders – Arca

#PER CHI AMA: Psichedelia/Kraut Rock/Post Rock
Vede finalmente la luce il nuovo lavoro del collettivo varesino, nato nel 2009 come “laboratorio di ricerca basato sull’improvvisazione e la sperimentazione”, ed è, tanto vale dirlo subito, un disco bellissimo. I Downlouders sono un gruppo piú o meno aperto, che ha visto negli anni avvicendarsi diversi elementi accanto ad un nucleo stabile di musicisti provenienti da alcune delle migliori realtà della scena indipendente di Varese (tra gli altri Encode, Mr. Henry, Belize) e si sono fatti conoscere negli anni grazie ai loro “istant concerts”, session estemporanee e mai uguali a loro stesse, oltre che una serie di album tematici davvero interessanti. 'Arca' nasce e si compie in una settimana di registrazioni libere effettuate dai musicisti (per quest’occasione ben nove!) in un casolare sulle colline piemontesi, per poi essere mixato e masterizzato dalle sapienti mani di Andrea Cajelli ed Enrico Mangione (rispettivamente batterista e chitarrista, nonchè un sacco di altre cose, del gruppo) presso lo studio La Sauna, già menzionato su queste pagine per l’ottimo 'Magnifier' dei Giöbia. Il concept che sta dietro al disco e che ha ispirato le registrazioni, gira attorno ad uno dei più classici temi della psichedelia space rock, ovvero la fuga dalla terra a bordo di una nave spaziale alla ricerca di nuovi mondi da abitare. Solo che qui l’astronave, l’arca del titolo, è il capodoglio biomeccanico che fa bella mostra di sè nelle splendide illustrazioni dell’artwork curato da Andrea Tomassini (in arte Tsuna, anche valente cantautore). Il viaggio musicale che accompagna la spedizione trova la sua ispirazione tanto nella psichedelia dei Pink Floyd (quelli a cavallo fra 'A Saucerful of Secrets' e 'Meddle'), quanto nel kraut rock più spaziale degli Amon Düül II, filtrandoli peró attraverso le lenti della contamporaneità di un certo post rock, con una sensibilità simile (seppur meno sovversiva) a quella con cui i Flaming Lips hanno rivisitato 'The Dark Side of the Moon'. I 50 minuti che separano la partenza drammatica e grave di “Bake Kujira” dall’estasi finale di “Spermaceti”, meraviglioso crescendo in cui un piano elettrico arriva a sfiorare territori Jarrettiani, raccontano di un’avventura di cui non vorrete perdervi nemmeno un passaggio. Si passa attraverso la splendida “Moto Perpetuo”, in cui i Pink Floyd vanno a bagnarsi nel Bosforo e incontrano i Mogwai in viaggio sulla via della seta, alle chitarre twang da deserto spaziale di “Uno”, dai synth di “FTL” che ricordano i primi Tangerine Dream alle visioni apocalittiche in chiave Godspeed You! Black Emperor di 'Deriva'. Quando poi la chitarra acustica sul finale di “Velocità di Crociera” ti provoca un brivido lungo la schiena, capisci che ormai il viaggio non ha piú ostacoli e che il posto che hai raggiunto lo puoi chiamare casa. La cura maniacale rivolta alla timbrica degli strumenti, il trasporto con cui la musica nasce e si modella come materia viva tra le mani, le menti e le anime dei musicisti, sembra quasi stabilire un contatto con l’enorme nave-capodoglio, di cui giurereste di sentire il canto in sottofondo e vederne, con la coda dell’occhio, l’ombra fluttuare inafferrabile e leggera dietro di voi. Se 'S.P.A.C.E.' dei Calibro 35 è la colonna sonora di un western di Sergio Leone ambientato su un altro pianeta, allora 'Arca' è quella del viaggio leggendario della carovana che quel pianeta l’ha raggiunto per primo. (Mauro Catena)

(Lizard Records - 2015)
Voto: 85

https://www.facebook.com/downlouders

Dalkhu – Descend… Into Nothingness

#PER CHI AMA: Black/Death, Watain, Absu, Sarpanitum, Behemoth
Ragazzi, che botta! Oggi come oggi si va in cerca oltreoceano dei vari Nile, Morbid Angel o Suffocation, quando dietro l'angolo (nella vicina Slovenia) c'è un duo che è in grado di triturare le ossa anche a quei sprovveduti americani. Sto parlando di J.G. e P.Ž., i due musicisti di Slovenj Gradec che si celano dietro il moniker Dalkhu. I brani contenuti nel loro secondo album, 'Descend… Into Nothingness', sono come sassate sparate contro i vetri, capaci di polverizzare ogni cosa che gli si frapponga avanti. Inutile perdersi in inutili giri di parole, i Dalkhu sono dei killer seriali che iniziano a mietere vittime sin dall'iniziale "Pitch Black Cave", un brano che scorre sui binari di un perverso death metal (a livello ritimico e vocale) che poi, in taluni bridge, estrae dal cilindro un rifferama che pesca direttamente dal black svedese dei Watain. Capito che cosa hanno creato questi due personaggi? Un brutal death ipertecnico, fatto di psicotici cambi di tempo, che strizza palesemente l'occhiolino allo swedish black. Ecco, se siete dei puristi di entrambi i generi, sicuramente il rischio di storcere il naso c'è, ma se siete amanti dell'estremo in tutte le sue sfaccettature, beh qui avrete da che divertirvi, e per un pezzo. Parte "The Fireborn" e mi trovo davanti una band dedita a un death massiccio ma abbastanza classico; tempo 40 secondi e già le cose sono cambiate e maturate, tra brevi assoli, robusti sprazzi atmosferici, tonnellate di riff ubriacanti, growling vocals, e un lavoro mostruoso dietro alle pelli che da solo vale il prezzo del cd. È il turno di "In the Woods" e sono dei melodicissimi riff Swedish death a darmi il benvenuto, inducendomi addirittura a rilassarmi. Mai abbassare la guardia con i Dalkhu però, perchè le ripartenze ultracompresse di death metal sono quanto mai improvvise e rabbiose e quindi non stupitevi se il riffing divenga ben presto una carneficina partorita da una mitragliatrice impazzita. Il ritmo però continua a muoversi su chiaroscuri di melodia svedese controllata frammista a schegge di brutalità. Con "Distant Cry" la matrice death sembra quasi fondersi con il black in un pezzo ovviamente tirato, ma dove non è più possibile discernere tra i due generi e dove il maelstrom creato da questi due funamboli sembra rievocare anche i primi Absu. “Accepting The Buried Signs” prosegue con questo vortice ritmico e repentini cambi di tempo che hanno il puro effetto di disorientare l'ignaro ascoltatore. Mostruosi sotto un profilo tecnico, abbastanza navigati da un punto di vista di songwriting, i Dalkhu si confermano ottimi musicisti anche nella sinistra e orrorifica "Soulkeepers", una song in cui si alternano riff melodici con bordate ritmiche funeste e qualche improvviso rallentamento che contribuiscono a incrementare la dinamicità di un brano davvero complesso, quanto interessante, soprattutto per un break acustico inserito nel nulla. Non è finita perchè rimane ancora “E.N.N.F.”, l'ultimo orripilante mostro dei Dalkhu, nelle cui linee di chitarra percepisco anche il delirante feeling dei Deathspell Omega, anche se francamente stare dietro a questi due personaggi per dieci minuti di brano non è assolutamente compito facile, dato il turbinio ritmico a cui si è sottoposti dall'inizio alla fine di questo incredibile 'Descend… Into Nothingness', che ha ancora modo di riservare uno spiazzante e splendido assolo conclusivo che vi allieterà nell'ultimo minuto di questa bomba ad orologeria. Mostruosi! (Francesco Scarci)

(Darzamadicus Records - 2015)
Voto: 90

https://dalkhuofficial.bandcamp.com/

venerdì 4 marzo 2016

Ottone Pesante - S/t

#PER CHI AMA: Heavy Brass Metal
Ok, provate a immaginare la banda del vostro paese, quella che apre le celebrazioni del 25 Aprile in piazza, a suonare death metal, e avrete un’idea di quello che è racchiuso in questo EP. Del resto sta già tutto nel gioco di parole del nome: l’ottone è la lega metallica di cui sono fatti gli strumenti suonati dai tre musicisti: tromba, trombone e (in parte) batteria, ed è quindi solo una precisazione di quale tipo di metallo pesante stiamo parlando. Simone Cavina (batteria) si era già visto all’opera con Iosonouncane, mentre Paolo Raineri (tromba) e Francesco Bucci (trombone) sono la sezione fiati già sentita nei dischi dei Calibro 35, per cui il trio aprirà i concerti per il tour di S.p.a.c.e. Anche alla luce di questo, nulla lasciava presagire che i tre fossero in realtà degli appassionati ascoltatori di musica metal, per dirla con loro parole, “dagli Slayer ai Meshuggah”. Perchè questo fanno, in pratica, gli Ottone Pesante: metal, con due ottoni e una batteria. Niente chitarre, niente basso, nemmeno un sax, strumento già usato in precendeza in operazioni in qualche modo assimilabili da John Zorn nei Naked City o dagli Zu, tanto per fare un paio di nomi. Dopo un attimo di straniamento iniziale, questi 5 brani (poco piú di un quarto d’ora di musica) si insinuano sotto pelle, cominciano a suonare meno bislacchi e nelle orecchie rimane un concentrato di potenza primordiale, ottenuta senza l’aiuto di artifici tecnologici, nemmeno un po’ di corrente elettrica. Quà e là rimane l’effetto di una versione ipercinetica della colonna sonora di qualche film di Kusturica, ma è un inevitabile effetto collaterale, quasi un difetto strutturale insito in una formazione del tutto peculiare. Al netto di tutte queste considerazioni, rimangono 5 tracce di “brass death metal”, strumentale veloce e tonante (menzione speciale per la prestazione tentacolare di Simone Cavina), che ci si ritrova a voler ascoltare piú spesso e con piú piacere di quanto non si pensasse all'inizio. Se il progetto avrà un futuro o si limiterà ad essere un divertente e riuscito esperimento, lo vedremo nei prossimi mesi. Per il momento, bravi! (Mauro Catena)

(Solo Macello - 2015)
Voto: 75

giovedì 3 marzo 2016

Bedowyn - Blood of the Fall

#FOR FANS OF: Heavy/Stoner/Doom Metal, Mastodon, Hellyeah
The debut full-length from North Carolina metallers Bedowyn offers a rather decent mixing of an eclectic style here mixing together a series of traditional metal, doom and stoner rock into a progressive mixture found in here. The basic component here is still far more traditional in base with swirling heavy rhythms and plenty of tight drumming that gives this one quite a fine base for sturdy, tough-sounding rhythms that are balanced alongside the extended, psychedelic noodling that tends to give this the kind of sprawling musical sections that recall more Stoner Rock/Metal with the type of swirling rhythms over elongated passages. This is all done quite nicely throughout here into a pleasing and overall enjoyable ride that makes for a rather promising and enjoyable new band with a lot of potential. While some of the simpler arrangements showcase the fact that the band is still new and haven’t gotten a true handle on their style yet this is a more-than-worthy start here with some enjoyable tracks. Opening instrumental ‘The Horde’ brings a deep distorted guitar riff droning over the reverb-laden background leading into proper first track ‘Rite to Kill’ slowly brings the thumping drumming along with the strong series of swirling stoner-influenced riffing filled with a strong series of dynamic drumming that keeps this changing through a high-impact velocity of tempos throughout the final half which makes for a good opening impression. The title track features a fine swirling riff with droning along through a series of mid-tempo rhythms all taking the thumping rhythms and dexterous drumming through the extended droning style of riff-work into the stoner-style solo section into the finale for a somewhat enjoyable effort. ‘Cotard's Blade’ offers light, melodic droning riff-work with heavy, droning rhythms carrying along the stylish mid-tempo paces as the dramatic switch-over into a rousing, thumping solo section brings along plenty of fine energy into the final half for another enjoyable effort. The mostly bland ‘Leave the Living...for Dead’ uses swirling, droning riff-work and plodding rhythms that take the dull paces along through the tight and explosive riffing and thumping drumming that picks up considerable energy and intensity into the finale for a fine if overall unimpressive feature. The useless mid-album instrumental breather ‘For a Fleeting Moment’ uses sampled rain-fall and thunder-strikes alongside a melancholy acoustic guitar lilting away that ends on an extended fade-out ‘Where Wings Will Burn’ uses an extended, moody atmospheric riff with light drumming that slowly grows into thumping, heavy mid-tempo riffing with swirling rhythms throughout the steady pacing that continues throughout the final half for another overall unappealing effort. ‘I Am the Flood’ features a slow-building series of swirling riff-work and gradual drumming to a mid-tempo series of rhythms that bring the simple rhythms down into a rather frantic second half with plenty of dynamic drumming and extended soloing throughout the finale for a much more enjoyable track. ‘Halfhand’ features a light, melancholy acoustic guitar with plodding paces and sprawling swirling rhythms that make for a wholly dragging and lethargic tempo with the tighter patterns coming from the final half for a quite overlong and somewhat troubling effort. ‘Lord of the Suffering’ features a long, swirling intro with bland riffing and heavy, thumping drumming slowly taking a series of swirling, mid-tempo riffs into an extended series of sprawling, atmospheric noodling with ambient celestial patterns throughout the extended finale for a slightly better if another overlong effort. Lastly, ‘The Horde (Exodus)’ takes a stoner-style swirling riff through extended sprawling atmospheres in an enjoyable lasting impression. It doesn’t really offer up a whole lot of flaws here, but there’s still enough here to make for an enjoyable if somewhat troubled first effort. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 70

Phobonoid - S/t

#PER CHI AMA: Experimental Black, Blut Aus Nord, Darkspace
Esattamente due anni fa scrissi dell'EP di debutto della one man band trentina, 'Orbita', un concept album che riguardava la fine della civiltà su Marte. Ora Phobos torna con il suo full length d'esordio che, stando ai titoli, continua ad affrontare tematiche spaziali con suoni, che come un'onda gravitazionale, si propagano minacciosi nello spazio profondo. Dodici i capitoli a disposizione del musicista italico, tra cui tre tracce strumentali. "Fiamme distanti si accavallano nella nube del tempo, la polvere soffia attraverso la luce riflessa, trema lo spazio invaso dalla paura del passato, si muovono le forme colpite dal passo di crono": cosi apre il disco con i toni apprensivi di "Crono". Segue "Alpha Centauri" e come potete intuire, i riferimenti intergalattici non si sprecano. Da un punto di vista musicale poi, la proposta dei Phobonoid si muove su sonorità black sperimentali, chiamando in causa per qualche affinità mal celata, Darkspace e Blut Aus Nord, come già avevo avuto modo di evidenziare nel precedente lavoro. Anche qualche punto di contatto con i Progenie Terrestre Pura sarà riscontrabile nell'arco degli oltre 40 minuti del disco, ma non solo. "La Sonda di Phobos" ha infatti da offrire suoni glaciali che ammiccano al doom più desolante, mentre "Fuga nel Vuoto" crea un forte senso di disagio per quell'aura iniziale che poteva fare tranquillamente da colonna sonora a 'Gravity', nel momento in cui la tempesta di asteroidi si abbatte sulla navetta spaziale dei protagonisti. L'effetto infatti è il medesimo, con quel senso di angoscia legato alla catastrofe incombente. "Eris" (cosi come pure la title track conclusiva) è una traccia di black mid-tempo dai toni marziali che annichilisce esclusivamente per la fredda asetticità che emana. Si sprofonda nuovamente negli abissi della rarefazione galattica con il flemmatico incedere de "La Risonanza della Sonda", in cui la demoniaca voce del frontman è quanto di più vicino al genere umano che questo disco ha da offrire. Se in "Kairos" c'è un tocco di velata malinconia nelle sue melodie, è forse con "Frammenti di Luce" che il cd tocca il suo apice artistico, un pezzo che miscela egregiamente il black cibernetico e avanguardistico con lo sconforto del doom più oscuro. "Tachyon", la terza song strumentale, è invece quanto di più si avvicini a sonorità aliene, con suoni distorti, sghembi e disarmonici che per certi versi si spingono in territori quasi trip hop, quello dei Massive Attack più tenebrosi. Il mio viaggio l'ho compiuto e voi vi sentite pronti per un altro viaggio interplanetario in compagnia dei Phobonoid? (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2015)
Voto: 70

mercoledì 2 marzo 2016

Wildernessking - Mystical Future

#PER CHI AMA: Post Black/Progressive, Enslaved
L'etichetta francese Les Acteurs de l'Ombre Productions ha stranamente allungato i suoi tentacoli anche al di fuori dei confini del proprio paese, andando a pescare i sudafricani Wildernessking, con un disco che è uscito anche in vinile e cassetta. Noi, il quartetto di Cape Town lo conosciamo già, in quanto nel 2013 parlammo piuttosto bene del loro debut cd, come un black metal venato di influenze post metal e suoni progressivi. Ebbene, a distanza di quasi tre anni da quel lavoro, mi ritrovo in mano il nuovo digipack 'Mystical Future', un disco che sorprende immediatamente per un approccio diverso rispetto a 'The Writing of Gods in the Sand', qui assai più malinconico e spirituale. È "White Horses" ad avere l'incombenza di darci il benvenuto con un lungo bridge chitarristico su cui poi si staglieranno le voci caustiche, ancora non del tutto convincenti, di Keenan Nathan Oakes. La musica dei nostri si muove poi su di un tappeto di suoni eterei che si rifanno palesemente al post rock e hanno il merito di deliziare i nostri timpani, senza ricorrere a sfuriate di stampo post black, come era lecito aspettarsi. Nella seconda "I Will Go to Your Tomb", riesco addirittura a captare un che dell'epicità pagana dei Primordial, sia a livello ritmico che di atmosfere, ma dopo svariati ascolti, mi rendo conto che la band a cui i nostri sembrano essere più debitori in questo momento, siano in assoluto gli Enslaved, andando a tessere lunghe e psichedeliche fughe lisergiche dal forte sapore prog. "To Transcend" la potrei addirittura associare ad una ballad black metal, una bestemmia per carità, ma il calore che emana, ha suscitato in me inespresse emozioni. In "White Arms Like Wands" ecco esplodere il classico rifferama post black, con ritmiche serrate e blast beat a manetta, su cui le voci di Keenan meglio si adattano. Lungo gli oltre otto minuti del pezzo, i nostri si riassestano poi su suoni mid-tempo, aumentando però l'intensità della propria proposta grazie all'utilizzo di chitarre in tremolo picking, che donano quell'inevitabile aura malinconica alla composizione. Gli ultimi 12 minuti di 'Mystical Future' sono affidati a 'If You Leave', brano oscuro in cui trovano addirittura spazio i vocalizzi di un'angelica donzella, Alexandra Morte, un nome un programma. La song è la più spirituale dell'intero disco, merito di Miss Morte, che con il suo intervento a controbilanciare l'arcigna voce di Keenan, impreziosisce la qualità di questa interessantissima release, mentre la musica disegna spettacolari e strazianti melodie, tra break acustici e momenti di delicata sofferenza, in un pezzo che strappa tanti applausi dal sottoscritto e impenna anche la mia valutazione conclusiva. Calibrando qui e là alcune cose, il prossimo album dei Wildernessking non potrà che essere un capolavoro. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(LADLO Prod - 2016)
Voto: 80

domenica 28 febbraio 2016

Sahona - S/t

#PER CHI AMA: Rock Progressive
I Sahona sono una formazione francese di matrice indie rock con richiami progressive e attitudine shred metal, in attività dal 2014. Siamo di fronte ad una classica rock band di quattro elementi e questa di cui parleremo, è la prima ed omonima pubblicazione autoprodotta. La copertina rappresenta, per assurdo, quello che le orecchie andranno a percepire, cioè un paesaggio poco definito e surreale in cui una piccola ombra antropomorfa osserva la strada che sta percorrendo, indecisa se proseguire o virare sul sentiero che si stende alla sua sinistra. Il nome della band deriva dal cognome del cantate chitarrista Charly Sahona, il principale autore e mente dell’opera. Charly è un gran musicista senza dubbio, ha perfetta padronanza della sua voce, della sua chitarra e dei suoni in generale, ma purtroppo qualcosa non torna. Sembra infatti che Charly stia guidando una Ferrari ma non abbia idea di dove stia andando. Gli altri componenti della band sono altrettanto validi tecnicamente ma ciò che manca ai Sahona non è sicuramente il saper suonare ma è la ricerca di significato, di qualcosa da trasmettere. Ma ora basta parole, inseriamo 'Sahona' nel lettore e vediamo cosa esce. All’inizio la sensazione è piacevole, c’è un forte gusto per la melodia e i suoni sono curati in maniera quasi maniacale. L'opener “Light of Day, Sense of Life” per qualche attimo mi culla e mi soddisfa, grazie a uno scenario pacifico, psichedelico ed etereo dal sapore molto Muse; anche la voce mi ricorda molto quella di Bellamy, le note sono suadenti e cantate con forte carica emotiva. Tuttavia questo paesaggio non riesce a trovare una sua giusta forma nella mente di chi ascolta perché interrotto da parti che musicalmente sembrano non avere molta attinenza con le precedenti, ogni parte ha una sua linea vocale differente e una diversa sequenza di note. L’effetto è quello di non riuscire a seguire il pezzo per le troppe informazioni proposte, l’orecchio è continuamente sorpreso da nuove idee ma allo stesso tempo spaesato in quanto non riesce a trovare il filo conduttore che guidi le sensazioni attraverso il brano. Il livello tecnico però rimane altissimo, non c’è una sbavatura e tutti i musicisti sono perfettamente amalgamati. Il disco prosegue senza troppe sorprese, tutte le tracce presentano caratteristiche simili, cioè una strofa psichedelica stile Muse, un ritornello distorto e l’immancabile assolo shred, con mille note eseguite a velocità supersonica, peraltro sempre in modo impeccabile. A parere mio questo tipo di assoli risultano fuori luogo con il sentimento delle canzoni, e purtroppo molto spesso ne rovinano l’atmosfera. Vale la pena ascoltare questo disco per imbattersi in “I’m Alive”, forse il pezzo più interessante del cd. Si tratta di una ballata con un caldo suono di pianoforte elettrico come sottofondo, la voce è sognante e malinconica e l’intreccio di strumenti crea un paesaggio onirico senza tempo. Questa song sarebbe andata in loop per un bel po’ nel mio stereo, se non fosse presente l’elemento di disturbo degli assoli; in questo disco sembra che ogni brano debba per forza contenerne uno. Da notare la gran prestazione di batteria di Stephane Cavanez che negli ultimi brani del lavoro trova la sua maggiore espressione; in generale in tutta l’opera, la precisione della ritmica è senza dubbio un punto di pregio. Alla fine, 'Sahona' è un lampante esempio di come la capacità tecnica non sempre riesca a produrre della musica che parli all’anima. Dalle note si percepisce un ego molto presente e una forte tendenza all’autocelebrazione; ma la musica deve fare bene a tutti, non solo a se stessi. In conclusione una cosa bella: sicuramente quando l’ombra in copertina si renderà conto di quale via è destinata a percorrere, la musica dei Sahona ci regalerà momenti memorabili. (Matteo Baldi)

(Self - 2016)
Voto: 55

Heads - S/t

#PER CHI AMA: Noise Rock, Jesus Lizard
Quanto è grande e profondo il retaggio lasciato dai Jesus Lizard? Sarebbe uno spunto interessante per un saggio critico su quello che il gruppo di David Yow e Duane Denison ha significato per tutto il rock cosiddetto “noise” che, dopo di loro, non è piú stato lo stesso. Di certo, dischi come 'Goat' o 'Dirt' hanno significato qualcosa di molto, molto importante, per i tre membri degli Heads, due berlinesi e un australiano trapiantato nella capitale tedesca, che hanno dato alle stampe il loro esordio nel 2015, ma nessuno avrebbe sospettato nulla se la data impressa sul disco fosse stata di vent’anni precedente. La sezione ritmica teutonica (Chris Breuer al basso e Peter Voigtmann alla batteria) è una macchina dalla coesione impressionante (prendere nota alla voce “come ottenere il suono di basso perfetto”) su cui impeversano la chitarra spigolosa e la voce profonda di Ed Fraser, per un album rapido (meno di mezz’ora) che è una vera e propria boccata d’aria fresca. Se i riferimenti paiono quanto mai precisi (“A Mural is Worth a Thousand Words” sembra presa di peso da un disco dei Jesus Lizard di mezzo), il modo in cui gli Heads fanno loro il linguaggio noise rock è molto personale e consapevole, come già avevano fatto gli altri magnifici esordienti Ha Det Bra nel loro splendido 'Societea for Two'. Solo che qui Fraser e soci rallentano e puntano all’essenzialità del suono laddove i croati lo saturavano e infettavano al massimo. Un album che sembra registrato da Steve Albini, questo, asciutto e dritto, che punta tutto su una manciata di pezzi di assoluto spessore. Ed Fraser ha una voce profonda e un modo di cantare sornione che qualcuno ha accostato a Scott McCloud dei grandi Girls Against Boys e che a me ricorda anche Hugo Race, e il modo in cui questo riesce a sposarsi con la ritmica granitica e una chitarra deviata di stampo chiaramente denisoniano, risulta essere l’aspetto vincente di questo lavoro, soprattutto alla luce del fatto che questo conferisce alle sei tracce in scaletta un fascino sinistro e decadente davvero particolare. Se a questo uniamo il tono beffardo espicitato da titoli quali “Chewing on Kittens” e il fatto che “Black River” è, con quell’accelerazione finale che rimanda ai migliori Pile, semplicemente una delle migliori canzoni dell’anno, allora è chiaro che ci troviamo di fronte ad un esordio magnifico, autentico gioiello nel panorama noise rock, che lascia l’amaro in bocca soltanto per l’esiguità del programma e la breve durata, perchè di musica cosí ne vorremmo sempre un po’ di piú. (Mauro Catena)

(This Charming Man - 2015)
Voto: 80

https://headsnoise.bandcamp.com/album/s-t