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martedì 10 marzo 2015

Mallory - 2

#PER CHI AMA: Grunge/Blues/Rock
Questa volta parliamo di blues-rock direttamente dalla Francia, paese che negli ultimi mesi si sta dimostrando una vera e propria fucina di nuove band, molto spesso di ottima qualità. Il quartetto nasce a Parigi intorno al 2012 e dopo il primo EP risalente allo stesso periodo, escono con questo '2'. Si tratta di un ottimo mix di rock, grunge, blues e altre contaminazione che toccano lo stoner e la psichedelia, il tutto ottimamente suonato e arrangiato. Il cantato è in inglese ed è scandito dalla calda ed avvolgente voce del frontman che si destreggia bene tra brani intensi e ballate più quiete. "Ready" è una di quest'ultime e gronda grunge da tutti i pori. Dopo un solitario arpeggio di chitarra la canzone acquista più ritmo e impatto con ottimi fraseggi e arrangiamenti che ricordano i Pearl Jam e i Soundgarden più sentimentali. Grande potenza scorre dagli abbondanti cinque minuti della traccia, merito dell'ottima intesa tra i musicisti con la sezione ritmica formata da basso e batteria a dettare legge e imporre il proprio diktat. L'arpeggio continua imperterrito per tutta la song come un mantra onirico per poi sfociare nell'assolo che guida il break psichedelico a metà brano. Brano, strutturalmente semplice, ma dotato di un buon impatto e anima. "Big Nails" è un pezzo veloce, accompagnato da un basso distorto e basato su una ritmica che cambia ciclicamente per movimentare ancora di più il ritmo. Il cantante dà libero sfogo al suo lato più irrequieto nel quale si trova a proprio agio, mentre i riff di chitarra citano spesso la storia del rock, confermandosi sempre all'altezza e pieni zeppi di groove. Un brano mordi-e-fuggi di quasi tre minuti che risente solamente della mancanza (penso io) di una traccia di basso pulito che avrebbe rimpolpato un po' le basse frequenze. "Bad Monkeys" aggiunge una cartuccia importante all'armeria dei Mallory, il brano infatti è una piccola perla che include quel qualcosa che ricorda i The Doors, i vecchi Radiohead e ancora il filone grunge. La canzone è intrigante come un corpo sinuoso che balla nella penombra, sul bancone di un polveroso strip bar, che esplode e si divincola per un attimo per poi chiudere come era iniziata. Questo '2' è caratterizzato da suoni quasi sempre perfetti, una buona qualità di registrazione e un digipack semplice ma gradevole. Tutti segnali che messi insieme confermano la mia idea che i Mallory sono una band solida, ben tarata sugli obiettivi da raggiungere e che ha ancora margine di miglioramento. Detto ciò mi aspetto un terzo album con il botto, incrociamo le dita... (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 80

lunedì 9 marzo 2015

Stömb - The Grey

#PER CHI AMA: Djent/Progressive, Tesseract, Uneven Structure
Il djent è uscito dai miei radar da un po'. Il fenomeno che è salito alla ribalta grazie a gente del calibro di Tesseract, Uneven Structure e Vildjartha (senza ovviamente trascurare i precursori, Meshuggah), mi sembra che si sia un po' perso per strada. Per fortuna arrivano i francesi Stömb a rivitalizzare le sorti di una decadenza annunciata, con un disco strumentale che certamente renderà felici gli amanti del genere, incluso il sottoscritto, che qualche anno fa, veniva ribattezzato dagli amici, come "Principe del Djent". La band di oggi è un quartetto di Parigi che, rilasciando 'The Grey', riprende in mano quanto fatto dalle band sopracitate (a cui aggiungerei Periphery e Ganesh Rao), con classe e passione. Lo dimostra la opening track, "The Complex", quasi nove minuti di sonorità in cui si fondono progressive, ambient e appunto djent. Forti di una produzione a dir poco cristallina, i nostri infondono nel loro flusso sonico il gusto primigenio dei Tesseract (e questo vale già molto, peccato solo manchi un vocalist con le palle) con la notevole perizia tecnica dei Periphery (mostruose le linee di basso che s'intersecano con un drumming fantasioso, senza tralasciare i giochi "di grigio" che le due asce vanno sciorinando). "Rise for Nothing" è un pezzo da brividi a cui sarebbe bastato anche solo un tiepido vocalizzo per raggiungere la perfezione. La lezione di Meshuggah (e anche Cynic) viene assimilata dai quattro francesini e riproposta con grande personalità e carisma, alternando sfuriate elettriche con ambientazioni in penombra. "Veins of Asphalt" ripropone un'altra lunga traccia dall'apertura quasi drone/noise: un momento che i nostri scaldano i motori e i riffoni di chitarra risuonano nel mio stereo come il rombo del motore di quattro Ferrari all'unisono. Wow, i nostri hanno classe da vendere e lo dimostra il fatto che nonostante le dieci canzoni contenute in 'The Grey" abbiano delle durate medio-lunghe, non stanchino realmente mai. Merito dei sapienti cambi di tempo, delle splendide melodie, dei caleidoscopici salti mortali che i nostri propinano, dell'utilizzo più o meno marcato dell'elettronica (perforante a tal proposito, il suono del synth in "Corrosion Juncture"), della tribalità inferta alle ritmiche dal mostruoso batterista, dalla fantasia, dalla veemenza e dall'assoluta padronanza strumentale dei quattro interpreti parigini che cuociono in ogni brano l'attento ascoltatore, che si ingolosisce sempre di più. Gli Stömb danno dipendenza e quando termini un pezzo ne vuoi immediatamente un altro per capire cosa avranno in serbo i quattro nel successivo. "The Crossing" è solo un interludio che ci prepara a "Under the Grey", song dalla ritmica psicotica e malata, asfissiante ma melodica, che mostra un break centrale con un parlato inquietante. "Terminal City" mi ubriaca immediatamente per quel suo giocare a ping pong con le chitarre tra una cassa e l'altra, mentre il mood della traccia è quello di continua emergenza, anche se nella seconda parte, il pezzo diviene più intimista nel sound. Questo ci salva dalla monotonia che altrimenti un disco lungo e complesso come questo, potrebbe produrre. "The New Coming" è una traccia che colpisce per le splendide linee di chitarra che assolvono quasi al ruolo di cantante e contribuiscono a dare maggiore dinamicità al disco. "Genome Decline" evidenzia quanto la band si senta a proprio agio nel trattare pattern strumentali di difficoltà medio-elevata, mostrando una enorme capacità nel districarsi in fraseggi selvaggi quanto "gentili", in una traccia dal forte temperamento e dall'approccio al limite del cinematico. "Only an Echo" rappresenta la chiusura ideale per un disco quasi perfetto, a cui manca solo la parola... (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 85

domenica 8 marzo 2015

Kayleth - Space Muffin

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock, Hawkwind, Monster Magnet, Motorhead
Mettiamo subito in chiaro una cosa: a me i vecchi Kayleth, quelli recensiti su queste stesse pagine con l'album 'Survivor' e l'EP 'Rusty Gold', non mi andavano a genio, per quelle sonorità già sentite e per la mia non proprio spiccata propensione allo stoner fine a se stesso. Fatta questa semplice premessa, accolgo direttamente dalle mani della band veneta, il nuovo futuristico 'Space Muffin'. Detto che non sono neppure sensibile ai facili entusiasmi, il quintetto veronese verosimilmente avrà di che preoccuparsi nel leggere queste mie parole. Parto la mia analisi dall'artwork extraterrestre del cd che oltre a raffigurare una presunta donna aliena in riva al mare con le piramidi di Cheope Chefren e Micerino sullo sfondo, vede orbitare un paio di lune e un agglomerato di stelle (vi è forse un qualche mal celato significato simbolico?) messe alla rinfusa in un cielo un po' troppo verdognolo. Il disco consta di otto tracce e vede avviare i propri propulsori interstellari con "Mountains". La song apre in modo grandioso con una roboante commistione di suoni granitici di chitarra e batteria, coadiuvati dai cibernetici synth del neo entrato in line-up, Michele Montanari, che sembra aver portato nuova linfa vitale nella decennale carriera dei nostri e che sembra anche allontanare quegli spettri che richiamano da sempre i vari Kyuss e Orange Goblin. Stiamo sempre parlando di stoner sia chiaro, ma questa volta offerto in una salsa ben più raffinata che arriva a citare anche formazioni come Electric Wizard e Hawkwind, senza far finta di dimenticare anche un che dei Mastodon. Forse mi crederete un pazzo visionario ma la proposta dei Kayleth suona più pomposa e matura rispetto al passato e questo costituisce di certo il punto di forza ma anche per una nuova ripartenza, per il combo italico. "Secret Place" è il luogo segreto ove il five-piece ci vuole condurre, un brano che attacca con un riffing che richiama un che dei primi Led Zeppelin ma ne irrobustisce all'ennesima potenza la sezione ritmica, che va via via ingrossandosi ancor di più, nel corso del brano. La voce di Enrico Gastaldo si conferma ai livelli del passato, richiamando con la sua timbrica Ozzy Osbourne, piuttosto che un giovanissimo Chris Cornell o Lemmy Kilmister, ma comunque ben adattandosi al sound della band. "Spacewalk" apre con un messaggio alieno, mentre il pizzicare della chitarra prepara a chissà quale fragorosa esplosione. L'approccio della song ha un che di post rock nel suo prologo, si lancia poi nello spazio infinito con un riffing selvaggio, trascinante, mentre lo screaming di Enrico impera nell'altisonante finale da brividi. Signori i Kayleth sono cambiati, maturati, hanno assunto la piena consapevolezza nei propri mezzi e anche la sempre attenta Argonauta Records se n'è accorta. A testimoniare l'ecletticità dei nostri ci pensa la psichedelica "Bare Knuckle", song che rappresenta l'ideale connubio tra progressive (splendide le chitarre a tal proposito dell'axeman Massimo Dalla Valle), space rock, stoner e doom (chi ha citato i Cathedral di 'The Ethereal Mirrors'?), in quella che probabilmente è la mia traccia preferita. L'impronta blues/hard rock dei Kayleth si palesa nella quinta "Born to Suffer", ma l'apporto dei synth rende il sound decisamente più moderno, anche se questo brano potrebbe stare tranquillamente in un qualche album rock anni '70. Non so se si tratti dei microfoni della hall di un aeroporto quelli che si sentono inizialmente in "Lies to Mind", ma la traccia prosegue sul suo pattern rock/stoner fondendo in un ibrido surreale, i Motorhead con i Kyuss e gli Hawkwind. "Try to Save the Appearances" è un altro bel pezzo, grondante di groove da ogni suo poro che richiama sonorità tooliane (Mick ci sono anche i Lingua qui dentro?) che fino ad ora erano tenute camuffate nel sound dei nostri, ma che comunque vengono reinterpretate alla grande dai cinque ottimi musicisti veronesi, per cui vado a menzionare anche il martellante e preciso drumming a cura di Daniele Pedrollo e il palpitante basso di Alessandro Zanetti. Chiude il disco "NGC 2244", acronimo che individua l'ammasso aperto di Rosetta (che sia forse quello che si vede nel cielo della cover?), eccellente traccia strumentale che sancisce la scalata dei Kayleth nell'Olimpo dello stoner nazionale e, auspichiamo ben presto, mondiale. Bravissimi! (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2015)
Voto: 85

LOOKING FOR NEW REVIEWERS 
(BLACK/DEATH/ALTERNATIVE/THRASH/PROG ROCK/HEAVY) 



Siamo in cerca di nuovi recensori per sonorità Black/Death/Alternative/Thrash/Prog Rock/Heavy

Barrowlands - Thane

#PER CHI AMA: Post Black, Agalloch
Vediamo se avete imparato la lezione. Se una band arriva da Portland - Oregon, che genere di musica dovremo aspettarci? Se anche voi avete risposto di getto Cascadian black metal o post black, meriterete un bel 10 in pagella. Si perché i Barrowlands in questo 'Thane', edito dalla cinese Pest Productions, ci propina un 5-track di sonorità nere come la pece, a partire addirittura da un artwork minimalista in bianco e nero. Poi i nostri musicisti, alcuni peraltro coinvolti nel progetto dei Mary Shelley, si abbandonano al black dalle tinte fosche di "Alabaster", la opening track. Il pezzo offre una ritmica semplicistica su cui si staglia lo screaming aspro di David, mentre in sottofondo si può udire il suono di un violoncello, unica vera peculiarità della band della West Coast. Poi qualcosa per cui valga la pena una segnalazione in effetti non c'è, se non una non troppo accentuata vena doomish nella seconda metà del brano. L'approccio apocalittico si mantiene anche nella successiva "Peering Inward", lenta e magmatica nel suo preambolo che vede echeggiare nell'aria un che dei My Dying Bride più primordiali, prima che si diletti nella ricerca di scoppiettanti linee melodiche che regalino frizzanti frangenti atmosferici. La song si muove in seguito sul classico mid-tempo che da copione cita i primi Agalloch, con le chitarre suonate nel tipico tremolo picking. "Mother of Storms" apre con un arpeggio e lascia quanto prima il passo a una cavalcata epica che evoca il sound dei gods più famosi di Portland mixato a quello dei norvegesi Windir. Direi che il momento topico ce lo regala l'intrecciarsi tra le chitarre "tremolanti" e il suono del violoncello, ahimè troppo spesso relegato in secondo piano. "1107" è una lunga traccia malinconica che parte tranquilla e va via via aumentando di intensità, senza però mai convincere appieno e palesando i veri limiti della band. "On Bent Boughs" ci regala gli ultimi lunghi spettrali minuti di 'Thane', grazie alla timbrica greve del violoncello che quando va dileguandosi dal sound dei nostri, lascia una band acerba, come mille altre ve ne sono in giro. La raccomandazione d'obbligo finale sta pertanto nel concedere molto più spazio allo strumento ad arco, incrementando le parti d'atmosfera e mitigando l'asprezza di fondo racchiusa nelle feroci linee di chitarra e nell'acido cantato. C'è ancora molto da lavorare, ma le basi sembrano già buone. (Francesco Scarci) 

(Pest Productions - 2014)
Voto: 65

Auron - S/t

#PER CHI AMA: Heavy/Progressive
Fresco fresco di stampa (il cd è uscito il 29 Gennaio 2015 per Metal Scrap Records), giunge dalla Russia il debut album omonimo di questi quattro musicisti. Dediti ad un prog/power metal con influenze che richiamano alla mente le piu' blasonate band hard rock degli 80's , gli Auron propongono 12 tracce, di cui le ultime 2 bonus, in lingua madre. Anche se l'artwork e il booklet parlano chiaro, la palese ispirazione prog si avverte fin dalle prime note dove tuttavia il timbro vocale del vocalist finisce per rispecchiare un po' gli stilemi canonici di un certo tipo di hard rock (avete in mente i Gotthard?): si tratta infatti di uno “strano” mix, quello proposto dagli Auron, ove le atmosfere prog presenti (Dream Theater e Symphony X su tutti) sono scevre dall'ossessiva ricerca di tecnicismi a tutti i costi, finendo per privilegiare in qualche modo melodie più care all'hard rock classico. I quattro ragazzi mostrano infatti un'ottima padronanza strumentale ove sembra che tutto sia al servizio della canzone; tecnicamente i mezzi sono notevoli e lodevole risulta il lavoro in studio da parte di fonici e produttore (riportare anche questi dettagli sul libretto non sarebbe stato male). Ho ascoltato il lavoro dei nostri più volte e anche molto volentieri, poiché era da un po di tempo che non mi capitava di imbattermi in una band dedita a tale genere e posso affermare tranquillamente che questo è un buonissimo lavoro. Le dodici canzoni proposte sono piuttosto varie, anche se l'act russo non spinge mai sull'acceleratore preferendo rimanere su più confortevoli mid-tempo; è forse questa eterogeneità di fondo che finisce per mettere davvero troppa carne al fuoco, rendendo gli Auron un buon gruppo a metà strada tra il prog e l'hard rock da capello cotonato e spandex. In episodi come l'ottima opener “Obsession” potrete apprezzare quanto appena affermato, anche se è indubbia la bellezza della song, tra l'altro una delle mie preferite. Si continua con questo mix di prog e hard rock ancora con “Word and Deed”, “Spring” e “Stranger” per poi sfociare in un classico pezzo prog (fin dal titolo) “Prelude in H-moll”. È proprio in questi episodi che i nostri risultano un po' troppo frenati e con il pedale del freno tirato. Discorso a parte merita la bellissima “Mirrors”, sicuramente la migliore del lotto e mia preferita in assoluto, un mezzo capolavoro. I restanti brani sono piacevolissimi a partire da “Heroes of Last Generation”, per finire con la title-track “Auron”. In conclusione un gran bel debutto, in un genere non cosi inflazionato al momento, che permette alla band di Saratov di mettersi in mostra e anche piuttosto bene. Adesso non mi resta che aspettare il prossimo appuntamento con gli Auron confidando in una maggiore chiarezza di idee riguardo alla strada da intraprendere. A parte tutto, comunque, davvero molto bravi. (Claudio Catena)

(Metal Scrap Records - 2015)
Voto: 75

Battle Beast - Unholy Savior

#FOR FANS OF: Heavy/Power, Iron Maiden
Battle Beast have made a mark over the last 4 years, that cannot be denied. But I can't shake the feeling they were living under the shadow of more widely-known bands that they happened to tour with, (Delain, Sabaton, etc.). But now, prepare for the Finnish sextet to totally break free with the release of their third full-length. I'll be the first to admit I wasn't expecting anything special - a few gang-shout choruses here, a few keyboard solos there - but Noora and crew have just completely let loose with one hell of a thrill-ride that simply oozes metal in its purest form. Okay, "purest form" may be bending the truth. 'Unholy Savior' is brimming with an OTT attitude, filling every empty space with bells and whistles. But therein lies the magic of this release; it simply does not let go. From the heralding crash of "Lionheart", right through to their hammering cover of Paul Engemann's Push it to The Limit", this is an all-out, balls-to-the-wall, bombast-athon. That's not to say there isn't plenty of variation. Battle Beast are quite adept at ensuring their audiences never throw the 'one-trick-pony' insult at them. Here you will find up-tempo power metal hymns, mid-tempo stomping rockers, beautiful ballads, and even an 80s-inspired disco-esque tune with "Touch in the Night". Each verse, each chorus, each blazing guitar solo...they're all distinguishable from the last, providing much-desired variety and giving this album 100% replay value. The production is absolutely perfect - so full of power and majesty. Bright keyboards shimmer above a full, rounded guitar tone and a real spiky, piercing drum sound. There are excellent performances all round from this group of talented Finns - especially notable in the duel guitar/keyboard solos which simply glow with both technicality and control. But the star of the show is the magnificent mouth of Noora Louhimo. Often confused as the 'gimmick' of this band, her set of pipes stretches to stratospheric levels on 'Unholy Savior'. She is perfectly capable of sweet, lyrical melody - as exemplified on the gorgeous "Sea of Dreams". But she is best observed employing her rough, edgy, but insanely precise high-pitched screams. Hail, Noora! You are the new queen of metal! Picking out highlights from such a consistently phenomenal album is certainly not easy. But the first three tracks pack so much of a wallop, it digs right into the skin of the listener's face, absolutely forcing him/her to bang their heads like it's 1985! Aside from them, the previously mentioned "Sea of Dreams" lulls the listener into a euphoric haze, before being completely annihilated by the explosive "Speed And Danger" (Hmm, that riff sounds familiar...'Metal Militia' anyone?). I challenge you to find a band who sound more enthusiastic, more energetic, more vibrant, more METAL than Battle Beast right now. Here's hoping that this is a sign of things to come - because if Noora and co. carry on this way, they will be utterly unstoppable. Already on the list of 'best of 2015'? Thought so. "Put your pedal to the metal, It's time to rock and ride! Keep the engine roaring, louder than hell!" (Larry Best)

(Nuclear Blast - 2015)
Score: 90

Ambiguïté - Light & Shade

#PER CHI AMA: Sonorità Post
Per il nome della band, per i colori eleganti del loro sito web e per l'arpeggio iniziale che apre "Nightfliesdance", pensavo che i nostri fossero francesi. Ho sbagliato e di grosso: gli Ambiguïté sono difatti un duo russo guidato da Alexey ed Egor che fa musica sotto questo moniker dal 2011, anche se in realtà suonano insieme dal 2009. La band ha concepito 'Light & Shade' tra il 2013 e il 2014, pubblicandolo su bandcamp la scorsa estate e attirando l'interesse della sempre più potente Pest Production. L'etichetta cinese, in collaborazione con gli amici della Weary Bird Records (entrambe molto attive sul versante post-), hanno deciso di metterli sotto contratto e ora il loro digipack sta tra le mie mani con un 5-track che appunto apre con "Nightfliesdance", una song che si muove tra lo screamo e il post-hardcore, almeno nella sua prima metà, cercando di catturare, senza troppa fortuna, il mio interesse. Fortunatamente, i nostri non sono degli sprovveduti e hanno capito che i generi sopra menzionati non tirano più come una volta se non miscelati con un che di più accattivante e originale. Cosi nella seconda metà del pezzo, i due russi si rintanano in sonorità più introspettive, più marcatamente sognanti e post-rock, e meno male aggiungo io. In "Warm Night" le furiose accelerazioni iniziali mi fanno propendere addirittura per una vena post black degli Ambiguïté, ma le rarefazioni musicali, le melodie delle chitarre stile Alcest, i break acustici, i chorus super ruffiani, i vocalizzi che passano dall'urlato al pulito, mi spingono a rivedere la mia posizione iniziale. Quando "Towards the Fall" attacca con quel suo mood strappalacrime (e mutande) tipico delle ballad (che ahimè mette in mostra anche una certa stonatura del vocalist) inizio a essere un po' confuso. Ancora suoni malinconici (e questa volta strumentali) con la title track, il cui riff portante risuona nell'aria come le melodie shoegaze degli Alcest. Sono alla quarta canzone e mi sembra di avere a che fare con una band totalmente diversa da quella di inizio disco. L'Ep si chiude con "Hear Your Body (Remix 2013)" che rilegge il primo singolo scritto dai nostri nel 2011: un altro brano strumentale che sottolinea le qualità degli Ambiguïté in assenza del cantato; questo a suggerire un approccio definitvamente senza voce da parte dei nostri o la scelta di un vocalist più adatto alla causa. Mentre l'act russo rifletterà sul da farsi in futuro, voi una chance a 'Light & Shade' potete anche darla. (Francesco Scarci)

(Pest Productions/Weary Bird Records - 2014)
Voto: 65

giovedì 5 marzo 2015

Minimal Whale – S/t

#PER CHI AMA: Alternative/Math/Post-rock, Rush, Morphine
È con grande interesse e curiosità che mi approccio all’Ep d’esordio di questo trio ligure, che vede i due terzi dei fenomenali Unsolved Problems of Noise (David Avanzini al basso e sax e Matteo Orlandi alla chitarra) unire le proprie forze al batterista e cantante Nicola Magri, per un progetto orientato ad un interessante rock che affonda le sue radici nell’alternative (che brutta parola, ma facciamo ad intenderci) degli anni 90, quello peró meno mainstream, suonato con piglio deciso, sferzante e mai banale (qualcuno si ricorda per esempio degli Shudder to Think?). Rispetto alla sarabanda noise degli UPON, il suono viene smussato agli angoli e privato di aculei urticanti, senza però rinunciare ad una forza d’urto che rimane comunque dirompente. I tre sono musicisti di gran classe e tecnica, con influenze vastissime che riescono a coniugare nel modo migliore con l’immediatezza e l’urgenza del rock più viscerale. “Five on Four”, piazzata in apertura, ammalia con i suoi controtempi, le sferzate chitarristiche in stile Polvo, il sax sinuoso e il synth avvolgente. Quindi è la volta di “Cage”, il brano più schiettamente rock, che potrebbe essere un perfetto singolo, con quel basso dritto a la Queen of the Stone Age, e il suo assolo incendiario di chitarra. Qua e là il sax contribuisce a creare un’atmosfera brumosa e notturna che richiama i Morphine, come in "Lay Down", brano percorso da un’inquietudine fremente, una tensione ritmica sempre sul punto di esplodere ma trattenuta con grande maestria (a proposito, gran lavoro quello di Magri, per tutto il disco). Le parole di Virgia Woolf ispirano la matassa ritmica di “Virginia’s Whale”, vicina a certo math-rock pulsante e pensante (mi vengono in mente i miei amati Self-Evident), mentre “Picture” sposa tensioni post-hardcore con la calda fluidità di un piano rhodes in un brano complesso, tra sussurri e improvvise aperture, sempre sostenute da un lavoro pazzesco della ritmica. Con la schizoide “8 Blind Steps” (che arriva addirittura a citare un discorso pubblico Mohandas Karamchand Gandhi), si chiude un disco importante, di statura internazionale per qualità e produzione, in cui gli unici appunti possono essere mossi ad un cantato forse un po’ monocorde. Personalmente auspico che il power-trio genovese continui su questa strada - magari focalizzandosi maggiormente sulle canzoni - quella giusta per trovare una voce che sia solo la loro. Ottimo esordio. (Mauro Catena)

(Marsiglia Records - 2014)
Voto: 75

mercoledì 4 marzo 2015

Enisum - Samoht Nara

#PER CHI AMA: Cascadian Black Metal/Shoegaze, Wolves in the Throne Room, Alcest
Tra le tracce di questo primo album uscito per la Dusktone Records nel 2014, troverete qualcosa di magico, un ponte reale tra la vostra anima e lo spirito della natura, quello più battagliero, romantico e misantropo. La one man band si fa chiamare Enisum e arriva dalla Val di Susa nelle Alpi Piemontesi; tutto il suo concept sonoro è ispirato dalla superba potenza e dalla bellezza dell'ambiente che ci circonda. E l'artwork non lascia ombre di dubbio sul connubio esistente fra musica e la forza di quella natura che ha ispirato questi sette brani di ottimo black folk metal, gelido e potente quanto basta per divenire un piccolo gioiello sotterraneo. La qualità assai alta della produzione rende il suono cristallino e vivace, limpido come una cascata di montagna, le parti folk (o meglio cascadiane) emergono senza prevalere intersecandosi alla perfezione con le incursioni più violente e dinamiche. Anche se leggermente meno corrosivi, gli Enisum ricordano il sound dei Wolves in the Throne Room per l'attitudine oscura, riflessiva e mistica che si protrae per tutti i quarantasei minuti circa di atmosfere spettrali e glaciali, ma dalle forti venature malinconiche e depressive. Le due tracce più lunghe del disco, ovvero "Civrari" e "L'Arvoiri du Cüdlit", racchiudono gli intimi segreti della mente che si cela dietro al monicker Enisum, la cui anima è divisa tra il decadente e l'introspettivo che spesso vira verso un black metal più "morbido" e dalle tinte alternative. Un sound che abbandona spesso e volentieri, ma solo in parte, la strada maestra del defender per esplorare un meltin' pot sonoro molto personale, vedi i cori angelici di "Rüvat Rùciaj", ove un suono astratto ed efficace sorprende anche senza reinventare il genere, lo rielabora con gusto e fantasia, sfoderando una buona padronanza a livello strumentale. Le parti vocali poi si fanno apprezzare nel tipico screaming black, che va alternandosi ad un raro cantato pulito e a cori che potrebbero essere migliorati per raggiungere le vette di Alcest o simili. Nel tirare le somme, possiamo affermare che 'Samoht Nara' è un album decisamente riuscito, accessibile ed intenso, omogeneo, diversamente estremo nelle sue sonorità ancestrali, emotivamente tagliente e penetrante, ricco d'atmosfera e pathos ad effetto. Uno splendido disco per sognatori oscuri. (Bob Stoner)

(Dusktone Records - 2014)
Voto: 80

The Pit Tips

Larry Best

Blind Guardian - Beyond The Red Mirror
Decapitated - Blood Mantra
Xibalba - Tierra Y Libertad

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Kent

Valerian Swing - Aurora
Cobalt - Gin
Vowels - Seasonal Beast

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Claudio Catena

Faith No More - King for a Day
Desert Near the End - Hunt for the Sun
Husker Du - Warehouse: Songs and Stories

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Roberto Alba

Execration - Morbid Dimensions
Saturnalia Temple - To The Other
Furia - Nocel

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Francesco Scarci

Kubark - Obedience
Led Zeppelin - Mothership
Sarin -Burial Dreams

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Yener Ozturk

Gorod - Process of a New Decline
Sergey Golovin - Changes
Goatwhore - Carving Out the Eyes of God

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Michele "Mik" Montanari

Kubark - Obedience
Verdena - Endkadenz Vol. 1
Torche - Restarter

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Don Anelli

Torrefy - Thrash and Burn
Dargolf Metzgore - The Path to Madness
Volahn - Aq'Ab'Al

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Mauro Catena

Motorpsycho - Demon Box (deluxe 5cd edition)
T.K. Bollinger and That Sinking Feeling - A Catalogue of Woe
Minimal Whale - S/t

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Samatha Pigozzo

Scorpions - Return to Forever
Placebo - Loud Like Love
Die Toten Hosen - Kauf MICH! (2007 remastered edition)

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Philippe Perez

Various - New Weird Australia: Passages Vol 1, 2 & 3
Earth - Primitive and Deadly
Badbadnotgood - III

domenica 1 marzo 2015

Combat Astronomy – Time Distort Nine

#PER CHI AMA: Jazz-core, Industrial, Noise, Ambient
Ad un anno di distanza dall’eccellente 'Kundalini Apocalipse', tornano i Combat Astronomy, progetto di James Huggett, con importanti novità. Ricordo di aver chiuso la mia (entusiastica) recensione di 'Kundalini Apocalipse' augurandomi di poter sentire presto gli esiti di una session con un batterista in carne ed ossa, affiancato alle distorsioni sludge della chitarra e del basso di Huggett, e delle invezioni free del sax di Martin Archer. Eccomi accontentato: il batterista che stavo attendendo è l’inglese Peter Fairclough e il risultato è questo monumentale doppio album di quasi due ore, una montagna ostica e impegnativa, che presenta però vette altissime. Una musica aliena, che chiede molto all’ascoltatore, ma molto è quello che è in grado di restituire in cambio. Vi rimando alla lunga e interessante intervista con James Huggett per i dettagli sulla genesi del lavoro, che appare fin da subito meno diretto e più sfaccettato rispetto al suo predecessore. Huggett non facilita certo il compito piazzando subito, in apertura del primo CD, i due brani più lunghi ed ostici dell’intero lavoro; i 17 minuti di "Tenser Quadrant" con i suoi clangori industrial che si fondono alla batteria di Fairclough e al tema del sax di Archer che ricuce di tanto in tanto un pezzo sempre sul punto di sfilacciarsi. "Unity Weapon" si estende invece per ben 21 minuti e rappresenta un perfetto esempio dell’unicità dei Combat Astonomy: una ritmica circolare sulla quale si innestano rarefazioni ambient alternate a impennate free e pesantezze di stampo doom. Il secondo CD ha una struttura più varia anche se in qualche modo simmetrica: in testa e in coda ci sono i momenti più sperimentali e free, mentre nel mezzo gli episodi più potenti, che rimandano in maniera più diretta a 'Kundalini Apocalipse'. In apertura la splendida “Inertia in Flames”, che richiama gli Art Ensemble of Chicago più ispirati, per poi lasciare il campo ad un pezzo totalmente diverso come “SuperFestival”, super-trascinante e perfino orecchiabile nei suoi saliscendi elettronici. Brani come “Ankh” e “Almaz” sono poi in grado di spazzare via qualsiasi cosa con la loro potenza selvaggia, prima di una chiusura ancora una volta noisy ("Arabian Carbines"). Non si puó, infine, non citare il lavoro immane di Martin Archer, veterano della scena free Jazz inglese più improntata all’improvvisazione (sullo stile di Evan Parker), che apporta un contributo enorme al disco non limitandosi a suonare da par suo il sax ma firmando tutte le parti di organo, piano elettrico, mellotron e tutta una serie di altre diavolerie che rendono unico il suono del gruppo. Il progetto è ambizioso ma la statura degli attori coinvolti è tale da non mostrare cedimenti e tale da lasciare intravedere margini di evoluzione ancora non quantificabili. Ad oggi, i Combat Astronomy, con il loro impossibile mix di doom-industrial-ambient-free-jazz sembrano non avere pietre di paragone nel panorama musicale, e sono in attesa di concorrenti in un campionato nel quale, per il momento, giocano da soli. Un quasi-capolavoro, decisamente tra i migliori album del 2014. (Mauro Catena)

(Zond Records - 2014)
Voto: 85

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Mekigah - Litost

#PER CHI AMA: Drone/Noise/Doom/Experimental, Terra Tenebrosa
I Mekigah sono una band australiana che ho avuto il piacere di ospitare un paio di volte all'interno del Pozzo, prima con il debutto 'The Serpent's Kiss', disco che strizzava l'occhiolino a sonorità gothic dark new wave e poi con 'The Necessary Evil', lavoro più pesante e orientato al versante death doom. Il compositore Vis Ortis, orfano di Kryptus, mischia nuovamente le carte e, coadiuvato da altri amici, tra cui quel TK Bollinger da poco recensito su queste stesse pagine, si lancia in un lavoro dalla forte aura sinistra, il cui legame con il passato è riscontrabile solo nel nome dell'interprete principale, Vis Ortis appunto. 'Litost' è un album controverso, dannatamente oscuro che si muove tra le rarefatte atmosfere della opening track, "Total Cessation of One", song al limite del drone, alla successiva e malatissima "The Sole Dwelling", traccia asfissiante, demoniaca e che alla lunga potrebbe condurre alla pazzia. L'incedere è lento e ossessivo, con suoni e rumori di sottofondo che sembrano provenire direttamente dall'inferno. "Arangutia", la terza traccia, non accenna minimamente a cambiare il tiro, cosi come è accaduto in passato per cui il sound dei nostri andava evolvendosi verso lidi sempre più improbabili. Qui si continua a scavare per scivolare sempre più verso il fondo, raggiungere le viscere della terra, entrare i cancelli dell'oltretomba e magari incontrare di persona Belzebù, Lucifero o quel diavolo che vi pare. A livello di sonorità, trovo qualche punto di contatto con i Terra Tenebrosa, ma i Mekigah hanno superato quei limiti dell'act svedese che pensavo invalicabili. Il violoncello di Ken Clinger si palesa minaccioso nella quarta "By Force of Breath", bellissimo esempio di dark ambient cinematico. Con il noise/drone della breve "Sa Fii al Dracului", si chiude la prima parte del disco che ricomincia da "Wurrmbu", un altro pezzo disorientante che continua a non consentirmi di mettere a fuoco la proposta del mastermind di Melbourne. Che diavolo è successo in questi ultimi tre anni, perchè la dipartita di Kryptos, come mai Vis Ortis si è infilato nel tunnel della disperazione sonora? Con "Circuitous Revenge" ho quasi la sensazione di rivedere la luce, quella luce che è stata spenta all'atto di premere il tasto play su 'Litost'. È solo una vana speranza però. La notte, il buio, le tenebre, l'assenza di luce, l'oscurità sono solo alcuni sinonimi di quello che è oggi la musica dei Mekigah. La litania sonora dei nostri fa quasi paura, i vocalizzi qui inclusi sono solo quelli delle anime dannate sommerse nella pece bollente e uncinate dai diavoli, mentre i suoni desolanti della successiva "Mokuy" sferzano l'aria come le raffiche del Blizzard polare, sebbene la melodia sia lenta e raggelante le vene. È il verso dell'ennesimo demone quello che si sente nell'incipit della conclusiva "Bir'yun", song che chiude un disco di assoluto valore ma anche di difficilissimo approccio. Un disco per poveri diavoli, anime dannate, grandi peccatori, condannati, tormentati e straziati. Se anche voi pensate di rientrare in una di queste categorie, 'Litost' è il disco che fa per voi, altrimenti sappiate che "qui si va nell'eterno dolore, si va tra la perduta gente, lasciate ogni speranza voi ch'entrate". (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2014)
Voto: 75

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sabato 28 febbraio 2015

Waking Aida - Eschaton

#PER CHI AMA: Math/Rock strumentale, Post-rock
Ovvero della deriva math di Mtv, David Foster Wallace e altri discorsi. Ok, dovrei avere un’età che quanto meno mi porti a considerare seriamente se guardare o meno i programmi di Mtv, ma ognuno ha le sue perversioni, per cui confesso che ci sono alcuni programmi che guardo. E li guardo proprio perchè mi piacciono. Beh, ho notato come, da un anno a questa parte, sempre più spesso si faccia uso di commenti musicali math rock (cioè, rock strumentale non troppo rumoroso, con le chitarrine sottili, i crescendo, i controtempi e tutte quelle cose lí) per nulla disprezzabili. E questa è la prima cosa a cui ho pensato dopo aver ascoltato quest’ultimo lavoro degli inglesi Waking Aida. La seconda, in verità, dopo aver notato che tanto il titolo dell’album quanto quello del primo brano ("Incandenza") fossero legati a doppio filo a 'Infinite Jest', il romanzo-monstre di David Foster Wallace che contende all’'Ulisse' di Joyce la palma di libro col più basso rapporto tra coloro che lo citano come libro della vita e quanti di costoro l’abbiano effettivamente letto. Se il disco sia realmente dedicato al libro non ci è dato di sapere, anche perchè i quattro londinesi ci hanno inviato uno spartano CD-r privo di qualsivoglia informazione aggiuntiva, ma a me piace pensare che lo sia, un po’ perchè ció mi conferirebbe un’aria piú intelligente, e un po’ perchè contribuirebbe a rendermi piú simpatici i Waking Aida. I quattro sono senza dubbio dei musicisti eccellenti e propongono il loro rock strumentale che si pone a metà strada tra gli ipertecnicismi math e i saliscendi emozionali del post rock, scegliendo di fatto di non schierarsi. Quello che mi piace della loro proposta è la capacità di restare sospesi su più generi, richiamando suoni e atmosfere che citano tanto gli Explosion in the Sky quanto i Talking Heads (le chitarre di "Glow Coin" e "Time Travel with Firends" ne sono un esempio). A farla da padrone sono sicuramente le chitarre, per lo più pulite e suonate sempre in modo originale anche se un tantino cerebrale. A volte rischiano di richiamare alla mente la terribile parola “fusion”, ma riescono poi sempre abilmente a mantenersi al di sopra della linea di galleggiamento, sporcandosi con divagazioni semiserie che hanno il merito di tenere desta l’attenzione (cosa sempre difficile nei dischi strumentali) e rendere il tutto un po’ più divertente. Brani migliori? Per una volta è difficile dirlo per merito di una qualità media piuttosto alta. Oltre alla già citata "Incandenza", piacciono "How to Build a Space Station", con i suoi crescendo, la sognante "Glow Coin" e "This isn’t Even my Final Form", a cui è affidato il compito di chiudere il disco con un andamento emotivamente ondivago, da perfetta colonna sonora per una scena di tramonto invernale sulla spiaggia di Brighton. Molto interessanti. (Mauro Catena)

(Robot Needs Home Recordings - 2014)
Voto: 70

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