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giovedì 25 luglio 2019

Lèche Moi - A6

#PER CHI AMA: Coldwave/Post Punk
Ascoltando “Cold Night”, prima traccia di 'A6', ultima fatica dei francesi Lèche Moi, si ha l’impressione di entrare in un mondo surreale dove le creature citate da Robert Smith in "Hanging Garden", emergono dalla notte delle banlieue parigine inscenando una danza macabra, evocate dal cantato messianico, dalla pulsante ritmica elettronica e dal lugubre sax che animano il pezzo.

I degradati paesaggi post-industriali e le atmosfere impregnate di un romanticismo decadente sono il trait d’union che lega gli undici pezzi di un album tormentato che si sviluppa caoticamente tra pulsioni elettro-dark, divagazioni punk, grunge e persino noise, il tutto condito da battiti marziali e suggesioni ethereal-wave alla Cocteau Twins: insomma, un bel po’ di carne al fuoco e la sfida non indifferente di conciliare il tutto.

A guidarci in questo sorta di crepuscolare saturnalia ci sono Sidonie Dechamps, cantante capace di destreggiarsi tra stili completamente diversi e dare un tocco di carisma a composizioni non sempre convincenti, insieme all’altro ideatore del progetto Mika Pusse: l’interpretazione della prima non può che ricordare le performance infiammate di Siouxsie Sioux, mentre il secondo le fa da contraltare con la sua voce grave alla Nick Cave. Il comparto vocale rappresenta la spina dorsale dell’album ed è posto in grande risalto nel mix, relegando lo stuolo di altri strumenti ed effettistica a mero sottofondo di una specie di oscuro cabaret, cosa evidente in “Burned”, pezzo caratterizzato dal duetto di Sidonie e Mika appoggiato ad un ritmo cadenzato e un’angosciosa melodia che ricorda una versione industrial-rock di "Angel" dei Massive Attack.

La band sembra dare il meglio di sé proprio quando dà liberamente sfogo alla propria anima squisitamente punk senza perdersi in sperimentazioni eccessive: da questo punto di vista “Rage” è il pezzo meglio riuscito dell’album, contraddistinto dal repentino alternarsi di parti lente e sfuriate chitarristiche di grande impatto, ma anche il singolo “Libéra Me” colpisce per l’efficacia nel ricreare un’atmosfera eterea e al tempo stesso luciferina. Belle anche le due composizioni più crepuscolari del mazzo, “Anyway” e “The Letter”, brani romantici e minimali, mentre risulta decisamente più ostico digerire l’unione perversa di post-punk sfrenato alla Juju e noise rock scuola New York che troviamo in “Deep”.

I Lèche Moi non intendono limitarsi al compitino e confezionare il loro lavoro assemblando cliché della darkwave, pertanto sono molti i brani sperimentali e pesantemente contaminati, come la criptica “A Monkey In My Back” e quella sorta di manifesto ribelle che è “Irrécupérable”, in cui il parlato di Sidonie è incastonato in una cacofonia di nervosi effetti elettronici. In chiusura troviamo la lunghissima (11 minuti) “All Is All”, delirio rumoristico in cui si avverte l’eco dei Einstürzende Neubauten, e l’ambient notturno di “Partir Pur Ne Plus Revenir”.

Per quanto questi tentativi di arricchire l’esperienza sonora esplorando tutte le direzioni possibili siano senza dubbio ambiziosi, appaiono però anche sterili e troppo scollegati tra loro, mancando di trasmettere all’ascoltatore un’idea d’insieme e rendendo difficile l’ascolto. Le idee messe sul piatto sono veramente tante e suggestive, ma il loro sviluppo è incostante e capriccioso, proprio come l’anima punk del progetto. Non c’è da stupirsi se molti rimarranno ammaliati dalla sfrontatezza dei Lèche Moi, tuttavia al termine dell’ascolto di 'A6' proviamo una sensazione di incompiutezza e disarmonia, come se nella fretta di finire il puzzle dell’album, la band avesse collocato a forza molti dei tanti tasselli a disposizione. (Shadowsofthesun)
 
 (Atypeek Music - 2019)
Voto: 60

https://leche-moi.bandcamp.com/album/a6

giovedì 4 luglio 2019

Breach - Kollapse

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Hardcore/Post-Punk
Non ricordo esattamente quando ascoltai 'Kollapse' per la prima volta. Ho iniziato a nutrirmi di post-metal quando mi fu consigliato 'Oceanic' degli Isis nel 2007 e da lì iniziai una caccia a tutto ciò che aveva “post” nell’etichetta, setacciando gruppi dagli elenchi di Wikipedia (sì, sono triste, lo so) o pescando album dai blog e credo di essere inciampato nei Breach così, mentre cercavo roba dei loro “vicini di casa” Cult Of Luna. 'Kollapse' era uscito nel 2001, sempre quell’anno i ragazzi di Luleå avevano capito che oltre era impossibile andare e si erano sciolti. Fu amore al primo ascolto e nel giro di poco tempo mi procurai 'Venom' (2000, altro disco allucinante), mentre solo più tardi avrei apprezzato a ritroso 'It’s Me God' (1997) e 'Friction' (1995). C’è qualcosa di malsano nel furibondo hardcore altamente contaminato dei Breach, un’energia selvaggia e ingovernabile che pochi altri gruppi riescono a trasmettere in modo così tangibile (vedi i Botch, band dal percorso simile): è come un’unione instabile tra forze contrapposte e, benché la loro uscita di scena sia definitiva (reunion lampo nel 2007 conclusa con la distruzione della strumentazione), non stupisce che ancora oggi siano una delle formazioni più influenti per gli amanti della scena post-hardcore e metal. 'Kollapse' è il canto di un cigno malato e incazzato nero per esserlo, un cigno che probabilmente sa di essere prossimo alla dipartita. È quella sottile malinconia che affiora qua e là tra le macerie a rendere questo album unico, straziante a livelli quasi insopportabili e profondamente introspettivo, malgrado quei chitarroni pesanti, le rullate tribali di batteria e quel basso che sembra voler fare tutto a pezzi. Anche la copertina minimal grigia, con l’aereo appena stilizzato e cristallizzato nell’attimo prima dello schianto, trasmette una sensazione di catastrofe imminente ed inevitabile: è facile leggervi tristi presagi relativamente al futuro della nostra società. Basta la traccia di apertura “Big Strong Boss” per farci venire la pelle d’oca: i Breach partono piano, quasi in sordina, lasciando spiazzati chi li aveva lasciati ad evocare demoni in 'Venom'; poi a piccole dosi iniziano a rilasciare gocce sempre più pesanti di disagio e le distorsioni acide a poco a poco, riempiono i precari paesaggi da sogno dell’intro deformandoli in un crescendo di mostruosità da cui non è possibile fuggire. Lo sviluppo dell’album è capriccioso e bipolare: pezzi come “Old Ass Player” e “Alarma” ci riconducono nel pieno delirio dei dischi precedenti e i Breach vi scatenano tutta la loro furia hardcore, o meglio, quel loro particolare hardcore bastardo e contaminato da sludge e da scorie di noise e di rabbia, mentre apprezziamo alla voce un Tomas Hallbom indemoniato più che mai nell’urlare contro un cielo buio e temporalesco. Gli inquieti intermezzi post-rock come “Sphincter Ani”, “Teeth Out” e “Seven”, pur nella loro calma apparente, rappresentano i momenti più disturbanti dell’album, onirici nelle loro atmosfere crepuscolari (in particolare "Teeth Out", in cui fanno capolino persino le delicate note di un glockenspiel), ma rese angoscianti dai nervosi fraseggi di chitarra e pronte a tramutarsi in incubi quando basso e percussioni iniziano ad aumentare di intensità. “Lost Crew” scompagina tutte le carte in tavola: furia punk rock, isteria post-punk e pesantezza metal, influenze mescolate tutte insieme in un cocktail omicida e sparate su un ritmo quasi danzereccio e su cui l’headbanging è obbligatorio. È probabilmente l’apice di un album che si mantiene costantemente su livelli altissimi, soffocandoci nel feroce hardcore di “Breathing Dust”, travolgendoci con la velocissima “Murder Kings And Killer Queens” e facendoci definitivamente impazzire insieme a Tomas, nelle allucinazioni sonore di “Mr. Marshall” (da chi avranno preso spunto i Daughters?). L’album si conclude con la lunga title-track, un pezzo strumentale che per certi versi richiama le sonorità di "Teeth Out", ma che si evolve tra cupi intrecci strumentali e fugaci bagliori di un tramonto lontano, lasciando un tangibile senso di perdita: i Breach si stavano infatti avviando verso l’addio, chiudendo e coronando la loro carriera con questo quadro dai colori stridenti, perfetta espressione di disagio esistenziale e desiderio di ribellione, pessimismo e speranza, emozioni contrastanti sperimentate tutte insieme. (Shadowsofthesun)

(Burning Heart Records - 2001)
Voto: 95

https://www.facebook.com/breachofficial/

domenica 23 giugno 2019

Zambra - Prima Punta

#PER CHI AMA: Post-hardcore/Post-metal, Breach
Soffocare e resistere. Soffocare nel cemento di periferie infinite, negli scarichi di auto incolonnate lungo dedali di superstrade, nelle folle di centri commerciali sempre più grandi e numerosi. E resistere a questo fiume in piena fatto di rifiuti, indifferenza e degrado che è la nostra società in corsa verso il baratro. 'Prima Punta', primo long playing degli Zambra, è tutto questo: un hardcore plumbeo e soffocante, brutalizzato da influenze metal e contaminato da escursioni post-rock e noise, tanto in grado di far soccombere l’ascoltatore sotto il peso del disagio esistenziale, quanto di suscitare un acuto desiderio di ribellarsi a questa deriva.

L’artwork del disco, raffigurante un’oscura boscaglia in contrasto con bianche montagne sullo sfondo (il cui profilo aguzzo non a caso richiama anche il logo della band di Sesto Fiorentino), potrebbe essere interpretato come un tentativo di esorcizzare le malsane atmosfere urbane che caratterizzano i brani, tuttavia l’andamento a zig-zag dei picchi ci fa pensare anche alla rappresentazione grafica di una tendenza dall’esito funesto.

Ed eccoci ai pezzi: i maestosi riff di “Metano”, una miscela tossica di post-hardcore e sludge,ci accolgono a cazzotti in faccia con quella che potrebbe essere la colonna sonora per una prognosi infausta urlata ad un paziente che non ne vuole sapere di ascoltare i consigli del medico. Comprendiamo che il carburante di 'Prima Punta' non siano i veleni che inquinano l’aria delle nostre città, quanto la rabbia e la frustrazione espresse dall’alternarsi di slanci hardcore dal sapore marcatamente anni novanta e deflagrazioni post-metal degne dei Neurosis di 'A Sun That Never Sets': queste sensazioni generano la scintilla che mette in moto la marcia implacabile di “FoscO” e trasudano dalle ritmiche laceranti di “Ambra”, mentre gli spasmi nervosi di “Rimaggio” evocano suggestioni post-apocalittiche.

Grinta e dinamiche incazzate dunque non mancano nell’album, ma è da sottolineare l’eclettismo degli Zambra nel non appiattirsi unicamente sulla pesantezza sonora e ricercare costantemente intrecci più elaborati, benché sempre al servizio di atmosfere decadenti ed introspettive: ne sono un esempio l’inquietante esperimento noise\ambient di “Yanusz”, l’ipnotica e rituale “Oca Bianca” e lo straziante inno di sofferenza e disillusione che è “Lottarox”. Chiude “Sun Chemical”, brano di oltre sei minuti che ci lascia una triste fotografia del nostro probabile futuro, fatto di tramonti nascosti dai fumi delle ciminiere, dal cemento di squallidi palazzi e dall’acciaio di gru puntate verso il nulla.

'Prima Punta' è un disco istintivo, genuino e che va dritto al sodo, proprio per questo vi entrerà nel cuore. È un grido disperato nella cacofonia di rumori urbani, lo sfogo per il fardello di insofferenza che tutti ci portiamo dentro e di cui vorremmo liberarci: prendiamo esempio dagli Zambra e forse qualcuno inizierà a chiedersi il perché di tutte queste urla e forse non sarà troppo tardi per invertire la rotta. (Shadowsofthesun)

(Black Candy Records/Coypu Records - 2018)
Voto: 86

https://zambra.bandcamp.com/album/prima-punta-lp-2018

giovedì 13 giugno 2019

Membrane/Sofy Major - Split Lp

#PER CHI AMA: Noise/Hardcore, Unsane, Melvins
Membrane e Sofy Major hanno da poco rilasciato gli ultimi capitoli della rispettiva discografia, il ruggente 'Burn Your Bridge' per il terzetto post-hardcore di Vesoul, e il graffiante 'Total Dump' per il gruppo di Clermont-Ferrand (che probabilmente qualcuno avrà potuto apprezzare live insieme agli Unsane al Solo Macello del 2016). Scopriamo che nel 2011 (riproposto nel 2017 dall'Atypeek Music) le due band transalpine, allora scarsamente conosciute dalle nostre parti, avevano unito gli sforzi registrando uno split fatto di distorsioni ipertrofiche e riff abrasivi. Aprono le danze i Membrane con “Gruesome Tall”, “Small Fires” e “Lifeless Down on the Floor”, pezzi ombrosi e che trasudano rabbia, perfetta sintesi delle coordinate della band: un post-hardcore molto pesante e metallico che richiama Breach e Today Is The Day, lanciato come un treno fuori controllo sui binari tracciati dalla batteria martellante e alimentato dallo sferragliare del basso. Ci pensano poi i cupi accordi di Nico e il cantato sofferente a raschiare ogni residua resistenza di fronte al cataclisma che i Membrane scatenano su di noi. La proposta dei Sofy Major è meno viscerale e più cafona (in senso buono), punta su suoni grossi e sulle distorsioni slabbrate create da quei Big Muff di cui non negano la dipendenza e l’abuso: “Ruin It All”, “Doomsayer and Friends”, “Some More Pills” e “Once was a Warrior” sono dei pugni in faccia a cavallo tra il pesante noise degli Unsane e lo stoner pachidermico dei Melvins, brani in cui la band dimostra tutto il suo potenziale sonoro distruttivo. Entrambe riconducibili al filone noise-core, Membrane e Sofy Major ci offrono due approcci differenti, con i primi maggiormente incattiviti e attenti a costruire atmosfere che coinvolgano l’ascoltatore nel loro abisso di angoscia, i secondi irriverenti e rumoristici servi di una qualche divinità del caos. Dal 2011 a oggi entrambi hanno affinato le proprie lame consegnandoci uscite memorabili, ma dando un ascolto a questo split c’è da dire che le premesse erano buone già all’epoca. (Shadowsofthesun)

lunedì 10 giugno 2019

Sofy Major - Total Dump

#PER CHI AMA: Noise-core/Stoner Rock, Unsane, Melvins, Sonic Youth
Il percorso dei Sofy Major è incentrato su suoni ruvidi e riff pesanti: da 'Permission To Engage' (2010) a 'Waste' (2015), passando per il convincente 'Idolize' (2013), la loro formula non ha visto grosse novità e la band francese si è mantenuta imperterrita sulla rotta tracciata dai loro idoli Unsane. I tre lavori risultano così ugualmente energici e non mancano qua e là spunti interessanti, troppo poco tuttavia per farsi notare in un ambiente ormai inflazionato come quello a cavallo tra noise, sludge e stoner. A quattro anni dall’ultima uscita, dopo un periodo dedicato all’attività live (il contesto migliore per poter apprezzare il power-trio di Clermont Ferrant), ecco 'Total Dump', il cui titolo richiama in modo evidente (così come il precedente 'Waste') il suono sporco e pesantemente distorto dei Sofy Major e non fa che sottolineare l’irriverenza e l’ironia che caratterizzano l’approccio della band. Già dal primo, ascolto ci si accorge che i parallelismi con gli Unsane non mancano neppure questa volta e non solo a livello di stile musicale: è Dave Curran, iconico bassista della band newyorkese, a impostare il mix dell’album in modo ben riconoscibile, ossia con basso bulldozer sparato in faccia all’ascoltatore, la chitarrona contenuta con un filo di prudenza a riempire di colori lo sfondo, l’asciuttissimo rullante della batteria a cadenzare il ritmo delle canzoni. Se brani come la title track e “Giant Car Crash” non sono che l’ennesimo graffiante tributo alla scena noisee hardcore della East Coast, bisogna ammettere che in 'Total Dump' le influenze sembrano più variegate e meglio amalgamate rispetto al passato, con risultati apprezzabilissimi come “Franky Butthole” e “Tumor O Rama”, pezzi ibridi ottenuti dall’incrocio tra l’acidità dello stoner alla Fu Manchu e lo sludge a tinte psichedeliche che possiamo rintracciare in Torche e Baroness. Anche il songwriting appare più ragionato e grazie a questa inedita maggiore cura dei dettagli, la band si cimenta in confronti eccellenti, con i Sonic Youth nell’esperienza malinconicamente allucinata di “Cream It” e con i Melvins nello sludge tossico che caratterizza “Kerosene”. Lo sforzo dei Sofy Major di essere meno intransigenti nella proposta, dando spazio ad un ricco campionario di sfumature e aprendo a sonorità meno arcigne del classico noise-core, premia senza dubbio 'Total Dump' , che risulta così molto più dinamico e cattura l’attenzione dall’inizio alla fine. I suoni, massicci e sbeccati come da tradizione nineties, ci sfilano accanto come una mandria di pachidermi senza però travolgerci, cosa importante per un disco che voglia aprire le porte anche a nuove platee di ascoltatori. C’è da dire che forse la pecca sta proprio qui, nel giusto mix tra la cafonaggine e la ricerca di soluzioni più garbate: i ceffoni ci sono, ma non fanno poi così male, d’altra parte è facile avvertire molto citazionismo e ancora poca personalità nelle composizioni melodiche alternative. Per quanto ben congegnato e piacevole, 'Total Dump' è ancora lontano dall’essere un album in grado di lasciare una traccia indelebile, tuttavia gli amanti delle distorsioni sguaiate non se lo devono assolutamente fare sfuggire. (Shadowsofthesun)

(Atypeek Music/Solar Flare/Deadlight/Antena Krzyku/Corpse Flower - 2019)
Voto: 69

https://sofymajor.bandcamp.com/album/total-dump

venerdì 7 giugno 2019

Of Spire & Throne – Penance

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Sludge, Esoteric
Gli Of Spire & Throne sono un nome probabilmente già noto agli appassionati del doom metal più tenebroso: attivi fin dal 2009, si sono rimboccati le maniche producendo una serie di demo, EP e split, guadagnandosi le attenzioni della Aesthetic Death, etichetta da sempre molto attenta alle novità dell’underground estremo, e con questa, nel 2015 hanno rilasciato il primo LP 'Sanctum In The Light'. Ora è il turno di 'Penance', nuovo imponente monolite sludge\doom che non devia di molto da ciò che ci è stato presentato in precedenza, semmai calca la mano portando la musica della band ad un nuovo livello di oppressione. Il terzetto scozzese qui danza tra la lentezza esasperante del funeral doom e i riff granitici propri dello sludge, mantenendo una sorta di sofferente equilibrio tra le due correnti acuendo la sensazione di precarietà e malessere: ogni mortifero drone sembra in procinto di ricomporsi in riff grondanti cattiveria, così come ogni struttura ritmica dà l’impressione di poter franare da un momento all’altro in caotiche destrutturazioni. La musica emerge dagli abissi nella strumentale “From Dust” e si spande come una torbida marea, tra i rallentamenti da capogiro di “Their Shadow Cast” e le devastazioni soniche di “Sorcerer”, celebrando così l’incontro tra il sound decadente dei loro “cuigini” Esoteric e i Sumac più nevrotici. Muoversi tra le sei tracce che compongono il disco, significa trascinarsi in una distesa desolata subendo ogni sorta di privazione, al punto che mai titolo fu più azzeccato: i freddi effetti di tastiera, i ruggiti del basso, i solenni riff di chitarra e le cadenze lisergiche della batteria, ci accompagnano come inquisitori, in questi 63 minuti di espiazione, mortificando con improvvisi scoppi di violenza l’ascoltatore inerme. Con queste coordinate è chiaro che non stiamo parlando di un album per tutte le stagioni e come chi non sia particolarmente attratto dalle esasperazioni del funeral-doom potrebbe patire una certa stanchezza, visto anche il minutaggio generoso dei brani. Tuttavia, le sfuriate più incattivite e vicine allo sludge e allo stoner, aiuteranno anche i profani a reggerne l’impatto fino alla fine. Inoltre, associare l’ascolto alla visione di uno di quei film horror dove i protagonisti non trovano alcuno scampo, o alla lettura del romanzo di Umberto Eco “Il Nome della Rosa”, dove nemmeno l’impegno e gli sforzi di Guglielmo e Adso, riescono ad evitare la catastrofe finale, potrebbe risultare un’esperienza impressionante. In 'Penance' l’unica luce che illumina il percorso è quella di fiamme rabbiose che covano sotto una coltre di cenere, ossia quella di una forza distruttiva e che non lascia scampo. La salvezza non è prevista, dunque, come ripeteva stolidamente Salvatore nel romanzo di Eco, “Penitenziagite!”. (Shadowsofthesun)

lunedì 20 maggio 2019

Haiku Funeral - Decadent Luminosity

#PER CHI AMA: Industrial/Dark/Ambient, Esoteric, Godflesh, Samael
In un mondo dominato dal conformismo, dove ogni forma d’arte e d'intrattenimento tende sempre più ad appiattirsi allo scopo di compiacere la maggioranza del pubblico e sulla spinta di logiche di mercato, è naturale che le voci fuori dal coro esplorino sentieri totalmente opposti, puntando su proposte singolari ed estreme, per porsi come alfieri di coloro che non accettano di essere omologati e incatenati alla deriva generale. Nobile scopo senza dubbio, ma da perseguire con accortezza, perché il confine tra provocazione e forzatura è molto breve. Prendiamo l’ultimo lavoro degli Haiku Funeral, duo francese (in realtà un americano e un bulgaro trapiantati chissà come a Marsiglia) che nel 2016 si era fatto notare con ‘Hallucinations’, album dalle coordinate nettamente metal, per quanto ricco di contaminazioni elettroniche e sonorità a cavallo tra l’industrial e le melodie orientaleggianti dei Septicflesh. Questo ‘Decadent Luminosity’ si libera invece di ogni elemento tradizionale, dando preminenza alla componente elettronica e danzando ipnoticamente tra la pesantezza apocalittica dei Godflesh, i tribalismi meditativi alla OM, e l’esasperante lentezza degli Esoteric. Il tentativo di diluire tutti questi elementi ha ovviamente influito sulla durata di questo mastodonte musicale, che si presenta come un doppio album di un’ora e mezza: da un lato ‘Decadent’, dove dominano la freddezza marziale della drum-machine e i rabbiosi giri del basso di William Kopecky, dall'altro ‘Luminosity’, che invece si muove in malsane paludi dark ambient in cui di luminoso troviamo ben poco. Sempre presente invece l’elemento vocale, con Dimitar Dimitrov che ci accompagna in questa specie di discesa negli inferi come un blasfemo Virgilio, alternando il cantato cadenzato in stile Blixa Bargeld allo scream black metal, a cui si aggiungono poi svariati effetti orchestrali, sax, violini, voci femminili e mormorii indistinti che non fanno altro che aumentare la sensazione di trovarsi in gita sulle rive del Flegetonte. È dunque la debordante ricchezza di elementi ed influenze, più che il minutaggio, a rendere quest'album molto ostico: delle due parti è sicuramente ‘Decadent’ a risultare più accessibile, caratterizzata da pezzi in cui la forma canzone è più definita e dove risaltano la marziale e meccanica "The Crown Of His Glory", le grandiose atmosfere sinfoniche di "The Dreams Of Celestial Beings" (in cui è avvertibile l’influenza degli ultimi Samael) e l’allucinante orgia ritualistica di “Dreaming Kali In The Temple Of Fire”, dove si combinano elementi orientali con la teatralità dei Kilimanjaro Darkjazz Ensemble. I richiami al collettivo olandese fanno capolino anche nella seconda parte dell’album ("Vision Pit"), ma qui basso e drum-machine ci abbandonano per dare spazio a stridenti feedback ed oscuri effetti elettronici, mentre si compie la metamorfosi del cantante da guida dantesca a vero e proprio sacerdote demoniaco, apparentemente impegnato nell’evocazione di creature non euclidee. Bisogna ammettere che la scelta di dedicare interamente metà dell’opera alla componente ambient rende faticoso anche per l’ascoltatore più eterodosso arrivare alla fine senza skippare qualcosa, questo perché il passaggio tra le pulsanti dinamiche di ‘Decadent’ all’esasperante lentezza di ‘Luminosity’, è forse troppo brusco (un po’ come passare da 'Pretty Hate Machine' dei Nine Inch Nails ad un disco dei Raison d'Être) e le due parti finiscono per avere ognuna vita propria. Il risultato finale è un esperimento affascinante ed ambizioso, ma poco equilibrato, talmente trasgressivo da rischiare di non essere preso del tutto seriamente. Una maggior sintesi delle varie tendenze della band e un minutaggio più contenuto avrebbe permesso a ‘Decadent Luminosity’ di risaltare maggiormente tra le uscite estreme di questi ultimi 12 mesi, ma forse gli Haiku Funeral preferiscono muoversi nella buia desolazione dei gironi infernali più profondi. (Shadowsofthesun)

(Aesthetic Death Records - 2018)
Voto: 66

https://haikufuneral.bandcamp.com/album/decadent-luminosity

mercoledì 15 maggio 2019

From Another Mother - ATATOA

#PER CHI AMA: Math Rock/Punk
Al giorno d’oggi l’offerta musicale è talmente ampia e ramificata che si fatica a tenere il passo delle nuove proposte: inutile dire che le produzioni di formazioni affermate provenienti da scene “storiche” catalizzano l’attenzione di pubblico e critica, forti della maggior visibilità guadagnata nel corso degli anni. Tutto questo ha un prezzo: molto promettente materiale di realtà dell’underground non riceve la meritata attenzione, così come il lavoro di artisti provenienti da scene ancora lontane dalla luce dei riflettori. Ho pensato a questo quando mi sono imbattuto in 'ATATOA', seconda fatica dei croati From Another Mother, eclettico terzetto in azione dal 2013 che promuove una sorta di fusione tra math rock cerebrale alla Dillinger Escape Plane, sfuriate punk-rock e passaggi più orecchiabili: una gran bella miscela che richiede non poca abilità per essere concepita e amalgamata. La ricetta concentrata in queste nove tracce è ricca di sfumature e sicuramente interessante (per quanto un po’ acerba), tuttavia le informazioni presenti in rete sulla band sono davvero scarse e risulta quindi difficile farsi un’idea su ciò che ha portato alla genesi dell’opera: lasciamo dunque parlare la loro musica. La prima traccia “May” ci fornisce subito una chiara indicazione di come si svilupperà l’album: partenza leggera e accattivante, caratterizzata dal cantato scanzonato e dalla chitarra pulita, che dopo meno di un minuto lascia bruscamente spazio ad un esplosivo ritmo serrato a supporto di un travolgente assolo di chitarra e voci urlate. Il repentino alternarsi di parti melodiche e riff furiosi sembra essere il marchio di fabbrica del gruppo e viene ripreso anche in “First Things First” e “Song Number 9”, dove possiamo apprezzare l’abilità dei tre musicisti nel destreggiarsi tra i cambi di tempo e le irrequiete dinamiche che costituiscono l’ossatura di 'ATATOA'. Decisamente più atmosferiche e sognanti sono invece “Supernova” e “Walnut”, brani che risaltano grazie alle forti influenze post-rock e che richiamano i britannici And So I Watch You From Afar, ma nemmeno in questi i From Another Mother lesinano nello spingere sull’acceleratore, lanciandosi in tumultuosi crescendo rumoristici quasi shoegaze. “I Will Atone” e Slightly Wrong” si distinguono invece per le divagazioni jazzy e gli elaborati giri di basso, mentre in coda troviamo “Keep Your Head” e “Baited”, i brani più diretti e pesanti del mazzo, i quali meglio esprimono l’anima “heavy” della band senza per questo cadere nel banale. 'ATATOA' è un album che incanala l’entusiasmo del gruppo e trasmette per tutta la sua durata emozioni estremamente positive, riuscendo a coinvolgere l’ascoltatore e rendendo l’ascolto piacevole e leggero, malgrado i repentini cambi di tempo e le nervose strutture delle canzoni. Se da un lato la tecnica nell’esecuzione e la ricercatezza degli arrangiamenti non sono in discussione, va detto però che i pezzi, per quanto validi, si sviluppano in modo troppo eterogeneo, suscitando spesso la sensazione di ascoltare la registrazione di una divertente jam session. Nel complesso il lavoro sembra mancare di un’idea di insieme e fatica a trasmettere un concetto unitario, disperdendo molte ottime idee in un’impetuosa ricerca di varietà stilistica. I From Another Mother giocano tutte le loro carte sulla creatività sregolata, dando liberamente sfogo ad ogni idea e confezionando un disco energico e diretto; la band, invece di puntare con decisione verso percorsi più ambiziosi per valorizzare il proprio notevole bagaglio tecnico, sembra volersi accostare più ai rassicuranti filoni punk e alternative rock, ma per una giovane realtà dell’est europeo, ancora alla ricerca di un posto al sole, probabilmente va bene così. (Shadowofthesun)

(Kapitan Platte - 2019)

domenica 24 marzo 2019

Ni - Pantophobie

#PER CHI AMA: Mathrock/Avantgarde/Noise Rock, Fantômas, Zu
Chi, per passione o per lavoro, scrive si sarà trovato almeno una volta a sperimentare un blocco creativo: le ore e i giorni passano, l’illuminazione non arriva e il foglio desolatamente vuoto davanti a sé, inizia a generare un’ansia crescente. Questa spiacevole sensazione, comunemente chiamata “blocco dello scrittore”, pare abbia un nome scientifico: leucoselofobia, letteralmente “il terrore nell’osservare una pagina bianca”, che probabilmente trascende la dimensione puramente letteraria e finisce per accomunare un po’ tutti gli artisti, compresi i musicisti alle prese con un nuovo album.

I Ni avranno mai sperimentato questa fobia? Io me li immagino chiusi nella loro sala prove di Bourge-en-Bresse, mentre suonicchiano senza convinzione alla disperata ricerca dell’accordo giusto, del riff efficace, di quella vibrazione interiore che all’improvviso spinge le dita di chitarristi e bassisti a muoversi veloci sulle tastiere dei propri strumenti e i batteristi a pestare con energia le pelli dei tamburi. Mi piace pensare che sia stato proprio il tentativo di esorcizzare un blocco creativo ad ispirare 'Pantophobie', quarto album di questo eccentrico quartetto transalpino, incentrato come da titolo sulla “paura di tutto”.

La genesi dell’opera è stata ovviamente tutt’altro che frutto del caso: ascoltando questi undici brani (in realtà nove più due inquietanti tracce di silenzio assoluto in apertura e chiusura) e dando un’occhiata alla storia della band, è chiaro che i Ni, dotati di grande tecnica ed impressionanti abilità compositive, abbiano progettato l’opera nei minimi dettagli, offrendoci un disco volutamente nevrotico ed imprevedibile, basato su ritmi concitatissimi e repentini cambi di dinamica su cui vengono sviluppati intrecci ed armonie allo stesso tempo stravaganti ed eleganti. È difficile attribuire un’etichetta alla proposta musicale del gruppo, ma possiamo tranquillamente parlare di un math/noise rock strumentale in cui tempi dispari, i riff storti ele sequenze bruscamente troncate la fanno da padrone, ma nel calderone vengono riversate influenze avantgarde metal, hardcore, jazz e persino qualche pennellata di ambient e post-rock; l'eco di Mr. Bungle, Fantômas e delle varie creature di Mike Patton sono evidenti, ma è possibile cogliere anche richiami ai nostrani Zu.

Il tutto pare realizzato col preciso obiettivo di non dare alcun punto di riferimento e lasciare l’ascoltatore costantemente spiazzato, quasi a voler riprodurre in musica lo stato di confusione e il senso di minaccia provato da chi soffre di una delle fobie che danno il nome ai pezzi: “Leucosélophobie”, “Héliophobie” (la paura della luce del sole), “Alektorophobie” (paura delle galline), “Kakorraphiophobie” (paura del fallimento), tanto per citarne alcune, sembrano termini usciti da un’enciclopedia psichiatrica per definire terrori assurdi, nei quali possiamo leggere una sottile ironia da parte della band nel ritrarre una società sempre più spaventata ed in balia di apprensioni spesso prive di senso.

In 'Pantophobie' il tema della paura non si limita dunque a fare da sfondo all’estro compositivo degli strumentisti: l’intero lavoro si presenta come un vero e proprio "Urlo di Munch" musicale, la perfetta rappresentazione di un’epoca priva di certezze e dominata da un’inquietudine di cui è difficile cogliere le radici. La cura proposta dai Ni, celata dietro tempi composti e ritmiche folli, è piuttosto semplice: imparando a non prenderci troppo sul serio forse ci accorgeremmo che i nostri mostri non fanno poi così paura. (Shadowsofthesun)


martedì 19 marzo 2019

Membrane - Burn Your Bridges

#PER CHI AMA: Post-hardcore/Noise, Time To Burn, Today Is The Day
È evidente che ci sia una forte correlazione tra la musica e il contesto sociale di un paese, e se diamo un’occhiata ai gruppi che negli ultimi anni sono venuti alla ribalta nell’underground francese (in precedenza piuttosto snobbato dalle nostre parti) ci accorgiamo di una realtà parecchio incazzata: i vari Celeste, Time To Burn, Birds In Row e Daïtro, hanno iniziato a portare questo disagio sui palchi dell’Europa ben prima che questo diffuso malessere esplodesse nelle tensioni e nelle confuse proteste che oggi dominano la cronaca d’oltralpe.

I Membrane, terzetto nato in una piccola cittadina di provincia, non hanno goduto della visibilità ricevuta invece da molti altri compatrioti delle scene hardcore e metal, cosa che appare strana vista la carriera quasi ventennale caratterizzata da una vivace attività live, puntellata da periodiche release e ora coronata dall’ultima uscita, questo 'Burn Your Bridges' che nulla ha da invidiare agli album di band più blasonate e che già dal primo ascolto ci travolge come un fiume in piena ingrossato dalle acque di tumultuosi affluenti noise rock, post-metal e post-hardcore. Parliamo di sette tracce dense e scurissime, caratterizzate da ritmiche di batteria telluriche e linee di basso feroci a supporto dei soffocanti accordi di chitarra e del cantato rabbioso, perfetta colonna sonora per un viaggio tra le macerie della vita e le perdite che ognuno di noi deve affrontare.

L’ipnotico arpeggio di chitarra e le due voci supplicanti che ci accolgono nella prima traccia “Stand in the Rain” ci ingannano con la loro sacralità: l’apparente catarsi termina dopo un minuto e mezzo, spezzata da un riff tonante che possiamo tranquillamente accostare a quelli dei Neurosis più indiavolati: dei Membrane colpisce proprio la disinvoltura nell’accostarsi ad alcuni mostri sacri e la capacità di combinare diverse influenze in modo omogeneo e dare spazio ad elementi che coprono un ampio spettro musicale, dal furioso hardcore di “Childhood Innocence” agli isterismi ritmici di “Battlefield”, brano a cavallo tra noise e sludge, lanciato all’inseguimento dei Today Is The Day e dei Breach.

Ritroviamo una chiara ispirazione a Scott Kelly e compagni in “Burn Your Bridges”, breve traccia che funge da spartiacque dell’album a cui dà peraltro il nome, con i tristi accordi di chitarra pulita e le voci ora sussurrate, ora lancinanti nell’esprimere il bisogno di “bruciare i ponti” con un passato doloroso o forse con un presente alienante. Scendiamo la china, o meglio, precipitiamo a folle velocità durante “Fragile Things”, dove fanno capolino influenze post black metal e crust, e affrontiamo la tempesta di “Windblown”, altro pezzo di pura disperazione da percorrere tra grida strazianti, percussioni implacabili e le dure sferzate di chitarra e basso. In chiusura troviamo “At Long Least”, che si apre con un angoscioso giro di basso prima di consumare l’ultimo e più pesante carico di rabbia, che al minuto 3.20 raggiunge il limite del sopportabile.

Efficace, diretto e ben prodotto, 'Burn Your Bridges' è un disco che colpisce subito al cuore, in cui dominano le fiamme della ribellione in contrapposizione alla dilagante oscurità del disagio esistenziale e della depressione: difficile dire quale dei due elementi alla fine trionfi, ma l’energia trasmessa dai Membrane va letta come un invito a reagire anche nei momenti più bui. Insomma, i ponti da bruciare e le paure da sconfiggere sono prima di tutto dentro di noi. (Shadowsofthesun)


martedì 19 febbraio 2019

Lightpole - Dusk

#PER CHI AMA: Alternative Psych Rock
Non c’è che dire, i Lightpole, ambizioso quartetto di Macerata attivo dal 2015, hanno le idee chiare: sfruttare al massimo le possibilità sonore offerte dall’elettronica applicandole ad una solida base rock, per confezionare una miscela in grado di far scuotere le teste ed emozionare i cuori. Missione che senza dubbio risulta riuscita con questo 'Dusk', un lavoro che esprime appieno tutte le qualità tecniche del gruppo, alla prima prova su long playing, e che evidenzia una cura maniacale per i dettagli, oltre che l’abilità nel combinare elementi musicali orecchiabili a tematiche impegnate e atmosfere piuttosto cupe. Ci troviamo di fronte a nove tracce dalle influenze variegate: art-rock in stile Muse, schitarrate schiacciasassi degne dei pezzi più malati dei Queens of the Stone Age e l’elettronica malinconica che ricorda i Depeche Mode di 'Sounds of the Universe', in un continuo alternarsi di ritmiche infiammate a momenti in cui i Lightpole lasciano spazio a melodie più intime e riflessive. A dominare sono i colori del crepuscolo, che ispirano il titolo e l’artwork dell’album, forse un monito per l’ascoltatore nei confronti di un futuro probabilmente ritenuto (non a torto) dalla band poco roseo, benché i contenuti dei testi non siano immediati e manchino riferimenti evidenti. Memorabile è la traccia di apertura “The Hucksters' Meal”, caratterizzata da inquietanti effetti ambient di sottofondo, da ritmiche tribali di batteria e soprattutto da profondissimi bassi che supportano gli isterismi della chitarra ed un cantato molto effettato, mentre colpisce per eleganza e modernità “What You Leave Back”, brano dalle coordinate nettamente rock, ma alleggerito da armonie di tastiera e dall’apporto degli archi. In “The Founding Father” viene dato libero sfogo alla dinamica scatenata delle percussioni e alla componente chitarristica, mentre nelle successive “Collapse”, “Saṃsāra” ed “Euphelia”, guadagnano maggior spazio delicati effetti elettronici ed intricate strutture di synth, decisamente più adatte allo scopo di ricreare atmosfere oniriche e meditative. Troviamo però un limite in questa apparente perfezione: se da un lato ogni impalcatura sonora è ben calibrata, ogni strumento esegue il suo compito alla perfezione e ogni elemento s'incastra magistralmente nella trama generale, dall’altro ci accorgiamo di una certa ostinazione nello sviluppare i brani esclusivamente in orizzontale, reiterando le medesime soluzioni senza smarcarsi troppo dal canovaccio iniziale e lasciando alla sola batteria il compito di muoverne la dinamica. Questo diventa evidente nei pezzi più lunghi e lenti (“Wakes” e l’outro “Shadows”), che alla lunga generano una sensazione di monotonia, o in “The Same Old Glory”, che avrebbe meritato uno sviluppo migliore. Critica che ad ogni modo non va ad intaccare la freschezza della proposta nel suo complesso né il gran lavoro dei Lightpole, di cui attendiamo con interesse, sviluppi futuri. (Shadowsofthesun)

(Overdub Recordings - 2018)
Voto: 70

https://lightpoleofficial.bandcamp.com/album/dusk

lunedì 18 febbraio 2019

Space Aliens From Outer Space - Nebulosity

#PER CHI AMA: Kraut Rock/Progressive
Un astrofisico statunitense nel 1961 formulò un’equazione per determinare il numero di civiltà extraterrestri presenti nella Via Lattea in grado di comunicare, poco più di un simpatico esercizio matematico che non tiene conto di una considerazione fondamentale: è molto difficile che degli alieni avvertano il bisogno di parlarci, a meno che non vogliano tentare la masochistica impresa di salvarci dall’autodistruzione. 

A Torino, vertice di geometrie esoteriche e infrastrutturali, l’improbabile si è trasformato in realtà quando dei missionari cosmici, gli Space Aliens From Outer Space, hanno deciso di atterrarvi per portare il loro“messaggio di luce” alla nostra triste umanità, un tentativo di primo contatto che giunge al suo quarto stadio con 'Nebulosity', album firmato dall’etichetta nostrana Escape From Today e dalla belga Cheap Satanism. 

Il progetto è un mix di rock psichedelico, progressive rock ed elettronica, a metà strada tra la synth-wave e le colonne sonore di John Carpenter, il tutto efficacemente accompagnato da un’estetica sci-fi che trasforma Paul Beauchamp (Almagest!, Blind Cave Salamander, Coypu), Daniele Pagliero (Lo Dev Alm, Frammenti, All Scars Orchestra), Francesco Mulassano e la nuova arrivata dietro le pelli, Maria Mallol Moya (Gianni Giublena Rosacroce, Lame, Natura Morta) in una vera e propria delegazione proveniente dalle stelle, pronta a sconvolgere gli arretrati terrestri con abiti argentati, attrezzature futuristiche ed un sound fuori dal comune. 

L’opera si configura come il racconto di un viaggio tra gli spazi siderali che ha inizio con le maestose melodie di sintetizzatore di “Asterism”, che si snodano tra percussioni lisergiche e il pervasivo uso del vocoder di Paul, da sempre marchio di fabbrica del gruppo. La navigazione si fa decisamente più turbolenta in “Trajectory”, brano appesantito da decisi colpi di batteria e caratterizzato dagli avvolgenti tappeti di tastiera che sembrano farsi largo tra asteroidi in collisione ed esplosioni di supernove, per poi stabilizzarsi con “Entanglement”, in cui le varie componenti elettroniche della band si inseguono lungo orbite fantascientifiche, richiamando Kraftwerk e Tangerine Dream, per poi ricompattarsi nella ritmica magnetica di “Propulsion”, durante la quale i nostri quattro esploratori sembrano voler aumentare la potenza dei motori per lanciarsi nella seconda parte dell’album. 

Con “Into The Nebula” affrontiamo un brusco cambio di rotta che ci porta attraverso territori meno idilliaci, ma ogni timore viene spazzato via quando Maria Mallol inizia a maltrattare piatti e pelli in un crescendo di dinamica, operazione che si ripete anche in “The Outer Realms”, brano estremamente ritmato e ricco di variazioni in cui la nuova batterista offre una grande prova. In “Particle Horizon” l’elettronica eterea ci lascia galleggiare come particelle neutre in precario equilibrio tra forze gravitazionali contrastanti, una sorta di quiete prima della tempesta sonora di “Starchaser”, brano ispirato all’omonimo film di animazione del 1985 e quasi stoner per potenza, perfetta colonna sonora della furiosa battaglia spaziale che si consuma tra le armate dell’ennesimo tiranno planetario e le infine vittoriose forze in lotta per la libertà. 

Gli Space Aliens From Outer Space rappresentano senza dubbio un’anomalia nel panorama musicale underground, forti di coordinate musicali inusuali e di una grande cura dei dettagli, tuttavia 'Nebulosity', se da un lato valorizza il percorso sperimentale della band, dall’altro si mostra più concreto e (paradossalmente) più umano, probabilmente grazie alla scelta di contenere la durata dei pezzi senza indugiare eccessivamente in esplorazioni sonore e all’aggiunta di una batterista in carne ed ossa, in grado di ricondurre le astrazioni elettroniche a strutture e ritmiche più definite. L’ascolto risulta pertanto piacevole per tutti i quarantacinque minuti di durata e l’unica pecca potrebbe essere nell’assenza di un vero e proprio fulcro, un pezzo in grado di catalizzare l’attenzione e magari anche di strizzare l’occhio a chi non è avvezzo a queste sonorità. 

Viene quindi da chiedersi se con questo album il messaggio di Paul e compagni sia un mero invito a contemplare l’immensità del cosmo e ad omaggiare gli artisti che da questa si sono lasciati affascinare, oppure un‘esortazione ad uscire dal nostro piccolo mondo ed esplorare nuove possibilità (musicali e non), cosa non facile in un contesto storico in cui coloro che mostrano curiosità e apertura al diverso sono visti con sospetto, proprio come “alieni provenienti da un altro spazio”. (Shadowsofthesun)

(Escape From Today/Cheap Satanism - 2018)
Voto: 75

giovedì 10 gennaio 2019

The Entrepreneurs – Noise & Romance

#PER CHI AMA: Noise Rock, My Bloody Valentine, Sonic Youth
Musicalmente sono nato tardi e per molti anni non sono uscito dalla rassicurante galassia delle chitarre zanzarose e delle percussioni a mitraglia finché nel 2008 un amico mi consigliò di ascoltare 'Loveless' dei My Bloody Valentine e i miei preconcetti vennero spazzati via da quella marea di muri sonori. Ricordo ancora il rimpianto per aver perso gli anni dell’esplosione di noise rock, shoegaze, dream pop e post-punk, salvo poi scoprire che l’interesse per quei generi si stava rinnovando al punto da concedere una nuova giovinezza alle formazioni storiche e favorire la nascita di una schiera di epigoni. In mezzo a questa pletora di gruppi (non sempre in grado di offrire spunti memorabili) troviamo gli Entrepreneurs, formazione al debutto con l’album 'Noise & Romance', ben decisa ad uscire dalla periferia della scena alternativa: a differenza di molti colleghi infatti questo ambizioso terzetto di Copenaghen si sforza di proporre nuove sperimentazioni, pur con chiari omaggi ai pionieri del passato. È dunque la contrapposizione alla base di questo lavoro, non solo tra vecchio e nuovo, ma anche nell’alternarsi di esplosioni di rumore e distorsioni sferzanti con armonie piacevolmente pop e condite da testi romantici (da qui il titolo), contrasto reso anche in copertina dove un’intrigante ragazza è immersa in una vecchia vasca piena di liquido blu, immagine che peraltro sembra richiamare l’artwork di 'Around the Fur' dei Deftones, autori anche loro (pur in chiave più dark) di un efficace connubio tra musica estrema e melodie seducenti. Le dieci tracce che compongono l’album sono un caleidoscopio di stili diversi: si parte con i feedback a cascata e le basse stordenti di “Session 1”, una sorta di rivisitazione in chiave moderna "Only Shallow" dei MBV, per poi passare alla cavalcata psichedelica di “Say So!”, quasi isterica nei suoi continui cambi di dinamica e che ci lancia nel singolo “Joaquin”, una corsa scatenata in stile Sonic Youth, guidati dalla voce scanzonata del cantante. Le ritmiche pulsanti di “Sail Away” e gli intrecci sonici di “Be Mine” ci conducono ad “Heroine”, dove esplosioni di volume e riff pachidermici, fanno da contraltare a strofe colme di dolcezza: è l’apice del disco, in cui le diverse influenze del gruppo si fondono in perfetta armonia. I brani che seguono appaiono più crepuscolari, dando spazio al dream pop elettronico di “Ages” e alle schitarrate in stile Pavement di "Despair". In chiusura troviamo l’immancabile traccia acustica (“Morning Sun”) e la malinconica e quasi Radiohead “D Tune”, pezzi ugualmente intensi ma forse un po’ meno ispirati. Dunque, come valutare l’opera? Del buon revival per ascoltatori malinconici o una produzione matura e davvero indipendente? Gli Entrepreneurs strizzano l’occhio ai nostalgici riproponendo soluzioni le cui paternità sono evidenti, tuttavia la capacità mostrata nell’amalgamare omaggi al passato e spunti più moderni rendono 'Noise & Romance' una novità piacevole e tutt’altro che derivativa. La loro energia, abbinata ad una crescita nella stesura dei pezzi, potrebbe riservarci piacevoli soprese per il futuro. (Shadowsofthesun)