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lunedì 20 giugno 2022

Sólstafir - Köld

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Prog/Post Metal
Prefiguratevi una chitarra magmatica e assolutizzante che discioglie basso e pelli, un uso a dir poco sfrontato dei piatti. Strumenti e voce conglomerati in una sorta di unisono emozionale. OK? Andiamo. Gettarsi alle spalle le black-ragazzate degli inizi: è tempo di architettare sontuose suite progressive (i saliscendi ritmici ed emotivi di "Köld", la onnicomprensiva "Goddess of the Ages" in chiusura) oppure ipnotiche progessioni post-wave ("78 Days in the Desert" e in sostanza tutto il resto del disco uno). Più prossime ai lavori precedenti invece le cupe rarefazioni doom del disco due: la evocativa, post-gilmouriana "Necrologue", eseguita ad ogni concerto e dedicata a un amico prematuramente scomparso, il neurotico singolo "Love is the Devil (and I'm in Love)", una "World Void of Souls" forse solo eccessivamente lunga ma inaspettatamente Nine Inch Nails nel finale. Ascoltate questo disco mentre cercate di figurarvi i Sólstafir in persona rinchiusi nell'armadio del video di "Close to Me" mentre rotolano giù nella caldera dell'Eyjafjöll. (Alberto Calorosi)
 
(Spikefarm Records - 2009)
Voto: 78

lunedì 13 giugno 2022

The Decemberists - The King is Dead

#PER CHI AMA: Folk Rock
L'impervio percorso artistico del più ingombrante genio del prog-nu-folk non facente sesso con le groupies, scivola per sottrazione con la stessa velocità di una discesa lungo la coclea di Fibonacci. Ma se è facile sottrarre da 'Crane Wife' (il quarto album della band statunitense) le progressioni progressive e mainstrimate mainstream, se è altrettanto facile sottrarre da 'Hounds of Love' certi arzigogolanti arzigogoli da 'Quesito con la Susi' o da ultimi Porcupine Tree, meno facile è sottrarre alle vivaci composizioni dei primi album dei The Decemberists quella rurale spontaneità che odora di cuoio e merda di vacca. 'The King is Dead' è la (meravigliosamente eseguita e impeccabilmente prodotta) teca di cristallo che espone il songwriting di Colin Meloy al massimo del suo talento creativo. Ascoltate questo album ogni volta che pensate di aver fatto una cosa di cui avete paura di pentirvi. Vale a dire, spesso. (Alberto Calorosi)

(Capitol Records/Rough Trade Records - 2011)
Voto: 75

http://www.decemberists.com/

lunedì 6 giugno 2022

Soft Ffog – Soft Ffog

#PER CHI AMA: Prog Rock/Jazz Strumentale
Questo album è una scatola magica, piena di rimandi e allusioni sonore pescate in giro per il mondo del progressive, del rock, del jazz e della gfusion. Uno scrigno che renderà felici gli estimatori di questo genere musicale, sempre ricercato, mai banale e cosa ancor più importante, carico di un virtuosismo che in nessun caso risulta fine a se stesso o mai eccessivo. Registrato allo studio Paradiso con alla consolle il noto produttore Christian Engfelt, l'opera prima omonima di questa band norvegese s'inserisce a forza in quella lunga lista di splendide band che popolano questa magnifica terra del nord e, come troviamo scritto nelle note biografiche della loro pagina bandcamp, fin dal primo ascolto ci rendiamo conto che unire certe idee di King Crimson con Terje Rypdal, e Deep Purple con Pat Metheny, è sicuramente stata una trovata pazzesca. Valutando poi la bravura dei musicisti nel rendere il tutto musicalmente attuale, senza dover ricorrere per forza a teorie sonore vintage, anzi rendendo il tutto così moderno, fruibile e a volte persino altamente hard, nelle sue aperture al mondo più rock, ci si arrende al fatto di essere di fronte ad un vero gioiello sonoro. La band nata per suonare esclusivamente live, dal 2016 è diventato un side project di ottimi musicisti provenienti da altre formazioni, Tom Hasslan e Axel Skalstad dai Krokofant, Vegard Lien Bjerkan dai WIZRD e Trond Frones dai Red Kite e Grand General, che rispondono nel migliore dei modi, suonando alla perfezione le composizioni visionarie e variegate del geniale Tom Hasslan, che nel 2020 ha deciso di voler mettere per inciso queste lunghe suite strumentali cariche di magia progressiva. Non vi è infatti una traccia meno importante dell'altra, tutte sono attraenti ed interessanti, l'intero disco va ascoltato più volte, per assaporare quante sfaccettature esso contenga, che siano avantgarde o di ambient celestiale. E quante delizie tecniche esecutive e compositive si nascondono dietro ogni singola nota, compreso il suo spiazzante carattere impulsivo che a tratti fa esplodere letteralmente la musica in un'orgia sonora di gran gusto. Inoltre, l'ottima produzione lo rende piacevolissimo all'ascolto, mettendo in risalto anche una certa vena psichedelica che gli dà quel tocco in più, con un ottimo basso ed una ritmica veramente ben calibrati in profondità di frequenze, calore del suono e percussione, che sostengono a dovere una pioggia di suoni ed effetti tutti da scoprire. Se amate il prog jazz rock quindi, questo è il disco che fa per voi, un album che fa della qualità stilistica il suo cavallo di battaglia, in bilico tra suoni d'un tempo e modernità, per continuare a sognare nel nome di Nucleus, Soft Machine, Mushroom, Return to Forever. L'ascolto è quanto meno un obbligo non solo un mero consiglio! (Bob Stoner)

(Is it Jazz? Records - 2022)
Voto: 80

https://softffog.bandcamp.com/album/soft-ffog

lunedì 30 maggio 2022

Pain of Salvation - Road Salt Two

#PER CHI AMA: Progressive Rock
…da quel medesimo genere che per decenni ha rappresentato un consolatorio iperuranio musicale per chiunque sentisse necessario darsela a gambe dalle classificazioni musicali correnti, i Pain of Salvation producono un duplice e pirotecnico contenitore di amenità, invero sorprendentemente coeso per ciò che concerne il primo episodio. In questo senso non è così strano che sia proprio il sequel, l'episodio più sparpagliato, a risultare più progressibile proprio per la presenza di roba come la circense "Break Darling Break" (con chiusura di flautino asmatico), la morriconiana "To the Shoreline", o ancora il deliquio acustico in "Healing Now" o la onni/porcupine/fluida "The Physics of Gridlock", episodi senz'altro più consoni per gli sclerotizzati percorsi neurali di un vecchio progghettone. E non certo il patton/funk di "Eleven" o, centottanta gradi più in là, i due heavy blues road-salt-primeggianti collocati in apertura, la beneducata "Conditioned" e la già citata e comunque maleducata "Healing Now". Una (doppia) concettualità altrimenti blanda, cucita insieme dalla furbesca ripresa del tema di "Road Salt Theme", dalla duplice "Of Dust" (la brontolosa) / "Of Salt" (la biliosa) e, fateci caso, dal layout delle copertine, ritraenti la band racchiusa in un cardioide stilizzato in 'R-S-1' e nella sagoma reale di un cuore umano in 'R-S-2'. (Alberto Calorosi)

(Inside Out Music - 2011)
Voto: 74

https://www.facebook.com/Painofsalvation

domenica 8 maggio 2022

Transnadežnost' - Monomyth

#PER CHI AMA: Kraut Psych Rock
Visioni cosmico stroboscopiche per i Transnadežnost', band originaria di San Pietroburgo e dotata del nome verosimilmente più impronunciabile al mondo. Fatte le dovute premesse, perchè non domandatemi domani come si chiama questa band, non saprò rispondervi, andiamo a dare un ascolto a 'Monomyth', album di debutto uscito nel 2018 e dedito a sonorità space prog rock strumentali. Questo almeno quanto certificato dall'opener "Pacha Mama". La successiva "Ladoga" sembra infatti portarci in altri mondi, dilatati e lisergici, oscuri e magnetici, suonati peraltro con un certo spessore tecnico compositivo. Chiaro, poi manca una voce a guidarci nei meandri di questa release e per me spesso questo costituisce un problema, ma mi lascio comunque ammaliare dalle sonorità a tratti anche arrembanti che i nostri hanno da offrire nel loro sperimentalismo sonoro. Intanto si prosegue nella conoscenza della band russa e in "Kailash" si sconfina in suoni orientaleggianti che sembrano condurci a meditazioni mantriche di natura buddista, comunque inserite in un robusto contesto rock sofisticato dotato di una bella cavalcata finale. Quando accennavo agli sperimentalismi, ecco che "Star Child" mi viene in aiuto con un assolo di sax (che ritornerà anche nel finale) inserito in un atmosferico e seducente contesto musicale jazz/blues. "Huldra" sembra invece proseguire quel percorso psichedelico-meditativo-desertico messo in scena in "Kailash", con la sola deroga che qui troviamo finalmente una voce a prendersi la meritata scena. Certo, non proprio una performance memorabile, ma comunque accresce il tenore della proposta dei nostri. "Chewbacca" è un breve ma suggestivo pezzo prog rock (che mi ha peraltro evocato i Porcupine Tree) pronto ad introdurci a "Day/Night", il brano più lungo ma anche strutturato di 'Monomyth', quello in grado di combinare tutte le sfaccettature del quartetto russo, addizionate di una componente doom che ben s'incastra nelle allucinate derive stoner, kraut, tribal, prog, space, jazzy rock dei Transnadežnost' che vi ingloberanno in quest'ultimo ipnotico e delirante viaggio. (Francesco Scarci)

lunedì 25 aprile 2022

Arabs in Aspic - Victim of Your Father's Agony

#PER CHI AMA: Prog Rock
Profusione di lingue di allodola in salamoia e orde di elettroni in transito sulla cinghia di Van der Graaf ("God Requires Insanity" vs. "Killers"; l'incipit di "You Can Prove Them Wrong" e parecchio altro), come del resto era opportuno aspettarsi, il tutto rimpolpato da immancabili uriah-tastieroni (una straordinaria "One" con tanto di divagazioni psych + coretti senz'altro mutuati dagli ingombranti concittadini Motorpsycho). Altrove riferimenti più obliqui: embrioni dei Ruphus annidati in "Tv 3" e sensazioni prossime a certo space teutonico (gli Eloy borboglianti nella title track "Victim of Your Father's Agony" e quelli funkettoni di "The Turk and the Italian Restaurant"). Nel complesso, il quarto album degli Arabs in Aspic (in realtà il terzo degli Arabs in Aspic II), differisce dal precedente 'Pictures in a Dream' non nelle sonorità e nei riferimenti, entrambi ben consolidati dal giorno in cui fu deciso il nome della band, ma piuttosto per via di un songwriting forse più misurato e consapevole. Una caratteristica non sempre positiva all'interno dell'ipercromatico universo del progressive rock. (Alberto Calorosi)

(Black Widow - 2015)
Voto: 70

https://www.arabsinaspic.org/

sabato 23 aprile 2022

Spettri - 2973 La Nemica dei Ricordi

#PER CHI AMA: Horror Prog Rock
Nell'ambito della reviviscenza coraggiosamente perpetuata negli ultimi anni dall'etichetta di Genova, il recupero della band dalla storia più incredibilie (il nucleo storico della band germina dalla florescenza beat mid-60, transita attraverso l'esperienza horror-prog denominata Spettri, poi il piano bar e la retroguardia culturale nazional-chic marchio Renzo Arbore) tra le incredibilmente numerose band RPI dalla storia incredibile, permette la realizzazione di un album capace di ripercorrere con ossequio e leggerezza stilemi consolidati early-70: sludge-riff sabbatiani ("Il Lamento dei Gabbiani"), scorribande hammond viola carico, rutilianti arrembaggi easy-heep ("La Profezia") unitamente a elementi più marcatamente british-prog, vedi certi momenti di "Onda di Fuoco" e dalle parti di "Apocalypse in 9/8" e le numerose convoluzioni van-der-grafiche ("La Nemica dei Ricordi" vs. "Killer" o ancora "La Nave", aperta da una godibile intro goblin-vecchietta-cattiva-con-la-mela-velenosa, dominata da un riff strutturale da funerale elettrico sabbatiano e magnificamente chiusa da un finale spleen-prog). L'album, un concept straordinariamente vitale e consapevolmente suonato sull'apocalisse interiore in un ipotetico e distopicissimo 2973 intenderebbe essere una sorta di sequel dell'omonimo 'Spettri', ambientato nel 1972. Eppure, nonostante siano trascorsi la bellezza di 1001 anni, i mali del mondo sono davvero molto, troppo simili tra loro. (Alberto Calorosi)

(Black Widow - 2015)
Voto: 69

https://www.facebook.com/spettri.official/

lunedì 18 aprile 2022

Glasgow Coma Scale - Sirens

#PER CHI AMA: Kraut/Post Rock
Terzo lavoro per i Glasgow Coma Scale, band originaria di Francoforte con un nome dal moniker alquanto strano, poiché il suo significato lo possiamo trovare nel fatto che, la scala di Glasgow, sia una scala di valutazione neurologica utilizzata dai medici per tenere traccia dell'evoluzione clinica dello stato di un paziente in coma. All'ascolto della loro musica direi che si percepisce bene il perchè di tale nome, visto che per certi aspetti il loro sound avvolge completamente l'ascoltatore e come buon album di musica postrock strumentale predilige l'uso di parti emozionali, composizioni colme di atmosfere cristalline, magiche,ed introspettive. Giocato su continui intrecci chitarristici che caratterizzano oggi più che mai il suono della band tedesca, di fronte ad una struttura compositiva consolidata, che tende ad evolversi verso i lidi cosmici di certe creazioni dei 35007, l'intero album è omologato su di una costante lunghezza d'onda, in modo da sostenere un perfetto filo conduttore musicale e permettere così a chi ascolta di addentrarsi in lunghi viaggi sonori pieni di luci e colori, ma anche di melodie più cupe e talvolta, esplosioni di natura quasi prog metal ("Magik"). Il disco è complesso, a volte mi sembra quasi di sentire una versione più soft dei The Fine Costant, con meno ossessione verso il virtuosismo. Qui il suono così preciso e puntiglioso mi rimanda al progetto di Sarah Longfield, ma anche agli Airbag, se solo fossero un combo strumentale. Le canzoni sono tutte piuttosto lunghe come del resto l'intero album, la produzione è molto buona e l'ascolto è, come di consuetudine per la band teutonica, piacevole, fluido e sempre interessante. Rock indipendente prevalentemente d'atmosfera quindi, con puntate nel prog di casa Marillion unite a certe intuizioni musicali dei Laura, come l'intro di "Underskin", che con l'aiuto di tastiere e programmazione (bello il trucchetto del togli corrente al brano con ripresa al minuto 2:13), che assieme alla strumentazione classica del mondo del rock, permettono di ottenere un mood complessivo d'impatto emotivo costante, omogeneo e coinvolgente. "Underskin" è forse la traccia più rappresentativa della loro visione artistica che tende a non essere mai pesante, anzi, si evolve in soluzioni di continua espansione, e questo richiede un ascolto molto certosino, per cogliere tutti gli aspetti di forma e cura che stanno dietro a questo ottimo progetto nato nel 2014. Ottimo il finale affidato alla title track che coglie un bel rimando a certe cose dei Pink Floyd più recenti. In un mondo, quello del post rock, dove è sempre più difficile ritagliarsi uno spazio di vera originalità, i Glasgow Coma Scale riescono a trovare una propria vena identificativa, lavorando molto bene su di una formula che da tempo sperimentano, fatta di fine equilibrio tra gli strumenti e gli spostamenti sonori continui che si snodano in forma naturale in elaborate composizioni, ricche e piene di pathos che si fanno subito apprezzare. Disco intenso, da ascoltare con attenzione e tranquillità. (Bob Stoner)

giovedì 14 aprile 2022

The Flying Norwegians – New Day

#PER CHI AMA: Country Prog Rock
Qualche mese fa abbiamo parlato della ristampa del fortunato secondo album, intitolato 'Wounded Bird', del 1976, di questa band scandinava, che come si può immaginare dal loro moniker, è norvegese di nome e di fatto, ma che musicalmente amava definirsi semplicemente come americani di Norvegia. Oggi parliamo invece del loro disco di debutto del 1974, ristampato e rimasterizzato sempre nel 2021, e che farà la felicità degli estimatori della musica folk e country americana, molto popolare nel periodo che oscilla tra i tardi anni '60 e i primi '70. Come detto nella precedente recensione, il gruppo guidato dal chitarrista Rune Walle e dal batterista Gunnar Bergstrøm si affaccia al mercato di fine anni '70, con un ottimo debutto discografico, anche se per il sottoscritto 'Wounded Bird', rimane il mio preferito di sempre. In questo album si fondono come al solito i vari sentori e suoni di riferimento che hanno influenzato il combo norvegese. Il country degli immancabili the Flying Burrito Brothers, gli Eagles, Crosby, Still & Nash, che si alternano con brani, come l'apripista "Young Man", che mostra una sezione ritmica molto spiccata in salsa molto funk, e nella conclusiva "It Ain't Just Another Blow", dove la band di Bergen, si muove agevolmente con melodie allegre da polveroso saloon del vecchio West. In mezzo, un'infinità di chitarre, banjo, pedal steel, wah wah ed evoluzioni sofisticate, proprio come le creazioni dei coloratissimi The Flying Burrito Brothers, lontani anni luce da chi intende il country un genere poco ricercato e piatto. Composizioni ricche e dinamiche, che non disdegnano la presenza di qualche intromissione anche nel soul, nel blues e nel progressive rock, magari nelle sue forme espressive più soft, ma comunque intelligentemente strutturato. Il sound padrone, rimane quello delle grandi praterie americane, ballate solari e libertà, con escursioni anche nella psichedelia, come nell'intermezzo di "Those Were the Days", dove da classica country song si trasforma in una specie di evoluzione ritmica dai tratti caraibici e funge quasi da precursore alle strade percorse più tardi dal geniale David Byrne. La riedizione del disco gode di un'ottima sonorità, fedele all'originale, con suoni caldi e pieni, ma che, allo stesso tempo, suona nuova come se l'album fosse stato registrato ai giorni nostri. L'intera atmosfera del disco è molto rilassante, ed il gusto di starsene sdraiati in poltrona ad ascoltare le molteplici peripezie chitarristiche sparse qua e la, un po' in tutti i brani, sarà la gioia di molti amanti del suono equilibrato e ad alta fedeltà. Come ho detto in precedenza, li preferirirò nel disco successivo, ma non posso dire che anche questo intenso, lungo primo lavoro, non sia un grande disco e che, fin dal primo ascolto, per un vero intenditore di musica, sia un'opera che veramente vale la pena di ascoltarla tutta d'un fiato e ad alto volume! (Bob Stoner)

sabato 26 marzo 2022

La Fabbrica dell'Assoluto - 1984: l'Ultimo Uomo d'Europa

#PER CHI AMA: Prog Rock
Tralasciando un'intro recitata che ha l'impatto di un Pholas Dactylus appena assunto in banca e chiusa da una coda strumentale che suona grosso modo come tutti i vostri vinili progressive suonati contemporaneamente, '1984: l'Ultimo Uomo d'Europa' prosegue trainato da un tastierismo-colonia-di-slippermen ("O'Brien", "Chi Controlla il Passato Controlla il Futuro Chi Controlla il Presente Controlla il Passato") che conferisce tonalità vampire-horror alla maniera, per esempio, dei Goblin più cinematografici, dei Museo Rosenbach e possibilmente qualcuno dei nordici anninovanta (Par Lindh Project o forse certi Anglagard), chitarrismi hard gentle-primotullici (l'incipit di "Chi Controlla il Passato...", sempre lei o la chiusura di "Bipensiero") o garybaldi/biglietto-infernali ("L'Occhio del Teleschermo") alternati a rarefatti sperimentalismi kraut-psych (tutto il resto di "Bispensiero") appositamente retrodatati. Sopra le righe il power-singing di Claudio Cassio, collocabile tra il migliore Gianni Leone (Il Balletto di Bronzo) e la Giuni Russo meno nervosa, godibilissime certe esagerazioni ipertastierose alla E-L-P che popolano soprattutto "Processo di Omologazione", l'inevitabile (ma notevole) compendio dell'intero album. Del tutto fuori bersaglio, nell'opinabile opinione del sottoscritto, la scelta di mettere in scena un romanzo scostante e freddo come '1984', profondendo semplificazioni e sensazionalismi: “passo il tempo a pensare quanto vale una vita” et al.. Et molti al.. (Alberto Calorosi)

lunedì 21 marzo 2022

Bjørn Riis - Everything to Everyone

#PER CHI AMA: Prog Rock, Porcupine Tree
Partiamo da un paio di assunti: sono un grande fan degli Anathema versione prog rock ed ho amato il precedente 'A Storm is Coming' del musicista norvegese (co-fondatore degli Airbag), quindi ammetto di aver aspettato con certa trepidazione l'uscita della nuova release del buon Bjørn Riis. Fatte queste dovute premesse, ecco apprestarmi ad infilare nel lettore questo 'Everything to Everyone', quinta release ufficiale per il polistrumentista scandinavo e sei nuovi pezzi a disposizione per saggiarne lo stato di forma. "Run" attacca in modo roboante, per poi assopirsi, dopo un paio di minuti di inattese sgroppate di rock duro, in atmosfere soffuse, delicate e malinconiche che pescano qua e là dai chitarrismi gilmouriani dei Pink Floyd. Non c'è voce nella traccia d'apertura, solo tanta atmosfera che avrà modo di evolvere in un sonico turbinio finale. La voce calda e magnetica di Bjørn arriva con la seconda "Lay Me Down", e quasi dodici minuti di carezze e melodie, in cui il frontman duetta con Mimmi Tamba, cantautrice norvegese, mentre le sonorità si muovono sempre nei pressi di un soffuso prog rock cinematico, fatto salvo in taluni frangenti (quelli che fatico un po' più a digerire) in cui Bjørn e i suoi ospiti (membri di Airbag, Wobbler, Caligonaut, Oak e molti altri), si lanciano in riffoni decisamente più robusti. Ma è l'aspetto più psichedelico del talentuoso chitarrista degli Airbag che prediligo, quello che chiude la seconda traccia attraverso una lunga deriva di pink floydiana memoria con un assolo davvero notevole. Ancora la voce di Bjørn in apertura di "The Siren", song dai forti tratti malinconici che mi ha evocato ahimè pesantemente "You and Me", tratto dal precedente lavoro. "Every Second Every Hour", un'altra maratona di oltre 13 minuti, ha un che degli Anathema nel suo incipit arpeggiato e nella voce quasi affranta del vocalist. La song scorre come un film in bianco e nero, tra passaggi di grande malinconia e variazioni nel cantato che conferiscono un po' più di incertezza al brano, anche nell'oscuro break centrale che sembra tagliare il pezzo in due differenti segmenti, di cui il secondo è quella più strumentale, con ampio spazio ceduto al virtuosismo chitarristico. Un beat elettronico, in compagnia di una chitarra arpeggiata, apre "Descending", una discesa spirituale negli abissi dell'anima dell'artista norvegese, deprivata però di ogni componente vocale. La voce di Bjørn in compagnia della bravissima Mimmi, torna nella title track che va a chiudere il disco (attenzione che nella versione digisleeve ci sono anche due bonus track), in quella sorta di duetto uomo-donna che contraddistingue ogni benedetto album degli Anathema. A differenza della band inglese poi qui, metteteci una grande perizia tecnica, ottimi assoli e tanta, tantissima passione che sottolinea ancora una volta la performance di Bjørn Riis e compagni. (Francesco Scarci)

giovedì 17 marzo 2022

Delirium - L'Era della Menzogna

#PER CHI AMA: Prog Rock
Sensibili oggi come allora a certe suggestioni contemporanee, i Delirium pubblicano un concept sui mali del mondo moderno tematicamente affine a 'Lo Scemo e il Villaggio', forse persino più sdegnoso, ma dal respiro decisamente più ampio e trasversale per stili musicali e riferimenti temporali. Chitarrismi rocciosi Thrak-crimsoniani flirtanti con certo prog-metal alla Tangent e Transatlantic ("L'Inganno del Potere"), trascinanti inni incazz-folk a metà tra la PFM in tour con De André e l'Eugenio Finardi più muscoloso ("Fuorilegge"), ma anche sciagurati scivoloni trip-pop in aroma di BMS anni ottanta ("L'Angelo del Fango"), poi ancora i Toto non-troppo-Lukateriani di "Basta", i Genesis dopo-che-sono-rimasti-in-tre de "La Voce dell'Anima", o la rabbiosa "L'Era della Menzogna" che dà il titolo al lavoro e che suona proprio come suonerebbe una "You Can Leave Your Hat On" eseguita dai King Crimson di 'Red'. Se avete fretta, potete cominciare con la conclusiva "Il Castello del Mago Merlino", che riassume mirabilmente tutto questo, con in più un pizzico di Porcupine Tree e l'immancabile chitarrismo "gilmouriano" a sfumare il maestoso finale. Oppure potete lasciare perdere: il prog italiano non fa per voi, se siete gente che ha fretta. (Alberto Calorosi)

(Black Widow Records - 2015)
Voto: 63

https://www.facebook.com/DELIRIUM-IPG-654167274667891/

sabato 12 marzo 2022

Juice Oh Yeah - S/t

#PER CHI AMA: Prog/Psych Rock
Con un moniker del genere, era quasi lecito aspettarsi una proposta all'insegna dello psych stoner rock. Ci pensano i Juice Oh Yeah a prenderci per mano e trascinarci nel loro visionario mondo di questo secondo disco omonimo che giunge a sette anni di distanza dalla precedente release. L'album consta di cinque song che esplodono con l'iniziale "Rels" in un riffing ipnotico con una dinamica intrigante e avvolgente, fatta anche di vocalizzi antemici e pulsanti linee di basso, con la chitarra che sembra guidare questa cavalcata in costante progressione sonica. "Dnaa" parte invece decisamente più soffusa, con una melodia che sembra provenire dall'estremo oriente. Il brano si presenta comunque assai variegato, con break atmosferici dove compare una misteriosa voce in sottofondo e accelerazioni stralunate che alterano, in modo positivo, l'incedere musicale. Se la durata dei precedenti pezzi oscillava fra i quattro e i sei minuti, con "Mane" si arriva a superare i 12, grazie a sonorità prese in prestito questa volta dalla tradizione medio-orientale. È lungo l'incipit che introduce il cuore di una song che ha più le movenze di una danza a lume di candela piuttosto che di un brano elettrificato, con tanto di vocals in grado di adattarsi a tali sonorità. Poco prima del quinto minuto, finalmente fanno la loro apparizione le chitarre elettriche, mentre il drummer si sbizzarisce in una fantasiosa percussione. Ma il ritmo del brano è costantemente altalenante, visto che al settimo minuto sembra che uno spettro funeral doom si impossessi del duo di musicisiti, originari di San Pietroburgo. Ma da qui alla fine le cose avranno modo di cambiare ancora, con quell'organo che sembra evocare The Doors e compagni. Arriva anche il momento di "Poleno" e sulle note strafatte dell'intro, ecco una vocina in falsetto a fare la propria comparsa, mentre il sound deve sempre compiere un paio di giri di lancette d'orologio, prima di decollare questa volta con un volo che ci porta direttamente in mondi distorti e psicotici. La conclusione del cd è affidata alle note di "Vnyz", un pezzo che non fa certo della scontatezza il suo verbo, semmai sembra più il frutto di una jam session tra artisti appartenenti a più scene musicali, dall'heavy metal al doom, passando dallo stoner e dal prog di scuola King Crimson (con tanto di tromba in primo piano a metà brano), il che sottolinea la stravagante originalità della proposta di questi Juice Oh Yeah. (Francesco Scarci)

(Addicted Label - 2020)
Voto: 75
 

lunedì 28 febbraio 2022

Cherry Five - Il Pozzo dei Giganti

#PER CHI AMA: Psych/Prog Rock
La suite che apre e domina il secondo album dei "nuovi" Cherry Five (del nucleo originario sopravvivono infatti soltanto i non-Goblin Tartarini e Bordini) recupera il pathos pianistico ma soprattutto la durata autocelebrativa di certe suite tardo E-L-P, in combinazione con passaggi aromaticamente psych e un inopinato chitarrismo rock-metal alla, uh, diciamo Brian May? Sul lato B, una seconda suite alifaticamente prog-pop che mescola la Premiata folkeria Marconi, i New Trolls melodici di "Signore, Io Sono Irish", Notre Dame de Paris, i Rush e un poltergeist dispettoso travestito da Rocky che saltella sulla tastiera di un pianoforte. La galoppante "Dentro la Cerchia Antica" rivela invece una spiccata devozione, specialmente da parte del cantante, nei confronti di 'Nuda' dei Garybaldi, ma con una chiusura crimson-perentoria. L'immobilismo protervo della politica, la guerra, la morte: un concept sui mali moderni come allegoria della Commedia dantesca, che a dire il vero sarebbe già abbastanza allegorica per i fatti suoi. Niente di assolutamente originale, beninteso, ma un po' meglio del qualunquismo sdegnoso del coevo 'L'Era della Menzogna' firmato Delirium. (Alberto Calorosi)

lunedì 21 febbraio 2022

Closure in Moscow – Pink Lemonade

#PER CHI AMA: Prog Rock/Psych/Alternative
L'etichetta australiana Bird's Robe Records, come abbiamo riferito di recente, si è presa l'incarico di ristampare la discografia dei Closure in Moscow e dopo i primi due ottimi lavori ci troviamo di fronte alla loro ultima opera di studio, uscita qualche anno fa, precisamente nel 2014. L'eclettica band australiana fa del suo bagaglio musicale un format esasperato, mescolando generi e sonorità a più non posso, dando vita ad un lavoro spettacolare e complicato allo stesso modo. Potrei dire che 'Pink Lemonade' sta ai Closure in Moscow come 'Sgt Pepper' s Lonely Hearts Club Band' sta ai The Beatles, ovvero, il massimo sforzo creativo dove una band possa cimentarsi nella sua carriera. Chiarisco subito che musicalmente i due album non sono accostabili per ovvie ragioni ma come attitudine si possono avvicinare, soprattutto nelle rispettive gesta compositive che di fatto puntavano a superare i confini della propria arte. Nel caso dei Closure in Moscow, il mescolare R&B, progressive rock, funk, hard rock, elettronica, blues e pop punk, in una veste che mi ricorda una sorta di musical d'altri tempi, ha dato i suoi buoni frutti, e la sua orecchiabilità va spesso e volentieri a braccetto con la complessità dei pezzi, costantemente baciati da una positività solare trascinante e musicalmente colta. Quindi, ricapitolando, tra una miriade di rimandi sonori, vi possiamo trovare paragoni con i Coheed and Cambria, ma anche con la teatralità progressiva di 'Suffocating the Bloom' degli Echolyn, l'alternative degli Incubus e perfino piccoli sbocchi creativi e progressivi alla 5UU'S, e poi blues, free jazz e free rock. L'insieme si svolge con una dinamica notevole vista la qualità dei musicisti in questione, con la voce impareggiabile di Christopher de Cinque che fa venire i brividi in "Mauerbauertraurigkeit" o nel duetto con Kitty Hart in "Neoprene Byzantine", un brano spettacolare di circa tre minuti e mezzo, impossibile da descrivere, ma che caratterizza l'intero disco, e che potrei provare a definire solo ricordando due brani lontanissimi tra loro. Un mix tra "It's Oh So Quiet", nella versione di Björk, e "Goliath" dei Mars volta, suonato con un mood seventies caldo ed esplosivo. Alla fine, 'Pink Lemonade' è un disco che sfiora la perfezione, anche se in un calderone così stipato di note, generi e suoni, è sempre difficile trovare il bandolo della matassa, il filo conduttore per capire un'opera del genere. Forse, il vero segreto per farsi catturare da questo album, è proprio quello di farsi trasportare e stupire dalle sue coordinate nascoste, apprezzare lo stile di questa band che ha osato il salto nel mainstream internazionale senza rinunciare alla propria essenza di band crossover a 360 gradi, musicisti, esploratori e manipolatori di universi musicali diametralmente opposti richiamati in maniera esemplare ed esaltante. Un disco complicato e delizioso, un disco da veri appassionati di musica libera. (Bob Stoner)

(Bird's Robe Records - 2014/2022)
Voto: 84

https://closureinmoscow.bandcamp.com/album/pink-lemonade

domenica 30 gennaio 2022

Soundscapism Inc. - Afterglow of Ashes

#PER CHI AMA: Progressive/Post Rock
Tornano sulle pagine del Pozzo i Soundscapism Inc., band di Bruno A. che seguiamo ormai dai suoi esordi. Nuovo album edito sempre dalla Ethereal Sound Works intitolato 'Afterglow of Ashes' e solito tuffo nell'immaginario post rock dell'artista portoghese trapiantatosi a Berlino. Sempre un fottio i pezzi a disposizione, dodici per l'occasione, includendo anche una bonus track, la versione unplugged di "Kopfkino", registrata live nel 2018 e che vede il featuring di Usama Siddiq a voce e chitarra ritmica. Il disco apre con le accattivanti melodie di "Nosedive" e come sempre è la commistione tra post rock cinematico e dreamgaze a farla da padrone, con le vocals relegate a pure e semplici spoken words. Melodia e prog rock a braccetto cosi come piace a Bruno e a tutti i fan della band che vedono anche in questo disco la comparsa di un paio di guest star, Tobias Umbach al piano e organo in una manciata di pezzi e Manuel Costa come bassista dalla seconda alla decima traccia. Nel frattempo il disco prosegue in modo scorrevole la sua corsa, tra intime ed eleganti melodie strumentali ("Revolutions per Minute"), seducenti parti acustiche (ascoltatevi l'intro di "Bone Without a Dog") che con un quantitativo importante di synth, dipingono splendidi paesaggi campestri. E qui forse risiede il problema di questa release, non nello spennellare armonici panorami, ma nell'essere troppo ordinario, non ci sono slanci di originalità, non c'è punto in cui le mie previsioni siano smentite da qualcosa fuori dagli schemi. Mettiamo in chiaro che Bruno è un ottimo musicista, ha buon gusto per le melodie dal piglio malinconico ("Reflect Deflect Collect"), per le suggestioni rock progressive imbevute di elettronica ("Neon Smile", con quel suo incipit alla Muse di "Algorithm") o semplicemente richiamanti i bei tempi andati ("Eartshine", dove finalmente fa la sua comparsa la voce di Bruno), ma manca decisamente ancora qualcosa che sconquassi l'ascolto, catalizzi l'attenzione e renda un album discreto davvero una bomba. Alla fine quelli contenuti in 'Afterglow of Ashes' sono quasi tutti buoni pezzi (non ho realmente apprezzato le conclusive "Vicodin Wonderland" e "All Sad & Done", troppo fiacche per i miei gusti), con un vocalist al 100% però lasciatemi dire che avrebbero reso molto ma molto di più. (Francesco Scarci)

domenica 9 gennaio 2022

Dawn of a Dark Age - Le Forche Caudine 321 a​.​C. - 2021 d​.​C.

#PER CHI AMA: Black/Folk/Avantgarde
Con l'intento di tributare nuovamente le proprie origini sannite, come già fatto peraltro ne 'La Tavola Osca', Vittorio Sabelli torna con un nuovo capitolo della saga Dawn of a Dark Age, intitolato 'Le Forche Caudine 321 a​.​C. - 2021 d​.​C.'. Ovviamente, la citazione storica riporta alla battaglia delle Forche Caudine in cui i Sanniti, sotto l'egida di Gaio Ponzio, sconfissero i Romani, imponendo poi loro la prova mortificante di passare sotto gli omonimi gioghi. Tre i brani a disposizione dei nostri per narrare quegli eventi e farne anche un parallelismo storico con la nostra era. Qui supportati da un esteso numero di ospiti a suonare ogni tipo di strumento inimmaginabile (zampogne, mandoloncello, darbuka, tamburello, vibrafono, archi e fiati vari, flicorno, conchiglie), i Dawn of a Dark Age propongono, attraverso una sorta di narrazione storica fatta di dialoghi, cori e quant'altro, il loro classico sound a cavallo tra black, folk e sperimentazioni varie. Il disco apre con "Excerpt 1 (Scene 3 -7)", un brano di black atmosferico, in cui a mettersi subito in luce è il clarinetto di Vittorio che ne accompagna anche la voce narrante (sempre di grande impatto). Il brano è un susseguirsi di movimenti, tra black, partiture folk e attimi di grande epicità, laddove il tremolo picking si prende la scena. Il lavoro prosegue con "Le Forche Caudine - Atto I": si sentono i cavalli sopraggiungere, chiudo gli occhi e provo ad immaginare la scena che i suoni e le cupe melodie dei fiati, provano a descrivere. Mi sento proiettato indietro nel tempo, una chitarra acustica dà il la alla musica con una lunga parte introduttiva che fino al settimo minuto si manterrà esclusivamente strumentale, proponendo sin qui un sound mediterraneo suonato con tutti gli strumenti a disposizione del collettivo. Si palesano poi le vocals con lo screaming caustico di Emanuele Prandoni a riportare gli eventi storici, mentre il sound in sottofondo ci conduce a luoghi lontani nello spazio e nel tempo. La voce di Emanuele viene poi soppiantata dalla narrazione di Vittorio e il tutto acquista ancora più veridicità storica quasi il mastermind molisano si trasformi in una sorta di Alberto Angela del metal. Lunghe parti ritmate vengono affiancate da tratti folklorici in un'alternanza tra frammenti atmosferici, momenti di narrazione e scorribande black, a cui aggiungerei addirittura derive jazz poco prima del diciannovesimo minuto, dove la perizia tecnica della band si miscela con la pura poesia musicale guidata da un eccellente assolo di clarinetto, per un finale da brividi. Dopo gli oltre 21 minuti dell'atto I, ecco "Le Forche Caudine - Atto II", poco meno di 17 minuti di sonorità estreme, avanguardistiche, heavy (ascoltatevi l'assolo in apertura di brano), tradizionali, jazzy, prog rock, classiche, post-black, orchestrali, mediorientali, a condensare quasi tutto lo scibile musicale, in un brano ad altissima intensità ed elevato spessore artistico, che rischierà di piacere, a largo spettro, sia agli amanti dei Jethro Tull che a quelli dei Wolves in the Throne Room. Gioiellino. (Francesco Scarci)

Kosmodome - Kosmodome

#PER CHI AMA: Psych/Prog Rock
Il giovane duo dei fratelli Sandvik si mette in mostra con questo interessante primo album dal titolo omonimo e dai toni caldi e curati. Un'attitudine space rock nella grafica di copertina, nel moniker e nell'atmosfera generale del disco, che abbonda di effetti cosmici, aiutati dai vari rhodes, organo, piano e mellotron, suonati dal bravo Jonas Saersten, unico ospite nel progetto. Il sound dei Kosmodome è sofisticato e riconduce, come affermato nelle note della pagina bandcamp, alle sonorità prog rock degli anni '60, a cui aggiugerei anche primi anni '70, rinnovati alla maniera degli Anekdoten, anche se meno cupi e più solari. Ottimo l'impatto strumentale, dove Sturle Sandvik suona chitarra, basso e canta, mentre il fratello Severin siede dietro ai tamburi. Entrambi si comportano assai bene sfoderando ottime prestazioni, sia in fase esecutiva che compositiva, arricchendo e colorando tutti i brani in maniera intelligente. Questi nipotini degli osannati Camel di inizio carriera, hanno imparato perfettamente come esprimersi in ambito rock, acquisendo una formula sonora navigata, vintage e classica, ridisegnata degnamente con verve attuale e accorgimenti moderni di scuola post rock e space rock, sia nel canto che nella scelta delle sonorità. "Deadbeat" né è un manifesto con una coda in stile folk etnico che fa un certo effetto scenico. Tra i brani si manifestano esplosioni in stile stoner come in "Waver I" e "Waver II", ma il parallelo con i Mastodon rivendicato dalla band, mi sembra eccessivo. In effetti, il suono caldo ed elaborato è di buona fattura ma non raggiunge mai la potenza del combo americano. Comunque, la vena prog nello stile dei Kosmodome prevale sempre, anche quando schiacciano sul pedale dell'acceleratore, ecco perchè li avvicinerei più ai mitici Anekdoten e agli allucinati Oh Sees come attitudine, mentre se parliamo di stoner li avvicinerei piuttosto agli Apollo 80 o ai precursori olandesi Beaver. I paragoni lasciano il tempo che trovano e devo ammettere che il disco è assai bello, piacevole, ricercato e si consuma tutto d'un fiato, cosa che permette all'ascoltatore di entrare in un'atmosfera astratta e cosmica intrigante, capitanata peraltro da una voce pulita e sicura che a volte inspiegabilmente mi ricorda certa new wave psichedelica degli anni '80. Ascoltate il brano "The 1%" e godetevi l'estasi, oppure "Retrograde" per farvi sovrastare da un' ottima psichedelia progressiva. Gran bella prova per questo giovane duo norvegese di Bergen, che fa parter del rooster di una splendida etichetta discografica, la Karisma & Dark Essence Records. Album da non perdere! (Bob Stoner)

(Karisma & Dark Essence Records - 2021)
Voto: 78

https://kosmodome.bandcamp.com/album/kosmodome

sabato 8 gennaio 2022

The Spacelords - Unknown Species

#PER CHI AMA: Psych Rock Strumentale
Devono averlo per vizio i tedeschi The Spacelords di pubblicare tre brani per volta. L'avevano fatto in occasione di quello 'Spaceflowers' che ricordo aver recensito durante il primo lockdown, lo rifanno oggi con questo nuovo capitolo intitolato 'Unknown Species'. Tre brani dicevo che si aprono con le psichedeliche melodie di "F.K.B.D.F" (chissà poi per cosa sta quest'acronimo), un pezzo nemmeno cosi lungo ("solo" otto minuti) che in tutta franchezza, non sento nemmeno cosi originale e catalizzante. Si rimane in territori strumentali votati ad un psych rock magnetico, a tratti lisergico, ma che in questa traccia d'apertura, non mi rapisce sguardo e mente. Ci riprovano con la successiva song, la title track, che ci trastullerà per poco meno di un quarto d'ora: partenza tiepida in cui a calamitare l'attenzione c'è un bel basso di pink floydiana memoria in sottofondo, mentre una chitarra dal sapore kraut rock, danza in prima fila come una ballerina indiana. L'effetto è sicuramente di grande impatto emotivo, un viaggio a luci spente in cui è sufficiente chiudere gli occhi e immaginare, un viaggio, un paesaggio, una persona, una scena, quello che volete, quello che la musica vi induce sotto pelle, fino a penetrarvi nel torrente circolatorio e da lì raggiungere il cervello come una sostanza psicotropa pronta ad alienare i vostri sensi, quasi quanto i colori sgargianti che contraddistinguono la cover artwork del disco. E iniziato questo trip mentale, non vi è nemmeno permesso scendere dal treno, che prosegue dritto con la terza e ultima "Time Tunnel" che vi porterà al mare nelle sue note iniziale. Si perchè i suoni che si sentono nei primi secondi, quando la chitarra acustica apre il pezzo, sono quelli delle onde del mare che sfiora la battigia. Ma l'immaginazione corre lontano, a falò sulla spiaggia, spinelli scambiati, pensieri sfuocati e tanta leggerezza, come giusto ci servirebbe in questi giorni di schizofrenia. Il sound monta piano tra echi orientaleggianti e fughe tra psichedelia, hard rock e stoner, ma intanto sale, sale ingrossandosi e crescendo di intensità attraverso ciclici e roboanti giri di chitarra in una sorta di infinita scala a chiocciola dove non riuscire a raggiungere la cima, tanto meno poi a scendere. Non so se realmente se sono riuscito a spiegarvi che diavolo ho sentito durante l'ascolto di questo disco, rileggendomi non ci ho capito granchè nemmeno io, ma queste sono le immagini un po' sbiadite che si sono autogenerate nella mia mente mentre il sound cosmico degli Spacelords mi assorbiva tra le sue spire. E le vostre, quali sono state? Godetevi 'Unknown Species' e fatemi sapere. (Francesco Scarci)

Sleepmakeswaves - Live at the Metro

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Non amo particolarmente gli album dal vivo, figurarsi poi di un lavoro interamente strumentale. Tuttavia, riflettendoci bene sopra, quella live potrebbe essere la sede che meglio si adatta a proposte di questo tipo, per gustare in modo più diretto il feeling che la band vuole emanare direttamente ai suoi fan. E la band di oggi, gli australiani Sleepmakeswaves, non sono proprio gli ultimi sprovveduti, essendo tra le realtà più interessanti della scena post rock mondiale. 'Live at the Metro' poi cattura un concerto tenutosi a casa loro, a Sydney, al Metro Theatre nel 2015 e prova con la sola musica, a farci immaginare le vibrazioni, l'atmosfera e l'energia di quella che deve essere stata una magica notte. Nove i pezzi proposti dai nostri, che già un paio di volte abbiamo recensito su queste stesse pagine. Largo alla quindi musica di "In Limbs and Joints" ad aprire questo lavoro che rientra tra i dischi da riscoprire per l'etichetta Bird's Robe Records. L'interazione col pubblico aiuta immediatamente a calarsi nella dimensione live, il resto lo fa una musica cangiante che si muove tra il post rock intimista e malinconico dell'opening track, con i suoi riverberi chitarristici, le sue mutevoli percussioni e la successiva e deflagrante, almeno inizialmente, "Traced in Constellations". Poi spazio a frangenti shoegaze, progressive, chiaroscuri mai stucchevoli ma anzi di grande impatto emotivo, splendide melodie che ci accompagneranno fino alla conclusiva "A Gaze Blank and Pitiless as the Sun". In mezzo grandi pezzi, dai singoli "Great Northern" e "Something Like Avalanches" che quasi non meritano nemmeno menzione (eppure andatevi ad ascoltare il pianoforte introduttivo della prima con quei suoi ritmi quasi esotici), o il cinematico sound della robusta "How We Built the Ocean", un trip fatto di suoni catartici, post rock o semplicemente rock (mi sembra addirittura di scorgere un riffing che richiama gli U2 ad un certo punto), che alla fine esibiscono tutte le qualità, emotive e tecnico-strumentali, di un ensemble costituito da ottimi musicisti, che possono anche fare a meno di un vocalist per piacermi. E allora fidatevi del sottoscritto, ma soprattutto fidatevi degli Sleepmakeswaves e del loro sound vibrante ed eclettico che avrà ancora modo di stupirvi con l'imprevedibilità di "Perfect Detonator" o la forza di "Emergent". (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2015/2021)
Voto: 76

https://sleepmakeswaves.bandcamp.com/album/live-at-the-metro