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mercoledì 17 marzo 2021

Iqonde - Kibeho

#PER CHI AMA: Math Rock/Post Metal strumentale
“Ma tu perché non ridi, non ti contorci dalle risate? Fammi vedere che sei felice!” Me lo chiedo anch’io perché non ci si possa perdere nel ridere ad oltranza, non ci si possa immergere nella tinozza del morso che scompone il viso ed ubriaca di quelle risate. Rivisito questa intro parlata per dare a “Ma’nene” una sonorità in parole altrettanto traboccante di ritmo, bassi, batteria, corpo e rettilinei svirgolati dal rock senza padroni. Iniziamo in questo modo 'Kibeho', album di debutto dei bolognesi Iqonde. Una song ribelle. E la ribellione continua con “Marabù”. Uno scettro di potere fa vibrare il metallo degli sgabelli di un bar di provincia, una sonorità propria di chi ammansisce il basso e manda in etere le corde dell’elettrica su ritmiche frenetiche. Esercizi di stile, di dita sulla tastiera. Volteggi tra i sensi. Corpi sospesi d’anima in un bondage di emozioni post e math rock. Circolare come un’ossessione l’epilogo del pezzo. Va poi on air “Edith Piaf”. Sono blindata nell’ascolto in un concerto privato. Immaginate una nicchia scavata nella roccia, la band in penombra. Ed ascoltate i suoni ridondare come un eco tra le pietre. Li si mescolano il sound, l’atmosfera, la musicalità tribale di questa traccia al contesto. Epilogo sotteso quasi silenzioso lo strisciare succinto delle dita sulle corde ferrose. Cambiamo vestito e contesto. È il turno di “Lebanshò”. Lentamente la musica sale in un tripudio strumentale che trova il suo apice al terzo minuto. Ferma la musica. Resto in attesa. Il silenzio traccia la sua strada della solitudine per tornare tra noi in una danza tribale rivestita da uno sfondo ricco di groove. Assai accattivante direi, ideale per le anime in dissidio tra il silenzio strumentale e la musica che fa muovere mente e carne. Passiamo a “Gross Ventre”. Avete mai sentito sulla pelle il brivido ed il fuoco contemporaneamente? Qualsiasi sia la vostra esperienza vibrante vi invito a farvi un giro su questa violentissima song. Terminiamo l’ascolto di questo album con “22:22”. Dissacrante in apparenza col suo prologo triviale estratto da 'Salò o le 120 giornate di sodoma', film del 1975 di Pasolini. Da me molto gradito! Le parole in musica che si propagano dalla cassa, dalle chitarre, dai silenzi intercalati sono pura convulsione sonora, ribellione ancora eppure accarezzano l’anima con un post metal impulsivo, il math rock e insana tribalità. La mia anima, gli Iqonde, l’hanno toccata e dipinta sicuramente. (Silvia Comencini)

mercoledì 17 febbraio 2021

Cornea - Apart

#PER CHI AMA: Post Rock, God is an Astronaut
Questa mattina è arrivato il corriere, mi ha consegnato 'Apart', album di debutto dei patavini Cornea. Non potevo fare altro che mettere il vinile sul mio giradischi e assaporare le note strumentali di questo nuovo terzetto italico, che vede tra le sue fila Sebastiano Pozzobon che apprezzai come bassista dei Dotzauer, Nicola Mel, (ex?) voce e chitarra degli Owl of Minerva (un'altra band che abbiamo ospitato qui nel Pozzo) e a completare il trio, Andrea Greggio alla batteria. La proposta dei tre musicisti viaggia su lidi alquanto differenti dalle loro precedenti band, trattandosi infatti di un post-rock dalla forte vena shoegaze. Ad aprire le danze "Daydreamer", un brano che definisce immediatamente le coordinate stilistiche su cui correranno i nostri, con un inizio alquanto oscuro ed intimista. Da qui le note si fanno più eteree, con la chitarra che s'incunea in territori dapprima morbidi, per poi esibirsi in un riffing più corposo e sognante, a cavallo tra post rock e post metal, quest'ultimo retaggio sonoro sicuramente ascrivibile a Sebastiano. I suoni sono suggestivi, per quanto manchi una voce a bilanciare la cascata sonica in cui ci siamo immersi, ma ne vale la pena, non temete. Con "Kingdom", nonostante un poderoso avvio, ci si imbatte in suoni più psichelidici che hanno la grande capacità di mutare in brevissimo tempo, prima ancora in un robusto post metal, e a seguire, in una serie di cambi di tempo e di ritmo dal potere avvolgente, peccato solo l'assenza di una presenza vocale a guidarci nell'ascolto, lo so, sono ripetitivo alla morte. Con "Will Your Heart Grow Fonder?" i suoni si fanno ancor più profondi a generare quasi un moto emotivo nella nostra anima, sebbene le sferzate ritmiche cerchino di rinvigorire la proposta della compagine veneta. Un break acustico rompe gli schemi, con basso e chitarra a sonnecchiare timidamente, dandoci il tempo di una pausa ristoratrice. Poi è la melodia della sei corse a prenderci per mano e condurci nella parte più intrigante e atmosferica del disco, con il basso in sottofondo a generare tocchi di un magnetismo impressionante. Qui la componente malinconica si fa più vibrante dando quel quid addizionale al brano forse meglio riuscito di 'Apart'. Tuttavia, siamo solo a metà strada del nostro cammino, visto che mancano ancora i tocchi delicati della suadente e crepuscolare "Saltwater", una piccola gemma che ha forse il solo difetto di risultare troppo circolare nel suo incedere. Essendo la traccia più lunga del disco, rischia quindi di essere quella che stanca prima, ma i nostri provano a cambiare registro con riverberi luminescenti, puranche con roboanti riff che vanno a rompere quella delicatezza iniziale. "Sentinels of a Northern Sky" parte ancora con fare gentile con la chitarra a prendersi la scena nel suo affrescare melodie raffinate, mentre il basso in sottofondo sembra richiamare (non chiedetemi il motivo, è solo una sensazione quella che provo) echi dei vecchi The Cure. Il brano cresce progressivamente con la chitarra a lanciarsi in fughe in tremolo picking, mentre il drumming detta il ritmo in modo preciso e bilanciato. A chiudere l'album ci pensa "Diver" che con i suoi astrali bagliori onirici ci accompagnerà fino alla conclusione del disco donandoci l'ultime note di un post rock che paga forse qualche tributo a mostri sacri del calibro di Mogway, Explosions in the Sky, i più lisergici Exxasens e i più robusti Russian Circles, ma che comunque mette in mostra le qualità di una band che deve solo non aver paura di osare un pochino di più. (Francesco Scarci)

(Jetlow Recordings - 2020)
Voto: 74

https://cornea.bandcamp.com/album/apart

martedì 9 febbraio 2021

The Corona Lantern - Certa Omnibus Hora

#PER CHI AMA: Sludge/Death Doom, My Dying Bride, Cult of Luna, Morbid Angel
Nati nel 2014 in quel di Praga come realtà post metal, i Corona Lantern tornano a cinque anni di distanza dal loro debut 'Consuming the Tempest'. 'Certa Omnibus Hora' è lo scoppiettante comeback discografico del quintetto ceco che propone sei nuovi pezzi che ne svelano la nuova anima. A rivelarlo è "As Wide Eyes Travel", traccia d'apertura di questo secondo capitolo, che mette in mostra un sound più slabbrato che abbraccia anche doom e sludge, toccando qua e là anche influenze più esterne. Sarà l'utilizzo diversificato di una voce (quella di Daniela "Dahlien" Neumanová) capace di muoversi tra un growl aspro e spoken words, di un suono costantemente ritmato dall'inizio alla fine del brano, e di un senso di oppressività che non lascia tregua per tutti i sei minuti e mezzo dell'opener, che persiste nel generare pensieri e tormenti nell'anima. Già diversa e più accessibile è la seconda "Through This Swamp of Oblivion", un brano che evidenzia altre peculiarità del sound dei nostri ma che con il suo incedere inquieto, sembra scandire il tempo che conduce alla fine della vita, perfettamente allineato peraltro con il titolo del disco, ossia l'ora della fine è certa per tutti. Una metafora, la linea e il senso dell'esistenza, la paura, la morte, tutte tematiche che lascio a voi il piacere di approfondire, sfogliando lo splendido libretto incluso nell'elegante cd della compagine ceca. Fatto sta che, per quanto cupa e pesante sia la melodia del brano, la trovo decisamente più ariosa dell'opener, con una linea di chitarra di facile presa che ci conduce anche nei meandri oscuri di un black fosco che per oltre dieci minuti ci condurrà fino alle porte della più funerea "Up the Last Hill". Questo è un altro brano che si muove più a rilento nel contesto musicale del disco, non fissando peraltro grossi punti di riferimento nel panorama doom, sebbene il suo sound possa essere accostabile ad un ipotetico ibrido tra My Dying Bride e Cult of Luna. Interessanti non c'è che dire, ma anche arcigni e ostici da digerire, quindi fate attenzione. Questo implica inevitabilmente un maggiore sforzo in sede di attenzione da dedicare alla proposta del quintetto, il che è piuttosto consueto quando ci si avvicina ad un genere complicato come questo. Con "Hours Between Heartbeats" il suono si fa più dinamico, complice un attacco più death oriented che si assesta su un'alternanza tra parti violente e altre più compassate e melodiche, in cui la melodia della sei corde fa da driver all'intero pezzo, non disdegnando in alcuni momenti anche aperture quasi progressive, per un finale che emula il battito cardiaco a svanire. Un bel giro di tastiere apre la più psichedelica "Make Me Forget", che quando attacca con le chitarre sembra pagare dazio a "Shades of God" dei Paradise Lost. E lo dico con un'accezione positiva, dal momento che ho amato alla follia quel disco. Certo, non siamo di fronte alla grandezza di quel masterpiece che l'anno prossimo compirà 30 anni però, la musicalità, il tremolo picking, l'alternanza ritmica e la prova convincente al microfono di Dahlien, ne fanno probabilmente il brano meglio riuscito del cd. Ma ne manca ancora uno all'appello, "The Truth and Its Will", con i suoi 10 minuti abbondanti di sonorità e atmosfere soffuse che sembrano coniugare nel modo migliore, scavalcando quindi in termini qualitativi la precedente song, quanto ascoltato sin qui in 'Certa Omnibus Hora'. Il brano mette in mostra le migliori melodie del disco, mi appaga in termini di malinconia, qui rilasciata a fiumi, ha dei riffoni di una pesantezza estrema quasi ci trovassimo di fronte ai Morbid Angel, e poi sublimi sono quelle sfuriate tipicamente blackish sul finire. Diciamo che rimane ancora qualche ingenuità da limare qua e là, necessaria per scrollarsi di dosso quell'alone eccessivamente "nineties" che sembra avvolgere l'intero album, ma la band è di certo sulla strada giusta per creare una propria identità che le permetterebbe di accedere ad un pubblico più vasto ed altrettanto esigente. Osare ancora di più please! (Francesco Scarci)

domenica 7 febbraio 2021

La Fin - The Endless Inertia

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna
Ci sono voluti quattro lunghi anni per partorire il full length di debutto dei milanesi La Fin. Era il 2016 infatti quando i nostri uscivano con l'EP 'Empire of Nothing', facendosi notare per una proposta in bilico tra post metal e post hardcore. Ora l'ensemble italico, forte anche di un deal con l'Argonauta Records, è riuscita finalmente a dar seguito a quel dischetto, rilasciando questo 'The Endless Inertia'. Il disco consta di nove tracce che aprono l'album con "Inertia", un brano lento e magnetico che evoca inevitabilmente come riferimenti principali i Cult of Luna, sebbene nelle parti più cervellotiche, ci siano dei richiami che spingono la band nei paraggi di un prog death, almeno questa la sensazione percepita al minuto 4 dell'opening track. La linea ritmica si conferma comunque solida con accelerazioni caustiche nella seconda metà della traccia, laddove maggior spazio viene concesso alla parte strumentale, pur non disdegnando frammenti acustici che mitigano la proposta dell'act italico o fraseggi che evocano ancora un che di suoni progressivi. Questo in soldoni come delineare la prima song di quest'album e come indirizzarne l'ascolto. Molto più dirompente e decisamente più hardcore oriented, l'incipit della seconda "Zero", visto che dopo il marasma sonoro creato, la band torna a giocare con suoni più calibrati, melodici e sempre coadiuvati dalle harsh vocals di Marco Balzano. Ma l'ascolto del pezzo porta comunque ad una girandola emotiva che evolve con le atmosfere generate e contestualmente, con la comparsa di clean vocals che ammorbidiscono di molto le intemperanze ritmiche dei nostri, che nel finale sembrano voler emulare i Fallujah più cinematici. "Hypersleep"ci mostra un'ulteriore faccia dei La Fin, qui più venata di un tocco malinconico, anche nei momenti più ruvidi. Quello che apprezzo è comunque il lavoro alle chitarre con una sovrapposizione di ben tre asce che si amalgamano con batteria e basso in una matrice ritmica davvero intensa e di elevata perizia tecnica, nonchè dispensatrice di una grande dose di emotività. Un breve intermezzo ambient ci accompagna a "Repetitia" e al suo beating pulsante iniziale, prima che la band si lanci in un'alternanza di riff nervosi e parti quasi shoegaze e ancora, palesi influenze djent o si scateni in lancinanti fughe black. Ma ogni brano sembra avere una sua anima per quanto l'album sia in realtà un concept legato al concetto di inerzia e quella che è la tendenza di un corpo a conservare il suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, cosa che in quest'album in realtà non viene confermata. Si, perchè "Disembody" ha un inizio più ruffiano che si esplica successivamente attraverso un post metal erudito a tratti comunque gonfio di rabbia estrema, laddove i blast beat saturano le casse con nevrotiche scariche di violenza. Eppure, la band continua a muoversi con la politica del bastone e carota, alternando momenti atmosferici a parti urticanti, leggasi per questo la violenza di "Blackbody", brano carico di contenuti estremi ma anche di parti più cerebrali, rendendolo forse il pezzo più complicato da digerire di 'The Endless Inertia'. Con "Endless" si torna a suoni più tecnici, con certi fraseggi che mi hanno evocato un ibrido tra post metal e prog, Amenra e Cynic, in un pezzo comunque altalenante nelle sue forme ed espressioni. L'ultimo atto è affidato a "Eulogy", il brano più lungo del lotto, quello in cui il sestetto condensa tutto quanto ascoltato in 'The Endless Inertia', in nove minuti e più di alternanze ritmico-emotive, di rabbia contrapposta a malinconia, di furia strumentale opposta a tenui partiture acustiche, di yin e yang, di bianco e nero, che si consumano come un cerino acceso, negli ultimi 30 secondi della traccia. Questo è solo l'inizio, sono curioso di assistere all'evoluzione estatica dei La Fin. (Francesco Scarci)

sabato 23 gennaio 2021

Break My Fucking Sky - Blind

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal
Corpi sospesi tra la cenere e la fenice. Sospese le ombre che animano questa intro. Passione ed immagini sfuocate. Un missile terra aria spezza il velluto suadente di musiche nostalgiche per affondare la sua combustione nell’anima. Alternanze post rock lasciano la scena a chitarre infuocate. Buoni propositi si ribellano al rock estremo. Mi lascia tra la riflessione e la rabbia questa prima traccia, “Unwelcome”, opening track dell'opera ottava, 'Blind', dei russi Break My Fucking Sky. A seguire “Medusas are Like a Ghost”: il fantasma del passato presente e futuro qui ed ora, si manifesta in un gemito incauto. Le sonorità abbassano le difese, ipnotizzano con i loro guizzi di tremolo picking, accarezzano, involvono. Sarà una lunga notte. “The Letters We’ll Never Send”. E ci si trova in una stanza con la luce fioca. Un mantice di speranza appena percepibile e la musica, affidata ai tocchi di pianoforte (coadiuvati poi da una ritmica tiepida), diviene sospiro ed il sospiro una parola non detta. “Agnosia”. Ci riprendiamo un sound ritmato, elettrico. Una sorta di intercalare rispetto allo stile dell’album. Piacevole. Subito dopo l’ossigeno, respiriamo anidride carbonica. “Before We Meet in the Dark”. La song è puro rock d'atmosfera, nessuna traccia di stile, eppure quest'esercizio incorpora bene le sensazioni di una serata che avremmo voluto fosse una di quell'esperienze indimenticabili. Senza pace non può esserci la guerra. Ecco perche ora ascoltando “Doomsnight” mi alieno tra sospiri e suggestioni. Un armistizio. Temo che l’album continui senza direzione per ora. “Seven”. Stallo ed esercizi di metallo elettrico, come quello del plettro che urla sulle corde della chitarra. Veniamo a “Murphy’s law”. Aspettatevi una ripetizione in loop malinconico costante come le speranze che si lasciano fuori dalla legge di Murphy. Eppure sono ottimista perchè segue “Blind”, la lunghissima title track di oltre 13 minuti. Una casa remota, una favola antica, un racconto che odora di biblioteche dimenticate, eppure con la musica tutto torna in vita. Cosi consiglio l’ascolto di questa song sotto un planetario pensando ad un buon libro. Mentre scorre il tempo, si stringono le spalle dei ricordi. Così mi passa attraverso questa “The Drowned Lake”. Come una colonna sonora stretta alle sensazioni ed ai ricordi. Quest'album continua a viaggiare nella mente di chi conosce lo stupore. Lo ascolto così con l’attesa del prossimo brano. Siamo a “Paper Yes to Take Cover”. E non vi nascondo che questa song culli, accarezzi, scuota l'animo, tornando a parlare con i sensi a cui poco prima ha sussurrato. Eccoci all’epilogo di 'Blind'. “It was Forever. Until it Ended”: chiudiamo il nostro ascolto con un pezzo suggestivo arricchito da drammi e ricompense che solo il post-metal può dispensare quando si inizia a viaggiare nell’oscurità di suoni introspettivi. Consigliato l’ascolto a chi ha voglia di spezzare le quotidianità effimere del vivere senza sentire. (Silvia Comencini)

sabato 9 gennaio 2021

Ambassador - Care Vale

#PER CHI AMA: Alternative/Post-Grunge/Dark
Ecco una band che sul finire del 2020 ha conquistato un posto nella mia personale classifica dell'anno passato. Sto parlando degli Ambassador, compagine proveniente dalla Lousiana, che ha rilasciato sul finire dell'estate scorsa questo EP di sei pezzi intitolato 'Care Vale'. Che dire, il platter è fresco quanto mai tenebroso. Il tutto è certificato dall'opening track, "Colonial", un brano guidato da uno spettrale giro di chitarra e dalla voce di Gabe Vicknair, uno che deve essere cresciuto a pane e Fields of the Nephilim, visto che il mood oscuro degli inglesi lo riversa all'interno di un sound oltremodo delicato che tocca qua e là alternative rock, post-punk o dark metal. Il sound dei nostri tuttavia non si limita certo a questa o quell'etichetta, ma volge il proprio sguardo verso sentieri differenti, spaziando anche all'interno di post-metal, sludge, shoegaze e altre sonorità che potrebbero scomodare facili paragoni con gli ultimi Katatonia. Notevoli, è stato il mio primo pensiero. E malinconici quando la seconda "Voyager" ha cominciato a fluire nel mio stereo con i suoi raffinati orpelli chitarristici, come un soffio leggero che sposta impercettivamente i capelli davanti agli occhi. La voce di Gabe rimane il punto di forza dell'ensemble, ma anche la musicalità cristallina messa in piedi dalla band di Baton Rouge si rivela davvero formidabile con ariose aperture che potrebbero evocare un che dei Russian Circle. All'inizio menzionavo le divagazioni sludge, eccomi accontentato in "Subterfuge", con quel suo pesante riffing melmoso allegerito soltanto dal raddoppiare della seconda chitarra che, oltre a conferire un tocco di malinconia ad un brano per larghi tratti strumentale, ne stempera anche l'irruenza. Ma con l'ingresso della voce e della tribalità di un drumming che chiama in causa ancora i Katatonia, ecco che il gioiellino è servito, con quelle sue chitarre riverberate di chiara matrice post-rock. Ve lo dicevo che dentro a 'Care Vale' c'era di tutto e per tutti i gusti, quindi non esitate avanzando nell'ascolto. Verrete sorpresi dal temperamento nostalgico della title track, cosi emotivamente inquieta e cosi forte nello sconquassarci l'anima con il suo incedere delicatamente dilaniante. Con "Severant", quelle nubi che si stavano addensando nell'aria poc'anzi trovano modo di scaricare la propria rabbia attraverso un riffing dapprima pesante ma che in pochi secondi perde vivacità acquisendo un tono ancora malinconico. Ma i quattro americani sono abili nell'alternare luci e ombre, cosi come eterei passaggi acustici a fragorose scariche elettriche, ammiccando qui anche ai Deftones. La chiusura è affidata alle note di "Spasma", dove emergono infine accenni post-grunge che si vanno a sommare a una ricerca spasmodica del suono emozionale, maledetto e dannato, malinconico e irrequieto, che fanno di questo 'Care Vale' un lavoro intenso e da gustare tutto d'un fiato. (Francesco Scarci)

sabato 26 dicembre 2020

Collapse Under The Empire - Everything We Will Leave Beyond Us

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal strumentale
È un viaggio tra gli astri quello che ci regala l’ascolto di 'Everything We Will Leave Beyond Us', l’ottavo lavoro dei tedeschi Collapse Under The Empire. In questi dodici anni di intensa carriera il gruppo composto da Martin Grimm e Chris Burda ha esplorato ogni anfratto di quel post-rock strumentale dalle suggestioni spaziali portato alla ribalta dai più noti God is an Astronaut e 65daysofstatic, pertanto in questo nuovo capitolo possono permettersi di procedere col pilota automatico dipingendo una spensierata tavolozza di emozioni e paesaggi astratti.

Spensierata, ma non per questo banale o raffazzonata: il duo tedesco fa della cura maniacale delle produzioni il proprio marchio di fabbrica e anche stavolta gli otto brani che compongono l’opera brillano per il perfetto incastro tra decisi riff di chitarra, cascate di delay, sintetizzatori avvolgenti e un basso prepotente. Come da predisposizione del genere, il sentimento dominante evocato da pezzi come il singolo “Red Rain”, classico saliscendi atmosferico tra momenti di contemplazione e muri sonori, o la più vivace “Resistance” è la nostalgia, tuttavia non mancano accelerazioni di stampo post-metal quasi a voler sottolineare che è necessaria una buona dose di coraggio per muoversi nel buio dello spazio e raggiungere le esplosioni di colori sparse per il cosmo.

Parlando di coraggio è necessario muovere un appunto: in 'Everything We Will Leave Beyond Us' tutto è cristallino e ben orchestrato, ma nulla si muove al di fuori dei confini di un genere che da ormai troppo tempo si limita ad ammirare la propria immagine riflessa. Per quanto il disco riesca ad ammaliare (e non dubito farà innamorare gli appassionati del genere), terminata la musica e svanita la sua ipnotica magia poco rimane se non un potenziale accompagnamento per opere fantascientifiche e l’eco di una schiera di gruppi pressocché identici. Insomma, un buon compito senza dubbio, ma nulla più. (Shadowsofthesun)


(Finaltune Records/Moment of Collapse - 2020)

Slowly Building Weapons - Echoes

#PER CHI AMA: Post-Punk/Shoegaze/Post-Metal
La Bird's Robe Records da sempre ci ha abituati a morbide sonorità post-rock strumentali. Quest'oggi invece mi sorprende con un'uscita fuori dalle righe. La proposta degli Slowly Building Weapons (SBW), quartetto originario di Sydney, è all'insegna di un mix tra post-punk, shoegaze e black metal. Si avete letto bene, black. Io mi ero già lasciato ingannare dalle tiepide sonorità poste in apertura con "Armada of Ghost", prima che delle chitarre super corrosive scatenassero una furia colossale per una manciata di secondi. Una sorta di sassaiola tremenda abbattutasi improvvisamente sulla testa e poi suoni più doomish giusto a creare un po' di confusione mentale in chi vorrebbe provare ad affibbiare un'etichetta a questi quattro tizi particolari. Con la seconda "Foal to Mare", i nostri ci conducono dalle parti di uno shoegaze intimista che con i suoni dell'opener non hanno davvero nulla a che fare, fatto salvo per quella voce delicata che mi ha ricordato un che dei finlandesi This Empty Flow o degli Handlingnoise, due band che potrebbero avere più di un punto di contatto con questi SBW. Con la terza "We are All Animals" si torna ad accelerare il ritmo con improvvise percussioni telluriche che si inframezzano a parti ancora dal piglio shoegaze. "Acid Gold Sun" è un po' più robusta a livello ritmico, con dei suoni forse un po' impastati nei quali rischia di perdersi la voce di Nicholas Bowman, ma la vena melodico/malinconica che permea questo brano, ne risolleva comunque le sorti. E questo mood malinconico si mantiene anche nella successiva "Dissolving", che ammicca ancora a quelle band finniche che con i Decoryah, avevano aperto un filone musicale davvero originale. I nostri mancano forse ancora di quel pizzico di originalità in più che mi aveva portato ad amare follemente quelle band, però devo ammettere che il sound degli SBW ha comunque il suo perchè, soprattutto laddove i nostri impongono un ritmo più solenne ai brani. Più fumosa "Heaven Collapse", la traccia che forse meno mi convince di questo 'Echoes'. Non si offendano i quattro australiani quindi se decido di skippare avanti a "Disc of Shadows", un brano breve ma ficcante, con una ritmica densa e oscura che va riproponendosi nella spettrale "Echo from Hill", un altro pezzo interessante ma che sembra mancare di una verve più spiccata, visto un finale quasi interamente lasciato a voce e percussioni. Magnetico l'incipit di "The Final Vehicle", una song in bilico tra post metal e alternative rock, con un finale a sorpresa all'insegna di un doom disarmonico. Ancora percussioni tribali nella prima parte di "Omega" (il finale sarà ancora sludge/doom), ultimo atto di questo interessante 'Echoes', un disco certo di non facile assimilazione ma che sarà in grado di regalarvi attimi di inquieta emotività. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2020)

mercoledì 16 dicembre 2020

Empress - Premonition

#PER CHI AMA: Stoner/Sludge/Post Metal
Scovati quasi per sbaglio sul web per un evidente errore ortografico del sottoscritto, mi ritrovo oggi tra le mani l'album di debutto dei canadesi Empress. 'Premonition' segue infatti a distanza di tre anni l'EP 'Reminiscence' con il quale il duo di Vancouver diede voce alla propria personale proposta musicale che combina stoner, doom, sludge e post metal. Il tutto è chiaro fin da subito, quando "A Pale Wanderer" fa il suo debutto nel mio hi-fi. L'impianto ritmico è infatti quello stoner dei Mastodon con le chitarre granitiche e la voce di Peter Sacco (che peraltro suona anche nei Seer) che ammicca ai Baroness. Quello che mi conquista è la seconda parte del brano affidato quasi interamente al sibilare delle chitarre in tremolo picking e ad un arrembante cavalcata finale che sfiora il post black sia a livello ritmico che vocale, il che permette ai nostri di ampliare ulteriormente il proprio raggio d'azione, inglobando tra i propri fan anche i non puristi di sonorità estreme. E qui di apertura mentale ne serve parecchia, visto che con la seconda "Sepulchre" (uno dei single dell'album) si ritorna ancora in territori tipicamente stoner, anche se poi non mancano le esplorazioni verso un robusto hard rock sporcato di sludge non troppo melmoso a dire il vero, ma che comunque anche troppo pulito non è. "Passage" sembra un mix tra stoner, psych rock di scuola teutonica (penso ai berlinesi Elder), un pizzico di doom, ma anche una certa vena progressiva che esalta non poco l'output finale dei nostri. Con "Trost" si infiamma l'anima del duo originario della British Columbia, e si torna cosi a pestare sia sul piede dell'acceleratore che sullo sbraitare dietro al microfono, con la voce di Peter che aspira ad uno screaming quasi black, ma solo per quella manciata di secondi in cui anche la ritmica corre impazzita come un cavallo indomito. La song poi evolve attraverso forme stilistiche più evolute che chiamano in causa i Pallbearer, prima che la bastarda anima hard rock torni a rimpossessarsi dei due musicisti canadesi. Eppure c'è ancora tempo per sentire anche le velleità post rock dei nostri proprio in finale di brano. "Hiraeth" parte lenta e oscura, magnetica come poteva essere l'intro di "1,000 Shards" degli Isis e poi continua a muoversi in territori tipicamente post-metal ammiccando indistintamente a Neurosis e Isis. La title track è ancor più ispirata, disegnando splendide atmosfere post metal, complici gli ottimi arrangiamenti ed una song tra le più dotate di una forte emotività. Ma questo è uno standard degli ultimi pezzi visto che anche la conclusiva "Lion's Blood" guarda in questa direzione con un sound forse più abrasivo della precedente ma che comunque sottolinea le ottime eccellenti doti compositive della compagine nord americana, in una song riconducibile musicalmente al post metal più malinconico e crepuscolare. Il che la rendono un altro degli episodi meglio riusciti di questa prima prova su lunga distanza degli Empress. Insomma l'Imperatrice ha colto nel segno e non posso far altro quindi che invogliarvi all'ascolto di questo 'Premonition', credo che gli spunti che ci troverete, saranno di sicuro interesse. (Francesco Scarci)

lunedì 16 novembre 2020

Váthos - Underwater

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
La Romania ci ha preso gusto a sfornare band di una certa rilevanza artistica: dopo il glorioso passato ove sono cresciuto a base di vampiri e Negură Bunget, ecco che in un mese arrivano tra le mie mani prima i Katharos XIII e ora questi Váthos, band originaria di Bucarest, all'esordio assoluto con questo 'Underwater'. La proposta del quintetto rumeno è all'insegna di un black melodico che fin dalla opener "Ruins of Corrosion" sottolinea una certa capacità da parte dei nostri di saper variare il proprio pattern ritmico grazie ad aperture acustiche e linee di chitarra piuttosto melodiche. Pur non essendo di fronte a nessuna grossa novità in ambito musicale, concedo un ascolto attento ai pezzi: "The Suicide" ha un incipit che sa molto di post metal scuola Cult of Luna, poi squarci rabbiosi di chitarre e uno screaming efferato (migliorabile francamente), fanno il resto, sebbene la song si mantenga in territori molto più compassati e anche più interessanti rispetto alla traccia d'apertura, con aperture che di black sanno ben poco cosi intrise da una malinconia spiazzante. Altrettanto disorientante è poi quel break centrale un po' visionario che spezza in due il brano con una certa efficacia, in grado di catturare ancora il mio interesse, visto e considerato che nella seconda parte una voce pulita raddoppi quella gracchiante di inizio brano. Poi è solo un turbinio sonoro. Ancor più delicata "Curse of Apathy" che sembra accompagnarci in territori shoegaze e di seguito in un black atmosferico che pur non aggiungendo nulla ad innumerevoli altre recenti uscite, riesce comunque a catalizzare la mia attenzione, soprattutto in un finale arrembante che sembra godere anche di influenze post-hardcore, il che non mi dispiace affatto, per quel suo traboccare malinconia da ogni sua nota. In "Corrupted Mind" mi sembra di aver a che fare con un'altra band visto un attacco che sa più di thrash metal che altro, il che mi disorienta un pochino. Ci pensano poi le linee melodiche a ripristinare il tutto sebbene quel riffone granitico torni ripetutamente nel corso di un brano che mi ha lasciato francamente con l'amaro in bocca. Con "Shape of... " si torna nei paraggi di un post rock onirico fatto di chitarre tremolanti che evolvono nuovamente in quel black atmosferico apprezzato in apertura, che nelle parti più tirate risottolinea il background thrash dei nostri, mentre nei momenti acustici trasmette una certa drammaticità di fondo che permea comunque l'intera release. Diciamo che le idee ci sono, forse non ancora indirizzate nel modo adeguato, ma stiamo parlando comunque di una giovane band all'esordio e che quindi ha tutto il diritto di poter sbagliare. "Hold My Breath" ripropone un canovaccio abbastanza simile ma ancora una volta faccio fatica a digerire quel cantato caustico di Radu che deve sistemare anche certi guaiti anche nella sua forma più pulita. Il pezzo però non mi convince a 360°, data una ripetitività di fondo asfissiante e passo oltre, a "Sanctimonius Beliefs", song più pulita e dinamica, con il pulito del cantante subito in primo piano accompagnato da un riffing semplice ma efficace che in concomitanza dello screaming, diventa invece più sporco e bastardo. Ancora un break acustico (su cui avrei evitato di cantare in quel modo) e la song scivola con un ultimo slancio in tremolo picking fino a "Flower of Death" che chiude con gli ultimi arpeggi in tipico stile post rock, seguiti da un riffing di scuola Katatonia (era 'Brave Murder Day') che mi portano a concludere che 'Underwater' sia un platter interessante, forse ancora con qualche sbavatura ed un pizzico di immaturità a suo carico, ma che lascia intravedere ampi margini di miglioramento per il futuro. Ci conto ragazzi. (Francesco Scarci)

domenica 15 novembre 2020

Towards Darkness - Tetrad

#PER CHI AMA: Death/Doom/Sludge
Il riffone che apre "Terraform", opening track di 'Tetrad', atto terzo dei canadesi Towards Darkness, mi fa pensare a sonorità post metal, fatto piuttosto inusuale per un'etichetta come la Solitude Productions. Eppure nello scorrere del brano, ed in generale nei solchi di tutto il disco, la proposta che viene fuori è proprio quella di un post qualcosa, sicuramente dotato di una forte vena doomish, ma comunque fuori dagli stilemi classici dell'etichetta russa. Compiaciuto della scelta del duo canadese, mi immergo nel sound dei nostri che dopo le sonorità post sludge dell'opener, ci accompagnano al prologo più space rock di "Weight of Years", un brano che combina un rifferama corposo (con growl annesso) con una buona dose di arrangiamenti affidati a delle ispirate tastiere. Come immaginavo però, il sound dei nostri, già da questa traccia prende sembianze più doom oriented, ma non è dopo tutto cosi tragico. La breve e spettrale "Forest" assolve al suo compito interlocutorio, collegandoci con la successiva "Evolution", forse la song più instabile del lotto, sicuramente quella che ho apprezzato maggiormente, in quanto nella sua linea melodica, percepisco un forte senso di irrequietezza che si riflette nel mio stato d'animo attuale e forse per questo la sento cosi vicino a me. "Evolution End" ha un inizio sinistro che si dipana attraverso un pezzo costruito su una coppia di riff essenziali, efficaci quanto basta però per instillare nella mia testa la melodia sprigionata da questo brano. "Structure" e "The Void" sono gli ultimi due pezzi di questo controverso disco, quelli che più degli altri si spingono in territori ancor più angusti al limite di un claustrofobico funeral sorretto però da ottimi arrangiamenti (soprattutto la seconda), che rendono la proposta del duo di Montreal per questo leggermente più accessibile di tante altre release nello stesso genere. 'Tetrad' è alla fine un album particolare, che necessita di svariati ascolti per poterne catturare l'essena. Tuttavia, quando ci si riesce, l'album non tradisce e svela ogni volta piccoli particolari di sè che lo rendono ogni volta più intrigante. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2020)
Voto: 70

https://solitudeproductions.bandcamp.com/album/tetrad

sabato 7 novembre 2020

Oghre - Grimt

#PER CHI AMA: Progressive/Sludge
Era il 2017, quando gli Oghre esordivano con 'Gana'. La band per quell'album, fu nominata ai Music Recording Awards lettoni nella categoria Rock/Metal album. A distanza di tre anni da quel cd, il quintetto originario di Riga torna con 'Grimt' e il loro concentrato di progressive sludge che tanto li caratterizza. Questo nuovo lavoro, cantato in lingua madre, consta di sette tracce che si aprono con le soffuse melodie di "Viens" e la voce assai particolare del vocalist, capace di passare da un cantato pulito assai stralunato ad un growling possente, mentre la musica si muove su coordinate a metà strada tra post metal e sludge, con un velato tocco di psichedelia. Le ritmiche sono roboanti, mai lanciate però a grandi velocità, semmai poggiano su un rifferama assai cadenzato con giri di chitarra stranianti ma avvincenti, soprattutto per ciò che concerne la seconda parte di "Trauksme", che si muove su sonorità alquanto sperimentali, fatte di chiaroscuri imprevedibili ma affascinanti. E dire che la voce nella sua versione cosi pulita ma altrettanto anormale, non è che mi faccia proprio impazzire, tuttavia devo ammettere che s'inserisce brillantemente in un contesto alquanto bizzarro. E le sorprese non si fermano qui visto che anche con la successiva "Sarkans", i nostri continuano a sorprenderci con sonorità poco scontate: un inizio assurdo affidato alla folle ugola di Oskars e ad una ritmica assai delicata, giusto per pochi secondi prima che ad affondare il colpo sia una sezione ritmica bella potente, che si muove ancora una volta su un'alternanza di tempi che trovo alla fine comunque originale. E dire che 'Grimt' non è un album cosi semplice da avvicinare proprio per una continua ricerca di sonorità fuori dal comune che partendo da una base sludge/post-metal, poi si lancia in una sperimentazione quasi avanguardista. Questa si rivela una costante un po' in tutta la release, in quanto anche nella successiva "Māli", il quintetto non rinuncia a imperversare con riffoni tosti (direi di competenza stoner al limite del doom) e al contempo, di proporre variazioni al tema varcando ulteriori confini musicali alquanto deliranti. "Vaidava Celies!", con i suoi dieci minuti, ha un incipit di violenza disturbante (e anche una coda quasi post black), ma nel suo proseguio si dimostra più vicina ad un mix tra orrorifico post rock (complici sinistri cori) e ancora chitarre post metal, per quanto sia una song quasi interamente strumentale (fatto salvo per la ripetizione da parte del vocalist del titolo del brano). Nonostante questo, il risultato è ancora una volta affascinante, merito di questi cinque pazzi furiosi. In "Slāpes" sembra di aver a che fare con un'altra band, ma risiede proprio in quest'imprevedibilità di fondo il grande interesse che nutro per questi Oghre, che potrebbe essere accostabili ad una versione deprivata di elettronica, dei lettoni Forgotten Sunrise (andateveli a cercare mi raccomando). Forse gli Oghre sono ancora un po' acerbi rispetto ai colleghi baltici, ma il mood potrebbe essere il medesimo e a confermarcelo ecco in chiusura "Rītausmas Zirgs" e le sue atmosfere ancora una volta velate che sembrano condurci dalle parti di un sound dapprima tooliano (poi direi bell'incazzato) che completa in modo efficace una proposta assai intrigante a cui vi invito a dare più di un ascolto superficiale. (Francesco Scarci)

domenica 27 settembre 2020

Solkyri - Mount Pleasant

#PER CHI AMA: Post Rock/Math
Quando si parla di Bird's Robe Records è inevitabile pensare immediatamente a qualche realtà australiana dedita ad una qualsiasi forma di post strumentale. Non mi sbaglio quando infilo il cd dei Solkyri nello stereo e mi ritrovo una band originaria di Sydney (ma questo l'avevo già letto nel flyer informativo) che propone appunto un post qualcosa senza avere un vocalist. Questo è quanto lascia trasparire la song in apertura di 'Mount Pleasant': "Holding Pattern" è infatti una miscela irrequieta di post e math rock, che lascia spazio a ritmiche sghembe nella prima parte e si concentra in suoni più intimisti nella seconda. "Potemkin" inizia graffiante tra ritmiche infingarde e stop'n go, in un rutilante incedere non proprio cosi armonioso e melodico come mi aspettavo. Sono alquanto ostici questi quattro ragazzi della East Coast, sebbene abbia l'impressione che loro si rendano conto di poter tirare fino ad un certo punto la propria proposta ma poi essere costretti a dover mollare, dando più spazio ad un sound melodico e pulito che qui si mantiene però criptico e nervoso. "Pendock & Progress" sembra più shoegaze oriented (solo nella prima metà però), un tema quello della malinconia, che tornerà anche nelle successive "Meet Me in the Meadow" e "Time Away". La musica dei nostri è sicuramente piacevole e chi apprezza questo genere di sonorità non dovrà certo lasciarsi scappare questo lavoro che per lo meno mostra meno prevedibilità rispetto a tanti altri dischi analoghi. Quello che lamento ovviamente io, Don Chisciotte del 2020 che lotta contro i mulini a vento, è forse che un elemento fondamentale come la voce non dovrebbe mai mancare, in quanto caratterizzante la proposta di una band, in male o in bene sia chiaro, ma a volte bisogna prendersi certi rischi. Però, che volete che vi dica, io mi infilo le cuffie, inizio ad ascoltare, ma dopo un po' mi subentra comunque una grande noia, per cui devo interrompere e pensare di riascoltare in un altro momento. Mi è capitato anche qui lo devo ammettere, sebbene i buoni pezzi non manchino. Penso alla già citata "Meet Me in the Meadow", emblema proprio shoegasiano, o ancora alla spettacolare "Summer Sun", il mio pezzo preferito: inizio tiepido quasi si trattasse di una melodia da tramonto di fine estate. Poi la traccia evolve, acquisisce dinamicità, potenza, verve forte di quei riverberi spettacolari di chitarra e pulsioni tooliane che la rendono decisamente diversa dalle altre e anche più abbordabile ed interessante. In chiusura, un altro pezzo degno di nota, "Gueules Cassées", una cavalcata roboante di poco più di sette minuti che avrebbe certamente meritato un vocalist a piazzarci quattro urlacci in mezzo per avvalorarne ulteriormente la qualità. Insomma, della serie chi si accontenta gode. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records/Dunk!records/A Thousand Arms - 2020 )
Voto: 72

https://solkyri.bandcamp.com/album/mount-pleasant

venerdì 25 settembre 2020

Left Sun - Tidal Flow

#PER CHI AMA: Progressive Metal, Riverside
Sembra ormai una sentenza: per tutti i dischi che mi arrivano dalla Ethereal Sound Works pare sempre più incasinato trovare qualche informazione relativa alla band. Gli ultimi in fatto di tempo approdati sulla mia scrivania sono questi Left Sun, compagine che in realtà avevamo già conosciuto in occasione del loro disco omonimo nel 2016. I lusitani tornano con una release nuova di zecca, intitolata 'Tidal Flow' che ci consegna una band in stato di grazia che prosegue postitivamente sulla scia del debut album, combinando pertanto progressive, alternative e post metal. Forti della presenza di Flavio da Silva dietro al microfono e la meravigliosa Clara Campos al violino, il quintetto sciorina attraverso le nove tracce qui incluse, tutti gli eterni dilemmi dell'uomo, le sue paure e speranze. Il tutto contrappuntato da un sound che, dall'iniziale "Devotional" alla conclusiva "Soaring", mostra una grande progressione rispetto al passato e soprattutto ama coinvolgerci nel suo flusso magnetico che chiama in causa sin dall'opening track, i Porcupine Tree ma che in realtà nel corso di questo liquido viaggio astrale, ripercorre anche le orme di Anathema, Riverside (l'influenza principale a mio avviso), A Perfect Circle e Pink Floyd, in un'alternanza musicale davvero efficace. E allora perchè non lasciarsi abbindolare dai suoni elettronici di "All Roads" o dalle calde e caleidoscopiche visioni strumentali della suggestiva title track. Altrove è la voce di Flavio in primo piano a fare bella figura ma nel retrobottega si nascondono in realtà le eccelse qualità di musicisti competenti, dotati peralttro di grande gusto per le melodie. I pezzi sono tutti in realtà interessanti anche se è ovvio che non brillino proprio di luce propria. Forse non ho apprezzato particolarmente il sound più vintage e scontato di "Cold", di contro l'apertura in acustico di "Waiting" (diamine sembrano gli Oasis), le intemperanze ritmiche di "Celebrate" o le melliflue atmosfere di "Hide" (con tanto di magnifico violino), mi fanno apprezzare non poco questa nuova nuova fatica targata Left Sun. Provare per credere. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works - 2020)
Voto: 74

https://www.facebook.com/LeftSunOfficial/

domenica 23 agosto 2020

Рожь - Один сажень/Остов

#PER CHI AMA: Funeral/Black/Doom
Quella di oggi è una one-man-band proveniente dalla Carelia, quella regione russa al confine con la Finlandia descritta peraltro nel lavoro 'The Karelian Isthmus' degli Amorphis. A parte queste divagazioni geografico-musicali, la band si chiama Рожь che in italiano starebbe per segale, quanto meno stravagante come moniker. Detto questo, il lavoro contiene in realtà 'Один сажень' e 'Остов', i due EP del mastermind russo e sembra narrare una breve storia su un vecchio morto che nessuno sapeva chi fosse. Purtroppo la lingua cirillica non mi aiuta a capire molto di più, e allora meglio concentrarsi sulla musica. I primi quattro brani sono estratti da 'Один сажень' e si aprono con le soffocanti atmosfere di "Один", il cui sound sembra immediatamente delineare la direzione funerea intrapresa dal polistrumentista sovietico. Si, stiamo parlando di funeral doom, in una versione che si avvale di corpose e melodiche linee di chitarra che evocano il duo Draconian/Saturnus con dei vocalizzi growl che a malapena si percepiscono in background. Grande spazio è lasciato a lunghe pause ambient che caricano di una certa tensione l'aria già di per sè rarefatta del disco e così, di quasi 10 minuti di musica, quasi il 50% è affidata a queste minimaliste parti atmosferiche, in cui sembrano esserci eteree voci in sottofondo. Il risultato è convincente e mi spinge a volerne sapere di più e quindi affrontare con maggior spensieratezza le successive tracce. Ecco quindi susseguirsi la brevissima "Платье под железом", ponte per la più abrasiva "Головы", vera tormenta post-black che evolve in sonorità più black doom oriented. A chiudere il primo capitolo la ritualistica "Сажень", affidata al solo cantato del musicista russo e a delle spettrali tastiere in background. La seconda parte del disco include le tre song di 'Остов', aperte dagli archi di "Пасха", sicuramente un bel biglietto da visita per l'ascoltatore. L'introduzione è sempre abbastanza lunga e sembra essere la virtuale continuazione della precedente traccia, prima che inizi ad infuriare il mastodontico sound delle sei-corde (prima lento e poi impetuoso) e l'efferato screaming del vocalist, in un altro pezzo tipicamente post-black, sebbene il finale riservi curiose contaminazioni. La pseudo strumentale "Рукава и сажа" rivela le influenze per il nostro polistrumentista derivanti, a livello chitarristico, dallo sludge che ben si coniugano col doom e il post che spopolano un po' ovunque all'interno del disco. In chiusura, la title track, altri quattro minuti di non musica, fatta da voci evocative e parti ambient affidate agli archi che stimolano non poco l'immaginazione di chi sarà pronto e senza paura ad immergersi in questo viaggio targato Рожь. (Francesco Scarci)

mercoledì 22 luglio 2020

Ohhms - Close

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Pallbearer, Baroness
Gli inglesi Ohhms con il loro ultimo lavoro 'Close' si propongono come una delle band post-metal più attive e convincenti del Regno Unito, paese in cui il movimento sembra aver faticato più che altrove ad affermarsi (si ricordino le esperienze di Fall of Efrafa, Light Bearer, Bossk e Latitudes, questi ultimi gli unici in grado di dare continuità al progetto e ad ottenere una certa visibilità).

La musica del quintetto originario della contea del Kent, giunto alla quarta release ufficiale, risulta tuttavia più trasversale, fondendo influenze della tradizione sludge\doom britannica con elementi post-rock e progressive rock, dando vita ad una creatura ibrida che negli ultimi sei anni è andata in cerca della propria identità. Con 'Close' gli Ohhms giungono alla fase della maturità artistica, confezionando un lavoro lontano dagli stereotipi e al tempo stesso piuttosto accessibile.

L’opening “Alive!” parte in sordina, immergendoci nelle atmosfere sognanti dipinte dalle chitarre arpeggiate, prima di adombrarsi e crescere di intensità come un temporale estivo, tra grandinate di percussioni, basse frequenze a pioggia e l’energia sprigionata dal cantante Paul Waller. Alle sfuriate sludge\doom di “Alive!” e “Revenge” fanno da contraltare le più elaborate progressioni di “Destroyer” e “Unplugged”, brani in cui la furia strumentale si sposa con una pronunciata vena melodica, richiamando alla memoria alcune composizioni degli ultimi The Ocean. Le atmosfere crepuscolari e quasi shoegaze di “((Flaming Youth))” e “((Strange Ways))”, intermezzi ben inseriti nel contesto dell’album, sembrano ben più che semplici cerniere tra un pezzo e l’altro, offrendo all’ascoltatore momenti di raccoglimento e riflessione.

Complice l’apprezzabile scelta di un minutaggio contenuto, gli Ohhms riescono ad amalgamare stili e spunti differenti in modo naturale ed efficace, rendendo 'Close' sufficientemente variegato da risaltare in mezzo ad una scena ormai molto affollata, mantenendo però una struttura coesa e priva di passaggi forzati. Forse non tutte le idee proposte vengono valorizzate a dovere, ma si tratta sicuramente di un deciso passo verso future uscite forse più ambiziose. (Shadowsofthesun)

(Holy Roar Records - 2020)
Voto: 75

https://ohhms.bandcamp.com/album/close

sabato 11 luglio 2020

Maiastra - Nurt

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge
Quest'album mi è piaciuto quasi da subito per quel suo feeling mellifluo emanato dalle note iniziale di "W Mróz". Il neo che ho semmai trovato in quest'opera prima dei Maiastra, è l'utilizzo del polacco nelle sue liriche che limitano l'approccio alle tematiche ai fan più attenti anche ai testi ma anche per una certa armonia tra musica e voce. 'Nurt' infatti è interamente cantato nella lingua madre dall'ensemble originario di Szczecin, un errore veniale che si può anche perdonare, soprattutto a fronte di una proposta musicale piuttosto convincente. Si perchè quanto viene offerto dai nostri è uno sludge/post metal, che può rimandare a Neurosis o Cult of Luna, qui riproposti in toni più minimalistici e a tratti post-rock oriented. Lo si comprende dal timido esordio della seconda traccia, "W Ciszy", affidato ad un riffing che nei suoi primi 100 secondi, appare quasi sussurrato e che poi esplode nelle sembianze tipiche del genere, coadiuvato da un bel lavoro dietro le pelli e dalla voce sporca quanto basta del suo frontman. Interessanti, lo ribadisco, specialmente nel saper offrire tutti gli ingredienti nel genere in pochi giri di orologio (tre e mezzo per essere precisi) e lasciar il posto a "W Nurt". L'inizio del brano è affidato ad un giro di chitarra acustico che se ne va a braccetto quasi di nascosto con la batteria fino alla classica detonazione che comporta l'ingresso della grugnolesca voce e del basso, a tracciare buone linee melodiche, dotate di certe venature malinconiche grazie al lavoro del tremolo picking alla sei corde. Il risultato ancora una volta centra il bersaglio, ma c'è ancora un discreto spazio di miglioramento. Tuttavia, i nostri conoscono le loro potenzialità e con "Bez Barw" sembrano metterle maggiormente in mostra: l'intro è sempre tiepido, ma ci sta se poi l'intensità va accrescendosi di pari passo con il growling caustico del frontman ed una furibonda ritmica al limite del post black. "Bez Tchu" è un altro pezzo che si apre in modo soffuso, ma il copione sembra essere sempre lo stesso, ossia garantire un inizio gentile a cui cedere presto il passo ad una ritmica di matrice post, che qui tarda però ad arrivare, essendo relegata ai soli 45 secondi conclusivi del brano. L'ultima "Bez Szans" è contraddistinta da un discreto duetto tra chitarra, in versione tremolante, e dai rintocchi di basso, entrambi a poggiare su una batteria qui elementare e con le urla sporadiche del cantante a supporto, quasi a costituire una sorta di outro semistrumentale di questo compatto 'Nurt'. Il lavoro va ampiamente oltre la sufficienza, ora starà ai nostri cercare quelle migliorie tecnico-compositive che permettano alla compagine polacca di uscire dal mazzo. (Francesco Scarci)

sabato 2 maggio 2020

Nudist - Incomplete

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge
Parto con il commentare l'ottimo artwork di copertina, curato da Coito Negato, per la nuova opera dei fiorentini Nudist. L'album, mixato e masterizzato da Eralbo Bernocchi, è da ascoltare con massima attenzione, per assaporarne tutte le sfumature e le variegate contorsioni compositive. Siamo all'interno dello sludge e del postcore, quello più viscerale e abrasivo, essenza che potevamo trovare già nelle atmosfere del seminale 'Aggravation' dei Treponem Pal, unito alla drammaticità nevrotica e decadente dei lavori micidiali dei Forgotten Tomb, di cui la voce dei Nudist, Lorenzo Picchi (anche al basso), ne ricorda non poco lo stile vocale. Originali nel loro sopravvivere nella sfera del genere, uniscono ritmi claustrofobici (ottimo il drumming Francesco Caprotti) e coloratissime sfumature di nero, sottolineate dai taglienti riff al vetriolo di Gabriele Fabbri (c' è anche lo zampino magico di Xabier Iriondo - chitarrista degli Afterhours - in questo bel disco), che penetrano nella carne (l'opener "Roped and Tied" ad esempio) come lame affilate, per un totale di una quarantina di minuti tutti da gustare con vorace desiderio di musica nera e avvolgente, uno sfogo di rabbia palpabile, meditato, finemente realizzato e niente meno che registrato al teatro Fabbrichino di Prato. Si sente, traccia dopo traccia, l'esperienza maturata di una band navigata, che fa valere le sue qualità musicali acquisite. Sferzate soniche e rallentamenti in slow motion per un film in bianco e nero dagli accentuati chiaroscuri, dove le parti 1 e 2 del brano "River", rivelano un'ottima vena sperimentale, con variazioni nel canto (con l'aiuto vocale di RYF) che si elevano dalle usuali vocals in screaming, aprendo il suono della band ad ulteriori frontiere ipnotiche e psichedeliche. Il terzo brano, "Demolition", si erge nella sua sofferta cronaca lisergica, con un'escalation di drammaticità a dir poco epica, in una sensazione di sospensione avvenuta in uno spazio senza tempo, marcato dall'oscurità incombente. "Crawl in Me", si muove a passo lento in un ambito fumoso e cupo, per uno scenario filmico e d'ambiente noir, un sound originale, vicino al depressive black, con voce salmodiante, straziante e lacera per una marcia funebre, maligna e lugubre che non fa prigionieri. I pregi artistici dei Nudist vengono messi in bella mostra da una eccelsa qualità di registrazione per l'intero percorso del disco ed anche nel lungo brano conclusivo, che porta il titolo dell'opera, "Incomplete" appunto. Una lunga soffertissima interpretazione acida, dall'incedere progressivo ed ossessivo, che si abbatte sull'ascoltatore come un macigno, per porre fine ad un set di canzoni che rapiscono per coinvolgimento emotivo ed un'atmosfera ammaliante virata al nero cosmico. Un album da mettere forzatamente tra le vostre collezioni migliori. Ascolto obbligato ed intensificato. (Bob Stoner)

venerdì 1 maggio 2020

Wows - Ver Sacrum

#PER CHI AMA: Post Metal/Black, Altar of Plagues, Amenra
La Primavera Sacra (Ver Sacrum in latino) era una pratica rituale di origine antica, che consisteva nell'offrire negli anni di carestia, come una sorta di sacrificio, tutti i primogeniti nati dal 1º marzo al 1º giugno; l'immolazione non era però reale, in quanto i bambini crescevano come sacrati, per emigrare in età adulta a fondare nuove comunità altrove. Ora, questa Primavera Sacra è stata traslata per identificare il periodo di uscita di questo nuovo capitolo degli italici Wows, affidando una sorta di sacralità all'evento (questa la mia libera interpretazione), dato che abbiamo atteso quasi cinque anni per ascoltare la terza fatica dei nostri. E non ne vedevo l'ora. Cinque pezzi quindi per tastare il polso ai sei musicisti veronesi, anche se "Elysium" è una malinconica intro pianistica sul cui sfondo si aggira una spettrale e appena percettibile voce femminile. "Mythras" divampa poi spaventosamente nelle mie casse, con una ritmica al vetriolo, schiaffi sui piatti, una voce che arriva direttamente dall'oltretomba e una minacciosa crescita musicale che mi rievoca immediatamente uno dei brani che più ho amato degli Altar of Plagues, "God Alone". Date un ascolto attento alla song e godete con me nel sentire come gli insegnamenti dell'ensemble irlandese siano stati presi in dote dalla band e riadattati, resi forse anche più claustrofobici nell'evoluzione angosciante di una traccia che rischia di divenire alfiere di una nuova ondata post-black. Si perchè, parliamoci chiaro, l'evoluzione dei nostri iniziata già ai tempi di 'Aion' non si è affatto conclusa ma prosegue nel suo dilaniante disagio interiore, esteriorizzato dai suoni malefici e angusti di questo 'Ver Sacrum' che pone la band di fronte ad un nuovo bivio futuro, di cui vorrei conoscerne già la risposta. Tornando alla track, questa si muove in bilico tra un sound melmoso e un più furente e apocalittico post-black, figlio di questo maledettissimo periodo che stiamo vivendo. È gioia estatica la mia nel farmi inglobare dall'insana musicalità della compagine nostrana e quale orgoglio nel sentire che simili suoni escano da una band italiana piuttosto che dalle solite realtà americane o svedesi. Che abilità poi nel passare tra lo sludge, il black, l'hardcore e poi concludere con un funeral dalle tinte morbosamente ossessive. "Vacuum", la terza traccia, è tutt'altra cosa con un incipit shoegaze, fatto di impalpabili e decadenti melodie di chitarra e nostalgiche clean vocals che riversano il proprio straziante malessere su quei minimalistici tocchi di chitarra. Poesia allo stato puro, che non preannuncia nulla di buono, visto che sul finire del pezzo, la realtà sembra distorcersi e sembra volerci annunciare di prepararci ad affrontare una distorta forma di realtà. E cosi sia. "Lux Æterna" parte da lontano, con quanto rimane dal precedente album, ossia un minimalistico pizzicare di corde di chitarra e la voce del buon Paolo Bertaiola a declamare pochi versi (ci sento un po' di scuola Amenra in questo frangente). Un ipnotico riff di chitarra inizia a salire nel frattempo, affiancando il più muscoloso riffing portante, mentre una terza chitarra sembra addirittura lanciarsi in un tremolo picking dal forte effetto disturbante. Un forte senso di angoscia sale man mano che le chitarre nel loro marziale incedere, vedono la voce del frontman urlare straziata. La song rimane però bloccata nelle sabbie mobili di un tortuoso e ossessionante giro di chitarra, francamente avrei osato di più in questo frangente, considerata la sua rilevante durata di oltre 13 minuti, un peccato perchè la song sembra castrata e depotenziata nei dettami di un genere che necessita di nuove intuizioni. E arriviamo, senza nemmeno rendercene conto, alla conclusiva "Resurrecturis", non sembra, ma trentadue minuti di sonorità oscure sono già scivolati e quanto ci rimane, sono gli undici rimanenti dell'ultima traccia. L'inizio è un ambient dronico che funge da apripista ad un sound che persiste nel parcheggiarsi dalle parti di un post-sludge lisergico ove riappaiono i fantasmi dei Neurosis ma pure dei Tool. La voce di Paolo si conferma su tonalità pulite ed acute, ma sempre dotate di un profondo senso di sofferenza, mentre il saliscendi ritmico alla fine è da mal di testa e per questo varrebbe la pena sottolineare la performance dietro alle pelli di un magistrale Fabio Orlandi soprattutto nel roboante finale affidato ad un feroce climax ascendente. Per concludere, non posso che enfatizzare ottima la performance in toto della band italica, sebbene in tutta franchezza, avrei garantito più minutaggio alla componente post-black dell'iniziale "Mythras", vero gioello del disco. Aggiungerei poi i complimenti al duo Enrico Baraldi e Luca Tacconi dietro al mixer presso gli Studi Sotto il Mare dove la band ha registrato e ultima menzione per il lavoro sempre di prim'ordine, di Paolo Girardi per l'ennesima spettacolare cover artwork del disco. Che altro volete di più, devo forse intimarvi di far vostra questa spaventosa creatura che risponde al nome di 'Ver Sacrum'? Ora vi prego, non fateci attendere un altro lustro per avere nuove notizie della band, si sa dopo tutto che la fame vien mangiando e io ho già appetito per un'altra release targata Wows. (Francesco Scarci)

(Dio Drone/Coypu Records/Hellbones Records/Shove Records - 2020)
Voto: 81

https://thewows.bandcamp.com/album/ver-sacrum