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venerdì 10 aprile 2015

Cuckoo's Nest - Everything is not as It Was Yesterday

#PER CHI AMA: Depressive Black/Post Rock, Shining, Addaura, Alda
Il monicker "il nido del cuculo" è davvero geniale in quanto mi rimanda al bellissimo film 'Qualcuno volò sul nido del cuculo' dove uno psicotico Jack Nicholson si ritrova rinchiuso in un ospedale psichiatrico per essere "vagliato" dal lato comportamentale. E oggi rievocando proprio quel film, ecco trovarmi tra le mani l'ennesima scoperta della label cinese Pest Productions, gli ucraini Cuckoo's Nest. La band originaria di Mykolaiv, al secondo lavoro, va ampliando i propri orizzonti sonori già calcati nel precedente 'Dark Shades of Lunacy', ossia quella sorta di ibrido depressive black/post-rock che tanti proseliti sta raccogliendo negli ultimi tempi. Otto le tracce incluse tra cui una cover degli Austere, di cui sinceramente avrei fatto a meno. Le rimanenti sette, oltre alla classica minimalista intro, si snodano tra le melodie desolanti della lunga "Full of Dark Shades", che tra urla "burzumiane" e oniriche ambientazioni, giunge ad un quanto mai inatteso finale elettronico che prelude a "Feel of Desolation Will Always Chase Me... (part II)", interludio di pink floydiana memoria che ci prepara a "So Close, Too Far Away...". Altri nove minuti, in cui il quartetto ucraino si libera dell'influsso malefico del Conte Grisnack e abbraccia influenze più marcatamente post-qualcosa, mantenendo intatto il legame con il black solo a livello vocale, complice il ferale screaming di Oleg "Satana" Maliy e in qualche rara sfuriata chitarristica (ben 3 le chitarre presenti su questo lavoro). La musica invece viaggia sui binari di un suggestivo sound che dischiude le ottime potenzialità del combo ucraino. Celestiali, sognanti ed esplosivi, i Cuckoo's Nest mi rapiscono con la loro proposta ipnotica, selvaggia ma mansueta allo stesso tempo. I tredici minuti della title track e della successiva "World of Empty Hopes" confermano questo trend, in un sound che magari tende a dilungarsi un po' troppo in impalpabili tensioni emotive, ma che comunque rivela l'estro e la spiccata personalità di una band che è già pronta per il grande salto. Ovviamente ci sono ancora alcune spigolature da smussare, come certi break ambient troppo prolissi e ripetitivi o ancora certe sbavature a livello tecnico. "And End... (in memory of Roman Lomovskiy)" è una traccia strumentale, che tributa il giovane musicista russo morto suicida il 1° giugno del 2013, in una song dai vellutati richiami shoegaze. Chiude infine la già citata cover degli australiani Austere, in una traccia all'insegna del suicidal black metal, che poteva essere omessa in un album già di per sé di lunga durata e dai ricchi contenuti. Alla fine 'Everything is Not as It Was Yesterday' mette in mostra la classe, seppur ancora non del tutto sbocciata, di un quartetto intrigante e da tenere sotto stretta sorveglianza. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 75

domenica 8 marzo 2015

Barrowlands - Thane

#PER CHI AMA: Post Black, Agalloch
Vediamo se avete imparato la lezione. Se una band arriva da Portland - Oregon, che genere di musica dovremo aspettarci? Se anche voi avete risposto di getto Cascadian black metal o post black, meriterete un bel 10 in pagella. Si perché i Barrowlands in questo 'Thane', edito dalla cinese Pest Productions, ci propina un 5-track di sonorità nere come la pece, a partire addirittura da un artwork minimalista in bianco e nero. Poi i nostri musicisti, alcuni peraltro coinvolti nel progetto dei Mary Shelley, si abbandonano al black dalle tinte fosche di "Alabaster", la opening track. Il pezzo offre una ritmica semplicistica su cui si staglia lo screaming aspro di David, mentre in sottofondo si può udire il suono di un violoncello, unica vera peculiarità della band della West Coast. Poi qualcosa per cui valga la pena una segnalazione in effetti non c'è, se non una non troppo accentuata vena doomish nella seconda metà del brano. L'approccio apocalittico si mantiene anche nella successiva "Peering Inward", lenta e magmatica nel suo preambolo che vede echeggiare nell'aria un che dei My Dying Bride più primordiali, prima che si diletti nella ricerca di scoppiettanti linee melodiche che regalino frizzanti frangenti atmosferici. La song si muove in seguito sul classico mid-tempo che da copione cita i primi Agalloch, con le chitarre suonate nel tipico tremolo picking. "Mother of Storms" apre con un arpeggio e lascia quanto prima il passo a una cavalcata epica che evoca il sound dei gods più famosi di Portland mixato a quello dei norvegesi Windir. Direi che il momento topico ce lo regala l'intrecciarsi tra le chitarre "tremolanti" e il suono del violoncello, ahimè troppo spesso relegato in secondo piano. "1107" è una lunga traccia malinconica che parte tranquilla e va via via aumentando di intensità, senza però mai convincere appieno e palesando i veri limiti della band. "On Bent Boughs" ci regala gli ultimi lunghi spettrali minuti di 'Thane', grazie alla timbrica greve del violoncello che quando va dileguandosi dal sound dei nostri, lascia una band acerba, come mille altre ve ne sono in giro. La raccomandazione d'obbligo finale sta pertanto nel concedere molto più spazio allo strumento ad arco, incrementando le parti d'atmosfera e mitigando l'asprezza di fondo racchiusa nelle feroci linee di chitarra e nell'acido cantato. C'è ancora molto da lavorare, ma le basi sembrano già buone. (Francesco Scarci) 

(Pest Productions - 2014)
Voto: 65

Ambiguïté - Light & Shade

#PER CHI AMA: Sonorità Post
Per il nome della band, per i colori eleganti del loro sito web e per l'arpeggio iniziale che apre "Nightfliesdance", pensavo che i nostri fossero francesi. Ho sbagliato e di grosso: gli Ambiguïté sono difatti un duo russo guidato da Alexey ed Egor che fa musica sotto questo moniker dal 2011, anche se in realtà suonano insieme dal 2009. La band ha concepito 'Light & Shade' tra il 2013 e il 2014, pubblicandolo su bandcamp la scorsa estate e attirando l'interesse della sempre più potente Pest Production. L'etichetta cinese, in collaborazione con gli amici della Weary Bird Records (entrambe molto attive sul versante post-), hanno deciso di metterli sotto contratto e ora il loro digipack sta tra le mie mani con un 5-track che appunto apre con "Nightfliesdance", una song che si muove tra lo screamo e il post-hardcore, almeno nella sua prima metà, cercando di catturare, senza troppa fortuna, il mio interesse. Fortunatamente, i nostri non sono degli sprovveduti e hanno capito che i generi sopra menzionati non tirano più come una volta se non miscelati con un che di più accattivante e originale. Cosi nella seconda metà del pezzo, i due russi si rintanano in sonorità più introspettive, più marcatamente sognanti e post-rock, e meno male aggiungo io. In "Warm Night" le furiose accelerazioni iniziali mi fanno propendere addirittura per una vena post black degli Ambiguïté, ma le rarefazioni musicali, le melodie delle chitarre stile Alcest, i break acustici, i chorus super ruffiani, i vocalizzi che passano dall'urlato al pulito, mi spingono a rivedere la mia posizione iniziale. Quando "Towards the Fall" attacca con quel suo mood strappalacrime (e mutande) tipico delle ballad (che ahimè mette in mostra anche una certa stonatura del vocalist) inizio a essere un po' confuso. Ancora suoni malinconici (e questa volta strumentali) con la title track, il cui riff portante risuona nell'aria come le melodie shoegaze degli Alcest. Sono alla quarta canzone e mi sembra di avere a che fare con una band totalmente diversa da quella di inizio disco. L'Ep si chiude con "Hear Your Body (Remix 2013)" che rilegge il primo singolo scritto dai nostri nel 2011: un altro brano strumentale che sottolinea le qualità degli Ambiguïté in assenza del cantato; questo a suggerire un approccio definitvamente senza voce da parte dei nostri o la scelta di un vocalist più adatto alla causa. Mentre l'act russo rifletterà sul da farsi in futuro, voi una chance a 'Light & Shade' potete anche darla. (Francesco Scarci)

(Pest Productions/Weary Bird Records - 2014)
Voto: 65

martedì 6 gennaio 2015

Ghost Bath - Funeral

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal/Shoegaze
La Pest Productions continua la sua ricerca di talenti e questa volta lo fa direttamente a casa propria, andando a scovare i Ghost Bath nella semi sconosciuta città di Chongqing, una delle quattro municipalità indipendenti della Cina, considerata peraltro uno degli agglomerati urbani più grandi al mondo che raccoglie milioni di immigrati dal resto del paese. Probabilmente il senso di disagio che si respira in questa metropoli, l'inquinamento e una miriade di altri problemi che popolano le grandi città cinesi, devono essersi riversate nella musica quanto mai straziante del quartetto dagli occhi a mandorla. Undici piccole gemme di un depressive black che verrà ricordato soprattutto per le ottime linee melodiche piuttosto che per le lancinanti grida dei due vocalist, a tratti davvero insopportabili. Un vero peccato perché le premesse sono a dir poco stupefacenti: "Torment", la opening track, ci offre infatti un sound all'insegna del suicidal black miscelato allo shoegaze, con le urla belluine dei cantanti, appunto, a rovinare il tutto. Le ariose chitarre, i fraseggi malinconici, le atmosfere drammatiche suggellano una prova davvero convincente che si tramuta in poesia più cupa nella successiva "Burial", una mesta sepoltura che trova sfogo nello stridore vocale dei malefici vocalist. "Silence" è un semplice arpeggio di un paio di minuti che straripa in una cascata emozionale nella successiva "Procession", song che si arricchisce di ulteriori influenze derivanti dal Cascadian black metal, una splendida cavalcata in mezzo ai boschi, attraversando fiumi e cascate, scalando montagne e raggiungendo la vetta dei nostri sensi. Splendida. Ma è una bellezza incompiuta che avrebbe tratto maggior beneficio se, anziché udire l'ululato assurdo nel microfono, magari si fosse sussurrato, narrato o cantato in modo pulito o con uno screaming decisamente più convenzionale. La cosa drammatica è che 'Funeral' avrebbe in effetti le carte in regola per essere un signor album, per piacere ai fan di Alcest, Deafheaven o Shining indistintamente. Il problema, e mi spiace averlo più volte sottolineato, risiede nella performance, a dir poco mediocre, dei due cantanti. Se siete in grado però di superare lo scoglio delle urla belluine, vi garantisco che vi innamorerete delle song celestiali fin qui descritte, per continuare con "Dead", passando dalla delicatissima "Sorrow", l'elettrizzante "Calling", e la più desolante "Continuity", fino alle un po' più sconclusionate song finali in cui i Ghost Bath si perdono per strada. Per concludere, a parte suggerire un cambio di ugola e una migliore produzione, quello dei Ghost Bath è un disco che va testato, nella speranza di un futuro migliore. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 65

sabato 15 novembre 2014

Thy Light - No Morrow Shall Dawn

#PER CHI AMA: Black/Post Rock, Agalloch
Ah il Brasile, le spiaggie di Rio, Copacabana e Ipanema, il sole, il mare, la foresta Amazzonica o la frenetica vita di San Paolo, città da cui arriva il duo di oggi. Che cosa attendersi quindi da una band che vive in una parte del mondo cosi piacevole e solare? Ovviamente del depressive black metal, non certo danze pauliste. I Thy Light esordiscono nel 2013 per la cinese Pest Production, con questo 'No Morrow Shall Dawn', album che giunge sei anni dopo il demo d'esordio, 'Suici.De.pression'. Il genere lo abbiamo già inquadrato, le tracce, se escludiamo l'intro e un breve intermezzo strumentale, sono solo tre per oltre quaranta minuti di musica. "Wanderer of Solitude" debutta con un avanzare melmoso e intriso di un umor nero come la pece, dotato di splendide melodie, ma anche di screaming vocals degne della più selvaggia black metal band. Quello che balzerà subito alle vostre orecchie è il lavoro di arrangiamenti che di fatto accompagna l'intera durata del disco, e che saltuariamente sembrano affondare le proprie radici nel rock progressive. Fatevi cullare quindi dai frangenti acustici, dalle sterzate elettriche, dalle voci filtrate simil industriali, ma anche da quelle pulite che prima o poi emergeranno. La song è un susseguirsi di emozioni, in cui la belluina voce di Paolo Bruno, non smorza in alcun modo il mio entusiasmo. La lunghissima title track, introdotta da flebili tastiere, si assesta su una ritmica che potrebbe stare tranquillamente su un disco rock. Solo le malvagie vocals rendono alla fine quest'album estremo. Le tastiere ricordano quelle degli ancestrali Cradle of Filth, mentre frammenti ambient/noise, contribuiscono a rendere ancor più vario un album che ha fatto breccia assai velocemente tra le mie preferenze. "Corredor Seco" è il potente flusso di chitarra acustica che ci conduce alla conclusiva "The Bridge", ove un temporale in lontananza apre una song lenta e litanica, che sale delicatamente in intensità, e riesce a trovare la prima cavalcata black dell'intero album al minuto 38, segno tangibile che avvicina, almeno musicalmente, i Thy Light a una band di nero metallo. Bravi! (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2013)
Voto: 75

giovedì 23 ottobre 2014

Ëdïëh - In Case the Winds Blow...

#PER CHI AMA: Death Doom atmosferico, primi Tiamat
La scena cinese sta crescendo a vista d'occhio e merito va senza dubbio anche alla Pest Productions, che sta sdoganando un sacco di band dell'underground locale per darle in pasto ad un pubblico più internazionale. La politica dell'etichetta di Nanchang, prevede anche la riscoperta e promozione di album usciti solo per il mercato cinese: questo è il caso di 'In Case the Winds Blow...'. Uscito nel 2012 per la Sparrow Cross, vede una luce più luminosa l'anno seguente con l'intervento della P.P.; la one man band di Pechino, guidata da Mr. T, sembra essere assai prolifica con ben nove album dal 2008 a oggi, con questo che andiamo ad ascoltare, essere il penultimo. Si tratta di un 3-track dal forte sapore death doom contaminato da qualche venatura folk. Tralasciando la minimal intro, mi siedo ad ascoltare nel buio della mia stanzetta, "The Pain is Seamless", 12 minuti di sonorità death doom sulla scia delle produzioni Solitude Productions. Suoni deprimenti, growling vocals, melodie malinconiche, atmosfere decadenti, in cui il mastermind T sembra seguire tutte le tendenze dettate dalla scena est europea, con Russia e Ucraina in testa. Di nuovo niente all'orizzonte quindi? In parte è cosi, fortunatamente tra un lamento e l'altro, il musicista dagli occhi a mandorla, ci piazza dentro un qualche bell'assolo, non certo di elevato tasso tecnico, ma che sicuramente ha una buona presa sull'ascoltatore, portandomi a rivalutare notevolmente il risultato conclusivo. Mr. T si aiuta anche utilizzando qualche bell'arpeggio bucolico e qualche passaggio ambient, come nella parte conclusiva della traccia. "I See My Shadow Amongst the Leaves" è il secondo e ultimo brano del disco, un'arrampicata di ben 23 minuti che si apre con eteree melodie dal sapore orientale. Mentalmente mi sembra di camminare nei boschi delle foreste cinesi, con la pioggia che cade, mentre in lontananza percepisco il fragore dei tuoni. Ancora doom, ma dotato di una cinetica più rock progressive che offre delicate linee di chitarra e ha il suo punto di contatto col genere estremo solo per i vocalizzi profondi del frontman. La song scorre lentamente come il tortuoso cammino del fiume Yangtze, toccando il suo punto massimo d'espressione nei suoi conclusivi nove minuti in cui l'ambient si miscela cinematicamente con sonorità sognanti che mi hanno richiamato "Gaia" dei Tiamat e di conseguenza i Pink Floyd. Non chiedetemi le ragioni di queste mie affermazioni, voi fidatevi e basta: questi ultimi minuti li ho ascoltati e riascoltati all'infinito e il risultato è sempre stato il medesimo, quello di produrmi una spettacolare pelle d'oca. Se solo Mr. T si fosse dedicato a song un po' più brevi e meno ridondanti, forse oggi starei scrivendo di un piccolo capolavoro. Tagliare per favore in futuro per rendere più fruibile una melodia a dir poco spettacolare è il primo consiglio che mi sento di dare alla band e visto che di estremo qui rimane ben poco, il suggerimento seguente è quello di modulareci vocalizzi, prendendo ad esempio proprio i Tiamat di 'Wildhoney'. Validi e da seguire. (Francesco Scarci)

martedì 21 ottobre 2014

Dreams - 3Am

#PER CHI AMA: Shoegaze, Amesoeurs, Lifelover.
La risposta americana agli Alcest? Se qualcuno la cercasse, sarà solo in parte accontentato dall'EP della one man band statunitense dei Dreams. '3Am' è il lavoro di Morbid (già noto per un'altra band del roster Pest Productions, i blacksters Happy Days), la mente che si cela dietro questo progetto e che ci rifila sei song all'insegna dello shoegaze nella sua accezione però più primordiale. Lasciate quindi perdere Alcest e compagnia e focalizzate le vostre menti piuttosto sui My Bloody Valentine e forse avrete una più chiara idea di cosa propongono i nostri. Dicevamo sei tracce che partono con "Parallel Anxiety" che mette immediatamente in luce le sonorità post punk del mastermind americano. "Delta Wave Overload" sembra una song uscita da uno dei primi lavori dei The Cure, almeno fino a quando le chitarre un po' più pesantucce di Mr. M. prendono il sopravvento. L'approccio è comunque quello tipico del sound anni '80-90, con song dalle brevi durate, atmosfere eteree, suoni malinconici e vocals che potrebbero ricordarvi quelle pulitissime degli Alcest (anche loro hanno tuttavia scopiazzato dalle grandi realtà dei tempi d'oro), con Morbid accompagnato da una gentil donzella, tale Michelle Nighshade. Il disco scivola piacevolmente verso la sua breve conclusione (22 soli minuti), passando attraverso la discreta "Abduct Me", la lunga (5 minuti) "Sleepless Lullabies", e le conclusive "Swallowing Conciousness" e "3Am", pezzi che, a dire il vero, si assomigliano un po' tutti, per melodia e architettura. Però chi conosce lo shoegaze, sa perfettamente che la musica riflette questi canoni e pertanto sa già a cosa va incontro. '3Am' è un album onesto che non ha nulla da chiedere, se non un vostro gentile ascolto. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 65

https://pestproductions.bandcamp.com/album/3am

sabato 4 ottobre 2014

Eldjudnir - Angrboða

#PER CHI AMA: Black/Doom
La Danimarca ultimamente sta riscoprendo il verbo nero del black metal. Dopo il recente debutto di "Miss" Myrkur, ecco vedere finalmente stampato dalla cinese Pest Productions, il full length dei Eldjudnir che vide in realtà la luce nel 2012 sotto forma di cassetta e che oggi finalmente gode di una più larga distribuzione (e migliore produzione) grazie all'etichetta di Shanghai, ma soprattutto, il formato è quello giusto (almeno per il sottoscritto), il cd. 'Angrboða' consta di cinque pezzi che si aprono con la dirompente title track che mette in chiaro immediatamente come stanno le cose: il quartetto di Copenhagen ci scatena contro un black ammantato di sonorità nere come la pece che trovano fortunatamente la brillante idea di concedere un certo spazio anche a momenti più epici e dal flavour vichingo. Non è infatti un caso che il nome dei nostri si rifaccia alla tradizione nord europea, cosi come i titoli dei brani richiamino creature della mitologia norrena. Con la seconda traccia, "Jörmundgandr", a fronte di un rallentamento della sezione ritmica, c'è da segnalare una maggior cupezza nelle atmosfere, quasi catacombali, ad opera del 4-piece danese. Un sound sordo, al confine con lo sludge/doom, che trova comunque modo di vivacizzarsi con qualche pestilenziale sfuriata black e qualche chorus epico. Il disco avanza sinuosamente con "Hel", la dea degli Inferi, figlia di Loki (dio dell'inganno) e di Angrboða, una gigante il cui nome significa "presagio del male", che abbiamo già incontrato all'inizio del disco. Il suono malefico del brano, il suo incedere lugubre e spettrale, va molto vicino nel dipingere la figura negativa della divinità; ciò che mi colpisce maggiormente nella traccia è un break centrale quasi tribale che lo rende assai più interessante. Arriviamo a "Bundinn" e le atmosfere apocalittiche (ma dall'approccio decisamente più melodico) a tratti litaniche, la fanno da padrone, conducendoci mentalmente dinanzi a un rito sacrificale che si teneva durante le cerimonie vichinghe. La song conclusiva, "Fenris", si presenta come la più infernale e completa dell'intero lotto, in cui blast beat, screaming vocals, ritmiche convulse, frangenti etnici e macabre atmosfere oscure, coesistono in una lunga traccia della durata di più di 11 minuti. In conclusione, 'Angrboða' è un lavoro che pur non inventando nulla di nuovo, lascia intravedere qualche buono spunto da parte degli Eldjudnir, anche se dopo una carriera decennale, probabilmente era lecito attendersi qualcosina in più. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 65

domenica 7 aprile 2013

Deep Mountains - Deep Mountains

#PER CHI AMA: Black, Avsky, Centuries Of Deception, A Forest Of Stars
Scrivere della band in questione non è facile poiché in rete poche sono le notizie a riguardo, poche le immagini e le traduzioni e soprattutto i “Deep Mountains” vengono da Tai'an, Shandong province, a nord della Cina. Nella bella copertina ermetica si legge che la band è devota alla natura, alla poesia delle foreste, alla tradizione cinese e che l'immagine frontale è dell'artista cinese Haisu Liu (1896 – 1994), che è stato registrato tra il 2009 e il 2010 e porta il logo della Pest Production, la stessa dei Zuriaake. Dalle poche notizie che abbiamo sembra sia l'unico full lenght della band ed è un vero peccato perché una commistione di suoni così pieni d'atmosfera e visionaria poesia è veramente difficile da trovare oggi giorno. I Deep Mountains riescono a far convivere romanticismo, tristezza, rabbia e misticismo contemporaneamente senza mai sciogliere o far cadere l'equilibrio di cui si regge l'intero album. Il loro sound è molto legato al tradizionale black metal e sulle parti più veloci ricorda progetti particolari come Avsky, Centuries Of Deception o A Forest Of Stars, anche se con più straordinaria passionalità e armonia che ci porta ad apprezzare lunghe introduzioni e ponti con suoni e rumori d' ambiente dal buon sapore post rock, mescolate ad un retrogusto di musica tradizionale cinese e chitarre acustiche a volte molto bluesy e persino gitane, ben suonate e in alternanza ad aperture doom ed infine veloci scorribande black grigie e malate. L'album è un lavoro da ascoltare innumerevoli volte, molto difficile da apprezzare al primo impatto perché ricco di atmosfere differenti legate da un umore decadente e romantico che conferisce all'intero lavoro una veste da concept album che induce l'ascoltatore ad intraprendere un viaggio musicale. Cosa distingue i Deep Mountains dagli altri gruppi? L'attitudine alla costruzione dei brani in una forma più psichedelica e visionaria, una sorta di post rock suonato con i canoni del black metal più sanguigno e questa è una vera chicca perchè difficilmente si sentono suoni così differenti accostati insieme. Le parti più lente, suonate con una chitarra sensibilissima hanno l'aria devastante di una “One” dei Metallica suonata da William Ackermann in preda alla depressione e si alternano a partiture veloci epiche intersecate da violino e tastiere che rendono il tutto così magicamente “cinese”. e qui scopriamo che il gusto per la psichedelia è ben radicato nella band poiché l'uso di effetti d'ambiente, flanger e riverbero anche nelle cavalcate veloci, sono di casa. Immaginate un calderone dove tutto è calibrato e allo stesso tempo così selvaggio ed etereo che persino lo screaming più drammatico può portarti in un'atmosfera di sogno, uno stupendo malinconico sogno dagli occhi a mandorla. Piccola perla cinese! Da ascoltare! (Bob Stoner)

lunedì 18 marzo 2013

Kausalgia - Farewell (re-issue)

#PER CHI AMA: Melo Death, Throes of Dawn, Black Sun Aeon
Riprendo in mano il cd dei finlandesi Kausalgia, semplicemente perchè dall'estate scorsa a oggi, la band ha rilasciato il cd (tra l'altro in formato digipack) per l'etichetta cinese Pest Productions e visto che c'era, ha pensato bene di suddividere la title track in due song, di cui la conclusiva è ora "As the Curtain Falls". Lascerò pertanto immutata la recensione e quindi da Uusimaa ecco giungere tra le mie mani l’EP di debutto dell’atmosferico quintetto finnico, che ha da offrire cinque brillanti tracce di black death, spruzzato da venature darkeggianti. Si parte con “Reincarnated”, song che immediatamente richiama i conterranei Thy Serpent, quelli più melodici, occulti, oscuri e lenti, che possono etichettarsi come black, esclusivamente per le harsh vocals del suo frontman, Markus Heinonen, in quanto poi la musica dei nostri viaggia su binari alquanto tranquilli. “The Drug” però, ci desta dal torpore in cui eravamo sprofondati con la opening track, sprigionando tutta la sua energia attraverso una ritmica tirata, in cui in sottofondo si evidenziano intriganti (ma poco invadenti) tastiere, che indicano la strada da seguire alle chitarre, spesso assai ispirate, come a metà brano, dove si concedono il lusso di un’apertura acustica, seguita da un piacevole bridge. L’alone mistico e la vena malinconica che permea i testi dei nostri lapponi, si riscontra anche nelle gelide atmosfere di “Lupaus” per un esito finale a dir poco coinvolgente e pieno di spunti vincenti, per una band che, nata dalla ceneri degli Hypotermia, dimostra di avere talento e voglia di incantare gli amanti di sonorità invernali. Eccolo il fresco che arriva da nord: sta tutto nelle note di “Farewell”, un lavoro che gioca attorno a goduriosi mid-tempo che potranno indurre diversi paragoni, con i connazionali Black Sun Aeon o i Before the Dawn, ma che in realtà vanno a collocare i Kausalgia accanto alle suddette band, anzi a dischiuderne la strada verso una potenziale brillante carriera. La conclusiva e già menzionata "As the Curtain Falls" mette in mostra un roboante suono di basso (accompagnato da vivaci tastiere e chitarre) che sembra addirittura arrivare direttamente dall’immortale “Heaven and Hell” dei Black Sabbath. Meritevoli della vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto: 75

http://kausalgia.bandcamp.com/

sabato 16 febbraio 2013

Stroszek - A Break in the Day


#PER CHI AMA: Apocalyptic folk, Current 93, Mark Lanegan, Leonard Cohen
Stroszek era il protagonista dell’omonimo film di Werner Herzog (“La ballata di Stroszek” nella versione Italiana) del 1977, che narra, con un forte tono di denuncia, la parabola di un uomo "diverso" che la società a più riprese rifiuta, fino a determinarne l'annientamento. Pare, tra l’altro, che fosse tra i film preferiti da Ian Curtis, che lo guardò poche ore prima del suo suicidio. E proprio questo film, come si legge nelle note biografiche, ha dato il nome a questo progetto di Claudio Alcara, già chitarrista dei Frostmoon Eclipse, che personalmente non conosco ma che mi si dice essere uno dei nomi di punta del Black Metal della penisola. Dati i presupposti, le atmosfere e i temi trattati sono tutt’altro che solari, ma quella operata da Alcara, in termini di impatto, è una sterzata nettissima, quasi un testacoda, dato che si cimenta con sonorità quasi esclusivamente acustiche (pensate ai dischi solisti di Steve Von Till rispetto a quelli dei Neurosis, per esempio). Questo lavoro allinea le cinque tracce che componevano l’EP dallo stesso titolo registrato nel 2011, rimpolpando il programma con altre quattro composizioni che danno un quadro più fedele ed esaustivo della proposta attuale del gruppo, ma forse alterna in qualche modo l’omogeneità del disco. La prima metà del lavoro è caratterizzata dal connubio tra la chitarra acustica di Alcara e la voce femminile di Nat, qua e là punteggiate da qualche nota di pianoforte, come nel magistrale pezzo di apertura, “Autumnal Moon”. Siamo dalle parti di un folk, di impronta essenzialmente americana, fortemente evocativo, che ricorda per atmosfere, suoni e songwriting, i dischi di Mike Johnson o i primi lavori solisti di Mark Lanegan, al quale i vocalizzi di Nat apportano un’impronta molto personale. Nella seconda parte del disco iniziano a fare capolino percussioni e anche qualche distorsione chitarristica, come nella notevole “A Veil”. Gli ultimi due pezzi sono invece di nuovo scarni e un tantino lugubri, quasi apocalittici - alla maniera dei Current 93 - cantati dallo stesso Alcara, il cui timbro baritonale e sussurrato, nonché un po’ monocorde, ricorda un ipotetico ibrido tra Leonard Cohen e Peter Steele. Lavoro interessante, forse di transizione verso una maggiore messa a fuoco della direzione da intraprendere, ma che impone di segnarsi il nome degli Stroszek tra quelli da seguire nell’ambito del new folk. (Mauro Catena)

(Pest Production)
Voto: 70

http://www.stroszekmusic.com/

lunedì 28 gennaio 2013

Líam - Journey...Two Years and a Fragment

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze
Mea culpa, questo "Journey... Two Years and a Fragment" è rimasto troppo tempo nel lettore cd della mia auto e solo ora mi decido a scriverne la review. Se questo è successo, non è perché lo abbia voluto snobbare, ma perché mi piaceva intervallarlo ad altri cd e in questo modo me ne sono anche un po' innamorato. Almeno per qualche mese, come spesso accade nella vita... I Líam (side project dei ben più famosi Lantlos ) vengono dalla Germania, nazione non cosi rinomata per sfornare sonorità post rock-shoegaze rispetto ad altri paesi sparsi nel mondo, ma questa è un'altra prova del fatto che tutto fluisce come un fiume in tempesta, nevrotico e assetato di conoscenza. Forse è questo che ha spinto i Líam a raccogliere i due EP risalenti al 2007 e 2008, mai pubblicati e fonderli in un'unica fatica, ovvero gli otto brani di questo "Journey... Two Years and a Fragment". Tutto inizia con "Born", probabilmente ha qualche significato ancestrale per i Líam, sta di fatto che il pezzo propone chitarre distorte rese delicate da tonnellate di riverbero ed una struttura compositiva che varia sostanzialmente nei cinque minuti abbondanti di esecuzione. I diversi stacchi, intermezzi e cambi ritmici danno dinamicità al pezzo, mentre il settore chitarre, alterna arpeggi puliti ad assoli distorti, il tutto sempre con piglio andante e mai noioso. Anzi, le chitarre sono pure leggermente aggressive verso la fine del pezzo. La prima traccia finisce e si lega alla successiva "Wide" che ne diventa il naturale proseguo in termini di sound e di struttura compositiva. Il tutto sempre senza linee vocali, almeno fino a questo punto. Qualcosa cambia quando si arriva a "Debris", ma siamo già alla sesta traccia del cd, che inizia con un urlo che poi continua per gran parte del pezzo che però non dà nulla in più in termini musicali. Anzi, sembra solamente un lamento penoso messo li, giusto per riempire. I cori invece sono azzeccati e regalano una sfumatura eterea che intriga. Le chitarre sono già un po' più mature rispetto alle tracce precedenti, aggiungendo una nota riflessiva al pezzo e insieme alla ritmica più lenta, creano una song apprezzabile. A questo punto non so se le tracce dei due EP originari siano state mescolate oppure no, quando sono state fuse in "Journey... Two Years and a Fragment", quindi è difficile dire se i Líam provengono dal post rock-shoegaze oppure se stiano andando verso altri lidi. Fatto sta che "Etienne", traccia della durata superiore ai quattordici minuti, ingloba la dualità del gruppo tedesco: infatti dopo una prima parte in black metal style con tanto di cantato, arriva una sezione più rock che muore verso la fine del pezzo. A questo punto, quando ormai penso che il pezzo sia concluso (circa a quattro minuti dalla fine), mi aspettano uno strascico cacofonico di feedback e cavolate varie che finiscono in sospensione. A questo punto uno si aspetta che la traccia successiva si attacchi con cattiveria e invece no, o perlomeno, non proprio. "Particles" parte di slancio con un bel riff di chitarra, dopo qualche secondo di silenzio all' inizio, forse voluto oppure no; misteri del mastering e della post produzione. Comunque a parte questo, il pezzo è decisamente di ottima fattura, con cambi di ritmo al punto giusto, delay e riverbero qua e là e tanta potenza nei momenti giusti della canzone. Sicuramente si farà apprezzare dal vivo, sempre che i Líam siano attivi anche in questo senso. Voto leggermente abbassato per la mia ormai arida speranza di trovare un barlume di pazzia in questi gruppi che ci porti a qualcosa di nuovo, ma purtroppo è ancora presto. Troppo presto. (Michele Montanari)

(Pest Productions)
Voto: 70

http://www.lastfm.it/music/L%C3%ADam

domenica 7 ottobre 2012

Zuriaake & Yn Gizarm - Autumn of Sad Ode & Siming of Loulan

#PER CHI AMA: Black/Ambient, Burzum
Tornano ancora una volta sulle nostre pagine i cinesi Zuriaake, dopo aver esplorato approfonditamente gli altri loro due lavori, e cosi in una sorta di percorso a ritroso, vado a scoprire quello che fu l’album di debutto, uno split album in compagnia dei connazionali Yn Gizarm, per quasi un’ora di suggestivo grim black metal. Si tratta di otto tracce suddivise equamente tra le due band, in cui i nostri paladini Zuriaake hanno riservate le prime quattro, mentre la seconda metà è dedicata all’ascolto degli impronunciabili (Yn Gizarm), il cui nome si riferisce a quello di una contea nella regione di Xinjiang Uyghur. Ed eccoli infiammare i nostri oscuri animi con “Dying in Autumn”, tipico esempio di black mid-tempo, con screaming vocals, e flebili keys burzumiane di sottofondo, nulla di che ma piacevole in una fredda notte tempestosa. La pioggia continua a battere anche nella successiva “Autumn Memories” e quei synth posti in apertura o i latrati del vocalist, non possono che ricordare “Hvis Lyset Tar Oss”, mitico terzo capitolo del Conte, cosi come pure il mantello misterioso che avvolge l’intero brano non fa che evocare le produzioni maledette del buon vecchio Burzum. “Sad Ode” è la terza traccia dell’album, dove fa la sua apparizione una voca pulita, quasi un ululato di un solitario lupo nella foresta. Il feeling che si respira è decisamente notturno, complice anche una velocità decisamente spinta a rallentatore e a delle atmosfere, il mare e il verso dei gabbiani, i tamburi, in grado di conferire al tutto anche una certa aura di sacralità. Non so come spiegarvi ma basta chiudere gli occhi durante i passaggi ambient di questa song, che velocemente si viene condotti al cospetto degli imperatori cinesi, con tanto di gong nel bel mezzo del brano, per concludere poi con un’esplosione di furia impetuosa. Peccato solo per l’uso scadente della drum machine. Ancora atmosfere eteree chiudono la performance dei nostri, che cedono il testimone ai compagni d’avventura, che esordiscono con “The Ruins of Loulan” e si presentano come altra realtà, dalla scarsa perizia tecnica, ma dalla grande capacità di intrattenere i propri ascoltatori con trovate di ovvia derivazione dalla tradizione musicale orientale. Sicuramente gli Yn Gizarm prediligono la componente più blackish; anche qui scandaloso l’uso della drum machine, tuttavia la proposta, mostrandosi un po’ più feroce dei suoi predecessori, trova comunque modo per farsi notare, grazie all’utilizzo di parti di chitarra classica sul ritmico rifferama zanzaroso o per l’utilizzo di partiture folk. Decisamente più brutale la successiva “Ghosts in Ambush” e ancor più fastidioso ed evidente l’utilizzo della batteria sintetica; fortunatamente a stemperare il ritmo disumano, ci pensa un melodico break centrale con delle epiche vocals. Finalmente una song più tranquilla la terza “Burying in the River of Peacock” che fa da preludio alla splendida conclusione affidata a”Migration” che vede chiudere uno split cd, in cui gli Zuriaake si mostrano leggermente superiori ai propri compagni, ma lasciando comunque intravedere ampi margini di miglioramento per entrambi gli ensemble. Misteriosi. (Francesco Scarci)

(Pest Production)
Voto: 70

sabato 1 settembre 2012

Heretoir - Existenz

#PER CHI AMA: Black Shoegaze
A dimostrazione che lo shoegaze non è un movimento esclusivamente francese e che il depressive non è tipico dei paesi scandinavi, arrivano i tedeschi Heretoir che prendono due piccioni con una fava, proponendo un sound a metà strada tra i due generi sopra elencati. “Existenz” è l’album di debutto dei teutonici, che hanno poi visto rilasciare un album omonimo in coda a questo. Le cinque lunghe tracce di “Existenz” si aprono con la strumentale “Erwachen im Dunkel”, sei minuti abbondanti di riffs glaciali intrisi da un feeling malinconico di scuola “burzumiana”, che creano decisamente le basi per potersi lasciar investire da questo freddo vento proveniente da nord. “Ein Schrey in Die Nacht” apre invece come un pezzo punk con delle terrificanti screaming vocals ad accompagnare l’iper veloce ritmica, che trova, fortunatamente, un po’ di pace in qualche break centrale, in cui è solo un glaciale riff di chitarra a dominare, prima che tiepide tastiere di matrice shoegaze facciano la propria comparsa a stemperare tutta l’irruenza di quest’opera prima. Peccato solo per la vetriolica voce, che fatico enormemente a tollerare, perché priva di espressione. Un breve intermezzo acustico, “Verblasst”, mi prepara psicologicamente all’avvento di “Ausgeburt”, che vede in primo piano l’utilizzo dei piatti, prima che vocals spettrali aleggino sulla deprimente base chitarristica, che non può che spingere a disperati e inconsulti gesti che pongano fine alla nostra sconclusionata esistenza. Non è decisamente musica per grandi masse quella degli Heretoir, il rischio di farsi del male con pensieri autolesionisti, è estremamente elevato, soprattutto dopo aver ascoltato anche la conclusiva e quanto mai desolante traccia conclusiva, “Weltenwandler”, che nei suoi quasi dodici minuti, ci regala anche quattro minuti di silenzio, forse per contemplare il nulla o per decidere che fare di noi e della nostra vita, dopo aver ascoltato questa release. Fortunatamente le soavi note di pianoforte della ghost track mi restituiscono un briciolo di serenità e ottimismo per il futuro, poca roba però, perché il secondo lavoro degli Heretoir mi sta già aspettando… (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto: 65
 

mercoledì 1 agosto 2012

So Hideous My Love - To Clasp a Fallen Wish with Broken Fingers

#PER CHI AMA: Post Hardcore, Shoegaze, Deafheaven
La Pest Productions ha allungato i suoi lunghi tentacoli fino a New York, inglobando tra le proprie fila, ma sotto la gentile concessione della Play the Assassin, questi So Hideous My Love, che faccio un po’ fatica a classificare. Non che sia d’obbligo la classificazione di un genere, ma sicuramente aiuta, per meglio intuire da poche righe, cosa aspettarsi da una band. Ebbene, partendo dall’iniziale “Handprints on Glass”, mi sembra di avere a che fare con una band dal piglio decisamente hardcore, almeno in ambito vocale (con il tipico screaming selvaggio), mentre musicalmente mi sembra che il sound risenta della ferocia urbana del genere di cui sopra, mischiato a malinconiche e sofferenti sonorità shoegaze e infine forti accenni addirittura alla musica classica, come si intuisce nella sua aria “Prelude in G# Minor”, corredata da una sezione di archi da paura. Certo, quando i nostri, tornano a pigiare sul pedale, scompare del tutto la soave musicalità dei suoni classici, lasciando posto alla robusta irruenza dell’HC, quello più composto e melodico però o se preferite, metteteci pure un “post” davanti, che risolviamo la cosa. Quando attacca la title track, rimango estasiato dalle sue avvincenti linee di chitarra acustica e violini, prima di partire con un attacco che sa quasi più di cascadian black metal, piuttosto che di post hardcore, fenomenale. Mi ritrovo a dimenare la testa come un invasato, di fronte a cotanta bellezza; peccato solo che il disco si chiuda qui e mi lasci con l’acquolina in bocca in attesa di ascoltare un vero e proprio full lenght del trio. A dire il vero c’è una timida traccia fantasma che chiude questo EP, anzi addirittura tre, registrate con una qualità decisamente inferiore, ma che comunque lasciano intravedere, in chiave futura, le enormi e seducenti potenzialità della band newyorkese, che finisce coll’aggiungere un altro ingrediente, alla propria ricetta segreta, il post rock. Esaltanti! (Francesco Scarci)

(Pest Productions/Play the Assassin)
Voto: 80