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domenica 12 agosto 2018

Fotocrime - Principle Of Pain

#PER CHI AMA: Dark/Post Punk
Gli anni '80 in tutto il loro oscuro splendore rifulgono potenti in 'Principle of Pain', album d'esordio degli americani Fotocrime. I Joy Division sono uno dei riferimenti che mi salta più alla mente, dato dalle sonorità delle chitarre quasi strozzate, mai troppo aperte e che illuminano il sentiero come una moltitudine di fiaccole su un viale notturno in pieno inverno. Anche la batteria cadenzata e regolare, riporta alla mente gruppi seminali come i The Cure e i Depeche Mode, il rullante pare un colpo di revolver e le ritmiche sono coinvolgenti e fanno venir voglia di tenere il tempo con il piede. La voce di R. infine agglomera tutto e tiene insieme le canzoni con versi decadenti, timbriche scure e toni bassi in stile vagamente Trent Reznor. La sensazione generale è di equilibrio e di pace, ma non una pace angelica e splendente, più una pace che deriva dall’accettazione di sé, dall’accettazione che il male esiste e che è parte della vita, e che il male può essere bellissimo. Uno dei pezzi che mi ha più colpito è "Confusing World", una traccia in pieno stile post punk, ove la melodia è triste seppure il ritmo del pezzo sia incalzante, fino ad arrivare ad un ritornello orecchiabile in stile Killing Joke. Notevole anche "Gods in the Dark" con la collaborazione di una voce femminile assolutamente azzeccata per il genere e per la canzone, che per l’occasione sfoggia una lauta sezione di sequencer degna dei migliori Kraftwerk. Le rose, i serpenti e i pugnali si impongono nell’immaginario dell’ascoltatore, in un ambiente gotico, notturno quasi vampiresco, dove sembra di stare in un castello medioevale ad un ricco banchetto di carne al sangue, frutta e vino rosso versato in grandi coppe dorate. Gli astanti ridono sguaiatamente e s'intrattengono in orge ed ebrezza, i demoni alati danzano liberi assieme agli spettri, ad illuminare la stanza solo le fioche candele e la luce della luna filtrata delle lunghe tende di seta che pigre si muovono con il vento. Un ambiente da favola, un’atmosfera che fa venire una grande nostalgia di quello splendido periodo di musica che erano gli eighties, del chorus sulle chitarre, degli eyeliner e dei vestiti in pelle con milioni di fibbie. (Matteo Baldi)

giovedì 24 maggio 2018

PinioL - Bran Coucou

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Mathcore/Noise
Era un po’ di tempo che non mi capitava di ascoltare della musica così pazzoide ma allo stesso tempo ben congeniata e stranamente sensata nella sua totale mancanza di raziocinio. Si tratta dei PinioL, formazione transalpina di sette elementi alla prima prova in studio intitolata 'Bran Coucou', un titolo di cui non ho idea del significato (google suggerisce "crusca di cuculo" - NdR). Mi fa sorridere e allo stesso tempo divertire questo disco, volutamente ironico nella sua ripresa del progressive più efferato direttamente dai primi anni settanta. Ricordo solo un’altra band così splendidamente matta ossia i Magma, storica formazione progressive francese che addirittura creò una propria lingua – il kobaiano – cosa che non mi stupirebbe neppure per i PinioL; non ho infatti distinto una singola parola sensata in tutta la lunghezza di questo 'Bran Coucou', solo molti suoni onomatopeici al limite di sillabe casuali, quasi bambinesche. Tra stacchi alla King Crimson e lunghe suite strumentali alla Jethro Tull, i PinioL rievocano la vera anima del progressive e anche se non ci sono grosse aggiunte o modifiche al genere originale, fa piacere sentire una band che ha così ben capito e interiorizzato gli insegnamenti dei seventies per trasporli in chiave moderna. Ad un ascolto per intero del disco, è quasi impossibile distinguere tra loro le canzoni, tanto sono complicate e concatenate una all’altra, il viaggio è una parabola dalle dinamiche oscillanti a metà tra un trip di LSD ed una sbronza pesante di whiskey. Si distingue tuttavia la grande capacità compositiva della band, oltre che le indubbie qualità tecniche dei musicisti. Se volete avere un’idea di cosa voglia dire pazzia musicale, ascoltatevi 'Bran Coucou', al termine avrete innanzitutto una grande stima di voi stessi per essere arrivati in fondo ad un’opera così titanica, poi avrete anche un'idea di cosa accada nella mente di un ricoverato di un ospedale psichiatrico, in modo che se dovesse accadere anche a voi, saprete già di cosa si tratta. (Matteo Baldi)

martedì 22 maggio 2018

The Body - I Have Fought Against It But I Can’t Any Longer

#PER CHI AMA: Experimental/Electro Noise
The Body è un progetto che ci ha abituato ad alte vette di sperimentazione quanto a profonde esplorazioni di ansie, paure e disperazione. Con grande delizia per le nostre orecchie e goduria per il nostro cervello, gli ultimi due lavori 'No One Deserve Happiness' e 'A Home on Earth' hanno alzato l’asticella del significato del termine “musica estrema”, nel primo attraverso contaminazioni melodiche ed eteree, e nel secondo con fiumi di distorsioni e disagio infinito. Con 'I Have Fought Against It But I Can’t Any Longer', i The Body prendono un’altra direzione ancora, quella dell’esoterismo e dell’ancestralità, senza mai perdere di vista l’oscurità, l’orrore e il delirio. Ritroviamo la collaborazione di Chrissy Wolpert che per questa prova, inserisce oltre ai già sperimentati interventi di belcanto, anche parti di voce sporca e arrangiamenti di pianoforte che permettono di aprire lo spettro sonoro della band in maniera estremamente efficace. Il disco inizia con quelli che sembrano lontani echi di liuto provenienti dal fondo di antiche caverne d’epoca romana, il tutto decorato dalla magnifica voce di Chrissy e da un’atmosfera spettrale e quasi religiosa. L’ambiente tuttavia dura giusto due brani, al terzo già si ripiomba nell’oblio più recondito. La voce di Chip è sempre più rapace, così acuta e penetrante da essere scambiata per un suono estraneo, in un primo momento pensavo si trattasse del suono di due lastre di acciaio che si infliggono profondi solchi irregolari sfregando tra loro. La voce femminile mitiga l’abrasività delle parti vocali di Chip conferendo un equilibrio non comune per un disco di così ampio respiro sperimentale. Contribuiscono poi al bilanciamento sonoro l’ultilizzo di drum machine – come in "The West has Failed" – , di pianoforti – come nel pezzo di chiusura del disco "Ten Times a Day, Every Day, a Stranger" – e arrangiamenti orchestrali dal sapore arcaico e dimenticato. A tal proposito mi colpisce il brano "Nothing Stirs", pelle d’oca pura e brividi dietro la schiena quando la voce di Chrissy si sporca sopra un tappeto di archi disintegrati e orrorifici che catapultano la mia immaginazione al cospetto di un antico cimitero in una notte di vento freddo, nel mezzo di una steppa desolata e arida. Si percepisce il dolore, la sofferenza e la profonda inadeguatezza che i componenti della band sentono verso il mondo dei “normali”, iconica sensazione che riassume perfettamente l’intenzione generale infusa nel disco. A ben guardare è proprio quello che noi ascoltatori di musica estrema proviamo tutti i giorni ed è proprio ciò che i The Body riescono ad esorcizzare in maniera così efficace e impenitente; con prepotenza si afferma la propria non appartenenza al pensiero conforme, si esalta la propria unica e irripetibile personalità che fieramente vola come una maestosa aquila reale sulle coscienze imputridite di tutte queste anime soggiogate dalla massificazione e assuefatte dalle false promesse che la società ogni giorno si auto-propina. Consiglio l’ascolto di "Stickly Heart of Sand" – secondo me a mani basse il miglior brano del disco – in qualsiasi momento ci si dovesse sentire scoraggiati, fuori luogo e incatenati a qualcosa. La musica dei The Body racchiude in sé un incantesimo così potente da essere in grado di ripulire il petrolio che impregna lo spirito vessato dalla vuotezza della quotidianità e dal dolore dell’esistenza. 'I Have Fought Against It But I Can’t Any Longer' per me è già uno dei migliori dischi del 2018, un ascolto imprescindibile per tutti gli appassionati di musica heavy. (Matteo Baldi)

lunedì 21 maggio 2018

Magnitudo - Men Against Fire

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal, Conan
Dopo un paio d’anni dal primo 'Si Vis Pacem', il trio sludge doom bergamasco dei Magnitudo, torna alla carica con il nuovo 'Men Against Fire', un disco che si potrebbe descrivere come il figlio bastardo nato dopo una violenta copulazione e una dolorosa gravidanza da una relazione clandestina tra i Conan e gli Alcest. Tutto sembra mirato a stuprare timpani e scrostare intonaci, le voci sono ruggenti e cavernose, le chitarre abrasive e velenose e la sezione ritmica è un rullo compressore che avanza inesorabile come un carroarmato di acciaio inossidabile. L’evoluzione rispetto al primo disco è chiara, se la violenza è rimasta immutata nell’intensità, seppur arricchita da elementi progressive e in generale da parti meno ruvide e più ponderate, l’oniricità ha subìto invece un forte incremento. Nei pezzi sono disseminati rilassanti quanto meditativi momenti di eterei arpeggi e ritmiche lasche, funzionali a lasciare un po’ di respiro prima di rituffarsi a capofitto nell’inferno infuocato di riff rugginosi e onde quadre a cui i Magnitudo ci hanno abituati fin dal loro esordio. Non solo di violenza vive però questo 'Men Against Fire', c’è infatti un’importante componente culturale e di concetto che ci invita a riflettere e ad usare quello sconosciuto organo chiamato cervello. Mi riferisco in particolare alla citazione Orwelliana – ripresa nel titolo di uno dei migliori pezzi del disco – “Immagina uno stivale che schiaccia un volto umano per sempre”, potentissima incarnazione dell’idea secondo cui l’umanità è destinata a soccombere sotto il peso della propria ebrezza di potere in un mondo in cui l’individuo, vessato da doveri e svuotato di ogni propria personalità, esiste solo in funzione della collettività. Immagino legioni infinite di soldatini identici, con espressioni neutre e gli occhi bassi camminano in frotta verso le rispettive occupazioni, timbrano il cartellino, stanno alle loro postazioni, ripetono le medesime mortifere abitudini che lentamente consumano carni, pensieri e individualità. Solo quando gli stracci che portano addosso sono zuppi di sudore e incrostati di polvere, e quando ogni sinapsi è stata forzatamente scollegata e riprogrammata, gli è permesso di tornare alle proprie baracche fatte di niente, fatiscenti e standardizzate, in attesa solo di tornare al proprio lavoro. 'Men Against Fire' è quella voce interiore che spinge ad aprire gli occhi, a vedere e sentire che non ci sono solo ordini esterni ma anche una strada tracciata nell’anima che deve essere a tutti i costi percorsa a pena di unirsi all’infinito gregge di scimmie che altro non sanno fare se non acconsentire e sottostare. È forse questo il fuoco con cui l’uomo si deve scontrare, quello stesso fuoco che potrebbe spronare la mandria indefinita di soldatini a ribellarsi e riversarsi come furie nei propri posti di fatica per distruggerli e incendiare qualsiasi cosa possa ricordare la sensazione di soggiogamento che guidava le loro vite. Potrebbero usare il fuoco per ribaltare il potere trucidando nel sangue i propri ricchi governanti e radere al suolo la società marcia e impune per ripartire finalmente da zero a costruire un nuovo mondo. (Matteo Baldi)

(Sepulchral Silence Records - 2018)
Voto: 75

https://magnitudo.bandcamp.com/album/men-against-fire

martedì 15 maggio 2018

Indicative - III _ awake | existence | decline

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Post Rock strumentale
Si muovono tra gli Shellac, i My Sleeping Karma e i Tool questi Indicative, formazione palermitana post math rock, attiva dal 2010. Arriva a noi il disco 'III _ awake | existence | decline' grazie alla Qanat Records, realtà che si occupa di scovare e conservare le perle musicali dell’underground palermitano e alla Pistacho, label indipendente anch’essa attiva sul territorio palermitano. Quest'ultima prova in studio ha le sembianze di un flusso di coscienza ruvido e intenso, pochi spiragli di luce filtrano da un cielo di nuvole bianche che ondeggiano sornione spinte dalle correnti d’aria. È come un collage di paesaggi sonici, accostati per forma, colore e sensazione e intervallati da sporadici interventi di sample vocali e registrazioni di parlato. Gli ambienti più dilatati possono sembrare quasi free jazz come nella ben riuscita "We Get What We Deserve", mentre le parti più intense possono arrivare a cavalcate stile crossover a ricordare i Deftons e gli Incubus come in "Human Consciousness". Anche se il progetto è strumentale, una menzione merita l’utilizzo delle voci a supporto delle canzoni: principalmente si tratta di suoni eremitici di stampo mistico, oppure delle sbraitate piene di dolore a disturbare l’armonia delle epiche composizioni degli Indicative che ne guadagnano in varietà sonora ed espressività. Le chitarre sono aggressive e taglienti e il ruolo del basso è quasi a sostituzione della voce solista mancante; le ritmiche invece sono forse le più variegate a livello creativo, non si risparmiano tempi dispari, sincopi e doppio pedale. Il pezzo più interessante per quanto mi riguarda è "Dissolution" che vede l’utilizzo di ritmiche elettroniche, oltre alle suddette voci e al metodo compositivo a “landscape”, caratteristico della band. Siamo di fronte ad una realtà valida e collaudata, formata da elementi caparbi e prolifici, convincono le skill tecniche e compositive della band seppur creda che gioverebbe una contaminazione più pensante con altri tipi di strumenti, magari che non ricadano nei canoni del post rock, come in parte già fatto nel disco, per arricchire i già variegati soundscapes e renderli ancor più unici. In conclusione, gli Indicative sono una band italiana che può distinguersi e far parlare di sé, vi consiglierei di tenere gli occhi aperti nel caso doveste vedere locandine che riportano il loro nome; vivamente consigliati agli amanti del post rock e progressive atmosferico. (Matteo Baldi)

venerdì 27 aprile 2018

Le Zoccole Misteriose - Il Treno

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore
“Dandovi maggiori informazioni verrebbe meno il concetto di misterioso” chiude così il comunicato stampa che arriva insieme a 'Il Treno', nuovo EP de Le Zoccole Misteriose. Potrebbe sembrare un nome idiota ed in effetti lo è, ma questo progetto di idiota ha solamente il nome. Dopo varie esperienze, tra cui anche la composizione di un interessante stoner demenziale, arriviamo a questa ultima prova che potremo definire un disco hardcore italiano viscerale che ha come motore principale lo sfogo e l’urgenza espressiva. Pezzi mai sopra i tre minuti, testi che non superano le due righe, chitarre abrasive, velocità sostenute e voci roche e sguaiate, sono gli ingredienti principali del Treno che ti investe come un convoglio impazzito senza troppi complimenti. Si inizia con "Nascosto" che sa di alcol e serate finite tardi tra forti difficoltà motorie, il bruciore di stomaco e la puzza stantia di sigaretta che copre la stanza. Sono i disagi di una generazione che non ha più voglia di combattere ma solamente di esprimere il proprio schifo e la voglia di vomitare quattro frasi che possano in qualche modo dar fastidio a qualcuno. "Lontano dalla Mia Strada" è il mio pezzo preferito di questo breve viaggio, ove un arpeggio claudicante sostenuto da un imponente basso sorreggono versi cinici e ostinati, spezzati da un ritornello impregnato di punk, “io ti auguro miglior fortuna ma lontano dalla mia strada”, uno struggente saluto probabilmente all’ennesima zoccola che si allontana lasciando dietro di sé macerie e braci ardenti. Si prosegue con "Niente di Speciale" che porta una poetica di negazione del sé: “non sono nessuno, solo qualcuno da odiare” sbraita Raffaele, il pensiero che ci possa essere qualcuno che esista solo in funzione dell’odio che viene provato verso di lui mi disturba e mi fa pensare che l’odio a volte vince e a volte è la forza principale che muove le cose. Si chiude con la title track che si azzarda a superare i tre minuti tutti rigorosamente sparati ai mille all’ora, notevole il break finale al grido di “loro stavano solo cercando”. A volte non serve essere prolissi e sofisticati, a volte serve la semplicità di una chitarra che squarcia i coni e di una batteria che ti picchia in testa per ricordarti che se vuoi dire qualcosa, è meglio dirla subito ed è meglio dirla a tutti perché siamo in viaggio su un treno e non abbiamo la minima idea di quando scenderemo. (Matteo Baldi)

lunedì 9 aprile 2018

Slow Nerve - S/t

#PER CHI AMA: Alternative Rock
La Karma Cospirancy Records è una realtà giovane ma molto attiva, sgomita per farsi strada nella scena e lo fa con proposte originali e ricercate come gli Slow Nerve, una formazione beneventina snella ed essenziale, che propone un mix di showgaze, rock e alcuni sprazzi di free jazz tra ritmiche incalzanti e incastrate, ardite linee vocali sintetizzatori e chitarre a tratti aggressive a tratti decisamente atmosferiche. Il risultato è qualcosa di onirico, una musica da dormiveglia dove il sogno ha appena iniziato a generare le sue assurde immagini, o quel momento in cui appena svegli ci si ricorda di tutte le cose della propria vita, ancora non totalmente consapevoli di cosa sia veramente reale. Il debutto degli Slow Nerve apre con "Liquid Glass" dove la voce di Flaminia si libera come il volo di un gabbiano su un tappeto dalla ritmica sbilenca e sugli accordi di synth che come nuvole su un cielo uggioso d’inverno, coprono lo spettro sonoro, generando lunghe scie bianche. L’attitudine è aulica e leggera, pur sempre mantenendo una certa classe nella scelte armoniche e di arrangiamento, le band che mi vengono in mente sono i Blonde Readhead e i Flaming Lips, a tratti anche i Muse. Gli Slow Nerve riescono comunque a distinguersi con una propria originale interpretazione del genere, qualcosa che in Italia non si vede spesso e che lascia ben sperare per il nostro underground. Si passa poi ad "Asia" uno dei pezzi più significativi del disco, forse quello che maggiormente esprime la carica onirica della band che ipnotizza con suoni intensamente eterei, sostenuti da una batteria che insiste nell’inciampare e continuamente rialzarsi creando un effetto allo stesso tempo statico ma lanciato in una corsa forsennata sospesa a mezz’aria e senza meta, come quando si sogna di volare o quella sensazione di cadere all’infinito, per poi accorgersi di essere stesi immobili sul letto. Il mio pezzo preferito però è senza dubbio "Libellula", potrei ascoltarla per ore, oltre a racchiudere tutte le caratteristiche del sound degli Slow Nerve, è anche l'unico pezzo dove vediamo utilizzato l’italiano: “perché il raziocinio è soltanto raziocinio e soddisfa soltanto la capacità raziocinativa dell’uomo” il messaggio espresso non mi è estraneo anzi lo sento comune a molti, è un’arringa accorata sulla cecità in cui quotidianamente viviamo, intrattenuti dalle nostre piccole contingenze ci dimentichiamo sempre di non essere solo oggetti da profitto, cavie da laboratorio del mondo dell’agire gerarchico e organizzato. “La natura agisce tutta insieme” dice Falminia, la natura non si cura delle nostre credenze, dei nostri stereotipi e costrutti mentali, la natura distrugge e crea, culla e punisce, la natura pervade ogni cosa dell’esistenza e noi non ne siamo parte, noi siamo la natura in prima persona. Una menzione infine, va fatta anche a "Dive Splendida" chiusura in stile Explosions in the Sky in vena di suonare riff alla At the Drive In, ove il basso si rende protagonista e trasporta la musica verso uno scenario psichedelico e svuotato, un limbo sonoro dove il sogno ha lo spazio necessario per allargarsi fino al suo limite massimo solo per poi risolversi simmetricamente nel violento turbinio metrico inziale. Slow Nerve è un progetto in divenire che sicuramente ha molto ancora da dire, attendo impaziente il prossimo lavoro sperando che i ragazzi non escludano un utilizzo più esteso dell’italiano che personalmente mi ha davvero colpito e che renderebbe il progetto ancor più unico. (Matteo Baldi)

(Karma Conspiracy Records - 2017)
Voto: 75

https://slownerve.bandcamp.com/releases

martedì 27 marzo 2018

The Conformation Change - Far From Home

#PER CHI AMA: Alternative/Post Rock
I The Conformation Change (TCC) sono una band nata in una piccola località sul lago di Garda, un lampante esempio di come vivere in un paese non ha alcun effetto su una mente libera che ha voglia di scoprire e di osare artisticamente. Tristemente il progetto è finito appena prima di rilasciare 'Far From Home', un disco che sarebbe stato davvero molto interessante vedere diffusamente suonato live. Le influenze della band spaziano dai generi più estremi a quelli più introspettivi, a me vengono in mente i Massive Attack per la preponderanza di tappeti di bassi e sintetizzatori, ma anche i Cult of Luna nelle parti meno aggressive o i My Sleeping Karma per la misticità e la spazialità che i TCC riescono a raggiungere. Il disco si apre con "5:33", pochi sordi tonfi di cassa intermittenti per introdurre un ambiente dilatato e labirintico, in stile trip hop bristoliano. La musica descrive nella mente uno scenario impossibile come quello che suggerisce la copertina: le balene volano sopra i grattacieli come gigantesci dirigibili viventi che viaggiano lentamente tra le nuvole, sotto gli occhi per niente stupiti dei passanti. È tutto normale a quanto pare, ed è normale che non sia normale. Il disco presenta una varietà di stili e di concetti di canzone decisamente eclettica, tra tutte "Deeper" è forse il mio pezzo preferito. La profonda linea di basso la fa da padrona per buona parte del brano, abbellita da chitarre spaziali e riverberate che descrivono a grandi cerchi concentrici, un ambiente dalle caratteristiche familiari ma con qualche particolare che lascia spaesati, come a voler dire che non è tutto immediatamente evidente ma che è necessario osservare più intensamente per cogliere l’unicità di ogni cosa. Si continua con l’incredibile viaggio allucinogeno di "The Edge", il brano forse più complesso del disco con il più vasto spettro emozionale, ove si passa dal languido scrosciare di arpeggi al duro imporsi di riff sludge, fino a parti senza ritmica imbevute di strani suoni elettronici che fungono da perfetto collante alla moltitudine di strumenti in gioco. La canzone risulta spesso sospesa il che crea un effetto ipnotico, ma in realtà è proprio il modo in cui i TCC riescono a trasmettere queste parti ferme che rende interessante la composizione, una su tutte il cambio di intenzione a circa 4 minuti dove, dopo una pausa ritmica, entra il synth e il riff di chitarra, un esempio di come la band sia in grado di dosare le proporzioni tra gli ambienti e i cambi tra di essi. Nel pezzo di commiato “Backward”, il synth ancora una volta ha un ruolo fondamentale: la stesura di tappeti sonici sulla malinconica e ciclica ritmica di batteria fanno da sfondo a un intreccio di chitarre decadenti e sconsolate, una giusta chiusura all’intricato percorso di 'Far From Home'. I TCC sono riusciti a concentrare in una quarantina di minuti una notevole moltitudine di stili, tenendo sempre una linea propria e una buona dose di originalità. 'Far From Home' è alla fine come un quadro dipinto e ridipinto un milione di volte, gli innumerevoli strati si sovrappongono l’un l’altro in un'infinita danza di colori tutti tra loro complementari, nessuno potrebbe esistere senza gli altri e tutti insieme creano una profonda sensazione di pace e di equilibrio, sensazione che permea la musica dei TCC in ogni momento. (Matteo Baldi)

lunedì 26 febbraio 2018

Zenden San - Daily Garbage

#PER CHI AMA: Funk/Noise/Math
'Daily Garbage', spazzatura quotidiana, un nome alquanto azzeccato per un disco come quello degli Zenden San edito per la Karma Conspiracy. Dico azzeccato perché si sente chiaramente che la musica è stata scritta per sfogo, per cercare di espiare la noia, l’assillo e il voltastomaco che la vita di ogni giorno sfacciatamente ci lancia addosso. Gli Zenden San sono come dei samurai del mondo antico e combattono a colpi di ritmiche sempre più strane e ricercate contro l’omologazione e l’appiattimento. Difficile infatti ricondurre le influenze del power duo ad un solo genere, ci sento noise, funk, new wave, math ma sempre resi con impeccabile attitudine al groove e alle metriche improbabili. Mi vengono in mente a volte i Melvins per alcune soluzioni ritmiche, a volte gli Incubus o i Rage Against the Machine per la timbrica e la complessità delle linee di basso, altre volte ancora la sezione ritmica di James Brown strafatta di metanfetamine. L’ascolto tuttavia non è semplice, 'Daily Garbage' è un disco che può apprezzare di più chi di musica ne ascolta molta ed è stufo di sentire le solite soluzioni e i soliti arrangiamenti. Ponendosi nei panni di un neofita del genere invece, la sensazione sarebbe sicuramente di sgomento e smarrimento, che in ogni caso, se si è coraggiosi abbastanza, non è male ogni tanto provare. Il disco inizia con "Bang!", nome alquanto appropriato per un pezzo che colpisce come un mitragliatore e lascia l’ascoltatore mezzo stordito dalle continue pause e cambi di ritmica. Il metodo di composizione degli Zenden San è implacabile, vicinissimo all’hardcore per la concentrazione di parti in un minutaggio veramente esiguo, il che rende il peso specifico delle canzoni così alto da superare quello dell’uranio. Uno dei miei pezzi preferiti è "Industrial Zone", una cavalcata impossibile che attraversa nel suo inarrestabile incedere mille e uno ambienti, tutti radioattivi, malati e altamente tossici. La sensazione alla fine del pezzo è quella di essere passati in lavatrice e, come i panni sporchi, esserne usciti sbattuti ma puliti. In fondo, questa sensazione si può applicare all’intero disco, si tratta un’opera di purificazione attraverso l’esplorazione dei più malati territori del ritmo e l’espiazione della totale insensatezza e monotonia della quotidianità. (Matteo Baldi)

(Karma Conspiracy Records - 2017)
Voto: 75

https://zendensan.bandcamp.com/releases

lunedì 8 gennaio 2018

From Oceans To Autumn - Ether/Return To Earth

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale, Russian Circle, Isis, Explosions in the Sky
Il post metal è un genere che non può essere delimitato in maniera definita proprio perché le strutture e i suoni propri del metal sono presi e mescolati come colori su una tavolozza atti a creare un dipinto totalmente nuovo. I From Ocean to Autumn (FOTA) hanno preso alla lettera questa caratteristica e il risultato è un disco fortemente atmosferico, carico di emotività e variegato nella composizione. Si parla in realtà di un doppio cd, per un totale di dodici brani e un milione di scenari diversi. Rieccheggiano nelle tracce le influenze di band come Earth, Explosions in the Sky, Russian Circle e personalmente mi è parso di scorgere alcuni elementi del capolavoro 'Panopticon' degli ISIS. Siamo davanti ad un lavoro totalmente strumentale che però non risulta mancare di nessuna componente musicale, i brani sono sostenuti e decisi e a volte sembra addirittura di sentirla una voce, lontana e lamentosa come se arrivasse da dietro le nuvole. Il disco si chiama 'Ether/Return to Earth' ma più che un ritorno sembra proprio una partenza, il lancio di una navicella spaziale diretta verso il pianeta abitabile più vicino alla Terra. Dalla navicella si vede la galassia che è infinita e spettacolare, le stelle sono così da far perdere il senso di sé che dolcemente si prende una pausa e si siede ad ammirare la magnificenza del cosmo. L’orchestralità è forse il maggiore punto di forza del disco, ove si susseguono, negli oltre 100 minuti di musica, un turbinio di ambienti e incastri strumentali come a voler replicare tutte le combinazioni possibili del dialogo tra i vari strumenti. L’esperienza d’ascolto è qualcosa che estranea ed eleva, non c’è niente da capire ne da risolvere, le emozioni sono trasmesse in modo diretto ed immediato, tutto ciò che è richiesto all’ascoltatore è la pazienza di osservare l’evolversi della musica. È come assistere alla formazione di una stella all’interno di una nebulosa, con la materia che si addensa lentamente e gli atomi collidono su se stessi generando energia e calore. Una menzione particolare va a “Medium”, brano diviso in due parti: i primi tre minuti sono densi di suoni sospesi a mezz’aria senza ritmica che però entra incalzante nella seconda parte accompagnata dal crepitare di valvole e dall’ululato dei feedback in un climax sonico terapeutico e rilassante. La song riassume le migliori caratteristiche della musica degli FOTA apprezzabili anche per esteso negli epici brani "Quintessence/Core" e "Stratus/Vapor" che insieme superano la mezz’ora di ascolto. 'Ether/Return to Earth' nella sua grazia eterea rifulge di luce propria e può illuminare la mente vessata dal grigiore della realtà quotidiana in un lavoro completo, chiaro nella sua identità e incredibilmente ricco di atmosfere. Consigliato a tutti gli appassionati di musica sperimentale. (Matteo Baldi)

venerdì 22 dicembre 2017

NØEN - Caraibi

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Post Grunge, Nirvana
I NØEN vengono da una terra unica al mondo per la sua amena ed essenziale bellezza, dove dominano il paesaggio vigne a perdita d’occhio ed il sangue di antiche battaglie impregna ancora il terreno. È questa l’atmosfera che ha ispirato 'Caraibi', un disco d’esordio pieno di malinconia e rabbia, una prova che il rock può ancora regalare emozioni e fare bene all’anima. Sembra proprio sia questo ciò che il frontman Mattia Leoni vuole trasmettere nei suoi testi. Si tratta di sfoghi, pensieri, idee che non trovano manifestazione perché non esprimibili in un discorso oppure che non hanno la forza di rendersi reali perché troppo fragili nella loro pura magnificenza. Una difesa è quella dei NØEN, un fortino costruito con mattoni, sacchi di sabbia e lamiera, materiale preso in prestito da band come i Nirvana, gli Interpol e i Joy Division, impreziosito da una poetica che richiama i Verdena e il primo Vasco Brondi. 'Caraibi' inizia con “Hotel”, personalmente mio pezzo preferito dell’opera, un’implorazione ma anche uno sfogo di energie che esibisce la sua necessarietà con fierezza. La batteria di Federico Zocca è costante ed insistente, le chitarre sono dilatate in lunghissimi accordi distorti ed il basso di Stefano Melchiori sostiene con forza la struttura del pezzo, decorata con rugginosi sintetizzatori sottocutanei. Il giro armonico a tratti pare rassicurante a tratti pare invece sospeso, ne risulta uno strano effetto di trance e assuefazione. Completa lo scenario l’appassionata linea vocale con le sue distese e trascinate parole che sembrano tracciare delle lunghe scie bianche nel cielo. Un verso fra tutti “Fammi male, prova a insistere”. I brani scorrono piacevolmente grazie anche alla coproduzione di Enrico Bellaro, determinante nel suo ruolo di stregone del suono: i synth, gli effetti vocali e le scelte di arrangiamento, riescono ad esaltare la varietà delle composizioni aggiungendo sempre un elemento interessante ad ogni traccia. Due pezzi in particolare mi hanno colpito, “Mai’s” e “Vento”, dove le chitarre si scatenano e la rabbia esce prepotente. L’influenza dei Verdena è importante, i ragazzi avranno sicuramente ascoltato e amato 'Il Suicidio del Samurai', come, d’altronde, chi scrive. Ma solo di rabbia non si tratta, in “Mai’s” è apprezzabile una raffinata vena blues, opera di Davide Marotta (già membro della band stoner veronese Atomic Mold) che ha contribuito ai brani con le sue pirotecniche evoluzioni chitarristiche. A ben guardare, altri musicisti hanno partecipato alle registrazioni, in particolare Massimo Manticò alla chitarra in “Sola” ed Elena Ciccarelli al violino nello struggente pezzo di chiusura “Contro le Onde” che, come un paracadute, addolcisce la fine dei veementi assalti e dei tersi pomeriggi assolati di 'Caraibi'. I NØEN ci hanno regalato un disco d'esordio originale ed essenziale, seppur si percepisca una parte di personalità ancora nascosta che la band non ha ancora espresso e che sta cercando in tutti i modi di far emergere. Si vedono le potenzialità per riuscire a produrre musica ancor più particolare ed io sono certo che le verdeggianti valli di Sona con il loro retaggio di guerra, religione e storia, saprà guidare i ragazzi verso mete soniche lontane ed inesplorate. Nel mentre, ringraziamo per l’ottimo 'Caraibi' che consiglio di godersi in un momento di relax, a lume di candela ed abbinato ad una bozza di Custoza. (Matteo Baldi)

(Röcken Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/noenbandvr/

venerdì 1 dicembre 2017

Vespertina - Glossolalia

#PER CHI AMA: Acoustic Experimental Folk, Chelsea Wolfe
Il mese di maggio, per la religione cristiana, è il mese dedicato alla Madonna. Quando ero ragazzino infatti frequentavo il rosario serale con i miei nonni, ogni sera di maggio. Si teneva la testa bassa e le mani congiunte e si recitavano innumerevoli avemarie, come sfondo campi di vigne ed il pigro tramonto primaverile. Sono proprio questi mesi di maggio della mia infanzia che riaffiorano vedendo Lucrezia decantare salmodie e arpeggiare dolcemente la chitarra sul palco dell’Arci Dallò, un’esperienza che non può essere relegata al solo aspetto musicale. Vespertina è in grado di creare una dimensione alternativa che pare raggiungibile solo attraverso anni di raccoglimento e di ascetismo, in cui la luce si fa da parte cosicché le tenebre possano sfoggiare il loro divino splendore. 'Glossolalia' è il nome del disco, una fusione tra “glosso” (lingua, dal greco) e “litania”, perfettamente calzante visto la similitudine delle tracce a preghiere dimenticate e l’utilizzo non convenzionale dell’italiano che va a quasi a delineare un nuovo idioma. Lucrezia spezza spesso le parole oppure le deforma incastonandole in vocalizzi mistici ed eterei, tanto da lasciare il significato dietro di sé per creare con i soli suoni un ambiente fuori dal tempo e dal pensiero. Il disco è stato preceduto dallo splendido singolo “Nuova York” un’uggiosa ballata che porta con sé un’oscurità ineffabile e delicata, a tratti sembra di sentire Chelsea Wolfe cantare su un brano di John Fahey. La malinconia e l’emozione impregnano il pezzo, tanto da ricordarmi un’alba invernale sulla sterminata campagna in pieno medioevo. Un contadino si appresta ad uscire dalla sua baracca, ancora intorpidito dal freddo, le mani crepate dall’umidità e dal lavoro. Assorto nelle faticose e ripetitive pratiche quotidiane, avanza lentamente tra gli alberi spogli. Lo sguardo però è rivolto alla bianca luce dell’alba che filtra attraverso la nebbia e per un attimo il velo della realtà si apre, la ripetizione si rompe e la maestosità della natura porta ristoro e conforto alle sue stanche membra. Dico di ricordare perché mi pare di aver vissuto in prima persona quello che ho sentito, anche se non può essere vero. In 'Glossolalia' è l’intimità a creare quest'effetto estemporaneo, intimità che è assieme un pregio ed un limite, sarei infatti molto curioso di sentire come le geremiadi di Vespertina possano essere rese attraverso l’utilizzo di altri suoni e di arrangiamenti magari più orchestrali. Ma questa è solo una mia curiosità, i componimenti acustici sono intimi per natura e Lucrezia è in grado di sfruttare questa caratteristica al meglio, come dimostrato nel pezzo di chiusura “Slumber”, che sa di mattina e di nostalgia e che suona come una preghiera pronunciata non per dovere o per fede, ma unicamente per il profondo bisogno dell’anima. Il brano è impreziosito dall’iniziale botta e risposta tra la voce e l’arpeggio di chitarra alla “Wine and Roses” di J. Fahey; una voce a metà tra un lamento ed una supplica poi si fa strada tra gli accordi, come a voler evocare qualcosa che non esiste più, come un fedele che nella sua preghiera dapprima ringrazia ma poi si lascia andare e disperato invoca su di sé la grazia divina. (Matteo Baldi)

(Dischi Bervisti, Dio)))Drone, Toten Schwan Records - 2017)
Voto: 80

https://diodrone.bandcamp.com/album/glossolalia

lunedì 20 novembre 2017

Three Eyes Left - The Cult of Astaroth

#PER CHI AMA: Doom/Psych/Sludge
Siamo in un cimitero di provincia in pieno medioevo, in una fredda notte d’inverno. Il velo che separa la vita e la morte è stato squarciato e un druido sta evocando un potente demone del mondo antico di nome Astaroth, principe degli inferi e braccio destro di Satana. Il freddo penetra nelle ossa, c’è odore di polvere, terra bagnata e fumo da combustione. È questo lo scenario in cui la musica di 'The Cult of Astaroth' ci catapulta senza troppi giri di parole, supportata egregiamente dall’artwork di Luca Solomacello. Si tratta del secondo album dei bolognesi Three Eyes Left edito per Argonauta Records, un concentrato di doom, psych e sludge, influenze che si fondono in un vortice di oscurità che trasuda esoterismo e magia nera. La prima traccia “Sons of Aries” apre con un leggero arpeggio di chitarra acustica particolarmente adatto ad accompagnare una seduta di meditazione che si riversa poi in un tetro ambiente cimiteriale dove solo una voce femminile ci guida tra le tombe diroccate e tra gli intricati sentieri illuminati fiocamente dalla fiamma di alcune candele che resistono al vento freddo della notte senza mai spegnersi. L'incantesimo però viene subito turbato da una cascata di valvole saturate che declamano pesanti riff doom sovrastati da quella che sembra la voce di Ozzy, tanto somigliante da chiedermi se effettivamente non stia ascoltando i Black Sabbath. Il viaggio continua con “You Suffer...I, The Evil Dead”: dopo un’evocativa apertura degna dei migliori film horror con un traballante carillon, inaspettatamente compaiono i primi attacchi di growl a contrasto con la sensazione di proto-doom che il disco nella sua interezza porta con sé. Personalmente è il mio pezzo preferito, racchiude l’essenza profonda del lavoro ed è costellato di accorgimenti sonori interessanti come l’utilizzo di metriche particolari (il tema principale si sviluppa su 10 quarti), la presenza di assoli allucinatori e gli spiccati connotati ancestrali ed esoterici della voce. Si tratta evidentemente di un rituale, una serie di formule che se ripetute nella giusta sequenza, possono portare energie che abitano altri mondi in visita nel nostro. Ripensandoci questo potrebbe facilmente essere il rituale che il druido in copertina sta celebrando per riportare in vita gli antichi demoni che andranno a riprendersi ciò che gli spetta dal mondo dei vivi. Il disco prosegue imperterrito navigando tra profondi mari sconosciuti, cieli in tempesta eterna e distese di terra spoglia a perdita d’occhio. Il viaggio non è privo di ostacoli, non è facile infatti rimanere agganciati ad un percorso di quasi 70 minuti, gli oscuri anatemi sepolcrali dei Three Eyes Left continuano a fluire nelle casse creando una coltre di tenebra spessa e densa tanto da oscurare il cimitero in cui mi immaginavo di passeggiare. Nel momento in cui arrivo all’agghiacciante chiusura “.. And Then God Will Die..” (ho avuto un brivido lungo la schiena solamente a scrivere il titolo di questo pezzo), l’oscurità ha preso il sopravvento, non vedo niente che possa essere umanamente distinguibile, rimane solo la sensazione di essere sospeso in un limbo infinito dove il corpo non esiste più e lo spirito è libero di vagare nei più neri anfratti dell’ignoto. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2017)
Voto: 75

https://threeeyesleft.bandcamp.com/

venerdì 20 ottobre 2017

Nudist - Bury My Innocence

#PER CHI AMA: Sludge/Post-Hardcore/Doom, Torch, Converge
I Nudist sono una band che sta contribuendo in modo molto pesante a creare cultura e a diffondere la musica estrema in Italia. Non si parla solamente di una proposta artistica ma anche della presenza sui palchi (recentemente si sono esibiti con nomi che pesano tonnellate come Ornaments e Lento) e del marchio Nude Guitars, creato dal chitarrista Gabriele Fabbri nelle sue sinistre Officine del Male nei pressi di Prato. Le Nude, ispirate a brand come Travis Bean ed Electrical Guitar Company, si confermano una delle migliori soluzioni per chi ama vedere i propri coni vomitare ruggine e decibel ad alta radioattività; non per niente si possono ammirare tra le mani di aguzzini del suono come Naresh, degli Hate&Merda e di Zano dei Demikhov. Come se non bastasse, anche il suggestivo e apocalittico artwork di 'Bury My Innocence' affonda le sue radici in profondità nella scena, l’artefice è infatti Luca di SoloMacello, uno staff che tutti dovremo ringraziare ogni giorno per le band che porta in Italia e per la cultura che continua a promuovere. Un mare di lava ed un unico scoglio su cui si staglia un profilo semiumano deforme contro il cielo notturno dimora di neri corvi giganti, questo è quello che si vede tenendo in mano questo LP ed anche all’ascolto, la sensazione che se ne ricava non è poi così diversa. 'Bury My Innoncence' è una miscela super concentrata di punk, post-hardcore e sludge condita da una buona dose di disagio, rabbia, voglia di alzare la voce e di trasmettere sonorità accostabili ai Torch, anche vicine ai Converge per l’attitudine utilizzata e a tratti scorgo potenti lampi di Melvins. Il suono è ruvido e diretto, guidato da una voce oscura che porta parole ancor più nere e sfiduciate. La poetica è anch’essa parte importante dell’opera, una frase tra tutte che mi ha dato i brividi, e tratta dalla vulcanica title track, è stata: “bury my innocence under your faithless ignorance”, una sorta presa di coscienza del fatto che l’ignoranza uccide la purezza dei sentimenti, che è cosa rara perché il mondo ci esorta in tutti i modi a uccidere il bambino che c’è in noi, per farci stare più concentrati, per lavorare e obbedire agli ordini, quando in realtà l’unica cosa veramente importante sarebbe ascoltare quella voce, la stessa voce che ha suggerito ai Nudist di scrivere questo pezzo. La composizione del disco è poi encomiabile sulla scelta delle note e delle metriche; uno dei miei brani preferiti è l’apertura affidata a “Streghtless”, che inizia con un dispiegamento di accordi distorti disposti in modo irregolare su una ritmica quasi militaresca per poi infrangersi contro una rete di arpeggi dissonanti e infernali. Anche "Bloody Waters" con il suo incedere singhiozzante e spietato è sicuramente un’altra prova della capacità compositiva della band. Una menzione va a "Dead Leaves" che porta con sé parole ciniche e disilluse sulla condizione dell’esistenza umana: “we are dead leaves dragged and hurled by the storm” La chiusura è affidata al brano "Drift", il pezzo forse più atmosferico del disco. 'Bury My Innocence' è come l’eruzione di un vulcano, è imprevedibile, brucia in fretta e distrugge qualsiasi cosa si trovi sul suo cammino. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2017)
Voto: 75

martedì 22 agosto 2017

Postvorta - Carmentis

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Cult of Luna
Quando si parla di post-metal in Italia, non si può assolutamente prescindere dal conoscere i Postvorta. Dopo gli enciclopedici 'Aegeria' e 'Bekoning', due colonne portanti in stile dorico del metal nostrano, i nostri ci offrono un’altra opera degna e figlia diretta dei suoi predecessori: 'Carmentis', edita da Third I Rex in UK e da Argonauta in Italia. Il nome sembra fare riferimento alla dea romana Carmenta, protettrice delle gravidanze e dotata del dono della profezia. Anche l’artwork rievoca lo stesso significato, il feto umano nell’utero richiama infatti il susseguirsi inesorabile del ciclo della vita e della morte nella sua fase di rinascita e di costruzione di un nuovo inizio. Premetto che la mia opinione su questo progetto verrà sicuramente influenzata dal fatto di averli visti live svariate volte e aver condiviso con loro il palco, ma credo questo sia solamente una conferma della qualità musicale e dell’imperturbabile identità artistica che i Postvorta portano avanti da parecchio tempo. Veniamo al dunque, 'Carmentis' è un porta d’entrata per l’universo del nulla, è un tempio all’ignoto e alla catarsi, dove ogni forma di pensiero umano si sgretola davanti alla maestosità estemporanea del suono. I pezzi principali sono incorniciati da due tracce soniche "15" e "13", rispettivamente intro e outro del disco, a rafforzare l’approccio post alla stesura dell’opera. In "15" si percepisce subito una voce femminile che danza assieme ai suoni ancestrali delle chitarre, a richiamare di nuovo il tema della maternità e della rinascita. Le colonne portanti dell'album poi sono i tre brani centrali, che assieme sommano a quasi 35 minuti. "Colostro", il primo dei tre, inizia con un breve ambiente sospeso a tratti quasi rassicurante, che ricorda “Carry” degli Isis, sostenuto solo dalla batteria e da pochi eterei intrecci di note. Il brano presto divampa come un incendio estivo alimentato dalla voce decisa e imperiosa di Nicola che si staglia sulla struttura di cemento armato, alluminio e ghiaccio creata dalle tre chitarre e della solida sezione ritmica dei Postvorta. Non pensare ai Cult of Luna all’ascolto di questo pezzo ed in generale di questo disco, sembra quasi impossibile. La sensazione è quella di entrare nella sala del trono di un monarca antico e dimenticato, inginocchiarsi a lui con rispetto e devozione per ascoltare i suoi ordini impastati nell’eco dell’alto soffitto della sala. La volontà del Re è guerra, morte e distruzione ma si percepisce la sua infinita saggezza forgiata da innumerevoli battaglie che convive con l’esasperato senso di appartenenza alla propria gente e ad un profondo amore verso i propri sudditi. Alla fine del pezzo si sente l’aria fredda che entra dagli spifferi delle vetrate dietro il trono e mi accorgo di non essere più in ginocchio ma seduto, da suddito sono diventato il Re stesso. "Cervice" mi catapulta direttamente sul campo di battaglia, gli eserciti sono schierati e marciano attraverso una landa desolata ed ostile. Il bagliore delle armature e il rumore ritmato della marcia inondano la valle, pare invincibile la mia armata, niente e nessuno potrà mai sconfiggere un tale dispiegamento di forze. Tornano gli ambienti onirici che levitano a mezz’aria per poi tornare a tuffarsi nel fango di sontuosi riff sludge fino ad arrivare alla coda dronica dove le melodie si distruggono e si gettano nel pezzo successivo, "Patau". L’immaginario a questo punto subisce un lieve turbamento, il pezzo è il più travagliato e il più potente del disco, come se l’esercito antico avesse inaspettatamente incontrato il proprio nemico. Non sembra tuttavia essere l’orda di selvaggi sanguinari che vuole invadere le terre del Re, ma una violenta e implacabile tempesta di ghiaccio e neve che sorprende l’accampamento nel cuore della notte. Il vento taglia la pelle, ghiaccia i cavalli e scoperchia le tende. I soldati non possono nulla, le armi di ferro non hanno nessuna utilità. Rimane solo accettare il proprio destino e soccombere alla forza infinita della natura che così come ci ha creato, ci può distruggere in un soffio. Il disco si chiude con "13" e i suoni di archi antichi e note desolanti, come a rimirare alla luce dell’alba, il campo di battaglia per l’ultima volta. Una valle cosparsa di cadaveri congelati, di armi intatte e animali morti coperti da una coltre bianca immacolata. Il silenzio regna sovrano, non una goccia di sangue è stata versata. Onore ai Postvorta. (Matteo Baldi)

(Third I Rex/Argonauta Records - 2017)
Voto: 80

https://3rdirex.bandcamp.com/album/carmentis

martedì 27 giugno 2017

Left Sun - S/t

#PER CHI AMA: Prog Rock, A Perfect Circle, Porcupine Tree
I Left Sun hanno debuttato per la Ethereal Sound Works con il loro disco omonimo nel 2016, anche se il loro self-titled non rappresenta però il debutto assoluto per il cantante/chitarrista portoghese Flavio da Silva, già sulla scena progressive metal con il suo precedente progetto Oblique Rain. Il disco graficamente si presenta in maniera molto sobria, satinato in nero con il logo bianco della band al centro, all’interno anche il cd è monocromatico, ad eccezione di quella che sembra una mezzaluna grigia che ricorda vagamente le lune degli A Perfect Circle; il booklet infine è anch’esso totalmente nero e reca la scritta “fear is digging deeper”. Una scelta sicuramente studiata ma che, pur conferendo un’aria professionale al disco, penalizza l’immaginario che con una copertina più “parlante”, avrebbe preparato meglio l’ascoltatore alla musica dei nostri, peraltro davvero di ottima caratura. Tuttavia il caption proposto fa pensare. La paura è scavare più a fondo, nulla di più vero, chi oggi ha il coraggio di andare oltre la superficie e tuffarsi nel subconscio più oscuro? Magari proprio i Left Sun. Premiamo play e ci immergiamo nel primo pezzo, "Water Under the Bridge". Un intro di arpeggi sospesi sull’orlo di un buco nero si apre su uno sciabordare di accordi dissonanti che anticipano una strofa che richiama il suono di un vecchio carillon che offre anch’esso l’effetto di essere sospesi sul bordo di una cascata, “all things pass” dice la voce di Flavio, a richiamare il titolo del brano e a ricordarci che la vita è troppo corta per non lasciar andare. Subito dopo la voce s'inerpica su un ritornello decisamente aggressivo e grattato senza mai sfociare su suoni troppo disperati, rimanendo sobrio ma perentorio e deciso. Il pezzo prosegue con mille e una ambientazioni che comprendono grossi riff di chitarra e parti strumentali caleidoscopiche. L’intenzione è sicuramente prog, a richiamare lo stile dei Porcupine Tree ma anche le tecniche sonore degli A Perfect Circle, come giustamente suggerito dalla grafica del disco. Ci troviamo davanti ad un lavoro forse più variegato e osato di ciò che siamo abituati a sentire nel prog, si passa da scenografie prettamente "toolliane" a stacchi di assoli che ricordano gli ambienti dei Pink Floyd, fino ad arrivare a stanze arredate con santini della madonna del Guadalupe e che fanno pensare vagamente a ritmi che si sentono in 'Abraxas' di Santana. Il disco in toto è pervaso totalmente di queste sonorità e le canzoni scorrono senza intoppi lasciando una piacevole reminiscenza di musica del passato ma dal sapore nuovo, esotico ed energico. Da notare l’interlude a metà album che contiene vocalizzi, virtuosismi chitarristici e soluzioni ritmiche sospese nel vuoto oltre che interventi di fiati a richiamare ancora una volta i dischi che ci hanno cresciuto, uno su tutti 'The Wall'. In conclusione, questo disco dei Left Sun ci offre uno spettacolare viaggio nell’inconscio, passando attraverso ogni tipo di scenario fantastico e convincendoci ancora una volta, che il rock non è per niente morto, sta benissimo, scalcia, urla e irrompe prepotente nell’anima. (Matteo Baldi)

(Ethereal Sound Works - 2016)
Voto: 75

https://www.facebook.com/LeftSunOfficial/?ref=br_rs

martedì 23 maggio 2017

Fire Down Below - Viper Vixen Goddess Saint

#PER CHI AMA: Psych/Stoner, Kyuss
Da una landa desertica allucinata, una donna con la testa di mammut e le braccia coperte di funi, mi fissa. Non si tratta di un sogno ma della copertina di 'Viper Vixen Goddess Saint', esordio autoprodotto degli belgi Fire Down Below. Si tratta di un disco stoner sapientemente decorato con derive psych molto riuscite e impregnato di un’energia in grado di spaccare il cemento. I cactus in copertina crescono lentamente sul cimitero di elefanti preistorici battuto senza sosta dal sole e da venti ad altissime temperature. Da questo immaginario secco e allucinogeno nasce il primo pezzo, un intro di chitarra slide in stile vagamente country ma con una vena di trasporto che lascia intuire il peso dei pezzi che verranno. Si continua ad avanzare con la sabbia che arriva al ginocchio, con la gola che arde e alla mercé di una sete tale da ubriacare la vista. Alcune flebili allucinazioni iniziano a formarsi nella mente, ma fortunatamente il sollievo arriva al primo primo pezzo “Throught Dust and Smoke”. Si tratta di una potente cavalcata in pieno stile Kyuss, che porta però con sé un testo pregno di significato sociale. La voce di Jeroen libera dalle pieghe dello spirito quei nodi alla gola intrappolati e incapaci di uscire, “non voglio sentire nessuna notizia”, “meno sai meno senti”. Un grido di allarme comune a tanti artisti a mio avviso molto importante ma anche poco ascoltato perché di portata rivoluzionaria. Il messaggio è che le notizie che ci vengono ogni giorno propinate non solo non servono a nulla, ma contribuiscono ad affossare la qualità dei pensieri nelle persone e a riempirle di paure, insicurezze e dipendenza al sistema sfruttando tra l’altro, una delle qualità più nobili, vale a dire la sensibilità ad immedesimarsi nel dolore altrui. Sono queste le allucinazioni da combattere e il cimitero di mammut in copertina non è altro che la situazione in cui noi umani ci troviamo, simbolo del male che continuiamo consapevolmente ad infliggerci e della vuotezza e aridità dell’anima che il sistema cerca in di incoraggiare. Non per nulla il ritornello del pezzo è uno “shut up!" urlato con veemenza sull’onda di un riff granitico e inarrestabile. Proseguendo il sentiero di liberazione e purificazione che i Fire Down Below hanno inciso sul disco, arriviamo ad una interessante suite psichedelica che porta il titolo di “Universes Crumble”. Parti decisamente stoner si alternano a larghe parti psych che trascinano l’ascoltatore in un caleidoscopio di percezioni totalmente alterate rispetto al normale funzionamento dei cinque sensi. La speranza e la malinconia permeano il pezzo in ogni sua parte, come se il viaggiatore nel deserto ormai quasi vinto dai morsi della fame e dalle allucinazioni oniriche, si renda conto ad un tratto che quell’oasi appena sotto il drago multicolore non è un’allucinazione, l’acqua è limpida e vera e si può bere. C’è ancora tempo per “aprire la porta e andare la fuori” ci dicono i Fire Down Below, e a non farsi ingannare dalle visioni e dai giochi della mente, aggiungerei io. 'Viper Vixen Goddess Saint' è un lavoro solido e ben congegnato sia nello stile musicale che nella poetica sempre densa di significato, capace di elevare la coscienza di chi ascolta ed incoraggiarlo a non mollare e a continuare a cercare quell’oasi nel deserto che toglierà ogni sete. (Matteo Baldi)

lunedì 13 marzo 2017

Monolith Wielder - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Kyuss
Argonatua Records è un vascello carico di merci pregiate in rotta verso l’aldilà. E questa volta, tra le sue mille scorribande, è riuscita ad accaparrarsi questi fantastici stoners desertici, i Monolith Wielder. Al solito la grafica del disco è la prima cosa che salta all’occhio ed in questo caso le immagini introducono adeguatamente la musica. Una processione di figure incappucciate che avanzano in linea retta nel deserto all’ombra di una pigra collina oscura. Non ci è dato sapere per quale motivo queste anime si trovino in quel luogo, potrebbe essere la loro dimora oppure potrebbero essere intenti ad un rito di magia nera o ancora potrebbero essere in fuga da una rovinosa catastrofe e ora quindi vagano senza meta nel deserto, assetati di vendetta. Saltando dall’immagine al suono, la fantasia non smette di correre sorretta dalle sapienti mani del quartetto di veterani della scena stoner di Pittsburg. L’incipit “Illumination” pone le fondamenta per le altre nove monolitiche tracce con i suoi suoni dalle tinte marroni e dagli angoli spigolosi, con la voce roca e graffiante di Gero (no, non è il big boss di Argonauta, ma solo un caso di omonimia) e con le ritmiche minimalistiche ed irriducibili di Ben. Viaggiando tra le composizioni compatte, ostinate e piene di energia si possono ammirare interessanti influenze primitive che sembrano scendere dall’alto dei cieli dove sta 'Welcome to Sky Valley' oltre che per una stretta vicinanza al timbro vocale dell’imperatore King Buzzo. Per di più qualcosa mi fa pensare che senza l’influenza dei Motorhead, questa band non sarebbe mai esistita. Il pezzo da non perdere è sicuramente quello che porta il nome della band e del disco che, caratterizzato da un lirismo audace che tocca addirittura riferimenti biblici nel verso “You will deny me three times before sunrise” , porta un messaggio forse un po’ difficile da leggere tra le righe ma sicuramente significativo. Il messaggio che percepisco io è che la canzone sia una sorta di incantesimo per liberarci dall'immotivata vergogna di essere ciò che si è e di affrontare la paura senza passi indietro e rialzandosi sempre. I testi non sono una cosa lasciata a se stessa in questo lavoro, le parole sono scelte con uno spiccato gusto per il mistero e per le sonorità aspre. È inoltre evidente la propensione poetica ed ermetica che raggiunge il suo apice nel testo dell’ultimo pezzo, una poesia ombrosa e profetica sulla discesa di un certo Hellion dagli zoccoli pesanti che firma il suo passaggio con scie di sangue e violente carneficine. Questo è un disco da ascoltare quando mancano le energie e le motivazioni, quando tutto sembra un immenso deserto senza fine, i Monolith Wielder sanno perfettamente dove si trovano le oasi di acqua limpida e, prestandogli ascolto, anche l’ascoltatore potrà dissetarsi e proseguire per il proprio cammino. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://monolithwielder.bandcamp.com/releases

giovedì 23 febbraio 2017

Aleska - S/t

#PER CHI AMA: Post Hardcore
Gli Aleska arrivano dalla Francia, precisamente da Metz e sono un quartetto di post hardcorer di alta qualità. Dopo due EP costituiti da tre brani ciascuno, si cimentano in questo primo omonimo LP autoprodotto. La prima cosa che mi colpisce positivamente è l’artwork, raramente mi sono imbattuto in un progetto dove la musica e l’estetica riescono a fondersi in modo così convincente. Azzeccata la scelta della tonalità azzurro e ruggine e dei soggetti vagamente religiosi fanno pensare ad un tesoro inestimabile ritrovato nella stiva di una nave affondata migliaia di anni fa. Per di più le opere rinvenute sembra siano state create da una popolazione dimenticata che abitava la terra molto prima delle civiltà che conosciamo dai libri di storia. La musica inizia con quello che potrebbe essere il suono di una cascata, ma più probabilmente è il rumore dell’acqua che scende dalla bocca di un’antica statua ora sommersa nelle profondità dell’oceano e che non sarà mai più ritrovata da anima viva. Alcuni armonici di chitarre ed una spedita linea di basso completano l’immaginario, tracciando l’orizzonte di gloriosi paesaggi civilizzati scomparsi da tempo immemore. L’intro termina con una serie di scream dal suono naturale ma disperato, l’effetto finale del pezzo ricorda la musica dei Trap Them, con un’inclinazione forse più narrativa. Il primo pezzo “Du Gris au Noir” contiene molte delle caratteristiche che troveremo nei brani successivi, uno scream rauco e tagliente che lacera le orecchie e trame melodiche ora piene di atmosfera ora ritmiche e claustrofobiche, fino ad arrivare a momenti di stallo dove la voce si riduce ad un parlato che esprime la stessa rabbia delle parti sporche ma in maniera soffocata, come se fosse sott’acqua. Il francese poi, lingua notoriamente musicale, in questo caso riesce ad essere aspra e cinica quanto il più dissonante degli idiomi del nord Europa. Il pezzo che preferisco del disco è “Que Reste-t-il?”, un’arringa piena di rabbia e profondo sconforto con un’attitudine schizofrenica e totalmente fuori dalle righe nella quale riecheggia l’influenza dei Converge. La song mi fa pensare al momento in cui le civiltà millenarie di un tempo videro il proprio continente sgretolarsi sotto i loro piedi e lentamente sprofondare nelle immensità dell’oceano. Non c’è modo di contrastare la forza della natura, cosi come non si riesce a contrastare la furia degli Aleska, non c’è modo di scappare o nascondersi, si può solo arrendersi. Le persone vedono montagne creparsi e crollare mentre svuotano i polmoni lacerandosi la gola con grida di disperazione. La civiltà è finita, tutti gli sforzi fatti sono stati vanificati e la natura, ancora una volta, ha trionfato sulla specie umana. (Matteo Baldi)

(Self - 2016)
Voto: 75

https://aleska.bandcamp.com/

lunedì 16 gennaio 2017

Sybernetyks - Dream Machine

#PER CHI AMA: Industrial Rock
I Sybernetyks sono degli industrial rocker francesi attivi dal 2013 che ci regalano quello che potremmo chiamare il primo vero LP della band, 'Dream Machine'. Si tratta di un disco poliedrico, con parecchi pezzi e una certa varietà compositiva, con suoni elettronici utilizzati come dilatatori di ambiente in abbinata con delle chitarre dalla distorsione presente ma controllata, che creano un’atmosfera confortante a tratti e a tratti lucida ma mai inesorabile. Mi vengono in mente i Porcupine Tree per le atmosfere dense di effetti e per molte risoluzioni repentine su fangosi riff sludge piuttosto che su tappeti di delay e tastiere celestiali. Per avere una chiara idea di chi o cosa siano i Sybernetiks, ascoltare "Downstream" è obbligatorio. Probabilmente si tratta del pezzo più riuscito del disco, dotato di un tappeto elettronico iniziale che introduce una sezione pesantemente rock con notevoli arrangiamenti vocali. Un altro must è rappresentato dalla title track che chiude il disco e che racchiude le migliori peculiarità della band, dagli eterei ambienti dove la voce si adagia piano sulla musica fino al potente assalto delle chitarre che la porta invece alla sua massima espressione, con una coda nebbiosa vagamente drone. Per molti versi 'Dream Machine' è un buon ascolto, anche se una visione d’insieme dell’opera avrebbe giovato di più al progetto che seppur qualitativamente molto alto, a volte risulta ridondante. Un gruppo sicuramente da tenere sott’occhio per le capacità dimostrate ma soprattutto quelle potenziali; per di più sul loro bandcamp campeggia la confortante scritta “we take care of your future”, una bellissima idea che tutte le band dovrebbero fare propria! (Matteo Baldi)