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giovedì 12 gennaio 2017

Naat - S/t

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal strumentale
Argonauta non si stanca mai di veleggiare verso i mari più impetuosi e sconosciuti. Stavolta sono approdati ad un’isola nel bel mezzo dell’oceano dal nome NAAT. Si tratta di quattro talentuosi ragazzi genovesi con in testa l’abisso. La proposta sludge post metal strumentale convince e affascina, a cominciare dalla copertina del disco: un braccio senza il corpo che gocciola sangue su una città in rovina. Lo sfondo è giallo ocra, come se fosse un’istantanea sbiadita ritrovata sotto un cumulo di macerie. Sembra che ci sia stato un disastro senza precedenti che ha cancellato ogni ombra di civiltà e di vita dalla faccia del pianeta. Probabilmente una guerra causata dall’uomo che con la sua avidità e cupidigia è riuscito (finalmente) ad autodistruggersi. Rune e frattali poi decorano il retro ed il cd, scelta sobria ed elegante che va a conferire all’opera quell’aria di mistero proprio dell’abisso. E proprio di abisso vorrei parlarvi perché penso sia la chiave di questo splendido omonimo disco di debutto. Fate attenzione a premere play, con il pezzo di apertura “Vostok” verrete subito catapultati nel fondo più oscuro dell’oceano dove solamente poche forme di vita riescono a sopravvivere. In un ambiente così inospitale manca l’ossigeno e la pressione è talmente forte da far implodere qualunque cosa si avventuri così in profondità. Ah e ovviamente, il buio è totale. “Falesia” continua l’esplorazione tra grotte sotterranee senza uscita e mostruose creature di cui l’uomo ne ha sempre ignorato l’esistenza. Con “Temo”, traccia sonica intermedia, si torna per un momento sulla superficie devastata della terra: auto, case, fabbriche, palazzi, tutto dimenticato, tutto tramutato in ruggine, calcinacci e polvere. Un polvere così densa da ostruire le vie aeree di qualsiasi creatura che respiri, da ostacolare la luce del sole privando anche le piante del loro nutrimento vitale. L’acqua offre l’unico riparo possibile da quell’aria malsana e dalla terra avvelenata e il baratro profondo dell’oceano è il solo rifugio che la vita può trovare. “Baltoro” è il mio pezzo preferito del disco, sette minuti di cinica lucidità senza tregua, tra slanci atmosferici vicini al black e riff sludge inconsulti, incastrati e ansiogeni. Una song che rimane e che lascia la voglia di vedere come la band riesca a trasporre tutte queste sensazioni dal vivo. Segue “Bromo”, altra traccia di passaggio stavolta un po’ più lunga che ha il proposito di traghettarci all’ultimo disperato assalto dei due pezzi “Dancalia” e “T’Mor Sha”. Il primo è più destrutturato, con un incedere cadenzato e suoni diradati che si addensano dopo cinque minuti per tornare poi a svuotarsi; il secondo, decisamente più violento, racchiude tutta la rabbia e la potenza dei NAAT ma anche l’attitudine all’arrangiamento e alla composizione sempre originale e mai scontata, la degna chiusura dell’opera. Un’ultima riflessione sul progetto riguarda la sua natura strumentale, per molte band di questo tipo la mancanza di una voce si fa sentire ma non in questo caso: gli intrecci fantasmagorici di chitarre e le ritmiche ancestrali e dionisiache, riescono infatti a sostenere e a completare la musica senza bisogno di aggiungere altro. Sarà forse perché sul fondo dell’abisso il suono non si propaga e gridare fino a lacerarsi le corde vocali non servirebbe a rompere il silenzio che nel profondo regna sovrano. Oppure sarà che in questo disco la volontà di potere e controllo dell’uomo ha portato la nostra specie ad una fulminea autodistruzione; quindi niente più civiltà, niente più uomini e niente più voce. (Mattei Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 80

https://naat.bandcamp.com/

giovedì 24 novembre 2016

Dperd - V

#PER CHI AMA: Dark Wave
Siamo alla quarta prova in studio per i Dperd, duo dark wave siciliano dall’impronta eighties, attivo ormai dal 2008. L’opera si chiama 'V', un titolo criptico e ancestrale, forse a richiamare l’armonica convergenza tra i valenti animi artistici di Valeria e Claudio: lei sensibile autrice e cantante, lui raffinato musicista e compositore. I due musicisti sono maturi e preparati avendo alle spalle una lunga carriera musicale. Hanno infatti già dato alla luce il progetto Fear of the Storm, a cui sarà dedicata 'Madness Splinters 1991-1996', prossima uscita autunnale edita dalla label My Kingdom Music in una splendida versione deluxe contente la discografia completa di entrambe le band oltre a vario merchandise, dalle t-shirt alla shopping bag. Ma concentriamoci ora su 'V', partendo stavolta direttamente dal mio pezzo preferito, “I Believe In You Song”. Si tratta di una ballata eterea e fiabesca che incarna una di quelle storie oscure e visionarie così suggestive e ipnotiche da poter potenzialmente portare l’ascoltatore in uno stato di trascendenza onirica. Per di più, la canzone sembra essere la prima parte di una trilogia nascosta, costituita dalla appena citata “I Believe In You Song”, “But I Love You Song” e “They Do Know Song”, che chiude l’opera. Oltre ad un tocco originale nell’architettura della tracklist, si tratta anche di un concept musicale dotato di un inizio, uno sviluppo ed una conclusione, fatto di trame armoniche e melodiche, dove la voce non utilizza parole ma solamente suoni. Dall’atmosfera incantata della prima parte si passa ad un ambiente ritmicamente più incalzante ed armonicamente complesso nella seconda parte. La triade culmina nel finale, dove i vocalizzi di Valeria diventano arditi ed espressivi e il mood determinato e risoluto. Non solo la musica è di ottima fattura ma anche dal punto di vista lirico, siamo davanti ad un’opera di un certo spessore: l’utilizzo dell’italiano è un evidente punto di forza del progetto, non è infatti cosa da tutti i giorni sentire la nostra lingua utilizzata in un genere così particolare. Si prenda ad esempio “Cercando Solitudine”, una poesia ermetica dai toni tetri declamata da una voce sicura e calda che si adatta perfettamente alla ritmica soffice ed ai suoni di organetto e delle chitarre impregnate di chorus, a ricordare i leggendari The Cure. Dopo l'indiscutibile bellezza e l'indubbia qualità della proposta dei Dperd, veniamo ora a quella che secondo me è la macchia su questo lavoro esemplare, vale a dire la parte grafica. Se il disco musicalmente e poeticamente prende ed interessa, altrettanto non si può dire dell’artwork. Oltre ad essere discutibile la scelta dei font, anche l’immagine di copertina non ha la stessa profondità e potenza comunicativa della musica. Il soggetto è invece coerente col disco: un balcone affacciato sulla desolazione di un orizzonte montuoso sotto un cielo grigio, centra esattamente lo stile della band. In conclusione, consiglio l'ascolto di 'V' a tutti gli appassionati della dark wave anni '80, qui troveranno una band con lo stesso spirito di quegli anni ma calata nella modernità del 2016. (Matteo Baldi)

(My Kingdom Music - 2016)
Voto: 75

https://dperd.bandcamp.com/album/v

lunedì 21 novembre 2016

Youngblood Supercult - High Plains

#PER CHI AMA: Psych/Blues/Stoner Rock
Vi sarà sicuramente capitato di camminare in un campo di grano in estate e ammirare le nuvole in cielo con una spiga in bocca ed il nulla in testa, ma molto nulla in testa. Se la risposta è no, questo disco rende vi permetterà di provare perfettamente quella sensazione. I Yougblood Supercult vengono dal Kansas, e portano con sé un carico di influenze che vanno dal blues allo stoner al progressive con un sound simile ai Black Mountain, suonato con l’attitudine dei Pentagram. La copertina ha un sapore smaccatamente psych: cieli stellati, fienili e strane macchie di colore in giro per l’artwork. 'High Plains' significa altopiani, ogni pezzo descrive un paesaggio bucolico e allucinato, quei posti in cui non ci si stupirebbe di vedere un UFO atterrare davanti ai propri occhi. Le canzoni sono godibili e spensierate, le strutture sono ben architettate. Sulla voce purtroppo vedo il punto più debole anche se non rende l’ascolto del disco spiacevole o superfluo. Il timbro è adatto al genere, con tanto di grattato blues sulle note più spinte, davvero ben riuscito, tuttavia sembra essere esile rispetto alla musica, direi poco incisivo. Penso che il problema sia causato dalla scelta delle linee vocali a volte forse troppo audaci. La caratteristica più interessante di questa band sono le cavalcate di chitarra alla Uncle Acid and the Deadbeats, per avere un esempio di cosa intendo, ascoltatevi “Nomad” e “Before the Dawn”, contengono due fantastici esemplari di riff andanti e ciccioni. Il disco scorre bene, i pezzi sono vari nella composizione e tengono alta l’attenzione per tutta l’opera. Da notare sicuramente la ballata “White Nights”, soffice intermezzo tra l’incedere trascinato delle altre song, la mia preferita dell'album, che peraltro contiene anche un assolo sensato e composto che impreziosisce il pezzo senza appesantirlo. Anche “Forefather” è un altro pezzo interessante, il più lungo del cd, un blues lento e sornione che cambia spesso forma, dal piano al forte dal vuoto al pieno, da paesaggi di praterie sconfinate all’interno del propria mente, quasi a perdere la coscienza di essere in un luogo definito nel tempo e nello spazio. Il commiato è suggestivo e sognante, “Down 75”, fatto di sola chitarra acustica e voce. È come stare nella stazione di una città fantasma, con un peso di un peccato addosso che spinge a terra ad assaggiare la polvere, mentre l’ultimo treno della giornata si allontana. (Matteo Baldi)

venerdì 4 novembre 2016

Varego - Epoch

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal, Baroness, Voivod, Mastodon
I Varego sono una band centrata e convinta delle proprie idee, non scendono a compromessi se non a quelli di fare esattamente ciò che l’anima comanda. 'Epoch' trasuda passione e amore quasi paterno, un disco fortemente voluto e con alle spalle un grosso lavoro. La copertina parla chiaro, una maschera di pietra, probabilmente un idolo pagano, affiancato dalla dea dell’oscurità e dalla dea della luce con due mezzelune come orecchini. Un altare votivo, una nicchia a cui inginocchiarsi e invocare la grazia e la potenza del dio del metal, la cui forza scorre vigorosa nelle vene dei Varego. Non solo di misticismo vive 'Epoch', bensì anche di potenti assalti ferrosi e taglienti, come l’apertura di “Alpha Tauri” che rompe l’iniziale intro incantato, comunque dotato di una vena oscura. Si tratta di un impeto di una legione di guerrieri a cavallo contro un esercito di orchi sanguinari. Mentre la battaglia infuria tra fangosi riffoni sludge e ostili ambientazioni psichedeliche, una voce si staglia su tutti i combattenti enunciando formule magiche con voce piena, un’invocazione a dei pagani per propiziare la vittoria. A seguire, oltre ad una vallata piena di cadaveri di guerrieri, orchi e cavalli accatastati uno sopra l’altro, arriviamo al pezzo più rappresentativo del disco, “Phantasma”. Di nuovo la chitarra di Gero introduce con note maligne ad un’ambientazione dal sapore antico e macabro, come un assalto di un vascello pirata ad un mercantile pieno d’oro: coltelli tra i denti, vecchi archibugi e palle di cannone. La ciurma di bucanieri si lancia sulle vittime impotenti trucidando, saccheggiando e distruggendo. Dietro rimane solo una scia di sangue e l’eco delle grida di terrore. Una volta che il bottino è stato conquistato, si cancellano le prove incendiando quella che oramai è solo una grande pira funeraria destinata a vagare per gli oceani senza meta alcuna, per l'eternità. Fortunatamente noi invece possiamo veleggiare alla terza traccia “Flying King”, pezzo in cui l’influenza dei Mastodon e dei Baroness (e Voivod/ndr) si rende più evidente e completa piacevolmente gli scenari oscuri fin qui descritti. La distorsione esce dagli auricolari come onde dell’oceano che si infrangono sulla spiaggia, cadenzate ed inesorabili, accompagnate da una voce a tratti supplichevole, a tratti decisa e potente ma sempre con una presente aura mistica e sacrale. Una voce robotica affogata in un tappeto di noise drone ci trasporta alla seconda parte del disco, forse più sperimentale della prima parte. Dopo “Cosmic Dome” troviamo “Swarms”, personalmente il mio pezzo preferito del disco, una song originale e compatta, che può considerarsi come la summa del Varego pensiero, che ben rappresenta tutte le caratteristiche della band. La voce dello stregone continua imperterrita a lanciare anatemi, che si concretizzano in bordate sludge e ritmiche cadenzate adornate da arpeggi distorti e distrutti. Il culmine lo si raggiunge nell’ultimo minuto col rilascio di una tensione che cozza con il resto del pezzo dotato di un carattere visionario, etero e quasi rassicurante, da pelle d’oca. 'Epoch' termina con un commiato violentissimo, come se tutto il disco implodesse su quest'ultimo rabbioso “Dominion”. Quando il lettore si blocca la sensazione è quella di aver viaggiato nel tempo, partecipato ad eventi fantastici mai accaduti, aver battagliato, navigato per mare, aver impersonato divinità dimenticate e soprattutto essere tornati alla realtà sani e salvi, poter ricordare e trasmettere l’esperienza vissuta. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 80

https://varego.bandcamp.com/album/epoch

giovedì 25 agosto 2016

Magnitudo – Si Vis Pacem

#PER CHI AMA: Sludge/Psych/Post Metal
Un nome pesante per una musica ad alto peso specifico. I Magnitudo, direttamente da Bergamo, già dal primo EP riescono ad attirare l’attenzione su di sé tanto che la Sepulchral Silence, label britannica si è subito premurata di aggiungere questi ragazzi nel proprio roster. L’EP è stato registrato egregiamente dall’ottimo Danilo Battocchio, membro dei post-metallers torinesi Last Minute To Jaffna. Non solo il sound risulta potente ma anche il nome della band suggerisce forza, intensità e un buon grado di pericolosità perfettamente calzante con l’essenza della band. I Magnitudo si sono spinti fino a imprimere su disco la violenza e la portata distruttiva di un attacco all’umanità da parte di forze immemori e ancestrali che hanno come fine solamente la devastazione totale. Uno scenario che non in molti riuscirebbero a sostenere, è come guardare da una finestra a vetri la propria città che viene inghiottita da un gigantesco terremoto (mai immagine fu cosi attuale - RIP/ndr): voragini che si aprono ovunque, edifici che crollano, urla che echeggiano alte e disperate ed il sole offuscato per la troppa polvere sospesa nell’aria. 'Si Vis Pacem' la prima parte di un famoso detto latino: se vuoi la pace prepara la guerra. Difendere la propria posizione, fortemente ancorati alle proprie idee, pronti a combattere, uccidere e morire per esse. Le premesse ci sono tutte, anche l’ansia nel vedere le figure incravattate con la maschera a gas in copertina. Milioni di burattini identici che non sanno nemmeno più respirare, mossi dalla stessa brama di potere e che brilla rossa nei loro occhi. Ma ora basta fantasia, è giunta l’ora di far vibrare i timpani. Si parte senza foga ma con grazia: il primo pezzo, "Marjane", è una song orientaleggiante venata di rabbia che si trasforma in un ambiente ostile, senza ossigeno e senza via d'uscita. Un incipit ansioso e malvagio che ci traghetta alla seconda traccia in cui per la prima volta appare la voce distorta di Dario, e il cui suono ricorda quello di un titano sceso sulla Terra con intenzioni non propriamente di fratellanza. La musica si articola in bordate di accordi dissonanti, mitragliate di batteria e cambi di metrica accanto a molti spazi sonici nelle parti ritmicamente distese tipicamente doom sostenute da un rugginoso ribollire di valvole. La terza traccia "χορού Λάρισας" introduce la voce pulita, una scelta coraggiosa ma anche ben riuscita nel suo minimalismo, sembra quasi un lamento ma potrebbe anche essere un’invocazione ancestrale sacra, e questo probabilmente non lo sapremo mai. La canzone continua come un fiume in piena tra granitici riff e terremoti che flagellano un paesaggio ormai privato di ogni forma di civiltà umana. Con "T", brano di chiusura, torniamo alle sonorità dell’inizio ma con un’attitudine diversa, più disillusa e determinata. E ancora la voce di Dario ci guida sul sentiero della battaglia e ci esorta una volta di più a puntare i piedi e guardare la distruzione che ci si staglia davanti con lucida coscienza e una buona dose di cinismo. (Matteo Baldi)

(Sepulchral Silence Records - 2016)
Voto: 80

lunedì 22 agosto 2016

Sedulus - The Sleepers Awaken

#PER CHI AMA: Psych Stoner, Baroness, Isis
Pochi colori in copertina per i Sedulus, act britannico in attività dal 2005. Sembra un tramonto visto dall’orlo di un asteroide in orbita nello spazio aperto. Non a caso 'The Sleepers Awaken' ci arriva attraverso l'etichetta When Planets Collide, fucina di rabbia sperimentale planetaria. La band è talentuosa e con le idee chiare, il suono ricorda Tool, Russian Circles e Baroness, la cosa che forse ancora manca è la coesione artistica che a volte non permette ai brani di esprimere a pieno le proprie potenzialità. Vale la pena iniziare subito a sentire il disco che apre con “Sycamore” potentissimo brano in pieno stile sludge. Dal primo pezzo già si evince la propensione della band alla complessità compositiva dei brani, all’aggressività e alla psichedelia. La cavalcata prosegue con “Machinations”, che presenta un tappeto di chitarre rugginose che rispondono ad una linea di voce a metà tra ISIS e Melvins. Le strutture dei pezzi non sono mai semplicistiche, si passa infatti da parti ritmicamente serrate ad aperture decisamente più blande, impreziosite da arpeggi riverberati e profondi tonfi di basso. La composizione come detto è audace tanto che a volte le song sembrano andare fuori dal tracciato, minando la comprensione del pezzo. L’attenzione rimane comunque alta, sempre ridestata da cambi di dinamica e da una buona spettacolarità tecnica dei musicisti. Altro aspetto che salta all’orecchio sono i suoni ed il metodo di registrazione, per cui sembra in qualche modo tutto un po’ lontano. Certo, l’impressione di essere su un satellite che orbita intorno alla Terra è riuscita, ma forse all’opera avrebbe giovato più definizione e presenza del suono che tuttavia rimane decisamente di qualità. Approdiamo alla terza traccia che porta un nome stranamente italiano “Nomadi del Mare”: si tratta di un viaggio strumentale su un veliero fantasma nella Via Lattea assolutamente da sentire. La traccia successiva chiude la prima parte del disco, e si chiama “Things We Lost in the Fire” e trasporta l’immaginazione per mezzo di voci e chitarre effettate che fluttuano a mezz’aria. La parte più riuscita del brano è la strofa: presente, decisa e brillantemente arrangiata. Anche il break dipinge scenari apocalittici sormontati da una linea melodica vocale in pieno stile Aaron Turner. Pecca del brano è il ritornello: da un punto di vista melodico forse non proprio azzeccato, sembra che non sia esattamente l’evoluzione naturale della strofa. Ma anche con questo difetto “Things We Lost in the Fire” rimane uno dei miei pezzi preferiti. Si passa alla seconda parte ora, aperta da una traccia ostinata e orientaleggiante. Sembra di vivere una sessione di meditazione ma non nella quiete di un parco o di un tempio, ma esattamente in mezzo al caos insensato e chiassoso di una metropoli. Ad ogni modo si tratta solo di una breve pausa, “Colonise” infatti non lascia scampo. Potenti riff sludge e una voce aggressiva e perentoria esortano a non lasciarsi abbattere e avere la forza di reagire sempre, “We Must Stay Strong” si grida nel brano. Anche qui si ha la percezione lontana che alcune parti non seguano il giusto susseguirsi delle cose, tuttavia il brano risulta piacevole e trasmette una notevole quantità di energia. Eccoci alla epica “Foxhole”: si inizia con una bassa intensità, la musica evolve tra voci pulite e frequenti pause sceniche davvero assai riuscite, sia nella scelta delle note che delle dinamiche. Il pezzo poi esplode in tutta la sua potenza in tre episodi trainati da una voce sporca e mono-nota e da un profondo e denso fango, che alla fine la elegge come il pezzo più interessante dell’opera. L’ultimo passaggio strumentale “Redshift” è forse il più riuscito: frequenze basse, percussioni ancestrali che vanno a formare un ambiente sonico e spaziale ma allo stesso tribale e terreno. La chiusura “Heat Death”ci dà il giusto commiato riassumendo in sé tutte le migliori qualità dei Sedulus. Dopo un intro supersonico dove chitarre e basso si intrecciano rivelando una grande emotività, atterriamo successivamente su di un suolo ostile di un pianeta privo di ossigeno e poi di nuovo si riparte a fluttuare nel vuoto verso il prossimo pianeta sconosciuto. 'The Sleepers Awaken' è un disco ruvido e intenso che lascia intravedere talento e inventiva e crea inoltre alte aspettative per la prossima opera dei quattro britannici. (Matteo Baldi)

(When Planets Collide - 2016)
Voto: 70

https://sedulus.bandcamp.com/

domenica 19 giugno 2016

Sepvlcrvm – Vox In Rama

#PER CHI AMA: Drone/Ambient
I Sepvlcrvm, progetto anticonformista e ultraterreno, ci regalano 'Vox in Rama', album sacrale meditativo e trascendente. Un altro gioiello di casa Agronauta, che ho avuto il piacere di contemplare all’Argonauta Fest di quest’anno. Premetto che l’ascolto su disco e davanti ad uno stage sono due esperienze totalmente differenti per qualsiasi act, ma per i Sepvlcrvm il salto è ancora più grande. Dal vivo l’atmosfera è come se fosse in grado di fermare il tempo, ma non al momento presente, bensì in un momento non meglio specificato del medioevo oscuro ove gli animi delle persone erano tormentati dalla violenza, dalla fame e dalla sofferenza. 'Vox in Rama' appare come un’espiazione di colpa, una via crucis che purifica lo spirito ed eleva la coscienza. La classificazione del genere ci porta sotto l’ala del drone ritual/ambient, se vogliamo identificare progetti simili possiamo citare i Sunn O))) ma mi permetterei di andare indietro nel tempo fino a Brian Eno e ai King Crimsom anche se non finirebbe qui, visti gli echi di musicalità dimenticate da secoli: canti sacri, formule magiche e suoni ancestrali. La band si esibisce utilizzando svariati strumenti che vanno dai moderni sintetizzatori, looper e chitarre elettriche fino ai sonagli, ai flauti indiani e ai tamburi sciamanici. La commistione di nuovo e antico colloca i Sepvlcrvm fuori dal tracciato del drone moderno sconfinando nel sacro e meditativo ed in più, lasciando una volta per tutte i lidi della forma canzone, arriviamo ad una fruizione musicale inversa dal classico concerto rock. Qui l’ascoltatore non assiste a dei brani o a delle soluzioni musicali orecchiabili, ma è costretto a ricercare dentro se stesso il senso di quanto accade sul palco, come se la canzone si formasse direttamente nella mente dello spettatore, bypassando la percezione del senso letterale delle parole e del senso musicale delle note. Tutto è un unico flusso di energia che si evolve lentamente; ascoltare 'Vox in Rama' è come ammirare il tempo atmosferico che muta e si trasforma, rimanendo immobili in un limbo di coscienza cosmico. Ma ora premiamo play. Rumore, sonagli, la sillaba sacra intonata con fermezza: sembra una processione di monaci custodi di un segreto inaccessibile che, con il loro fardello, vagano senza sosta e senza destinazione. D’un tratto una radura sonica di qualche secondo e poi il tuffo nella prima mastodontica parte dell’opera. Si passa da voci provenienti dalle profondità abissali al suono dell’industria moderna. Difficile parlare di struttura quanto di melodia, ma ad ascoltare con attenzione, vi accorgerete quanto ogni elemento è curato e come ogni passaggio porti ad un ambiente complementare al precedente. La seconda parte, se mai fosse possibile, appare ancor più criptica della prima. I suoni si fanno più aggressivi e ruvidi, una jungla notturna di frequenze, in continua sospensione. Circa a metà della traccia, le voci ancestrali dei monaci escono di nuovo allo scoperto e si fanno più presenti ma solamente per sprofondare in un deserto artico dal quale emergono le prime voci umane, che sembra un accorato dialogo preso da un vecchio film in bianco e nero. Un ultimo assalto sonico ci riporta nella roboante tenebra propria dei Sepvlcrvm, ma lentamente anche questa sfumerà per approdare ad un finale deliziato da una voce femminile. La ragazza è quella del fim in bianco e nero, parla di sogni, religione e morte e ci lascia ancora un volta sospesi nel vuoto. L’ascolto del cd è un’esperienza forte, permette a chiunque si lasci completamente trasportare dalle onde sonore, di viaggiare nel profondo della propria anima e delle proprie paure. 'Vox in Rama' è un memento mori, è un monito che ricorda di vivere non nella paura ma nella consapevolezza della morte, come se il domani non esistesse. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 85

mercoledì 18 maggio 2016

Fight Cloud - We'll Be Alright

#PER CHI AMA: Noise/Math
Richmond (USA) rappresenta la terra natia dei Fight Cloud, l'ensemble di quest'oggi, già attivo dal 2012 e 'We’ll Be Alright' è il loro secondo LP, preceduto da due ottimi EP, 'Simple Structures' e 'Where’s My Shakespeare'. Con i nostri si va fin dentro al DNA, come vedere un seme dall’interno che lentamente si trasforma in un albero immenso. Difficile però inquadrare in modo definito il sound della band della Virginia, a cavallo tra noise, math rock, qualche slancio shoegaze fino a sfiorare il metal. La delicatezza della voce e le linee vocali sognanti si scontrano con le chitarre vetrose, brillanti e al limite della dissonanza, immerse in una ritmica singhiozzante a tratti, e a tratti fluida come il vento che soffia tra i rami freschi di rugiada al mattino. La sensazione di rassicurante speranza permea tutte le tracce, che si lasciano ascoltare senza tanti intoppi o noie, senza lasciare indietro la malinconia ineffabile di un sottobosco umido e avvolto dalla nebbia. I Fight Cloud suonano come un incidente aereo tra Mars Volta e A Perfect Circle, con un risultato finale davvero convincente. Alla prova del play infatti, la band risponde egregiamente con un violento inizio dettato dalle ritmiche del brano “Bath Method”, song intervallata da ambienti spaziali e parti matematicamente incastrate come rovi di spine. La traccia è seguita da “Poppyseed” che con il suo arpeggio compulsivo e schizofrenico esplora zone sconosciute dell’immensa foresta pluviale dalla quale i Fight Cloud sembrano provenire. Imprezioniscono l’opera alcuni interludi strumentali come il laconico “Long Live Zorp” e “A Rare Thing like Neon”. Degna di nota è “The Real Ricky”, dove scrosci di chitarre in palm muting, guidate da una ritmica serrata e tribaleggiante, aprono la strada ad accordi risonanti che sostengono una voce lontana e ancestrale. Non mancano nel brano alcuni passaggi propriamente math, tuttavia ben mascherati nel sound da non risultare, come spesso accade per il genere, frammentati, ma anzi mostrano una certa scorrevolezza pur mantenendo intatta la particolarità dei tempi scombinati e delle ritmiche scritte attraverso funzioni matematiche. Pur essendo un'opera di alto valore, si sente ahimé la mancanza di un brano che spicchi sugli altri, che possa trainare la proposta della band anche alle orecchie più esigenti. Il talento dei quattro giovani è evidente, l’originalità pure, ci sono le potenzialità per arrivare molto in alto. Ad ogni modo, un plauso è dovuto per la capacità di equilibrata commistione tra generi in sè molto diversi che nella musica dei Fight Cloud convivono in placida armonia. Il disco chiude con “Year of the Bold”, che mischia scenari aritmetici e compulsivi con ambienti incantati quasi da fiabe Disney, a riprova ancora una volta dell’estro del quartetto. Questo disco è un’esperienza: immaginate di percorrere un sentiero incontaminato e surreale con la sola compagnia di pioggia, foschia e vegetazione aliena; la meta sembra molto distante e il viaggio assai lungo, ma nessun timore potrà raggiungere il viaggiatore perchè... 'We’ll Be All Right'. (Matteo Baldi)

mercoledì 4 maggio 2016

Behold! The Monolith - Architects of the Void

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Il vuoto cosmico primordiale, l’assenza di gioia o dolore, la catarsi mistica come in ammirazione di un uragano che con le sue spire distrugge una città in pochi secondi: questo è l’effetto che fa 'Architects of the Void'. Questa è la terza fatica dell’act Californiano edita per Arctic Forest Records e prodotta dal leggendario Billy Anderson, già al mixer per Eyehategod, Neurosis, Melvins e molti altri mostri sacri. L’artwork, curato da Dusty Peterson, rappresenta magnificamente il contenuto dell’opera, un demone guardiano con una spada che osserva la valle infuocata degli inferi, senza paura, perchè nulla lo può scalfire. I Behold! The Monolith sono una band preparata e consapevole delle proprie capacità. A cominciare da Jordan Nalley frontman della band che, con la sua timbrica vocale degna dei peggiori demoni alati, è in grado di ipnotizzare gli astanti e trascenderli in un’esistenza parallela fatta di tenebre e oscurità. Anche gli altri musicisti non sono da meno: alla chitarra Matt Price dispensa bordate di distorsione e cattiveria senza lasciare indietro schizofrenici assoli e parti lead allucinate, perfettamente sostenute dagli imprevedibili colpi di batteria di Chase Manhattan; completa il quadro il profondissimo e ruggente basso di Jason "Cas" Casanova. Chi scrive ha avuto la fortuna di vedere i Behold! in concerto ed una sola parola mi sovviene: monolitici. In sede live viene esattamente riprodotto 'Architects of the Void': già la magnifica intro, “Umbral Vale”, fa capire in che girone dell’inferno siamo capitati, in una traccia sospensiva, che sembra non avere né fine né inizio, ma che è in grado di tracciare un chiaro sentiero nella valle di fuoco che andremo ad attraversare. La sensazione è quella di varcare la soglia di un’antica città aliena, abbandonata da tempo immemore. Il paesaggio è incredibile, nessuno crederà a quanto ho visto e non potrò condividere l’estasi della visione desolata delle rovine, rimarrà un’esperienza esclusivamente mia. La lama del filosofo, la seconda traccia, forse la più emblematica e immediata del disco, libera un’immensa quantità di energia oscura, come se il demone in copertina entrasse in azione ed inizi a vibrare fendenti con la sua spada nera, nulla può fermare la sua avanzata, tutto viene travolto dalla sua furia. L’iniziale ritmo tribaleggiante, accompagnato da immense note di chitarra, si tramuta in una frazione di secondo in un riff compulsivo così grosso da far pensare ad un esercito di fantasmi in groppa a neri cavalli lanciati al galoppo in un’ultima gloriosa carica verso il nemico. Approdiamo a "Mithirdist", un pezzo mistico con ambientazioni a tratti oniriche, a tratti pesantemente ciniche e disilluse. Qui, oltre a godere di una grande prova di Chase alla batteria, vi segnalo una parte tra le mie preferite, ossia quello stacco in blast beat che ritroviamo più volte nella song per cui sembra quasi mandare il tutto fuori tempo ma in realtà è assolutamente perfetta nello scorrere della musica, come se il demone guardiano subisse per la prima volta qualche colpo di arma nemica che lo fa tentennare ma subito reagire con il doppio della potenza. "Lord of Bones" descrive le tormentate distese degli inferi con un incedere iniziale lento e spezzettato per arrivare ad un delirio finale di rara violenza della lunghezza di quasi 4 minuti. Un ultimo respiro si prende con l’intermezzo drone ambient “Black Days of..” per poi arrivare all’immenso finale con i due conclusivi pezzi “Between Oder and the Vistula”, massima espressione di rabbia del disco, e l’imponente title track, un concentrato di creatività, sperimentazione, esalazioni sulfuree e potenza allo stato puro. Ascoltare quest’opera dei Behold! The Monolith è un’esperienza che non lascia indifferenti, la carica di energia che ne deriva è così potente da distruggere qualsiasi ostacolo che la vita può presentare. L’ascoltatore può attingere forza dallo spirito invincibile di quel demone che vigila sull’intera opera, per difendersi dagli attacchi delle forze negative che minacciano la nostra esistenza reale. (Matteo Baldi)

(Arctic Forest Records - 2015)
Voto: 90

https://beholdthemonolith.bandcamp.com/

domenica 10 aprile 2016

Teverts - Towards the Red Sky

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Alternative
Se sentite il bisogno di un disco ruvido, oscuro e ricolmo di energia incendiaria, i Teverts fanno al caso vostro. Il progetto è orgogliosamente italiano, i ragazzi sono di Benevento, cattivi come il veleno. Un primo disco è uscito nel 2013 intitolato 'Thin Line Between Love & Hate' ed ora abbiamo tra le mani 'Towards the Red Sky' che ci arriva tramite la Karma Conspirancy Records. La copertina è suggestiva e rende giustizia alla musica: corvi famelici e possenti con i cactus che si stagliano davanti ad un gigantesco sole rosso. L’attitudine è stoner non scevra però dalla sperimentazione e dalle derive psichedeliche. I trenta minuti scarsi di questo LP scorrono velocemente e accendono gli animi, come fare rafting in un fiume in piena. Le chitarre, gigantesche, sembrano quasi bruciare ad ogni accordo e la voce al napalm di Phil Liar, che ricorda a tratti il compianto Lemmy Klimster e a tratti King Buzzo, è come vento sulle braci. Dino Sauro e Head Bomb, rispettivamente basso e batteria, sono talentuosi strumentisti che oltre tutto non si prendono poi così tanto sul serio. A parte la vena ironica della band, quello che passa chiaramente è che non c’è nessuna paura di andare avanti, nessun ostacolo può fermare la cavalcata di 'Towards the Red Sky', tutto viene travolto e divorato. La prima song “Control” fa subito capire in che direzione andiamo, con pensanti riff sabbathiani, assoli lisergici in stile Josh Homme e un incedere da panzer tedesco. La title track non è per niente da meno, grazie alle sferzate di chitarre distorte dritte in fronte e lanciafiamme alla mano. Quella dei Teverts non è rabbia, è voglia di arrivare, una tensione all’esplorazione e una ferma convinzione di proseguire sul percorso intrapreso. Avanzando verso il cielo rosso incontriamo “Charles Dexter Ward”, in cui lo stile è quello dei Melvins sia nella scelta delle note che nel modo di cantare, tuttavia il titolo del pezzo nasconde una storia interessante. Questo strano nome è infatti preso da un romanzo del maestro dell’horror H.P. Lovecraft: si tratta della storia di un ragazzo, appunto Charles Dexter Ward, che, ossessionato dalla fama di stregone di un suo lontano parente, inizia a praticare le arti magiche oscure finendo quasi per perdere la ragione. A proposito di “Two Coins on the Eyes” invece vi è uno strana somiglianza con “Blue” degli A Perfect Circle, non facilmente individuabile perché il sentimento dei Teverts è nettamente più disilluso e impassibile rispetto agli eterei e sognanti APC, ma la parte di batteria e alcune lunghezze risultano simili, a riprova della capacità dei Teverts di iniettare diversi stili nella propria musica, riuscendo ad allargare la normale portata dello stoner inteso in senso classico, cioè per come ci è stato donato da band come Kyuss e Fu Manchu. Degno di nota e sicuramente di un ascolto è poi la particolarissima chiusura del disco, “Sanctuary”. L’intro ricorda ambienti dei Pink Floyd che vengono trasfigurati in un vortice di un cinico e impetuoso stoner per poi ritornare graziosamente calmo e sfociare infine nel silenzio. 'Towards the Red Sky' è un concentrato di fiamme e roccia, un viaggio verso il tramonto nella consapevolezza che il sole, come ogni giorno, sparirà dietro le montagne. (Matteo Baldi)

(Karma Conspirancy Records - 2016)
Voto: 85

venerdì 25 marzo 2016

Evenline - Dear Morpheus

#PER CHI AMA: Alternative/Nu Metal, System of a Down, Alter Bridge
L’invocazione all’onirico è chiara nel nome del disco ma in realtà, oltre ai sogni, gli Evenline hanno una forte componente emozionale che è descritta in modo lucido, teatrale ed espressivo. La formazione parigina è composta da quattro elementi, voce chitarra basso e batteria, in attività dal 2009 e con alle spalle l’autoprodotto EP del 2010, 'The Coming of Life'. 'Dear Morpheus' esce nel 2014 ma quello che ascoltiamo oggi è la versione Deluxe che presenta, oltre ad un cd aggiuntivo, una copertina nera con un simbolo simmetrico dal sapore vagamente esoterico, che alla vista risulta elegante ed essenziale. La stessa cosa non si può dire a proposito della cover originale nella quale vi era un richiamo alla stanza, del film Matrix, ove Morpheus offre a Neo la scelta tra rimanere addormentato e venir catapultato in una realtà che molto probabilmente non sarà di suo gusto. Ora se il riferimento è effettivamente al film, è un buono spunto per chiedersi che pillola sceglieremo noi se ci venisse offerta la cover originale che somiglia piuttosto allo studio di un telegiornale. Ma ora è il momento di affidarsi totalmente al tasto play e lasciar andare i sensi. La musica inizia con il suono di un carosello antico, riesco quasi a vedere la ballerina giocattolo senza un occhio e con la gonna mezza staccata che gira mestamente. D'un tratto un assalto crossover mi risveglia dal sogno e mi trasporta all’esasperato e toccante ritornello di “Misunderstood”. A sentire le chitarre mi vengono in mente i Korn e i System of a Down, suoni propri del nu metal che contrastano in modo piacevole con le linee vocali di Arnaud, anche se spesso le melodie si avvicinano più alle linee degli Alter Bridge e Staind. Da sentire almeno una volta è la title track dove Arnaud dà prova della malinconica e decadente espressività della sue linee vocali. L’apice del brano tuttavia è raggiunto nella disperata invocazione di un qualcosa che sia in grado di liberare l’anima dal dolore, concretizzato nel verso “Purge my soul from this growing pain”. Questa breve parentesi tocca alte vette di piacere, una mitragliata di fango, liberatoria come nessun'altra nel disco. Il brano fa riferimenti alla natura e in particolare all'acqua ma anche ai ricordi, si percepisce un’aria di melanconia cupa e romantica, forse il sentimento che ha dato origine e che più è descritto in 'Dear Morpheus'. I testi sono una parte importante dell'opera che denota una forte predisposizione al cantautorato, con la voce chiara e molto presente per l'intera lunghezza del disco. Le immagini che le parole ci regalano sono eterogenee e non sempre collegate tra loro. A volte si sente che la lingua utilizzata nel cd non corrisponde a quella con cui sono stati pensati i testi: lo si può intuire dalla sintassi e dalla pronuncia che, seppur molto buona, lascia trasparire la bandiera dei quattro musicisti transalpini. Veniamo ora al secondo cd di questa Deluxe Edition che reca il titolo 'In the Arms of Morpheus'. Si tratta di una raccolta di canzoni presenti nella versione studio ma qui suonate dal vivo in un set acustico. Il primo impatto è che i pezzi in questa dimensione trovino una forma che meglio si addice rispetto all’elettrica. I testi hanno modo di stendersi e rendere le immagini in essi contenute più libere di prendere forma nella mente dell’ascoltatore. In particolare la versione acustica di “Hard to Breathe” è quasi più riuscita della versione elettrica: si tratta di un blues diabolico con un ritornello cristallino e lucente, trademark a cui gli Evenline ci hanno abituato. Nel set acustico, anche il basso suonato in slap e la batteria leggermente più tappata rispetto all’elettrico, riescono a sostenere i pezzi in modo da conservare quella spinta rock che li ha generati, ma allo stesso tempo non vanno a invadere i testi e le melodie; qui l’equilibrio viene sicuramente raggiunto. La chiusura del disco è affidata a “Already Gone”, voce e piano, un commiato da accendino acceso, lacrime e cuore infranto. Pare che qualcuno sia stato lasciato e che non riesca ad accettare la vita senza la sua metà. Triste si, ma non mi faccio troppo coinvolgere dalla malinconia, sono sicuro che grazie a questo pezzo Arnaud non avrà nessun problema a trovare un'altra ragazza! (Matteo Baldi)

(Dooweet - 2015)
Voto: 75

sabato 12 marzo 2016

Spheres - Throposphere 5

#PER CHI AMA: Heavy/Jazz Strumentale
'Throposphere 5' è un esempio di come il metal possa essere divertente ed anche colto. Un disco coerente e originale capace di alienare l’ascoltatore tra melodie d’altri tempi e blast beat impetuosi. È Chambéry la città ad aver dato i natali agli Spheres nel 2008; il demo uscito nel 2013 già mostrava le caratteristiche principali della band che si sono poi completamente espresse in questo 'Throposphere 5' uscito nel 2016, un disco prevalentemente metal ma con importanti contaminazioni jazz che aggiungono un elemento di leggerezza, rendendo l’opera equilibrata e godibile. Gli Spheres ricordano nei tratti jazz i Color Haze, nei tratti metal a volte sembra di sentire i Black Cobra e a volte i Downfall of Gaia. La composizione è il punto forte, tutti i passaggi sono chiari e ben delineati, infatti malgrado la complessità della musica, non è per nulla difficile seguirne il senso. Traspare la passione di Fred, Mat, Syd e Ced che dichiarano sulla pagina facebook di non avere interessi commerciali o particolari ambizioni, solo il desiderio di suonare insieme e rendere partecipi gli altri dell’armonia che riescono a creare. Con una premessa del genere un fatto è certo, gli Spheres si sono divertiti un sacco a scrivere questo disco! E non si sono limitati a tenere questa gioia per sè ma hanno deciso di impregnare di un’aria scherzosa tutte le parti di 'Throposphere 5', dalla musica all’artwork, dai titoli dei brani alla loro composizione. Quest’ultima come detto è senza dubbio il punto di forza, per rendere l’idea è come ascoltare una persona che in un discorso riesce sempre a uscirsene con la battuta pronta. La grafica invece è stata curata da Aurelien Bartolucci, designer non nuovo alle copertine musicali. Bartolucci ha sicuramente colto lo spirito del gruppo, le macerie e gli oggetti di uso quotidiano affiancate allo scheletro di un t-rex, sembrano fluttuare nel vuoto pur conservando un tono scherzoso seppur intenso e presente. Tornando alle onde sonore, vediamo che il jazz e il metal sono in armonica e felice convivenza. L’uso della batteria risulta più vicino al metal, il basso invece ha uno stile e un suono decisamente orientati al jazz, le chitarre sono graffianti ma non imponenti nelle parti intense e nelle altre sono invece brillanti e cristalline. L’opera è divisa in due parti, la prima è lineare ed in generale più semplice mentre la seconda è decisamente più malata. Le parti sono separate da “The King of Rats” un divertente coro a cappella, l’unico momento del disco in cui sentiamo delle voci umane. Un’esortazione su tutte “save the congo space program”, fa sorridere e dubitare della sanità mentale dei musicisti. Il disco apre con “Tarte Sphérique”, un multiforme agglomerato di leggerezza e intensità. Da notare a circa tre minuti, lo stacco da una parte in blast beat ad una assolo sornione e sinuoso che ricorda nel suono e nello stile Byan May. Uno dei pezzi che mi ha colpito particolarmente è “Swim Among the Stars”, che riesce a creare un ambiente ostile ma non minaccioso, come trovarsi davanti uno di quei personaggi cattivi dei videogiochi che sta per lanciare un attacco micidiale, ma si sa che è finzione e la paura nemmeno ci prova ad affiorare. La parte finale del disco si fa decisamente più nevrotica della prima, emblematica “Captain Frequence” una giusta chiusura all’opera, tra ritmiche composte, ambienti celestiali e sequenze di accordi al limite del dissonante, senza mai rinunciare alla spinta animalesca del metal. La schizofrenia malata degli Spheres crea effetti psicotropi ed epilettici in quest’ultima parte, ma si può sempre trovare sollievo nelle derive da camera che rassicurano e placano gli animi anche se per pochi istanti. Credo che questo sia un disco perfetto per dimostrare di come la musica cosiddetta “pesante” possa essere leggera e divertente. Jazz inquinato col metal, un caffellatte estremo. Da provare assolutamente. (Matteo Baldi)

(Self - 2016)
Voto: 80

domenica 28 febbraio 2016

Sahona - S/t

#PER CHI AMA: Rock Progressive
I Sahona sono una formazione francese di matrice indie rock con richiami progressive e attitudine shred metal, in attività dal 2014. Siamo di fronte ad una classica rock band di quattro elementi e questa di cui parleremo, è la prima ed omonima pubblicazione autoprodotta. La copertina rappresenta, per assurdo, quello che le orecchie andranno a percepire, cioè un paesaggio poco definito e surreale in cui una piccola ombra antropomorfa osserva la strada che sta percorrendo, indecisa se proseguire o virare sul sentiero che si stende alla sua sinistra. Il nome della band deriva dal cognome del cantate chitarrista Charly Sahona, il principale autore e mente dell’opera. Charly è un gran musicista senza dubbio, ha perfetta padronanza della sua voce, della sua chitarra e dei suoni in generale, ma purtroppo qualcosa non torna. Sembra infatti che Charly stia guidando una Ferrari ma non abbia idea di dove stia andando. Gli altri componenti della band sono altrettanto validi tecnicamente ma ciò che manca ai Sahona non è sicuramente il saper suonare ma è la ricerca di significato, di qualcosa da trasmettere. Ma ora basta parole, inseriamo 'Sahona' nel lettore e vediamo cosa esce. All’inizio la sensazione è piacevole, c’è un forte gusto per la melodia e i suoni sono curati in maniera quasi maniacale. L'opener “Light of Day, Sense of Life” per qualche attimo mi culla e mi soddisfa, grazie a uno scenario pacifico, psichedelico ed etereo dal sapore molto Muse; anche la voce mi ricorda molto quella di Bellamy, le note sono suadenti e cantate con forte carica emotiva. Tuttavia questo paesaggio non riesce a trovare una sua giusta forma nella mente di chi ascolta perché interrotto da parti che musicalmente sembrano non avere molta attinenza con le precedenti, ogni parte ha una sua linea vocale differente e una diversa sequenza di note. L’effetto è quello di non riuscire a seguire il pezzo per le troppe informazioni proposte, l’orecchio è continuamente sorpreso da nuove idee ma allo stesso tempo spaesato in quanto non riesce a trovare il filo conduttore che guidi le sensazioni attraverso il brano. Il livello tecnico però rimane altissimo, non c’è una sbavatura e tutti i musicisti sono perfettamente amalgamati. Il disco prosegue senza troppe sorprese, tutte le tracce presentano caratteristiche simili, cioè una strofa psichedelica stile Muse, un ritornello distorto e l’immancabile assolo shred, con mille note eseguite a velocità supersonica, peraltro sempre in modo impeccabile. A parere mio questo tipo di assoli risultano fuori luogo con il sentimento delle canzoni, e purtroppo molto spesso ne rovinano l’atmosfera. Vale la pena ascoltare questo disco per imbattersi in “I’m Alive”, forse il pezzo più interessante del cd. Si tratta di una ballata con un caldo suono di pianoforte elettrico come sottofondo, la voce è sognante e malinconica e l’intreccio di strumenti crea un paesaggio onirico senza tempo. Questa song sarebbe andata in loop per un bel po’ nel mio stereo, se non fosse presente l’elemento di disturbo degli assoli; in questo disco sembra che ogni brano debba per forza contenerne uno. Da notare la gran prestazione di batteria di Stephane Cavanez che negli ultimi brani del lavoro trova la sua maggiore espressione; in generale in tutta l’opera, la precisione della ritmica è senza dubbio un punto di pregio. Alla fine, 'Sahona' è un lampante esempio di come la capacità tecnica non sempre riesca a produrre della musica che parli all’anima. Dalle note si percepisce un ego molto presente e una forte tendenza all’autocelebrazione; ma la musica deve fare bene a tutti, non solo a se stessi. In conclusione una cosa bella: sicuramente quando l’ombra in copertina si renderà conto di quale via è destinata a percorrere, la musica dei Sahona ci regalerà momenti memorabili. (Matteo Baldi)

(Self - 2016)
Voto: 55

giovedì 11 febbraio 2016

Malke - Days After Tomorrow

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal, Russian Circles
Regnano sovrane la decadenza e l’introspezione nel mondo dei Malke, act proveniente da Barcellona. Il trio post rock strumentale è formato da David (chitarra), Mario (basso), Albert (batteria). Nel 2014 i catalani escono per la prima volta allo scoperto con "Santos", un singolo allucinato e surreale, in free download su Bandcamp. Il disco d’esordio 'Days After Tomorrow' viene invece pubblicato nel Novembre del 2015: qui il suono è oscuro e spettrale, a tratti maestoso, a tratti impalpabile. Tuttavia non mancano estatici spiragli di luce che conferiscono all’opera un respiro spirituale e profetico. La fantasia inizia a correre già guardando la copertina, una scelta a dir poco azzeccata! Una luna nuova ed un freddo cielo notturno fanno da sfondo ad un magnifico falco che plana ad ali spiegate tra i grattacieli di un’oscura città, probabilmente disabitata da centinaia di anni. In questo paesaggio post apocalittico un’umanità decimata dalle forze della natura si rifugia nel sottosuolo, sopravvivendo tra stenti e sofferenze e combattendo per ricostruire la civiltà. Aprendo il digipack in cartoncino, scopro stampato sul disco il muso del falco che mi fissa con i suoni tre occhi. Come il rapace vola muto sulle rovine della civiltà anche 'Days After Tomorrow' fa volare l’ascoltatore tra paesaggi surreali e sentieri inesplorati, il tutto senza proferire una parola. I dischi strumentali a volte riescono ad essere più suggestivi proprio perché esulano dal significato delle parole e permettono di immergersi completamente nelle sensazioni che la musica trasmette; i Malke di sicuro hanno fatto proprio e messo in pratica egregiamente questo concetto. I nomi dei brani contribuiscono a rendere più credibile lo scenario di desolazione e tenebre, uno su tutti "Reise Nach Dachau" (Recarsi a Dachau), probabilmente un invito a visitare il campo di concentramento nazista e magari riflettere su come l’uomo sia in grado di infliggere dolore e morte a se stesso. Quasi un avvertimento profetico quello dei Malke, ci esortano ad evolverci e a guardare dentro noi stessi, forse l’unico modo per evitare di dover vivere sul serio nel mondo descritto da 'Days After Tomorrow'. Parlando strettamente di suono è sicuramente da notare il metodo di registrazione, cioè quello della presa diretta live. Sicuramente questa scelta è a favore dello spirito dell’opera che risulta molto diretta e senza fronzoli. L’esecuzione a volte non è perfetta ma è questo il fascino esercitato dalla registrazione live, si sente chiaramente la componente umana, con il disco che sembra suonato davanti all’ascoltatore. La scelta dei suoni di chitarra non eccessivamente saturi, permette alla melodia di prevalere rispetto alla ritmica seppure il disco presenti interessanti cambi di metrica che rendono le canzoni movimentate e dinamiche. Si percepisce chiaramente l’attenzione posta nella composizione della musica più che alla sua “estetica”, in questo primo disco dei Malke prevale la ricerca del significato e dell’espressione ma anche dell’equilibrio spirituale. Il disco inizia con "1402 – 1923", song il cui nome sembra evocare una data, confesso di aver provato a cercare il significato ma il mistero si è rivelato più fitto del previsto. Comunque il pezzo offre un ambiente psichedelico ed etereo, rotto a metà del suo sentiero da un guizzo di pazzia distorta. Poi modula ritmica e intensità fino al termine creando un senso di insicurezza ed instabilità ma anche infondendo un certo grado di coraggio e determinazione, quella che serve per esplorare un posto sconosciuto in una notte d’inverno. La seconda traccia, "Alfas", richiama lo stile dei Russian Circles, ma con suoni più diretti, taglienti e senza fronzoli. Gli strazianti arpeggi distorti della chitarra di David coronano il brano dipingendo scenari di desolazione ed inquietudine. Il corposo basso di Mario crea degli ambienti mistici e spaziali, che ricordano band come i My Sleeping Karma o i Monkey3. Il brano presenta un buon equilibrio tra l’oscurità delle parti distorte e quelle più eteree e risulta in generale godibile e ben costruito. Segue la crudezza di "Maskirowka" che ci riporta a volare un po’ più in basso verso il tartassato suolo terrestre, dove la chitarra e il basso tracciano dei profondi solchi nell’asfalto dissestato mentre l’ipnotica batteria di Albert mantiene l’incantesimo. Arriviamo quindi a "Nebula" che inizia con note sognanti incalzate da una leggera ritmica, come fosse il falco che si posa sulla guglia di un palazzo in rovina che guarda la desolazione sottostante e d’un tratto, decida di spiccare il volo. Dall’alto guarda le strade e osserva la desolazione in cerca di qualche piccolo animale sopravvissuto che serva da sollievo alla troppa e intensa fame. Dopo un intenso intenso viaggio tra le anime delle vittime dei campi di concentramento di "Reise Nach Dachau" possiamo lasciarci cullare dalla coda "Tro", uno splendido regalo d’addio che i Malke ci regalano. Il falco oramai stanco per l’estenuante ricerca della preda si concede qualche ora di riposo al sicuro nel suo nido, sotto una grondaia di un edificio in frantumi, per cercare di raccogliere le energie prima che i morsi della fame tornino a farsi sentire. (Matteo Baldi)

(Consouling Sounds - 2015)
Voto: 75

lunedì 1 febbraio 2016

Consciousness Removal Project - Tides of Blood Part I

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Neurosis, Tool
È la sesta proposta questa dei Consciousness Removal Project che si concretizza in 'Tides of Blood Part I'. Se vi piacciono 'Panopticon' o 'Oceanic' degli ISIS, andrete letteralmente fuori di testa per questa “Marea di Sangue”. È il caso di riflettere sul nome della band e sul titolo del disco, che sono stati pensati e collegati con maestria. Consciusness Removal Project, la rimozione dello stato di coscienza è l’obiettivo di qualsiasi meditazione e serve a staccare l’anima dal corpo terreno per sollievo al nostro spirito imprigionato in questo corpo terreno, e 'Tides of Blood' per una mezz’ora vi permetterà di provare quest'esperienza. Antti Loponen, principale compositore ed esecutore del disco, assieme all’egregio batterista Artturi Makinen, ha ideato delle maree di sangue ('Tides of Blood' appunto) che si alzano e si abbassano a tratti lentamente e a tratti per assolvere al compito di rimozione della coscienza. A parer nostro l’esperimento è largamente riuscito! In generale, il disco alterna lunghi ambienti onirici ad efferate spinte di rabbia, una dicotomia che è ereditata dal genere e che costringe l’ascoltatore ad espandere la propria percezione. La presentazione grafica è forse l’unico punto debole di quest’opera, la scelta del font sia interno che esterno e in generale l’artwork, a mio avviso, non rende giustizia ad un’opera così bella. In ogni caso per una piccola mancanza per gli occhi, le orecchie ringrazieranno e chiederanno a gran voce un altro play. Siamo di fronte ad una composizione particolare anche nella divisione delle tracce. Troviamo due nodi principali su cui gira tutto il disco, “Beyond the Line” e "Brute Force Majeure", gli unici pezzi in cui è presente la voce. Questi due mostri di suono sono incorniciati da una breve intro che dà inizio al disco come fosse un rituale ed infine troviamo un ultimo pezzo strumentale di coda, che racchiude perfettamente lo spirito della registrazione e dà un giusto commiato all’opera. Il significato dei testi, presenti all’interno del cd, è molto profondo, seppur presentino una poetica ed una terminologia molto semplice che non sempre contribuisce a conferire più suggestione alla musica. Antti dice di non avere paura ad oltrepassare la linea perché anche se in questo modo tutto ci sembra più verde, in realtà dall’altra parte, regnerà la pace eterna. Alcune immagini che ci regalano i testi sono ben riuscite, come le linee disegnate sulla sabbia del deserto che vengono lavate via dalla marea di sangue ed altre invece sono meno efficaci ma fortunatamente è la musica in sé ad essere densa di significato tanto da farci dimenticare il significato delle parole. Tolti questi piccoli appunti, il messaggio di pace che 'Tides of Blood' porta in dote nelle sue liriche ci appare chiaro e forte ed è sicuramente da elogiare. Ora però parliamo di musica. L’opera inizia con una preghiera in una lingua sconosciuta di un monaco eremita che sembra ripreso dall’interno di una grotta, la voce del santone sfuma per atterrare dolcemente sul vacuo incipit di “Beyond the Line”. Il pezzo come detto è uno dei due pilastri del disco, e si estende per più di dieci minuti di ineffabile leggerezza e truce realtà. La chitarra di Antti a volte infligge potenti sferzate di frequenze basse e oscure e a volte si allarga in splendidi arpeggi sorretti da voci lontane. La batteria di Artturi segue con molta carica emotiva l’evolversi del pezzo ed incatena con le sue ritmiche tutti gli scenari che il pezzo offre, e sono molti. Punto di forza sicuramente la performance vocale di Antti con uno screaming basso, sporco e potente in stile Aaron Turner, inoltre la scelta delle voci di accompagnamento crea un’aura religiosa e mistica che ricorda a tratti gli OM e i Tool. Dopo un poderoso finale si apre ”Brute Force Majeure”, un’altra apocalittica composizione di quasi dodici minuti che costituisce forse il pilastro più importante del disco. Il pezzo inizia con un crescendo che trasforma la canzone da esile ed eterea a potente e rabbiosa, proseguendo con sognanti intrecci di basso e chitarra dal sapore molto Toolliano fino ad arrivare ad intensi passaggi di riff distorti e di ritmiche serrate proprie dei primi ISIS. Gli ambienti onirici sono egregiamente valorizzati da dolcissime voci femminile e spaziali interventi di lap steel guitar. Anche qui è forte la componente religioso-esoterica, efficace nel dare al tutto un sapore misterioso e primordiale. Arriviamo infine a “A Thousand Hollow Words”, pezzo di chiusura del disco introdotto da una piccola traccia di suoni malati. La sensazione è quella di essere nel mezzo di una radura in un fitto bosco ed osservare gli animali che si rincorrono, le foglie che sfregano tra loro e le nuvole che fanno il loro corso. D’un tratto il tempo si rompe, le nubi scaricano pioggia e l’ambiente diventa ostile e minaccioso. Ma un senso di protezione e forza interiore permea l’intera opera, tanto da far sentire l’ascoltatore al sicuro da qualsiasi cosa possa accadere. Consiglio ai fan di ISIS, Tool, Neurosis, Rosetta e a tutti gli appassionati di post metal, l’ascolto di 'Tides of Blood Part I', sarà un dolce naufragare in questa marea di sangue. (Matteo Baldi)

(Self - 2015)
Voto: 85