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mercoledì 17 aprile 2019

PoiL - Sus

#PER CHI AMA: Math/Jazz/Prog, Mr. Bungle
In arrivo dalla Francia il nuovo lavoro dei folli PoiL intitolato 'Sus', fuori per la sempre più delirante etichetta transalpina Dur et Doux. Cinque i pezzi a disposizione per il terzetto originario di Lione, in giro ormai dal 2006 con il loro concentrato irriverente di prog, jazz ed elettronica. Il nuovo lavoro, come se ce ne fosse stato bisogno, riprende là dove aveva chiuso con 'Brossaklitt', richiedendo forse un'apertura mentale ancor più spiccata per approcciarvisi. Fatto sta che iniziando con l'ascolto di "Sus la Peìra", la sensazione è quella classica di assistere ad una jam session d'improvvisazione tout court, quindi sia a livello musicale che lirico, visto che il linguaggio utilizzato nei testi sembra totalmente inventati, cosi come accaduto già in passato. Quindi diventa anche complicato star dietro a questi musicisti che in dodici minuti riescono a suonare tutto e il suo contrario, in un vortice sonoro che vaga tra suggestioni che pescano appunto da qualsiasi dei generi già menzionati, a cui aggiungerei anche math, avantgarde e bossanova. Le contorsioni stilistico-strumentali dei nostri sono, come potrete immaginare, da Cirque du Soleil, quindi sicuramente non troppo facili da seguire, anche se alla fine davvero affascinanti. Ma l'ascolto dei PoiL credo sia un esercizio per pochi eletti. "Lo Potz" è una breve nenia di poco più di un minuto che introduce a "Luses Fadas", song dall'incipit rumoristico, con voci (a tratti quasi rappate) messe in primo piano su di una ritmica totalmente scomposta, spezzata, sghemba, chiaro il concetto? Questo per ribadire che 'Sus' non è un disco cosi facile a cui accostarsi, servirà una certa preparazione psicologica per poterlo apprezzare, altrimenti il rischio è di rimanere totalmente disorientati dalla proposta dei tre pazzoidi, anche laddove la musica sembra fluire in modo lineare per almeno quattro secondi. Per il resto i tre cabarettisti lionnesi si lanciano in suoni completamente imprevedibili dove il mantra rimane #totalelibertadespressione. Ascoltatevi a tal proposito "Grèu Martire" per intuire solo lontanamente di cosa stia parlando: free jazz, passaggi nonsense quasi al limite del noise, chorus illogici, tempi completamente sghembi e va beh, cumuli di sperimentazione a non finire. E a rapporto mancano ancora gli ultimi "semplici" 14 minuti di "Chin Fòu" per decretare la definitiva psicolabilità dei nostri. Da un inizio di prog rock esoterico, ecco veder ancora una volta evolvere il sound dei nostri attraverso territori math, funk, jazz e qui anche attraverso sprazzi tribalistico-arabeggianti che eleggono l'ultima song del lotto quale mio pezzo preferito, forse perchè nella sua complessità contorta, rimane anche il brano più facile da ascoltare, se cosi si può dire. Insomma se ancora non conoscete i PoiL, e siete di larghe vedute, vi piacciono le cose stralunate alla Mr Bungle/Fantomas, unite al prog di scuola King Crimson miscelate con le allucinazioni dei Pink Floyd, allora potreste anche provare ad avvicinarvi a questi suoni, se poi lo fate sotto l'effetto di allucinogeni, beh preparatevi anche a vedere serpenti fosforescenti volanti o farfalle giganti dotate di pattini, perchè alla fine quella messa in scena dai PoiL è musica dell'assurdo, per cui sarà lecito immaginare tutto quello che volete, non preoccupatevi, non sarete additati come persone anormali. (Francesco Scarci)

(Dur et Dux - 2019)
Voto: 77

https://poil.bandcamp.com/album/sus

domenica 24 marzo 2019

Ni - Pantophobie

#PER CHI AMA: Mathrock/Avantgarde/Noise Rock, Fantômas, Zu
Chi, per passione o per lavoro, scrive si sarà trovato almeno una volta a sperimentare un blocco creativo: le ore e i giorni passano, l’illuminazione non arriva e il foglio desolatamente vuoto davanti a sé, inizia a generare un’ansia crescente. Questa spiacevole sensazione, comunemente chiamata “blocco dello scrittore”, pare abbia un nome scientifico: leucoselofobia, letteralmente “il terrore nell’osservare una pagina bianca”, che probabilmente trascende la dimensione puramente letteraria e finisce per accomunare un po’ tutti gli artisti, compresi i musicisti alle prese con un nuovo album.

I Ni avranno mai sperimentato questa fobia? Io me li immagino chiusi nella loro sala prove di Bourge-en-Bresse, mentre suonicchiano senza convinzione alla disperata ricerca dell’accordo giusto, del riff efficace, di quella vibrazione interiore che all’improvviso spinge le dita di chitarristi e bassisti a muoversi veloci sulle tastiere dei propri strumenti e i batteristi a pestare con energia le pelli dei tamburi. Mi piace pensare che sia stato proprio il tentativo di esorcizzare un blocco creativo ad ispirare 'Pantophobie', quarto album di questo eccentrico quartetto transalpino, incentrato come da titolo sulla “paura di tutto”.

La genesi dell’opera è stata ovviamente tutt’altro che frutto del caso: ascoltando questi undici brani (in realtà nove più due inquietanti tracce di silenzio assoluto in apertura e chiusura) e dando un’occhiata alla storia della band, è chiaro che i Ni, dotati di grande tecnica ed impressionanti abilità compositive, abbiano progettato l’opera nei minimi dettagli, offrendoci un disco volutamente nevrotico ed imprevedibile, basato su ritmi concitatissimi e repentini cambi di dinamica su cui vengono sviluppati intrecci ed armonie allo stesso tempo stravaganti ed eleganti. È difficile attribuire un’etichetta alla proposta musicale del gruppo, ma possiamo tranquillamente parlare di un math/noise rock strumentale in cui tempi dispari, i riff storti ele sequenze bruscamente troncate la fanno da padrone, ma nel calderone vengono riversate influenze avantgarde metal, hardcore, jazz e persino qualche pennellata di ambient e post-rock; l'eco di Mr. Bungle, Fantômas e delle varie creature di Mike Patton sono evidenti, ma è possibile cogliere anche richiami ai nostrani Zu.

Il tutto pare realizzato col preciso obiettivo di non dare alcun punto di riferimento e lasciare l’ascoltatore costantemente spiazzato, quasi a voler riprodurre in musica lo stato di confusione e il senso di minaccia provato da chi soffre di una delle fobie che danno il nome ai pezzi: “Leucosélophobie”, “Héliophobie” (la paura della luce del sole), “Alektorophobie” (paura delle galline), “Kakorraphiophobie” (paura del fallimento), tanto per citarne alcune, sembrano termini usciti da un’enciclopedia psichiatrica per definire terrori assurdi, nei quali possiamo leggere una sottile ironia da parte della band nel ritrarre una società sempre più spaventata ed in balia di apprensioni spesso prive di senso.

In 'Pantophobie' il tema della paura non si limita dunque a fare da sfondo all’estro compositivo degli strumentisti: l’intero lavoro si presenta come un vero e proprio "Urlo di Munch" musicale, la perfetta rappresentazione di un’epoca priva di certezze e dominata da un’inquietudine di cui è difficile cogliere le radici. La cura proposta dai Ni, celata dietro tempi composti e ritmiche folli, è piuttosto semplice: imparando a non prenderci troppo sul serio forse ci accorgeremmo che i nostri mostri non fanno poi così paura. (Shadowsofthesun)


martedì 18 dicembre 2018

Project Helix - Robot Sapiens

#PER CHI AMA: Thrash/Metalcore/Math
Non è che ci sia troppo sul web a raccontarci di questi Project Helix, se non che si tratti di gruppo teutonico originario di Stoccarda, dedito a un thrash metalcore carico di groove e che questo EP sembra voler affrontare temi relativi alla difficoltà di vivere in un mondo moderno, dove in qualche modo si deve "funzionare come macchine" e quindi 'Robot Sapiens' è una sorta di prototipo di ciò che "il sistema" vuole che siamo. A completamento delle liriche, i nostri affrontano anche il tema della disumanità in generale. Ma iniziamo a dare una musica a queste liriche cosi tematicamente pesanti e via che si parte con i veloci riffoni di matrice thrash metal di "Demons Aren't Forever" e al vocione animalesco del frontman Tim Gallion, che inizia a ringhiare su un sound iper ritmato di scuola Gojira. Il vocalist alterna poi il suo falso growl con un cantato più pulito, orientato al versante post-hardcore che contestualmente vede anche un ammorbidimento delle chitarre e ad uno stravolgimento generale del sound. Ci ritroviamo in balia di un nervoso riffing con la seguente "Rorschach Dilemma", una traccia che sembra incanalarsi invece in schizofrenici territori math, complici tematiche verosimilmente legate ad una qualche malattia della psiche umana. Il pezzo si muove su ritmi sincopati, cambi di tempo da paura, come quelli che ritroviamo a sessanta secondi dal termine, in un finale in cui metalcore e djent (stile Tesseract) si sposano alla perfezione. La voce del frontman continua con alterne fortune nella sua battaglia tra urlato e pulito. Di altra pasta "I Don't Hear the People Sing", più diretta, una song che può considerarsi una certezza in termini thrash metalcore ma che in realtà dice poco o nulla di nuovo. Meglio allora quando i nostri si muovo su terreni più intricati, a macinare riffs pesanti e urlarci sopra, sono capaci un po' tutti. Li promuovo pertanto nella loro componente più ricercata, ma anche più ostica da digerire: "Conduct Disorder" ha un doppio strato di chitarre, uno ritmato di scuola Pantera, l'altro che srotola qualche riff più psicotico che dona inevitabilmente imprevedibilità e originalità alla proposta di questi giovani musicisti teutonici. "Echoes" è un pezzo che vede ancora ritmiche frastagliate, suoni che sembrano arrivare da mille direzioni differenti, cosi come le vocals del buon Tim che si palesano in mille modi diversi. "Control", come già dichiarato dal titolo, parte un po' più compassata per provare a sfogarsi nel corso dei suoi quattro minuti, con tutto l'armamentario palesato sin qui dai Project Helix. 'Robot Sapiens' è in definitiva un album complesso, articolato, che al primo ascolto pensavo banalissimamente inserito nel filone metalcore, ma che alla lunga, mette in scena una serie di trovate che dimostrano per lo meno una certa ricercatezza di suoni da parte della compagine germanica. Al solito, siamo lontani da un risultato che possa definirsi memorabile, serve ancora una buona dose di sudore per venir fuori dall'anonimato legato alla moltitudine di band che popolano l'underground. Ma rimboccandosi le mani e mettendocela tutta, chissà non se ne possano sentire delle belle in futuro. (Francesco Scarci)

sabato 8 dicembre 2018

El Tubo Elastico - Impala

#PER CHI AMA: Psych Rock/Math/Jazz
Chi pensa al classico album di post-rock strumentale, avvicinandosi agli spagnoli El Tubo Elastico, si sbaglia di grosso. L'unica cosa vera è infatti l'essere privo di una guida vocale, cosa che da sempre non mi rende felice, però se vi affiderete anche voi alle cure di questi musicisti provenienti da Jerez de la Frontera, beh credo per una volta uno strappo alla regola si possa anche fare. Perchè questa mia transigenza? Ve lo spiego subito: 'Impala' è un album caleidoscopico che si muove tra mille colori e sensazioni, coniugando il psych rock con il math, il funk ed altre divagazioni jazz che esulano quasi dalle mie competenze, suggestioni esotiche e reminiscenze dal sapore pink floydiano. Ascoltando e riascoltando il cd, sarete certamente più bravi di me a indovinare a cosa o chi i nostri s'ispirano, mantenendo comunque intatta la loro enorme personalità. Il tutto è testimoniato dalla lunga e strepitosa opening track, "Ingrávido", una song che sublima tutto quanto scritto sin qui in quasi dieci minuti di musica, impreziosita anche da qualche tocco di synth. Più calda ed intimista la seconda song, "Antihéroe", con l'elegante epilogo tra chitarra acustica ed elettrica, mentre in sottofondo battono pulsazioni electro. Poi è un crescendo entusiasmante, tra saliscendi ritmici guidati dall'egregio lavoro delle chitarre e da un'elettronica che va divenendo sempre più preponderante. Non è un album semplice 'Impala', ma sia chiaro che potrà regalarvi enormi soddisfazioni, come quelle che si assaporano nelle più sofisticate "Turritopsis Nutricula" prima, dove compaiono delle spoken words, e nelle due parti di "El Acelerador de Picotas (Pt. I Ignición / Pt. II Colisión)" poi. Nella prima delle due song, ammetto di aver temuto si trattasse più di un esercizio di stile che altro, per mostrare l'eccellente livello qualitativo del combo iberico. La tecnica del quartetto è davvero pazzesca e l'inserimento di alcuni ospiti di spicco, sembra elevarne ulteriormente la caratura, in un quadro qui fortemente virato verso il jazz. Nei dodici minuti di "El Acelerador..." mi sembrano invece confluire sonorità latine che ricordano il buon Carlos Santana che vanno a miscelarsi nuovamente col jazz ed una buona dose di rock progressivo, guidato dal basso magnetico di Alfonso Romero (mostruoso in tutto l'album), peraltro responsabile insieme a Daniel Gonzáles - uno dei due chitarristi - delle ottime keys di quest'album. Il massiccio impianto ritmico dell'ensemble spagnolo si completa poi con l'estrosa performance alla batteria e percussioni di Carlos Cabrera e Vizen Rivas all'altra chitarra. "La Avispoteca" ci guida in anfratti musicali che odorano quasi di Medioriente con le strutture percussive ad assumere altre forme e colori assai sofisticati. Sembra di trovarsi nel bel mezzo di un souk arabo, dove tra la calca di gente che affolla strade e piazze, si trovano abili musicanti, che affascinano ed ipnotizzano con la loro musica. L'ultima tappa del nostro viaggio esotico è affidata a "Impala Formidable", un brano che raccoglie tecnica, idee e deliri vari di questi incredibili El Tubo Elastico. (Francesco Scarci)

sabato 29 settembre 2018

ISA - Chimera

#PER CHI AMA: Progressive Death, Atheist, Between the Buried and Me
In questo momento sembra che le one-man-band stiano spopolando alla grande. L'ultima giunta sulla mia scrivania arriva dagli Stati Uniti ed è opera dell'artista visionario Dan Curhan. La band si chiama ISA mentre l'album, intitolato 'Chimera', contiene nove tracce più intro e outro, dedite ad un death metal psichedelico e dalle tinte progressive, senza comunque tralasciare le radici acoustic folk nelle quali affonda la musica dell'artista del Massachusetts. "Stage I: Descent" ne è infatti testimone, combinando musica prog con suoni estremi e rudimenti folk. Con "Stage II: Fear", le carte in tavola vengono completamente sparigliate e ci troviamo di fronte ad un techno death che trova attimi di tranquillità in un arpeggio poco prima della parte centrale, prima di rilanciarsi in un aggrovigliarsi di ritmiche, voci tortuose, chitarre e percussioni funamboliche, che evocano un che degli Atheist di 'Unquestionable Presence'. Il disco non è proprio facilissimo da essere assimilato, ma la cosa non mi spaventa, anzi mi stimola ad ascoltare con maggiore attenzione le prodezze del musicista di Somerville che in "Stage III: Heathens", si ritrova a sussurrare su partiture rock, a dimostrare l'enorme quantitativo di carne al fuoco contenuto in 'Chimera'. I ritmi sono decisamente più blandi, anche quando Dan pesta maggiormente sul pedale dell'acceleratore o si diletta nell'incrociare screaming, growling e clean vocals. Ma con "Stage IV: Evil", i suoni si fanno ancora più lugubri quasi al limite del funeral doom, sostenuti da un dualismo vocale aspro e profondo. La musica tuttavia persiste nel suo gioco di chiaroscuri, cambi di tempo e fasi disarmoniche che verosimilmente hanno il pregio (ma anche il difetto) di disorientare l'ascoltatore. È qui che emergono più forti le influenze techno death della band, tra Atheist e Pestilence, in un tortuoso cammino di belligeranza cerebrale che porta ad estendere i confini musicali della band dell'East Coast anche verso Between the Buried and Me e The Dillinger Escape Plan, in quella che probabilmente risulta essere la traccia maggiormente cervellotica del lotto. Non lasciatevi però ingannare dalle movenze "pink floydiane" in apertura di "Stage V: Reflection", abbassare la guardia permetterà a Dan e ai suoi ISA di aggredirvi con maggiore semplicità nella seguente "Stage VI: Lust", folle, brutale ed atmosferica quanto basta per definirla la traccia più idiosincratica dell'album. Bravo il buon Dan a dare ampio sfoggio di sperimentazioni musicali e originalità, seppur manchi ancor quel pizzico di fluidità in grado di conferire una maggiore accettabilità (o digeribilità) del prodotto. Rimane qualche altro episodio alquanto interessante da ascoltare: il lato progressive di "Stage VII: Freedom" ad esempio o l'imprevedibilità di "Stage VIII: Ocean" per un album che ripeto, si rivelerà per i più alquanto arcigno. Ma questo per il sottoscritto è sempre un segno che si è lavorato bene... (Francesco Scarci)

martedì 11 settembre 2018

Niet - Dangerfield

#PER CHI AMA: Post Punk/Noise, Shellac
Fare musica noise punk in due persone non deve essere faccenda cosi semplice. Ci provano i Niet (il cui moniker è un omaggio ai NoMeansNo), ensemble proveniente dalla provincia di Ferrara che con armi e bagagli in mano (una chitarra e una batteria), ci sparano addosso questo EP di cinque pezzi, intitolato 'Dangerfield'. L'approccio all'opener "All Work And No Play" non è quanto di più semplice mi aspettassi: la musica ha un'espressione alquanto minimalista (anche a livello vocale), si sente che manca di qualcosa. Complice anche una registrazione lo-fi, mi lascio comunque investire dalla carica energica di questi due ragazzi. La matrice musicale del duo è sicuramente punk-hardcore - penso ad una versione più corrotta dei Melvins - su cui poi i nostri ci innestano ridondanze noise/math. Quella della ripetitività dei suoni (caratteristica di Shellac e Jesus Lizard, altre due importanti influenze della band di Portomaggiore) emerge anche nella seconda "Sinking", canzone ruvida, schizoide e snervante quanto basta per spingermi a premere sul tasto skip, per evitare di accumulare una fastidiosa rabbia interiore. Questo è infatti l'effetto che subisco nell'ascoltare le scorribande noise punk dei Niet, è musica che necessiterebbe infatti di una bella valvola di sfogo, magari un bel pogo durante uno dei devastanti concerti del duo emiliano. Nel frattempo, il disco prosegue tra deliri post punk con "MDZhb" e tribaleggianti divagazioni math (la title track) che tuttavia stentano a decollare, come se deprivate di quel quid che invece ha reso magiche le proposte delle altre band citate sopra. A chiudere ci pensa "KEXP", forse il pezzo meglio riuscito del disco, in cui la componente vocale sembra più fluida, al pari delle linee di chitarra, per lo meno più fruibili. C'è ancora tanto lavoro da fare per poter almeno avvicinarsi ai mostri sacri e dare una maggiore fruibilità ad un disco desisamente ostico, e in cui la cattiveria non è messa al giusto servizio della musica. (Francesco Scarci)

venerdì 8 giugno 2018

The Canyon Observer - Nøll

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge/Doom
Tornano gli sloveni The Canyon Observer con un album nuovo di zecca, edito sempre dalla Kapa Records, in collaborazione questa volta con la francese Vox Project. Le coordinate stilistiche del quintetto rimangono fedeli alle origini, un post metal miscelato con sludge e doom, ove le ultime due componenti sono maggiormente enfatizzate e dove il tutto è infarcito di qualche altra trovata, anche di sapore elettronico. "Mirrors", l'opening track è un pezzo che suona più come una lunga intro piuttosto che un brano vero e proprio, sebbene trapeli evidentemente lo stile muscolare dei nostri. La faccenda s'ingrossa con la title track, "Nøll", 150 secondi di sonorità immonde fatte di un drammatico e putrescente sludge, corroborato da un cantato selvaggio. Un bel basso apre "Entities", a cui si accodano chitarre e batteria, in una progressione sonora che si preannuncia ipnotica ed edificante. Una montagna invalicabile creata da una stratificazione ritmica paurosa su cui poggia il cantato di Matic Babič e delle urla disumane collocate in sottofondo (opera probabilmente delle due asce) che evolve in un caos sonoro caustico e delirante. "Lacerations" ha invece un approccio più votato al crust/post-hardcore, con cambi di tempo vertiginosi che sanciscono il quasi definitivo allontamento dalle sonorità che caratterizzavano questi musicisti agli esordi. Tuttavia, nella seconda metà del brano, la band ritorna sui binari della civiltà, offrendo il proprio lato più intimista e meno veemente, che va lentamente rallentando fino all'arrivo di "Abstract", una delle due canzoni più lunghe del lavoro, insieme a "Circulation". Due brani che superano ampiamente gli otto minuti, più sperimentale il primo, con le sue lunghe fughe strumentali figlie di un post rock progressivo di settantiana memoria che si alternano ad un sound più abrasivo che arriva a sfiorare addirittura il black metal. Il secondo invece ha un lungo incipit dal sapore ambient/dronico che a metà brano si lancia in una trance psichedelica. Nel frattempo ci siamo persi per strada la furia rumoristica della scheggia impazzita "Fracture", un po' grind, un po' mathcore ma anche decisamente noisy. L'ultima traccia a mancare nella rassegna è "Neon Ooze", un altro pezzo lanciato da linee di basso tonante suonate però a rallentatore, grida lancinanti e altri elementi disturbanti che hanno il solo effetto di condurci nel nuovo incubo firmato The Canyon Observer. (Francesco Scarci)

(Kapa Records/Vox Project - 2018)
Voto: 75

https://kaparecords.bandcamp.com/album/n-ll

martedì 5 giugno 2018

Gabriel Hibert - Abducté

#PER CHI AMA: Noise/Post Rock/Math
Laminari stralci sonori apparentemente industrial (l'opener "Griserie", per esempio), vagamente noise ("Guirlandes", ancora per esempio) oppure blandamente math ("Pianoté", sempre per esempio, oppure "Matière") pretestuosamente concatenati con quella logica che la comunità scientifica anglofona, ostentando il caratteristico sense of humour, denominerebbe "at dog's penis". Se lasciate galoppare la fantasia oppure ci date dentro con l'advokaat, potreste individuare qualcosa dei Melvins in "Matière" o qualcos'altro dei Don Caballero in "Pianoté", o qualcos'altro ancora di vagamente kraut in "Uranus", ma la verità è che questa sequenza di crapulose dissonanze sedicentemente avanguardistiche generate attraverso una opinabile combinazione di batteria tradizionale e music pad (ciò che secondo le note biografiche di Bandcamp porterebbe l'autore a definire se stesso alla stregua di un multistrumentista), potrà al limite suscitarvi il medesimo pathos di una scena di sesso lesbo in un film d'azione seminale danese. Niente male, quindi. Ma solo a patto che siate appassionati di film d'azione seminali danesi. Oppure di... uh, lasciamo stare. (Alberto Calorosi)

(Econore/Tandori/Permafrost/Who's Brain Records/Cheap Satanism Records - 2016)
Voto: 50

https://acidegorp.bandcamp.com/

giovedì 24 maggio 2018

PinioL - Bran Coucou

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Mathcore/Noise
Era un po’ di tempo che non mi capitava di ascoltare della musica così pazzoide ma allo stesso tempo ben congeniata e stranamente sensata nella sua totale mancanza di raziocinio. Si tratta dei PinioL, formazione transalpina di sette elementi alla prima prova in studio intitolata 'Bran Coucou', un titolo di cui non ho idea del significato (google suggerisce "crusca di cuculo" - NdR). Mi fa sorridere e allo stesso tempo divertire questo disco, volutamente ironico nella sua ripresa del progressive più efferato direttamente dai primi anni settanta. Ricordo solo un’altra band così splendidamente matta ossia i Magma, storica formazione progressive francese che addirittura creò una propria lingua – il kobaiano – cosa che non mi stupirebbe neppure per i PinioL; non ho infatti distinto una singola parola sensata in tutta la lunghezza di questo 'Bran Coucou', solo molti suoni onomatopeici al limite di sillabe casuali, quasi bambinesche. Tra stacchi alla King Crimson e lunghe suite strumentali alla Jethro Tull, i PinioL rievocano la vera anima del progressive e anche se non ci sono grosse aggiunte o modifiche al genere originale, fa piacere sentire una band che ha così ben capito e interiorizzato gli insegnamenti dei seventies per trasporli in chiave moderna. Ad un ascolto per intero del disco, è quasi impossibile distinguere tra loro le canzoni, tanto sono complicate e concatenate una all’altra, il viaggio è una parabola dalle dinamiche oscillanti a metà tra un trip di LSD ed una sbronza pesante di whiskey. Si distingue tuttavia la grande capacità compositiva della band, oltre che le indubbie qualità tecniche dei musicisti. Se volete avere un’idea di cosa voglia dire pazzia musicale, ascoltatevi 'Bran Coucou', al termine avrete innanzitutto una grande stima di voi stessi per essere arrivati in fondo ad un’opera così titanica, poi avrete anche un'idea di cosa accada nella mente di un ricoverato di un ospedale psichiatrico, in modo che se dovesse accadere anche a voi, saprete già di cosa si tratta. (Matteo Baldi)

martedì 15 maggio 2018

Žen - Sunčani Ljudi

#PER CHI AMA: Kraut Rock/Math/Shoegaze/Indie Rock
La quarta uscita della band croata degli Žen, riafferma il valore intrinseco della musica proposta da questo ensamble sperimentale, tutto al femminile, devoto e dedito fin dagli esordi alla musica alternativa. Dal 2009, infatti le quattro croate si occupano di indie psichedelia, romantica ed oltreconfine, proponendola in varie forme audio-visive con messaggi umanitari non indifferenti (date un occhio ai loro video su Youtube). 'Sunčani Ljudi' è forse l'album più sognante e delicato della loro discografia, calcando a pieno la psichedelia di certi The Flaming Lips, senza rinunciare a qualche apertura math/post-rock da cui possiamo trarne la radice del loro suono, divagazioni shoegaze e il dream pop alla Cocteau Twins di 'Milk & Kisses'. Voci angeliche immacolate ed astratte, strutture sbilenche care al Rock in Opposition (una sorta di avant-prog/ndr) si mostrano in più di un'occasione, sonorità sempre al limite del post tutto, senza mai perdere il confine dell'orecchiabilità, della melodia e dell'estro allucinogeno più radicale. Il canto in lingua madre rende poi il tutto più interessante ed intrigante, dal bellissimo cantato a più voci alle atmosfere più epiche e malinconiche. Difficile stabilire quale sia il brano più caratteristico ma sono rimasto colpito dalla bellezza di "Četiri Tri Pet Dva", che ammalia con la sua atmosfera mistica, profondamente folk, frullata in un contesto ritmico contorto e colorato, veramente una traccia splendida. "Opet Gange" risuona come un miscuglio tra l'alternative rock e ancora il Rock in Opposition, mentre lo shoegaze alla Curve e gli indimenticabili My Bloody Valentine sono evocati in "Sonična Taktika", un ottimo brano lisergico, di forte impatto ma anche tra i più normali in fase compositiva di quest'album. Lo stile trasversale dei brani, mi spinge ad un paragone di tutto rispetto con le ragazze delle The Raincoats ed anche se qui non parliamo di post punk, l'attitudine e l'approccio alla musica appare il medesimo, per l'appunto, trasversale nei confronti dei vari generi musicali. 'Sunčani Ljudi' alla fine risulta come un lavoro altamente emotivo, carico di momenti ipnotici e sognanti, aperture post rock da manuale (leggi primi Mogwai) e un'originalità al di sopra della media. Oserei dire una fantastica e piacevolissima scoperta. Ultima menzione per "Lov Na Crne Tipke", una favola, che dal minuto 2:40 spolvera un'escursione cosmica degna del miglior Alan Parsons Project. Una gang di donne geniali di cui non ci si può non innamorare. Disco da avere! (Bob Stoner)

(Moonlee Records/Un Records/Vox Project - 2017)
Voto: 80

https://xzen.bandcamp.com/album/sun-ani-ljudi

mercoledì 25 aprile 2018

This Broken Machine - [departures]

#PER CHI AMA: Alternative/Post Metal/Prog, Tool, Gojira
L'Italia cresce, non solo calcisticamente. Ce lo confermano questa volta i This Broken Machine, quartetto di Milano dedito ad un suono alternativo che combina in modo abbastanza originale, gli insegnamenti di Tool, Deftones, Gojira e Architects, giusto per fare qualche nome a casaccio. Quel che è certo è che i quattro musicisti non sono dei pivelli, essendo ormai in giro dal 2007, anche se la vena creativa dei nostri non deve essere proprio delle migliori, visto che questo '[departures]' rappresenta solamente il secondo lavoro per l'ensemble meneghino. Un album che esce peraltro a distanza di sei anni dal precedente 'The Inhuman Use of Human Beings', e che convince immediatamente per le sonorità proposte. Le danze si aprono con "Departing" e il suo riffing sincopato tipico del metalcore, con la componente vocale a strizzare l'occhiolino a A Perfect Circle e soci, mentre a livello lirico, i nostri affrontano il tema della separazione e le sensazioni ad essa collegate. Seconda tappa e siamo a "Weight": una prima metà in stile Riverside, nella loro veste progressive, una seconda parte poi più rabbiosa e ritmata, con un'alternanza vocale tra il pulito (non sempre troppo convincente) e il growl. "The Tower" simboleggia il concept che si cela dietro all'album attraverso l’allegoria della carta dei Tarocchi chiamata “La Torre” e il suo significato di cambiamento repentino che si traduce anche a livello musicale con sagaci cambi atmosferici tra parti decisamente metal ed altre più riflessive, intimiste e ragionate, all'insegna di un prog rock, ad elevarla immediatamente a mio pezzo preferito del disco. L'inizio cupo e minaccioso di "Return di Nowhere" non preannuncia nulla di buono, visto anche il tema affrontato nei testi che analizzano sempre oculatamente gli stati d'animo dell'individuo alla luce di eventi, diciamo traumatici, che possono indurre al cambiamento. La traccia conferma comunque le divagazioni progressive dell'act milanese, e l'abilità di farle coesistere con sonorità orientate su versanti più estremi, mantenendo le melodie sempre al centro del focus dei nostri. Interessanti le linee di chitarra di "Distant Stars", cosi dinamiche in una song che arriva ad evocarmi anche un qualcosa dei The Ocean nell'utilizzo dei vocalizzi estremi, ma che rilassa invece nella sua parte centrale più meditativa ed atmosferica, cosi come pure per una sezione solistica un po' più ricercata. Si arriva alla nevrotica "This Grace", brano ai limiti del math che avrà modo ovviamente di evolvere nel corso dei quasi cinque minuti in suoni decisamente più pacati. "As You Fall" ha un incipit inequivocabilmente malinconico, anche se poi la song s'imbastardisce un pochino. Ma si sa, i cambi di registro sono all'ordine del giorno con questi ragazzi e la parte centrale si lancia prima in derive psichedeliche, successivamente in un post metal dal crescendo ritmico poderoso. “…And That Would Be the End Of Us” è l'ultima tappa di questo viaggio intrapreso con i This Broken Machine, una chicca aperta da quello che sembra il romantico suono di un violino e che da li a poco si tramuterà in un'altra alternanza tra schegge math impazzite e frammenti più delicati, che ci regalano gli ultimi otto minuti di piacere di questo notevole '[departures]'. (Francesco Scarci)

domenica 22 aprile 2018

LORØ - Hidden Twin

#PER CHI AMA: Math/Noise/Sludge
Tornano (i) LORØ dopo quasi tre anni dal devastante self-title esordio che ha lanciato il trio padovano nella calca dell'underground e gli ha subito premiati con un'ottima risposta da parte del pubblico e della stampa. Il connubio chitarra elettrica, batteria e synth caratterizza il sound della band in maniera netta, un mix di math, noise e sludge metal che ricorda gli OvO quali incubatori di un embrione nato dall'unione di gameti Meshuggah e Burzum. Anche stavolta l'artwork è di Riccardo (chitarra) che ha voluto assicurare un risultato impeccabile, ovvero un digipack lussuosamente serigrafato, ritagliato e confezionato interamente a mano. Questa realizzazione rende l'album un manufatto visivamente prezioso, pratica spesso omessa dalle band e dalle etichette che puntano tutto sulla realizzazione musicale. Non è quindi il caso di 'Hidden Twin' che grazie alla cordata formata da Brigante Records\Cave Canem D.I.Y.\Dio)))Drone\Drown Within Records\In The Bottle Records ci permette di godere in toto di quest'album contenente sette tracce. Il suono è complesso, elaborato e volutamente artificiale, frutto di un possente lavoro di registrazione, editing, mixing e mastering che ha portato ad un risultato ben preciso e perfettamente amalgamato. Tutto inizia con "Low Raw" e il suo oscuro riff liberamente inspirato a "Misirlou" dei Dick Dale & The Del Tones di Pulp Fiction-iana memoria, ma la somiglianza finisce subito grazie ad un break dai suoni profondi e distanti pari ai paesaggi soprannaturali descritti da Lovercraft. Il tessuto artificiale del synth monofonico (Mattia) e i pattern serrati e dispari di batteria (Alessandro) completano l'alchimia strumentale, un rigurgito sonoro che incatena l'ascoltatore ad altissimi monoliti in attesa di un'entità che si cela nella nebbia. Un brano che in meno di tre minuti ci fa capire che i LORØ hanno affilato le lame e sono già balzati alla gola di chi li ascolta. "Last Gone" è il terzo brano ed introduce una novità, ovvero il cantato del chitarrista Riccardo, dotato di una timbrica smaterializzata dagli effetti e rabbiosa come non si sentiva dai tempi di Dani e i suoi Cradle of Filth. I riff di chitarra si destreggiano in malefici fraseggi con un mood alla Mastodon, ma quello che brilla in questa ed altre composizioni, sono le divergenze ritmiche e gli strati sonori perpetrati dagli oscillatori analogici del compartimento sintetico. Il lungo percorso ci catapulta in un'atmosfera opprimente degna dei migliori film di Dario Argento, dove storia e musica crescono all'unisono in un paesaggio urbano decadente. L'opera più poderosa è sicuramente la traccia che dà il titolo all'album, quella "Hidden Twin" che esordisce con una spoglia chitarra acustica/classica e il sussurro di una voce fuori campo. Il crescendo incalza con l'entrata della batteria e del sintetizzatore che guida la melodia con un riff in stile prog/psichedelia anni '70. L'arroganza delle distorsioni ci riporta alla cruda realtà dove le profondità recondite nascondono esseri innominabili che hanno visto l'avvicendarsi delle ere. Il continuo martellare del rullante, asciutto e penetrante come un chiodo arrugginito, trascina il brano verso la fine con un'esplosione liberatoria verso la luce. "Point&Comma" è il brano che spicca per impatto sonoro, la chitarra elettrica ingegnerizzata a livello molecolare, estremizza le distorsioni al massimo. La sezione ritmica si arroga il diritto di condurre i giochi e non possiamo che essere d'accordo, il groove è la spina dorsale di questo percorso contaminato da suoni industriali e synth sci-fi che graffiando l'anima, ci attirano ancora di più nel vortice senza fine. 'Hidden Twin' è un album complesso, che scava nel subconscio di chi ascolta e trasmette molteplici sensazioni, come un prisma che riflette la luce in modi diversi a seconda di come viene attraversato dal Sole. Il trio ha dato prova di aver maturato una propria identità già chiara all'esordio, ma che ora ha subito una piacevole metamorfosi, oltre il suono, la melodia e la ritmica. Rimane valido l'invito di ascoltarli dal vivo, ovviamente dopo aver fatto scorta di dispositivi di protezione acustica. (Michele Montanari)

(Brigante Records\Cave Canem D.I.Y.\Dio)))Drone\Drown Within Records\In The Bottle Records - 2018)
Voto: 80

https://sonoloro.bandcamp.com/album/hidden-twin

lunedì 26 febbraio 2018

Zenden San - Daily Garbage

#PER CHI AMA: Funk/Noise/Math
'Daily Garbage', spazzatura quotidiana, un nome alquanto azzeccato per un disco come quello degli Zenden San edito per la Karma Conspiracy. Dico azzeccato perché si sente chiaramente che la musica è stata scritta per sfogo, per cercare di espiare la noia, l’assillo e il voltastomaco che la vita di ogni giorno sfacciatamente ci lancia addosso. Gli Zenden San sono come dei samurai del mondo antico e combattono a colpi di ritmiche sempre più strane e ricercate contro l’omologazione e l’appiattimento. Difficile infatti ricondurre le influenze del power duo ad un solo genere, ci sento noise, funk, new wave, math ma sempre resi con impeccabile attitudine al groove e alle metriche improbabili. Mi vengono in mente a volte i Melvins per alcune soluzioni ritmiche, a volte gli Incubus o i Rage Against the Machine per la timbrica e la complessità delle linee di basso, altre volte ancora la sezione ritmica di James Brown strafatta di metanfetamine. L’ascolto tuttavia non è semplice, 'Daily Garbage' è un disco che può apprezzare di più chi di musica ne ascolta molta ed è stufo di sentire le solite soluzioni e i soliti arrangiamenti. Ponendosi nei panni di un neofita del genere invece, la sensazione sarebbe sicuramente di sgomento e smarrimento, che in ogni caso, se si è coraggiosi abbastanza, non è male ogni tanto provare. Il disco inizia con "Bang!", nome alquanto appropriato per un pezzo che colpisce come un mitragliatore e lascia l’ascoltatore mezzo stordito dalle continue pause e cambi di ritmica. Il metodo di composizione degli Zenden San è implacabile, vicinissimo all’hardcore per la concentrazione di parti in un minutaggio veramente esiguo, il che rende il peso specifico delle canzoni così alto da superare quello dell’uranio. Uno dei miei pezzi preferiti è "Industrial Zone", una cavalcata impossibile che attraversa nel suo inarrestabile incedere mille e uno ambienti, tutti radioattivi, malati e altamente tossici. La sensazione alla fine del pezzo è quella di essere passati in lavatrice e, come i panni sporchi, esserne usciti sbattuti ma puliti. In fondo, questa sensazione si può applicare all’intero disco, si tratta un’opera di purificazione attraverso l’esplorazione dei più malati territori del ritmo e l’espiazione della totale insensatezza e monotonia della quotidianità. (Matteo Baldi)

(Karma Conspiracy Records - 2017)
Voto: 75

https://zendensan.bandcamp.com/releases

domenica 25 febbraio 2018

Térébenthine - Visions

#PER CHI AMA: Post Rock, Mogway
Circolarmente ossessive come una sorta di malta sonora all'interno di una betoniera, le visioni oniriche dei francesi Acquaragia si concretizzano in un tumultuoso magma che scende inesorabile dalle pendici del suono inglobando suggestioni consolidate (Mogwai, Don Caballero), incapace per sua stessa natura di produrre alcunché, se non un'uniforme distesa di suono ribollente ("Au Nom du Paère" e "Poupée Charette"). Costituisce notabile eccezione il saliscendi psych raccontato in "Mer Noire" esordiente da desertiche sensazioni early-floydiana per svilupparsi (egregiamente) nei tre stati della materia: prima liquido, poi solido e infine gassoso, cui fa da contrappeso la furia sublimante solido/ gas/solido espressa più avanti nella robusta "Goutte d'Eau". Analogamente, in "Un Jour Encore", la materia pulsa orizzontalmente, aggredita dal diluente, in un'interminabile successione di ipotetiche rarefazioni e condensazioni sonore. L'omaggio a Jackson Martinez, attaccante tra gli altri, di Porto e Atletico Madrid, ammiccherebbe ai Mogwai di 'Zidane, un Portrait du XXIe Siècle'? Un album complessivamente materico, proprio come si conviene per il genere a cui si riferisce, più digressivo che aggressivo e, in verità, affatto eccellente per ispirazione o per produzione. (Alberto Calorosi)

(Atypeek Music/Poutrage Records - 2017)
Voto: 65

https://terebenthine.bandcamp.com/album/visions

giovedì 25 gennaio 2018

Samadhi Sitaram - KaliYuga Babalon

#PER CHI AMA: Death/Math/Djent, Dillinger Escape Plan, Meshuggah
I Samadhi Sitaram sono un terzetto proveniente da Mosca, approdati da poco alla corte della Sliptrick Records. L'intro di questo 'KaliYuga Babalon' è piuttosto fuorviante, complice una forte influenza della musica classica nel suo incedere, che mi porterebbe a pensare ad una proposta all'insegna di un melodeath di stampo svedese. La mattonata invece che mi arriva con "Kali-Yuga" mi pesa invece sulla faccia come un gancio tirato sulle ganasce dal buon Mike Tyson. L'attacco è isterico con le ritmiche che si muovono tra mathcore, djent e death, un po' come se sparaste alla velocita dei Dillinger Escape Plan, i Meshuggah. Chiaro il concetto? Se cosi non fosse, pensate che il finale infernale della song potrebbe ricordare il caos sovrano che regna in "Raining Blood", pezzo conclusivo del mitico 'Reign in Blood' degli Slayer. Passo oltre, smaciullato dalla potenza sonora di questi pirati del metallo: "The Death of a Stone" ha il riffone portante che chiama palesemente i Meshuggah, ma la porzione electro-cibernetica che popola il brano, permette al trio russo di prendere le distanze dai gods svedesi. Le convincenti growling vocals di IOFavn mi hanno ricordato invece lo stile del vocalist dei nostrani Alligator. Nel frattempo il cd non ha tempo da perdere e si lancia con "Apotheosis" in un'altra fuga roboante di ritmiche martellanti, sparate alla velocità della luce tra paurosi stop'n go e improvvise accelerazioni death. Interessante sottolineare il concept lirico che si cela dietro a 'KaliYuga Babalon', che tratta uno dei testi sacri della tradizione induista, ossia il dodicesimo canto del Śrīmad Bhāgavatam che anticipa l'avvento dell'età del Kali yuga e la futura distruzione dell'universo materiale da parte di Kalki, un discendente del dio Visnù, a causa del decadimento morale e spirituale in cui è sprofondata l'era attuale. Insomma, un messaggio alquanto tranquillizzante, eufemisticamente parlando. Detto questo, la devastazione prosegue anche con l'ipnotico preludio a "...Qliphoth", una song che tra melodie della tradizione indiana, riffoni dotati di uno spettacolare groove, la identificano come una delle mie preferite (insieme alla conclusiva, ancor più completa e "meshugghiana", "SHANGRI LA") nel lotto delle tracce qui incluse. Dopo parecchi pezzi di durata "normale" (tra i 3 e i 4 minuti), ecco un mostro di oltre 16 minuti ("Orgy - Ritual BABALON") che affida a delle sparatorie e ad urla disumane, i suoi primi due minuti. Poi, nelle sue note c'è un po' di tutto: deathcore, progressive, arrangiamenti da urlo, suoni cinematici, e un'infinita porzione di spoken words in russo che probabilmente si dilunga un po' troppo per i miei gusti. Un buon lavoro di certo, penalizzato però dall'inconcludente lungaggine di "Orgy - Ritual BABALON". (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/samadhisitaram/

sabato 4 novembre 2017

Machines of Man - Dreamstates

#PER CHI AMA: Math/Progressive, Between the Buried and Me
È risaputo che in U.S. ce ne sia per tutti i gusti e con questi Machines of Man andiamo a placare il desiderio di coloro che stanno attendendo con ansia il comeback discografico dei Between the Buried and Me, schedulato nel 2018. E allora cosa c'è di meglio che farsi trastullare dalla musica di questi cinque ragazzi di Salt Lake City e dal loro ottimo 'Dreamstate', un album di sette raffinatissimi pezzi di math progressivo che colpisce già in apertura per l'utilizzo del sax nella breve title track e che poi ci consegna una band in grado di disegnare arcobaleni musicali in un vortice emotivo fatto di splendidi assoli (esaltante già in "Symbiosis"), parti tirate e rabbiose, cambi di tempo impressionanti e vocals che si muovono tra un etereo pulito che richiama il buon Tommy Giles e un growling orchesco? D'accordo, i punti di contatto con i BTBAM sono molteplici e assai evidenti, soprattutto se si pensa alla più recente discografia della band del North Carolina, ma parliamoci con estrema sincerità, a chi diavolo gliene frega se i Machines of Man alla fine sono in grado di generare le stesse emozioni dei ben più famosi colleghi? Al sottoscritto francamente non importa nulla, perché brani come il secondo, si ascoltano solo in band dotate di una classe sopraffina. Se poi volete sapere quale altra band potrebbe aver influenzato i miei nuovi eroi di math progressivo, ecco che mi vengono in mente i Contortionist, senza dimenticarsi i Cynic, mi raccomando. A chi si lamenterà invece che i Machines of Man siano alquanto derivativi, beh allora mi viene da rispondervi che il 90% delle band in realtà lo è. E allora io continuo a sostenere la proposta dei Machines of Man, la loro classe che si palesa in assoli da paura anche nella terza cinematica "Days Later", con quel rincorrersi delle due asce in vertiginosi giri di chitarra, in un lirismo davvero un paio di spanne sopra il livello medio, rischiando seriamente di minare il trono detenuto dai BTBAM, ma questo lo potremo valutare soltanto fra 4-5 album della band proveniente dallo Utah. I Machines of Man sono ottimi musicisti, sappiatelo: se smusseranno quel retaggio death/metalcore che permea ancora alcune parti dei loro brani, staremo già parlando di una band che per i prossimi vent'anni si farà portavoce del neo movimento progressive. Un pianoforte accompagna la voce deliziosa di Austin Bentley, spiazzando tutti in "Bones of the Sky", in quattro minuti di atmosfere sognanti. La compagine statunitense ha ancora le ultime cartucce da esplodere con le rimanenti "I Am the Colossus" e "Fractals": la prima è inizialmente aggressiva, ma poi il quintetto torna a drappeggiare splendidi scenari esotici, aperture caraibiche e schitarrate flamencheggianti con la voce del frontman che si presenta in molteplici vesti, addirittura ammiccando in un breve frangente al vocalist dei Muse. L'ultima perla rappresenta il connubio di quanto ascoltato fin qui, un gioiello che raccoglie in un sol boccone ritmiche belle tirate, melodiche, tecniche, costantemente ispirate, che sanciscono la nascita di una nuova band di fenomeni, i Machines of Man. (Francesco Scarci)

domenica 1 ottobre 2017

Khoy - Negativism

#PER CHI AMA: Punk/Post Hardcore
I Khoy sono una band divisa tra Torino e Biella, affiliata alla scena punk/hardcore, che ha rilasciato questo EP digitale di cinque pezzi durante l'estate. Le coordinate musicali di 'Negativism' si affidano a sonorità dissonanti che solo nel loro approccio incazzato e rozzo ci potrebbero ricondurre al punk. La opener "My Love For You Is Like A Truck Berserker" sembra più un pezzo che ammicca allo shoegaze mentre è con la seconda "Tapeworm" che si scorgono le influenze più datate della band, anche se le linee scorbutiche di chitarra evocano band più avanguardiste (penso ai Virus), ma con la classica impostazione vocale del genere si perdono i retaggi più raffinati della band, che emergono alla fine in inattesi break acustici. La velocità di "Misleading Existence For Fancy Thinkers" potrebbe ricondurre ad un ipotetico ibrido tra math e post black in salsa punk, ma poi la band si diverte tra chiaroscuri efficaci che rendono la proposta dei Khoy appetibile anche per chi non si ciba quotidianamente di post punk, come il sottoscritto. Quindi non posso far altro che lasciarmi trasportare dalle melodie oscure ed affascinanti del quartetto piemontese, dalla disperazione vocale di "Whorehouse" e da quel senso d'inquietudine che permea l'intero lavoro dell'act italico. Un bel bestemmione (io avrei evitato, è più un approccio da teenager per farsi notare) apre l'ultima traccia del lotto, "That One Time I Got Drunk Before 2 p.m.", una song bella tirata che probabilmente più si avvicina ad un'impostazione moderna del punk/crust/posthardcore e che forse mi risulta più indigesta. Alla fine 'Negativism' è un lavoro che merita un ascolto in quanto si fa notare per diversi spunti interessanti che non faranno la gioia dei soli fan punkettoni. (Francesco Scarci)

lunedì 25 settembre 2017

Dethrone the Sovereign - Harbingers of Pestilence

#PER CHI AMA: Deathcore/Djent, Fallujah, The Contortionist, The Faceless
Non sono un fan del deathcore, ma ho sempre pensato che se una band sia in grado di suonare bene il genere (i Fallujah ad esempio), me ne potrei innamorare. Ecco quindi ritrovarmi tra le mani il lavoro dei Dethrone the Sovereign, sestetto proveniente da Salt Lake City che proprio verso i già menzionati Fallujah, volge il proprio sguardo, puntando ad un sound progressivo, sicuramente aggressivo, in grado di chiamare in causa parallelismi anche con realtà più votate al djent. E il risultato è questo sorprendente 'Harbringers of Pestilence', album che si sviluppa lungo nove tracce che, partendo dal deathcore ispirato di "Era of Deception Pt I", si snocciola poi attraverso il sound più articolato e strumentale di "Era of Deception Pt II" che strizza l'occhiolino a Cynic e The Contortionist, per quella forte componente jazz progressive insita nella loro musica (che qui ritornerà anche negli incipit di "Torch of Prometheus" e "The Eternal Void"). E questo diventa anche il punto di forza dei nostri sei musicisti che spezzano la ferocia tipica del genere con passaggi mozzafiato affidati a splendide melodie e giochi di chitarra che ci fanno affrontare con maggiore fiducia le successive e più schizzate tracce, dove inevitabilmente ad attenderci ci sono le classiche chitarrone deathcore con ritmi sincopati, scale ritmiche da brivido, vocioni mostruosi, ma anche tutti quei giochini celestiali tanto cari ai Fallujah, affidati a brillanti parti atmosferiche ("Weavers of Illusion" ne è un bell'esempio). E ancora spettacolari sono le orchestrazioni della title track, ubriacante quanto basta nella sua rincorsa ritmica e nei suoi brillantissimi break che interrompono il frenetico chitarrismo della band. Poi si corre, veloci e schizoidi con una batteria al limite della contraerea, voci che si alternano tra lo screaming acido e il growling profondo, e una sezione ritmica davvero impressionante, che chiama in causa Periphery e altri mostri sacri del genere; spettacolare a tal proposito il finale di "The Vitruvian Augmentation". A chiudere il disco ci pensano le atmosfere eteree di "Perennial Eclipse", un altro pezzo davvero ben calibrato che si muove tra il death e partiture djent, forse le più palesi nell'intero disco. 'Harbringers of Pestilence' è un signor album che saprà ingolosire tutti i fan del genere. (Francesco Scarci)

(Famined Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/dethronethesovereign/

giovedì 21 settembre 2017

Kora Winter - Welk

#PER CHI AMA: Math/Post Hardcore, The Dillinger Escape Plan
L'EP 'Welk' rappresenta il secondo lavoro dei Kora Winter, quintetto berlinese dedito ad un post hardcore. Il disco si apre con "Bluten" che, con un delicato e un po' banale arpeggio dà il via alle danze del dischetto. L'atmosfera è tirata, comunque piacevole ed è costruita da chitarre isteriche dal piglio math quasi ad emulare i The Dillinger Escape Plan. L'introduzione poi del sax di Paul Griesbach abbassa i toni e incupisce l'atmosfera; pur senza creare alcun sconvolgimento progressivo, l'utilizzo del sax apre una parentesi nettamente diversa dal contesto sonoro iniziale. La successiva "Stiche" torna sulle orme della prima a livello ritmico, tanto che si potrebbe confondere come la continuazione della precedente. La seconda metà della release si apre con "∞", un canto interpretato da Lisa Toh, rifacimento di "Es War Einmal Ein Fischer" dell'artista lituana Lorez Alexandra, scomparsa nel 2001, una sorta di canto di una sirena che per alcune cose mi ha ricordato il folk di Kari Rueslåtten, prima cantante dei The Third and the Mortal, suggestiva, ma forse un po' fuori contesto. Questo breve EP si chiude con "Narben", traccia in cui si evidenzia particolarmente la disinvoltura chitarristica dei nostri in pattern ritmici propri del post black. La produzione infine è tipica del genere: patinata e brillante, con forti compressioni. Le composizioni giocano con breakdown e improvvise accelerazioni per dare l'impressione di movimento anche se l'effetto finale non è sempre azzeccatissimo. In conclusione, i 20 minuti di musica inclusi nel cd, mostrano una certa omogeneità di fondo dal punto di vista strutturale e melodico, eccezion fatta per la terza ovviamente. La tecnica c'è, il cantato in tedesco è particolarmente emozionale e si presta al genere, riguardo il resto c'è ancora da lavorarci duramente sopra. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 70

https://korawinter.bandcamp.com/

sabato 2 settembre 2017

Captain Quentin - We're Turning Again

#PER CHI AMA: Math Rock Strumentale
È musica decisamente poco scontata (e talvolta anche un po' ostica) quella che arriva dai solchi di questo 'We're Turning Again', fatica numero tre dei nostrani Captain Quentin. È musica irrequieta ma sincera, che ci trastulla con i suoi pezzi strumentali dediti ad un math rock cinematico. Se l'opener non mi ha fatto propriamente impazzire, è la seconda "Caffè Connection" a sedurmi con i suoi ritmi un po' jazzati, i suoi suoni ovattati ed un gusto oserei dire vintage. "Zewoman" è una song più ipnotica quasi al limite del paranoico nel suo finale, mentre con "Malmo" ci abbandoniamo ad oniriche e ambigue sonorità post rock che sembrano aver un effetto rilassante, ma che invece nel loro continuo delirio, stupiscono per il loro ubriacante effetto sulla mia psiche. Non semplice ma suggestivo. Si ritorna a suoni apparentemente più convenzionali con " Avevo un Cuore che ti Amava Franco", titolo per lo meno originale per una song più movimentata delle precedenti ma che mantiene intatta comunque la sua psicotica personalità (qui anche dronica) a sottolineare una performance di carattere da parte di questi Captain Quentin, in un disco che ha ancora diversa carne da mettere sul fuoco. E allora ecco gli sperimentalismi elettronici di "Say No No to the Lady" e di "Aghosto", la prima più orientata a suoni post rock, la seconda invece più oscura e sofisticata nel suo andamento surreale. Il disco chiude con "Yoko, o No?", un evidente gioco di parole che suggella la brillante prova di questi ragazzi con un pezzo spinto verso suoni prog settantiani. Mica male no? Da tenere certamente monitorati. (Francesco Scarci)