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lunedì 17 settembre 2018

Tangled Thoughts of Leaving - No Tether

#PER CHI AMA: Post Metal Sperimentale
Per chi non li conoscesse (il sottoscritto ad esempio), i Tangled Thoughts of Leaving sono un quartetto australiano che si diletta nell'esplorazione del post metal, sporcato da doom/jazz e sonorità progressive, il tutto rigorosamente strumentale. 'No Tether' è il loro terzo album (ci sono parecchi EP all'attivo però), fuori in co-produzione tra Bird's Robe Records e la Dunk! Records. Un lavoro di oltre 56 minuti che sin dalle battute iniziali si conferma ostico da digerire musicalmente: "Sublunar" è infatti un'intro rumoristica che introduce al paesaggio sonoro affrescato da "The Alarmist", la prima perla di questo cd. Una traccia che delinea il carattere stralunato della compagine originaria di Perth abile nel miscelare una song dai forti connotati post con rallentamenti caratteristici della musica del destino, in un incedere melmoso ed imprevedibile dotato di una profondità di suoni che riempie le orecchie e satura il cervello. E con un riverbero assai prolungato si arriva a "Cavern Ritual", densa nel suo lentissimo avanzare, con suoni che accelerano il battito cardiaco, scatenando ansie e paure, generando angoscia ed un profondo senso di intorpidimento degli arti in quello che potrebbe essere tranquillamente un funeral doom dalle tinte progressive. Soggiogato dalle tinte fosche della terza traccia, trovo finalmente ristoro nella lunga "Signal Erosion", quasi tredici minuti di sonorità droniche che si fondono con psicotici giri di chitarra e delicati tocchi di tastiere. La ritmica però preme per trovare un suo spazio, si concede degli strappi post-hardcore ma dovete pensare comunque ad una pluristratificazione sonica su cui si muovono indipendenti questi generi, con l'aggiunta di meravigliose fughe jazz (con tanto di trombe e tromboni all'opera), momenti ambient e rallentamenti doom sul finire, in quello che potrebbe essere un incubo ad occhi aperti. Posso ammettere che qui una voce non era strettamente necessaria tale la complessità generata da questi quattro incredibili musicisti. Vi basti chiudere gli occhi e provare (dico provare) a farvi guidare dalle visioni oniriche immaginate da questi impavidi australiani. Stravolti da una massiva portata musicale, si arriva a "Inner Dissonance" e immaginarla come musica di sottofondo in un qualche jazz club, non sarebbe certo un'eresia. I suoni tornano a farsi minacciosi con "Binary Collapse", dove una ritmica tonante si fa accompagnare dal piano in un'ispirata cavalcata metal che viene interrotta da un break post rock che allenta per un po' la tensione dirompente degli esordi, ma spinge tuttavia per poi riesplodere nel corso del brano e far breccia nella seconda metà tra le invasate melodie di tromba e pianoforte in un poderoso climax che sale di livello, di potenza, di intensità, di tutto per un finale frastornante da applausi. Per ultima la title track: dodici minuti affidati a spettrali rumori, cacofoniche melodie, landscapes dronici, tumultuose ritmiche e una dose massiccia di creatività che mi spingono inevitabilmente a saperne di più di questi imprevedibili Tangled Thoughts of Leaving (tanto da indurmi a comprare i precedenti lavori), una bella scoperta davvero. Una jam session a tutti gli effetti. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records/Dunk! Records - 2018)
Voto: 85

https://music.tangledthoughtsofleaving.com/album/no-tether

giovedì 17 ottobre 2013

Lander Configurations - Of Smoke and Fire

#PER CHI AMA: Post Rock
Di nuovo post-rock, questa volta direttamente dalla lontana Australia per conquistare il vecchio continente a suon di delay e riff emozionali. I Lander Configurations (LC) si presentano con questo digipack di otto tracce registrato nel lontano 2008 e finalmente pubblicato nel 2011. Tralasciando i motivi per questo epico periodo di gestazione, i LC si giocano il tutto per tutto puntando sui suoni delle chitarre e la parte vocale, eterea e presente in pochissimi passaggi. Nonostante si definiscano prog/post rock, la prima componente è totalmente assente, infatti l'ambient calzerebbe meglio per definirli in un particolare contesto rock. Ma veniamo alle canzoni. Premetto che di post rock ne è girato parecchio in questi ultimi anni e attualmente resistono solo le band che sono riuscite ad affermarsi con uno stile proprio. I LC sono caratterizzati da riff e ritmiche lente, che però non sfociano mai in un cambio di direzione, anche solo quell'accelerazione che potrebbe riscattare i brani. "I Killed a Spider" è paragonabile ad un coitus interruptus, infatti i LC ci illudono con un progressione che sembra un preludio ad una esplosione, ma sul più bello si ammoscia e torna alla strofa iniziale. Più di dieci minuti con questo schema mettono alla prova anche i più accaniti fans del genere, fidatevi. Ottimi suoni, per carità, ma al giorno d'oggi non è così difficile trovare un buon delay, attaccarci uno slide o un e-bow, bisogna però saperlo fare con stile e in modo accattivante. Il rock vuole melodia, riff che ti trapanano il cervello anche a distanza di giorni, non serve solo mettere in pratica le ore ad ascoltare Sigur Ros e compagnia bella. Bisogna spremere le meningi e sudare ore sulle corde, questo "Of Smoke and Fire" è stato un antipasto un pò freddino e scarno, ora aspettiamo la portata principale. Speriamo che i LC ci stupiscano, altrimenti io muoio. (Michele Montanari)

(Bird's Robe Records - 2011)
Voto: 60

http://www.landerconfigurations.com/

sabato 22 giugno 2013

Dumbsaint - Something That You Feel Will Find Its Own Form

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Pelican, Tool
Uscita interessantissima per l’australiana Bird’s Records, ormai una certezza in ambito post, quest’esordio su cd del trio (oggi quartetto, infatti sul finire dello scorso anno si è aggiunto un secondo chitarrista) di Sydney, dedito ad un post metal (strumentale) cinematico ed estremamente affascinante. I Dumbsaint nascono nel 2009, e la loro peculiarità sta nel fatto che le loro esibizioni live sono caratterizzate dalla proiezione di filmati appositamente realizzati per fondersi al meglio con la propria musica, quasi come in un’installazione artistica multisensoriale. La paura che le note, qui deprivate del loro naturale elemento completante, non siano in grado di reggersi in piedi da sole, viene presto spazzata via dall’ascolto di questo solidissimo lavoro, uno dei migliori che mi sia capitato di sentire in quest’ambito negli ultimi tempi. Vale comunque la pena di dare un’occhiata al “pacchetto completo” sul canale youtube della band (per esempio il folgorante singolo “Inwaking”), per godere appieno dell’esperienza così come era stata pensata all’origine dai propri autori. La prima volta che ho ascoltato questo disco l’ho fatto in maniera piuttosto distratta, mettendolo nel lettore mentre sbrigavo altre faccende, e mi sono sorpreso a mollare quello che stavo facendo per seguire con attenzione quello che usciva dalle casse dello stereo, completamente rapito dalla complessità, la stratificazione, la potenza degli intrecci ritmici e armonici dei tre australiani. Una musica di questo tipo richiede assoluta perizia strumentale, e sotto questo profilo i Dumbsaint sono davvero bravi, in particolare mi preme sottolineare la prestazione “monstre” del batterista Nick Andrews, responsabile della varietà di ritmi e strutture che si susseguono senza sosta lungo tutto l’arco del disco. Stratificazione, si diceva: il post metal dei Dumbsaint sembra funzionare a più livelli di coscienza, e riuscire sempre a trovare la strada per scardinare le nostre gabbie e i nostri scudi, e farsi strada prepotentemente con i suoi crescendo, le sue strutture irregolari ma sempre perfettamente - quasi matematicamente – compiute, la sua potenza, non viscerale ma controllata senza che questo suoni come un difetto, tenuta a bada e poi liberata improvvisamente. I rimandi a band più blasonate quali Isis e Pelican non mancano, ma quello che fanno i Dumbsaint è qualcosa di ancora diverso e persino più ardito. In più di un passaggio sembra di ascoltare i Tool di Lateralus orfani dei magnetici vocalizzi di Maynard James Keenan, senza tuttavia che la sua assenza si faccia sentire più di tanto. Non so per voi, ma per me questo è un grosso complimento. (Mauro Catena)

martedì 21 maggio 2013

65daysofstatic - The Destruction of Small Ideas

#PER CHI AMA: Post-Rock, Tortoise, Mogwai
Tempo di ripescaggi, per il Pozzo. L’occasione ci viene dall’australiana Bird’s Robe, che sul finire dello scorso anno ha ristampato in versione deluxe (affiancando cioè all’album originale un secondo cd di rarità varie) l’intera discografia dei 65daysofstatic, il combo di Sheffield che, a cavallo della metà degli anni zero era stato capace di infondere nuova linfa ed energia al post-rock strumentale, con una manciata di lavori da stropicciarsi le orecchie. Dato per assodato che i primi due album del quartetto (Fall of the Math e One Time for All Time) sono pressoché imperdibili, occupiamoci oggi del loro terzo lavoro, quello più contradditorio in termini di accoglienza, prima del nuovamente acclamato “We Are Exploding Anyway” (forte della sponsorizzazione dei Cure), e forse quello che più ha bisogno di una riscoperta, a sei anni dalla sua pubblicazione. La formula vincente degli inglesi consisteva, tra le altre cose, nell’aver iniettato discrete dosi di elettronica all’interno di un suono ormai piuttosto codificato come quello del post-rock, nella sua alternanza di pianissimi e fortissimi, suonando questi ultimi con un furore incendiario per un risultato finale davvero esaltante. “The Destruction of Small Ideas” mantiene queste caratteristiche senza riproporre una fotocopia dei primi due lavori, anzi cercando una qualche evoluzione. L’approccio sembra essere un po’ più live, forte dell’esperienza acquisita sui palchi, con l’elettronica che perde quel ruolo quasi centrale che aveva acquisito nel secondo album, per essere tenuta decisamente più sullo sfondo. Quello che si nota subito, e che forse rimane il vero punto debole del disco, rispetto ai precedenti, è un suono meno devastante, nonostante il piede sia spesso ben pigiato sul pedale dell’acceleratore, forse una pecca del mastering o forse una scelta deliberata della band. Altro appunto relativamente al minutaggio, oltre l’ora, che rivela forse un piccolo peccato di presunzione o un eccesso di ambizione, soprattutto alla luce della presenza di un paio di pezzi che hanno il retrogusto amarognolo del riempitivo. Fatte salve queste pecche, ci troviamo di fronte a un signor disco, fatto di brani lunghi ed elaborati senza essere inutilmente arzigogolati, con cambi di atmosfere repentini e di grande impatto (su tutti la splendida “Don’t Go Down to Sorrow”, pianoforte in partenza, impennate vorticose e chiusura in una marea di filamenti electro-glitch), sempre in equilibrio tra dolcezza e furore (si prenda la conclusiva “The Conspiracy of Seeds”, che ospita gli scream dei vocalist dei Circles Take the Square). In sostanza il disco più classicamente post-rock dei 65dos, nell’approccio e nella strumentazione, ma anche quello forse meno d’impatto sul piano della “botta” sonora. Molto interessante il secondo dischetto, che allinea rarità e pezzi inediti, e che spinge decisamente sul versante più sperimentale, dove l’elettronica torna prepotente e spesso la fa da padrone, come nella spiazzante “Dance Parties” (il titolo è quanto mai programmatico), o in “Goodbye, 2007”, che suona come un carillon dimenticato in uno stabilimento Toyota ultra-robotizzato. È notizia di queste settimane che i 65daysofstatic sono tornati in studio per registrare un nuovo album. Li aspettiamo con ansia e nel frattempo ripassiamo la loro discografia adeguatamente “rincicciata” i queste belle deluxe edition. (Mauro Catena)

giovedì 9 maggio 2013

Sleepmakeswaves - …And Then They Remixed Everything

#PER CHI AMA: Electro-ambient, 65DaysOfStatic, Nine Inch Nails di "Ghosts"
Immaginate di prendere un capolavoro del post-rock strumentale (con i soliti ingredienti: parti veloci e parti lente, una spruzzata di linea melodica, l'assenza della voce, le atmosfere dilatate) e metterlo nelle mani di nove artisti dell'elettronica internazionale. È quello che succede con "…And Then They Remixed Everything", versione elettronica di "…And So We Destroyed Everything", primo full lenght del quartetto australiano Sleepmakeswaves. Se l'album originale era stato osannato dalla critica e premiato da tour internazionali di spalla a grandi nomi del genere, questo remix non poteva che essere altrettanto interessante. Mettiamola così: se vi è piaciuta la colonna sonora di "The Social Network" (scritta e suonata dai due geni Trent Reznor e da Atticus Ross, che peraltro hanno anche vinto un Oscar nel 2011), questo "…And Then They Remixed Everything" ne è di fatto una naturale continuazione. Le sorprese, quando le teste dietro ad un disco sono addirittura nove (dieci, se vogliamo considerare il contributo iniziale degli Sleepmakeswaves), non mancano. Spiccano senz'altro "In Limbs & Joints" (non a caso remixato addirittura da Rosetta), per le atmosfere da spazio siderale di synth e tastiere e la opening track "Our Times is Short" dei grandissimi 65DaysOfStatic, brano che non sfigurerebbe nemmeno in uno dei "Ghosts" dei Nine Inch Nails. Non manca l'elettro-funky – che ricorda certi Beastie Boys dei tempi andati – nelle percussioni e organi di "Voices In The Forest" di Klue. C'è l'elettronica liquida da club nel remix di Kyson di "We Like You When You Are Ankward", ci sono i suoni 8-bit da videogioco coin-op in "Hello Chip Mountain" (mixato da un altro grande dell'ambiente: Ten Thousand Free Men & Their Families vs. SMV). Ci sono i 18 minuti abbondanti dello straordinario finale onirico di "After They Destroyed Everything" nel remix di AM Frequencies, che chiudono l'album lasciando l'ascoltatore in uno stato di grazia interrotto solo da due inserti minimal di batterie elettroniche. Un gran bel disco: eccellente se ascoltato come contraltare elettronico dell'originale "…And So We Destroyed Everything", ma validissimo anche come opera a sé stante, per la ricchezza di suoni, spunti, idee, atmosfere e ambienti. (Stefano Torregrossa)

lunedì 28 gennaio 2013

We Lost the Sea - The Quietest Place on Earth

#PER CHI AMA: Post Metal, Neurosis
Qual è il posto più tranquillo al mondo? Ho provato a cercarlo nel web, trovando Capo Verde, alcune isole della Thailandia, l’Oceania e quant’altro, tra le proposte degli utenti. Oceania… sarà un caso ma la band di oggi, arriva proprio dal continente più giovane al mondo, più precisamente dall’Australia e da Sydney, la mia città preferita in assoluto, dove negli ultimi mesi, in coabitazione con Melbourne, sembra esserci un fermento musicale a dir poco esplosivo. I We Lost the Sea, gli aussie guys di quest’oggi, hanno colpito la mia attenzione per molteplici motivi: innanzitutto per il colore (un rilassante e tranquillizzante blu) che caratterizza la loro pagina web e l’essenziale ma affascinante cover cd, che non può che rievocare la prodezza di Felix Baumgartner e il suo lancio da 39000 metri e poi, ultimo ma non da meno, la proposta del combo, dedita ad un coinvolgente post metal. Un disco che inizia tranquillo, sulle note leggiadre di “A Quiet Place” che pian piano cresce di intensità, dipanandosi tra sonorità borderline tra il post metal e il post hardcore (forse più legato a questo per le ruvide vocals). La melodia e la calma a livello delle ritmiche, si confermano anche nella successiva “Barkhan Charge”, che prova a seguire le orme dei gods statunitensi Neurosis, intraprendendo poi una propria strada, ed evidenziando a questo punto una personalità ben delineata dei nostri. Ambientazioni post rock spezzano le trame corrosive dettate dai temibili riffoni sludge del seven-piece australiano. Questa caratteristica si palesa alla grande nella lunghissima terza traccia, “With Grace”: inizio affidato ad un lungo tunnel fatto di luci soffuse e suoni ovattati, che mi permettono di mettermi a completo mio agio (eccolo tornare ancora una volta il tema del luogo più tranquillo al mondo). Mi isolo completamente dal mondo esterno, nulla è più in grado di disturbarmi, e mi sento quasi cullato dal delicato pizzicare delle corde delle chitarre. C’è qualcosa però di inquietante che brulica in sottofondo, lo percepisco lontano, ma gradualmente sembra avvicinarci sempre più e pertanto, allerto i miei sensi, quasi a prepararmi all’attacco della band; attacco che arriverà in realtà, soltanto dieci minuti più tardi, e solo per un minuto, prima di risprofondare nel buio della notte. Sempre più ammaliato dai suoni dei We Lost the Sea, affronto “Forgotten People”, non immaginando assolutamente cosa c’è ad aspettarmi. Un pianoforte, un’angelica voce femminile, una song ritmata fatta di chitarra acustica e batteria che nella mia testa ha ricordato i bei tempi di Anneke nei The Gathering, soprattutto nel modo di cantare della dolce donzella. Giusto il tempo di un interludio ed ecco irrompere “A Day and Night of Misfortune”, song in due atti, che apre con tutta l’arroganza di una robusta chitarra schiacciasassi e le vigorose vocals del frontman Chris Torpy, e che sul finale, arriva addirittura a parafrasare un passaggio del “Moby Dick” di Melville, su soffici tocchi di pianoforte. “The Quietest Place on Earth” è un disco che vive molto sull’emozionalità ben espressa dalla musica dell’ensemble dell’emisfero australe, offrendo un bell’esempio di post metal/post rock ben bilanciato, che mette in luce le qualità, le innumerevoli influenze (che arrivano a sfociare addirittura nello shoegaze) di una band davvero avvincente, che può per certo ambire a raccogliere lo scettro vacante di realtà scioltesi o che hanno perso lo smalto dei tempi migliori. Nel frattempo voi avete individuato qual è il posto più tranquillo del mondo? Date un ascolto ai We Lost the Sea, magari potreste rimanere sorpresi... (Francesco Scarci)

domenica 14 ottobre 2012

Anubis - A Tower of Silence

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Porcupine Tree
La Bird's Robe Collective ci fa pervenire un altro cd e visto che la qualità dei suoi gruppi è di tutto rispetto, il nuovo lavoro degli Anubis mi intriga non poco. "A Tower of Silence" è un bel digipack che contiene otto piste (questo dice il player quando inserisci il cd) di questa band progressive (o neo prog come molti si divertono a scrivere) australiana. Iniziamo da "The Passing Bell", una vera e propria suite in sei atti da ben diciassette minuti. Lavoro epico che deve essere una goduria dei sensi se ascoltato dal vivo. Spettacolare intro con synth, repentini cambi ritmici, con un filo conduttore che imperversa per tutta la traccia. Infatti questo è sempre gestito dalle chitarre e tastiere che dominano la linea melodica, supportati da basso e batteria per una riuscita parte ritmica. Difficile non risultare noiosi, ma gli Anubis riescono a mantenere alta l'attenzione con arrangiamenti già sentiti ma che comunque riescono nell'intento. Verso gli undici minuti il pezzo sembra chiudersi in una bella outro di piano, ma la song riprende magistralmente con un crescendo che porta al classico solo di chitarra. Il finale si sposta sull'epico, giusto per non lasciare fuori niente. Bella, non eccezionalmente innovativa, probabilmente i veri amanti del prog apprezzeranno la complessità compositiva, mentre i cultori degli innominabili (Dream Theatre) resteranno a bocca asciutta per quanto riguarda la tecnica. Non che manchi agli Anubis, sicuramente non è a livelli estremi e questo è sicuramente un pregio. Solo le mie recensioni risultano più noiose degli innominabili... "A Tower of Silence" è la quarta canzone dell' omonimo album e personalmente mi ha deluso parecchio, una ballata lenta in stile 70's che richiama più le atmosfere di Woodstock e Hotel California che le sonorità sentite precedentemente. Direi oltremodo banale. Chiudiamo con "All That is...", traccia divisa in tre atti che ripresenta le sonorità chitarra e tastiere precedentemente ascoltate. Sicuramente la versione più apprezzabile degli Anubis in cui sicuramente si trovano più a loro agio. In conclusione devo dire che gli Anubis hanno talento, ma se fossi in loro oserei qualcosa in più, visto il genere. Il rischio è di passare inosservati nell'oceano di band che probabilmente a livello tecnico sono inferiori, ma che riescono a plasmare un suono che li distingue. Cercherei di concentrarmi proprio su questo punto e probabilmente il prossimo lavoro sarà assai più gustoso. (Michele Montanari)

(The Bird’s Robe Records)
Voto: 65

sabato 29 settembre 2012

Meniscus - War of Currents

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive, Explosions in the Sky
È tempo di rilassarsi, non posso certo martoriare costantemente le mie orecchie con brutal death o black satanico. Ecco perché ho preso il nuovo disco degli australiani Meniscus e l’ho infilato nel mio lettore, consapevole di quello che avrei trovato, avendo da poco recensito positivamente anche il loro debut EP. Partendo da un ottimo digipack, sotto un profilo prettamente estetico, con una cover cd che richiama quella cascata di lettere e numeri che compariva nel film “Matrix”, su uno sfondo bianco questa volta, la musica dei nostri aussie boys torna a percorrere il filone del post rock, cosi come era stato per il loro precedente lavoro, perdendo tuttavia un pizzico di smalto che tanto mi aveva ben impressionato in “Absence of I”. Mentre le prime due songs, “Room3327” e “130” ripercorrono quanto proposto in precedenza, “Immersion” si rivela molto più pacata, stentando proprio a decollare e trascinandosi pesantemente nell’oblio della noia. Chiaro, la band australiana non è diventata scarsa tutto di un colpo, sembra semplicemente essersi un attimo smarrita, alla ricerca di una visione ancora più intimista della propria musica, ed in tal caso devi essere un fenomeno e non aver paura di rischiare di perdere la faccia, altrimenti il rischio di fare una figuraccia è là dietro l’angolo. Beh per i Meniscus voglio essere chiaro: un passo indietro è stato fatto, e questo mi dispiace, ma sono certo che comunque anche voi avrete modo di perdonare questa defiance, anche perché nei 38 minuti di “War of Currents”, tutti gli elementi classici del genere sono comunque riscontrabili. Partendo dicevamo da un post rock strumentale, il trio cerca di sviluppare il proprio sound lanciandosi in divagazioni space rock progressive che ne esaltano la performance, nella più sperimentale delle tracce, “Fight Club”, in cui fa la sua comparsa in modo importante anche l’elettronica e finalmente un riff di chitarra dotato di un certo mood melanconico. Torno a ribadire la necessità di avere un vocalist, che possa aggiungere un quid in quei momenti che rischiano di intorpidire anche l’ascoltatore più attento. L’abilità della band non si discute, rimango perplesso su alcune scelte ridondanti che sono state fatte in sede di stesura dei pezzi. Meglio rendere più scorrevoli i pezzi, piuttosto che ripetere alcuni giri all’infinito in un loop, ahimè non ipnotico, semmai alquanto tedioso. Comunque i Meniscus rimangono eccellenti esponenti di un post rock, che sta vivendo in questo momento un boom, che non avevo di certo pronosticato. Da rivedere o meglio risentire… (Francesco Scarci)

(The Bird’s Robe Records)
Voto: 70

mercoledì 5 settembre 2012

Squat Club - Corvus

#PER CHI AMA: Math Rock, Experimental, Avantgarde
L’etichetta australiana continua a farmi compagnia in questa torrida estate, proponendomi un altro interessantissimo pezzo del proprio roaster: trattasi questa volta degli Squat Club, un quartetto che vede tra le propria fila la presenza di strumenti un po’ atipici, bouzouki, chitarra baritonale o sax tenore. Insomma, già presentandosi con questa formazione, un po’ di curiosità me l’hanno messa addosso, poi dopo aver inserito il cd nel lettore e aver visionato la durata dell’album, che sfiora gli 80 minuti, beh mi sono armato di santa pazienza per affrontare una bella montagna da scalare. “Intro” affidata ai nove minuti della title track, la song più breve (le altre viaggiano sui 14 minuti) dove inizia un bel viaggio nel sound incandescente, progressive e psichedelico dei nostri, affidato quasi principalmente a fughe strumentali, che talvolta sforano anche in territori non propriamente metal. 10! Questo è il voto che darei alla prima eccezionale song, completa, coinvolgente, tecnicamente perfetta e portatrice di calde emozioni. Parte “Reticulum”, e il sound è dapprima vellutato, morbido, caldo come una dolce carezza sul viso, ne sono sopraffatto, mi sento coccolato, al sicuro da tutto e da tutti; ogni strumento ha il suo ruolo ben definito e riconoscibile, uscendo allo scoperto con delle sorte di brevissimi assoli, prima la chitarra, poi il basso ed infine anche la batteria. Quindi, la musica del quartetto si fa più energica, stravagante, ipnotica, elettrizzante nella sua parte centrale, per tornare a chiudersi cosi come era iniziata. Con “2.75 Kelvin”, l’atmosfera si fa più claustrofobica, mi sembra quasi di essere chiuso all’interno di una cassa da morto, già seppellito sotto due metri di terra, incapace di respirare, con il freddo a penetrare nelle ossa e il terriccio a cadermi in faccia. Sensazione orribile, angosciante, opprimente, che perdura per tutti i 12 minuti del brano e la cui musicalità può ricordare quella più ambient degli Ulver. “Serpens” è un altro esempio di quanto gli Squat Club siano legati alla musica progressive e di quanta originalità possano comunque avere in corpo e poter diffondere cosi liberamente nel mondo. Frastornato, anzi quasi ubriacato dai suoni extraterrestri di questi insani individui, mi ritrovo addirittura una fuga grind nel bel mezzo della canzone, con annessa un assolo di basso di scuola Primus. Assorto ormai nei miei agonizzanti pensieri, non riesco più a capire che razza di musica stia ascoltando per la facilità con cui passa da suoni estremi ad altri più ambient, relegando in ultimo piano la performance vocale di Josh Head, ma dando largo spazio alla perizia tecnica dei singoli. Arrivato alla quinta traccia, che sul retro del cd dovrebbe rispondere a “M44 Beehive Cluster” e dovrebbe essere l’ultima, mi ritrovo nuovamente disorientato in quanto il mio lettore ne legge sei con la conclusiva che dura un altro quarto d’ora. E allora dopo un altro giro sulle montagne russe degli Squat Club, giungo alla conclusione, abbandonandomi al noise/drone dell’untitled track. Che dire, quella di “Corvus” è stata sicuramente un’esperienza interessante, che pecca forse in prolissità e scarsissimo (quasi nullo) uso delle vocals, un’esperienza però che auguro a voi tutti di fare almeno una volta nella vita. Con questo quindi, è scontato il mio invito a dare un ascolto a questo folle album, che siate amanti del prog, del post o di sonorità più estreme. Deliranti! (Francesco Scarci)

(The Birds’ Robe Records)
Voto: 80

domenica 2 settembre 2012

Sleepmakeswaves - ... And so We Destroyed Everything

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale
È ricominciata a pieno ritmo la stagione delle recensioni (le mie, il Franz non si è mai fermato) e come non iniziare con del buon post rock strumentale dall' Australia? Allora prendiamo quattro bei ragazzotti di Sidney, chitarre-basso-batteria-computer e tanto delay, mescoliamo e otteniamo gli Sleep-Makes-Waves. La prima canzone "To You They are Birds, to Me They are Voices in the Forest" ha un'eccezionale apertura epica che ad una prima impressione si stacca dal classic post rock, ma la successiva entrata della chitarra solista ci riporta a sonorità conosciute, ma allo stesso tempo innovative. Una track che regala spazio e respiro, nonostante la mancanza di un testo, si riesce ad immaginare un inno alla natura suonato all'ombra di grandi alberi in una sconfinata foresta. Otto minuti ben strutturati, con diversi cambi di ritmo e melodia. Bel colpo. "Our Time is Short but Your Watch is Slow" inizia con dei synth/chitarra molto alla Sigur Ros che si uniscono ad un loop ritmico, come a dimostrare che la tecnologia e la natura possono in qualche modo coesistere. Almeno nella musica. La track che prediligo è "A Gaze Blan and Pitiless as the Sun" perché riesce a fondere aggressività e delicatezza come poche volte ho potuto ascoltare. Infatti ritengo che il punto forte dei Sleep-Makes-Waves siano proprio gli arrangiamenti, mai banali e con un livello tecnico lodevole. La chitarra riesce a passare dal classico connubio delay-riverbero del genere ad uno stile più progressive con molta facilità. L'unico modo per non annoiare con una traccia da undici minuti? Unire molte linee melodiche differenti tra loro, che qualche gruppo avrebbe utilizzato per creare almeno tre canzoni differenti. Chiudiamo con l'ultima canzone che da il titolo a questo "...And so We Destroyed Everything"", intro di pianoforte minimalista e malinconico che lascia il passo ad un attacco chitarra-basso-batteria prorompente e intimidatorio. Poi tutto entra in un veloce vortice ritmico che passa da suoni puliti a distorti in rapida successione, dove la chitarra si ingrossa paurosamente verso i 4'12''. Meravigliosa. Un grande gruppo, questo perché gli Sleep-Makes-Waves si lasciano apprezzare per le piccole contaminazioni elettroniche che riescono a differenziarli da molti altri gruppi del genere, ma la verità è che la tecnica e la loro creatività musicale è sopra la media. Molto sopra, quindi teniamoli d'occhio. E speriamo tornino in Italia a breve. (Michele Montanari)

(The Birds’ Robe Records)
Voto: 75

sabato 1 settembre 2012

Mish - The Entrance

#PER CHI AMA: Alternative, Math, Post Rock, Tool
Di questa band non so assolutamente nulla, se non che proviene dall’Australia; pertanto la recensione si fa sfidante fin da subito, in quanto con nessuna informazione tra le mani, non posso far altro che trasmettervi in poche righe, quelle emozioni o descrivervi semplicemente quei suoni, che fuoriescono da questo “The Entrance”. Attacco arrembante con “Precocial”, che sembra un pezzo di math-core, con una ritmica serrata e affilata, che evolve lentamente in suoni più oscuri con delle vocals pulite in sottofondo. Al di là del sound massiccio, quasi in stile Meshuggah, è senza dubbio la tecnica chirurgica dei nostri a ben impressionare. Song dirette, orecchiabili e forse “Janitor” ne è l’esempio più azzeccato, con i nostri, dopo aver preso appunti a scuola dei Tool, ne ripropongono la loro personale versione, ed il risultato, ve l’assicuro, non è affatto male. A differenza dei maestri però, le canzoni qui sono sicuramente meno lunghe, non mostrano la complessità dei brani che si riscontra nelle release dei gods statunitensi, tuttavia sembrano seguire uno schema ben preciso, che si consolida a poco a poco dapprima nel cervello, per scendere poi più giù, fino ad imprimersi nell’anima. E cosi ecco scorrere splendide immagini, accompagnate da un’ottima musica che si muove all’interno dei confini di quello che possiamo semplicemente definire come musica alternative, per un risultato davvero sorprendente ed intrigante. Forse la voce di Rowland Hines non è ancora al meglio nella sua veste più squillante, tuttavia quanto confezionato dal nostro quartetto australiano, è sicuramente di pregevolissima fattura, anche con pezzi del tutto strumentali (“Resilience”), dove i nostri sembrano trovarsi maggiormente a proprio agio. Con “Fire Inside”, esploriamo la parte più intimistica dei Mish e mi rendo conto che forse dovrò aumentare di un altro mezzo punto la votazione degli aussie boys, in quanto ora è un certo post rock a penetrare nel tessuto musicale dei nostri e a rendere il risultato finale decisamente più introspettivo e ricco di significati. Ma “The Entrance” non cessa certo qui di stupire con le sue raffinate linee melodiche, l’originalità della proposta e la perizia tecnica dei propri strumentisti: “Altricial” sembra quasi un pezzo dei Primus, complice la presenza di un basso in prima linea; “Cosmo” è un lungo pezzo che abbina il post rock a suoni math-crossover-funky, per un risultato finale assai originale. Chiudono “Telepathic”, song tecnica e forse troppo ridondante nel suo giro di chitarra e la title track, una specie di outro del disco con una ritmica in stile Metallica e la presenza in sottofondo dei didjeridoo, lo strumento tipico degli aborigeni australiani, a decretare che i Mish sono un’altra eccitante realtà proveniente dal “nuovo continente”. Ottimi! (Francesco Scarci)

(The Birds’ Robe Records)
Voto: 85

mercoledì 1 agosto 2012

Pirate - Left of Mind

#PER CHI AMA: Alternative Rock, A Perfect Circle, Mr. Bungle
Devo essere sincero, inizio ad adorare sempre più la Bird’s Robe Records e la sua sfrontatezza nel produrre band, decisamente fuori dall’ordinario. Fino ad ora nessuna delle release rilasciate dalla label australiana riesce a trovare pari nel panorama musicale mondiale. Ciò che stupisce è che poi tutte le band sotto contratto con l’etichetta di Sydney, siano provenienti dall’enorme nazione oceanica. Non ultimi questi Pirate, che si distinguono ancora una volta per una proposta musicale fuori dall’ordinario, una fusion di stili e sfumature che partendo dal rock progressive anni ’70, si fonde con le colonne sonore, per trovare ampio sfogo nella follia delirante di un sax impazzito, come accade nella opening title track o la strumentale “Rough Shuffle”. Pazzi, sicuramente influenzati da quel bontempone che risponde al nome di Mike Patton e una qualsiasi delle sue creature, Mr. Bungle o Fantomas. I Pirate nelle otto tracce a loro disposizione ne combinano davvero di tutti i colori, cosi non stupitevi se in “Animals Cannibals” emergono echi dei Faith No More o di un certo alternative americano, comunque sempre contaminato da suoni freschi e moderni, perché di certo nel corso dell’ascolto di “Left of Mind” incontrerete suoni abili nel passare da sonorità rock old style con montagne di sintetizzatori stile seventies, a suoni stralunati o ambient, fino a sfociare nel jazz (sicuramente complice la presenza del famigerato sax). Le voci poi sono schizoidi, quasi la risposta australiana agli americani Primus; ma i nostri non si fermano certo qui, sono un uragano di genialità, e nella loro immaginaria musica, finiscono per convergere anche accenni di The Mars Volta, la sperimentazione dei Radiohead, l’oscurità dei A Perfect Circle, il tutto suonato nella vena metallica progressive dei Cynic. Si, insomma l’album dei Pirate è qualcosa che va accuratamente ascoltato e ponderatamente digerito, perché di certo non rimarrete delusi di fronte a cotanta ispirazione e genialità. Matti da legare! (Francesco Scarci)

(The Bird's Robe Records)
Voto: 85

mercoledì 25 luglio 2012

Meniscus - Absence of I

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive, Explosions in the Sky
“Si viaggiare…” cantava Battisti 30 anni fa e io continuo a farlo, rimbalzando da una parte all’altra del globo alla scoperta di nuove entusiasmanti realtà e il mio viaggio, fa oggi tappa in Australia, alla scoperta dei Meniscus. Di primo acchito un nome del genere, mi farebbe pensare a quelle band anatomo-patologiche dedite ad un grind-splatter gore. Niente di più sbagliato, i nostri baldi giovani aprono questo Ep di sei pezzi, citando subito una delle band che ha fatto la storia del rock, i Pink Floyd, prima di iniziare ad entusiasmarmi enormemente con un sound notturno, che seguendo le orme di valide realtà del panorama post rock odierno (e mi vengono in mente Explosions in the Sky e Russian Circle), intraprende un sentiero fatto di magnifiche e fluttuanti melodie, il tutto centrifugato con una tecnica ineccepibile da tre ottimi musicisti, che una dopo l’altra, immortalano il proprio sound con dei grandiosi pezzi. “Cusp”, “Pilot”, “Mother” mostrano la vena progressive/post rock dei Meniscus, che seppur priva della componente (per me fondamentale) del cantato, riesce a catturarmi e lentamente avvinghiarsi alle mie interiora. Atmosferici, malinconici, carichi di groove e al contempo di visioni oniriche, senza tralasciare la pesantezza dell’heavy metal nelle sue ritmiche più rabbiose o un certo feeling etnico, questi sono i Meniscus. La sensazione che mi genera l’ascolto di questo disco è quella di vivere un sogno, dove le immagini sono decisamente sfocate e i suoni risuonano lontano come l’eco che rimbalza sulle pareti rocciose delle montagne, fino a giungere alle mie orecchie. Beccheggiante, come l’andatura delle barche a vela sul mare, “Idiot Savant” potrebbe rivelarsi il brano ideale per una crociera in libertà, perché quella che respiro è si aria di indipendenza, con il vento che soffia in faccia. Apro i polmoni e mi lascio trasportare in mercati mediorientali con sonorità arabeggianti, presto spazzate via da un riffing acuminato e da un drumming fantasioso. Eccelsi, non c’è che dire, anche per uno come me che di dischi strumentali non vuol sentir parlare. L’album si chiude con la timida e al tempo stesso roboante title track e con il cicalio di “Far”, dove ancora il suono lontano di timide percussioni, mi spingono a veleggiare verso nuovi lidi lontani… (Francesco Scarci)

(The Bird’s Robe Records)
Voto: 85

martedì 24 luglio 2012

Toehider - To Hide Her

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Experimental
Oh my God. Ripeto, Oh my God. Dico io, non può arrivarmi un cd così tra capo e collo, dalla copertina disegnata in stile psichedelico anni 70 e nascondere un capolavoro del genere. Ho per le mani l'album dell'anno ed è tutta colpa di questo genio, tal Michael Mills, australiano con le idee chiarissime e dal progetto ambizioso: diventare una rock star, di quelle vere, vecchio stampo. Tutto ebbe inizio nel 2008 quando uscì il primo EP e subito dopo inizio il Progetto, quello con la P maiuscola. Scrivere 12 album in 12 mesi (12 in 12). Direte voi, neanche i Queen ai tempi d'oro potevano farcela. Invece no, TOEHIDER scrive 67 (!!!) tracce in 12 mesi, a cavallo del 2009 e 2010. Dopo una meritata pausa, nel 2011 esce questo full length "To Hide Her" che conferma la sopravvivenza di Michael Mills dopo la pazzia del "12 in 12". Devo dire che ho prima ascoltato questo cd e poi sono andato a vedere la storia del gruppo (inizialmente del solista), altrimenti rischiavo di risentire della responsabilità di commentare questo capolavoro.La base di tutto è comunque la semplicità, infatti tutto parte da una base di prog con diverse influenze per singola traccia. Apriamo con "Oh my God, He's an Idiot", struggente pezzo guidato da chitarra arpeggiata e una voce incredibile, metà Bruce Dickinson e metà Justin Hawkins che entra dopo trenta secondi di silenzio assoluto e nasconde un testo volutamente banale ed ironico. Tutto questo viene spazzato via da "The Most Popular Girl in School" con una breve intro di chitarra pop-rock e da uno sviluppo in stile Queen (i cori sono inconfondibili) e addirittura un assolo di xilofono, improponibile per qualsiasi musicista, ma estremamente naturale per i TOEHIDER. Un tuffo di vent'anni in in cinque minuti netti. La mia preferita è "Daddy Issue", una canzone che potrei definire emotional-prog rock per lo sviluppo strumentale, Concludiamo con il pezzo che conferisce il nome all'album e che tira fuori le palle del gruppo, infatti ci sono dei riff heavy metal ignoranti (licenza poetica) mescolati a loop elettronici e basso che fraseggia in funky. Ecco un pò di cattiveria, ma con stile. Gli altri pezzi andateveli ad ascoltare, non perdete altro tempo a leggere e cliccate "Buy" da qualche parte su internet. PS: Bisogna dire che la macchina TOEHIDER è grossa, ottimi sponsor alle spalle e una gestione mediatica degna di gruppi più blasonati. Speriamo che la fama non li bruci, almeno prima di averli ascoltati per diversi album e visti dal vivo. (Michele Montanari)

(Bird’s Robe Records)
Voto: 90