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mercoledì 22 aprile 2020

Horda Profana - Beyond the Boundaries of Death

#PER CHI AMA: Death/Black Old School
Devo ammettere di aver sempre piuttosto snobbato la scena sudamericana perchè da sempre imperniata su sonorità estreme old school. Non ne sono ovviamente immuni gli Horda Profana, band black death originaria dell'area di Buenos Aires, che lo scorso anno ha rilasciato il secondo lavoro, 'Beyond the Boundaries of Death'. E dopo pochi secondi di musica, si arriva alle mie conclusioni assai alla svelta, semplicemente dopo aver ascoltato l'iniziale "Summoning", la più classica delle song death black degli anni '80, un po' come se i Celtic Frost in compagnia dei primissimi Sepultura, sotto la supervisione dei Black Funeral, si siano ritrovati per una serata tra amici. Ritmiche sparate a mille, voci blasfeme e fortunatamente un epilogo un po' rallentato. "Absent of Light" sembra anche peggio, però a parte la scontatezza della proposta del combo argentino, ho potuto apprezzare una componente ritmica davvero devastante in grado di innalzare un muro sonoro invalicabile dove ho trovato il gracchiare mefistofelico al microfono di Nephilim, particolarmente in linea con la musica proposta. E non nascondo anche la mia sorpresa nel ritrovarmi a scuotere il capo di fronte alla violenza distruttiva di questa song, dotata addirittura di una certa vena melodica. Di vena creativa ce n'è invece ben poca traccia e quindi mettete in conto di ritrovarvi nelle orecchie un qualcosa che verosimilmente avete già sentito in mille forme differenti negli ultimi 30 anni e passa. Tanta furia distruttiva quindi, certificata dalle performance dell'arrembante (e punkeggiante) "Reaching Primordial Darkness", dalla tonante "Words of Immortal Fire", fino ad arrivare, senza particolari sussulti, alla devastazione finale di "A Coldness Curse". Si potevano impegnare un pochino di più e infilarci chessò un assolo, un riffing più ricercato, niente, solo puro estremismo sonoro rimasto ormai a uso e consumo di pochi adepti. (Francesco Scarci)

V:XII - Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina

#PER CHI AMA: Industrial/Drone
Trattasi di una one-man-band quella dei V:XII, compagine dark industrial svedese creata da Daniel Jansson, uno che milita (o ha militato) in una serie di altri progetti, tra cui i Deadwood, la cui storia si è interrotta nel 2014 e per cui ora, il buon Daniel, ne vede la reincarnazione (ed evoluzione musicale) nei V:XII, nella fattispecie di questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina'. Il lavoro si apre con le visioni oscure e angoscianti di "The New Black", sei minuti e più di suoni asfissianti che poggiano su un unico beat sintetico ripetuto allo sfinimento e sul quale s'installa il growling del factotum scandinavo. Sembra essere sin da subito questa la ricetta dei V:XII, visto che anche in "Maðr" ci vengono propinati suoni dronici alienanti su cui poggiano le vocals distorte del buon Daniel cosi come altre spoken words in sottofondo. I campionamenti si sprecano e cosi il drone paranoico di "Twining Rope" mi costringe a dondolarmi avvinghiato a me stesso, rintanato in un angolo della mia stanza. È un disco decisamente sconsigliato in periodi di quarantena questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina' in quanto il rischio di subire effetti disturbanti o distruttivi per la psiche dell'ascoltatore, è assai elevato. Atmosfere lugubri e malsane contraddistinguono la sinistra "Djävulsögon - Deconstructing the Bloodwolf", un mix tra il suono proveniente dalla canna fumaria di una nave, delle catene di un castello infestato e il frastuono della sala macchine di una centrale nucleare, il tutto ovviamente corredato dalle onnipresenti vocals filtrate del mastermind svedese. Se non vi siete ancora suicidati o il cervello non vi è andato in pappa, c'è tutto il tempo di lasciarsi stordire dalle note marziali di "Ururz", o essere investiti dal nichilismo sonoro della spaventosa "B.A.H.F", la traccia che più ho preferito del disco o dalla conclusiva ed ambientale "Vánagandr", che segna, fortuna nostra, la fine di un percorso musical-dronico-rumoristico davvero complicato e consigliato a soli pochissimi eletti. (Francesco Scarci)

domenica 19 aprile 2020

King SVK - New Æon

#PER CHI AMA: Experimental Death Metal, The Project Hate, Carnival in Coal
Dall'incipit mediorientaleggiante di "Ozymandias", mi sarei aspettato origini più esotiche per la band di quest'oggi, in realtà i King SVK sono un duo proveniente dalla Slovacchia (da qui deduco l'acronimo SVK nel moniker). 'New Æon' è il terzo album dal 2000 quando Ivan Kráľ (tastiere e synth) e Norbert Ferencz (chitarre), fondarono questa stravagante compagine. Il duo propone infatti un death metal moderno, melodico con tematiche incentrate sulla mitologia dell'antico Egitto, fuse con la filosofia di Friedrich Nietzsche. Da un punto di vista musicale, aspettatevi invece tonnellate di cyber death metal fatto di ritmiche belle pesanti ma comunque grondanti groove da tutti i pori, vocals che si dipanano tra il growl ed un cantato pulito un po' meno convincente (e da rivedere), ottimi cambi di tempo e quintalate di synth. "Hymnus Aton" è la seconda traccia che apre ancora con riferimenti arabeschi, per lasciare presto il campo ad un riffing a cavallo tra Meshuggah e Fear Factory e un incedere comunque sempre parecchio orecchiabile che forse travalica qui nel viking grazie all'utilizzo di alcuni cori epici. "Chant Of Praise Of Nimaatre" sembra invece provenire da qualche disco circense dei Pensées Nocturnes, ma la sensazione dura solo per pochi secondi, visto che la vigorosa band slovacca torna a sfoderare un rifferama bello compatto sul cui sottofondo sembrano collocarsi delle strane trombette. Lo spettro circense però torna a riaffacciarsi in più casi nell'irruenza fragorosa del brano. Con "Seeking of Being", song strumentale, ci lasciamo ammaliare dai suoni di un organo che fa da apripista al saliscendi chitarristico che trova anche in un break acustico, l'attimo ristoratore utile a darci la carica e ripartire di slancio con la musica dei King SVK, qui più che mai sperimentale, quando ampio spazio viene concesso al suono di quella che parrebbe una spinetta, e prima che i nostri si lancino in una rincorsa prog rock. E bravi i due musicisti, che devono avere un pedigree di tutto rispetto viste le qualità tecniche. Ciò è confermato a lettere cubitali anche dai successivi pezzi: "Homeless" in primis, dove sottolineerei una schitarrata iniziale in stile "death metal from Stockolm", a cui segue l'imprevedibile e abbondante utilizzo delle clean vocals che qui doppiano il growling maligno del frontman, in un esperimento riuscito ahimé solo a metà, colpa esclusivamente della voce pulita davvero fuori posto. Che peccato maledizione, perchè la cosa avrebbe avuto risvolti decisamente interessanti, ma potrebbe anche essere che le vostre aspettative non siano cosi alte quanto le mie e possiate anche passarci sopra. Io francamente faccio un po' fatica e me ne dispiaccio particolarmente perchè in queste note percepisco la forte volontà da parte dei due musicisti slovacchi di mettersi in gioco, rischiare il tutto per tutto con la carta della creatività e andando assai vicino a compiere il miracolo. Niente paura, ci riprovano anche nella ancor più stralunata "Venetian Night" dove è una (o più?) voci femminili a provare a sostenere il riffing brutale dei nostri in un esperimento affine a quello degli svedesi The Project Hate; tuttavia anche qui la componente vocale non si rivela all'altezza. I nostri comunque non si perdono mai d'animo, vanno avanti nella loro strada pur ricascandoci in "Sea in the Soul" (da rivedere quindi il casting per la voce), visto che le dolci donzelle mal si adattano ad un sound robusto che prova qui anche la strada delle orchestrazioni. Bene da un punto di vista musicale, c'è ancora da sistemare qualcosa in quello vocale. "After Swimming", con un bel po' di immaginazione, potrebbe somigliare col suo coro fanciullesco ad "Another Brick in the Wall" dei Pink Floyd, con la song che comunque ha un forte piglio prog fatta esclusione per le ritmiche possenti. Ma la ricercatezza in trame elaborate fa parte del duo slovacco, anche nella più schizofrenica "With Horus in the Sky", quando i nostri ritornano sulla strada maestra dei primi pezzi e si lanciano in rincorse chitarristiche qui ancor più complicate che in apertura, ma con un occhio puntato sempre alla tradizione egizia. Il viaggio con i King SVK si completa con "The Age of Aquarius", una song che mi ha richiamato alla memoria un che dei Carnival Coal, sia a livello vocale che musicale. Ora, dopo aver speso tre quarti d'ora in compagnia dei King SVK, senza ascoltarne la musica, potrete solo lontanamente immaginare quali siano i margini di follia di questi due personaggi. Dategli un ascolto, fatevi un favore. (Francesco Scarci)

sabato 18 aprile 2020

Hangatyr - Kalt

#PER CHI AMA: Black, Shining
Hangatyr è uno dei molteplici nomi utilizzati per identificare Odino, la principale divinità norrena. Per tributare la sua figura, il quartetto della Turingia ha adottato questo stesso moniker, rilasciando dal 2006 a oggi tre album. Detto che la prolificità non deve essere proprio il punto forte della band teutonica, accingiamoci oggi ad ascoltare il nuovo arrivato 'Kalt', lavoro autoprodotto da poco rilasciato dai nostri. L'album include otto song che irrompono con la furia glaciale di "Niedergang", un pezzo che gela immediatamente il sangue nelle vene, per quella sua bestialità ritmica e vocale (uno screaming efferato in lingua germanica), giusto un breve accenno ad un black atmosferico ma poi, quello che si configura nelle mie orecchie, è quanto dipinto nella cover dell'album, ossia quell'uomo che cammina sotto una fitta tempesta di ghiaccio. Lo stesso ghiaccio che imperversa nelle note della successiva "Entferntes Ich", un brano più mid-tempo oriented, ma comunque contraddistinto dagli aberranti vocalizzi di Silvio e Ira, e da una componente atmosferica che rimane sempre relegata in secondissimo piano. La bufera prosegue con le melodie agghiaccianti di "Firnheim" e una prestazione a livello vocale che mi ricorda quello del buon Niklas Kvarforth nei suoi Shining, mentre il drumming risuona invasato ed insano, soprattutto nella seguente "Blick aus Eis", quando la velocità del drumming si fa ancor più sostenuta e le chitarre ancor più taglienti. "Kalter Grund" è un pezzo decisamente più controllato, con le sue melodie che ricordano da vicino le release del periodo di mezzo dei Blut Aus Nord, cosi sinistre e malefiche, e per questo eletto anche come mio pezzo preferito, soprattutto per la sua capacità di non eccedere in facili estremismi sonori e per la più preponderante valenza melodica ed una certa ricercatezza sonora. Un malinconico intermezzo strumentale, "...Kalt", e si arriva agli ultimi due brani del cd, "Mittwinter" e "Verweht", quindici minuti affidati ad una tormenta sonora che come il vento sferza i nostri volti con soffi d'aria gelidi, l'act tedesco, con le sue plumbee chitarre, genera atmosfere rarefatte ma comunque dotate di una certa intensità epico-emotiva. 'Kalt', per concludere, è un album complicato, non certo facile da digerire di primo acchito, ma che richiede semmai più ascolti per essere apprezzato nella sua veste cosi distante e glaciale. (Francesco Scarci)

Abeyance - Portraits of Mankind

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dark Tranquillity
Ah, ma c'è ancora qualcuno nel mondo che suona death melodico che chiama in causa i vecchi Dark Tranquillity? L'ho scoperto solamente oggi, con l'arrivo sulla mia scrivania dell'EP di debutto dei milanesi Abeyance, uscito sul finire del 2019 per la Sliptrick Records. 'Portraits of Mankind' è il lasciapassare dei nostri per farsi conoscere ad un pubblico più ampio. Dicevamo EP e Dark Tranquillity: cinque tracce quindi per un sound fresco e scorrevole come solo la band di Gotheborg riesce ancora a creare. Si parte in tromba con la title track e un riffing serrato che mette in mostra una bella melodia di sottofondo come da insegnamenti di Mikael Stanne e soci. E poi un saliscendi dinamico di chitarre, breakdown, rallentamenti e finalmente degli assoli interessanti. L'attacco della successiva "In Falsehood Dominion" sembra un estratto da un qualsiasi disco dei Dark Tranquillity, anche se proseguendo nell'ascolto, il muro ritmico si fa più violento, con i vocalizzi del frontman piuttosto radicati nel growling death metal, quello comprensibile però. Poi un'altra frenata e la song s'incanala dalle parti di un mid-tempo, prima della sassaiola finale molto più vicina al post-black che al death metal. Un pianoforte introduce "Mine Are Sorrow and Redemption" (quante volte l'hanno fatto anche i nostri idoli svedesi?), giusto una manciata di secondi e poi via con il muro di chitarre, stop'n go, spoken words in sottofondo, i motori si scaldano per partire a mille, ed eccomi accontentato. Probabilmente il canovaccio è piuttosto scontato, ma il risultato non è affatto male in termini qualitativi. E forse la prima considerazione che farei su questo dischetto in ottica futura, è proprio quella di lavorare sull'imprevedibilità della musica, aumentando in questo modo la longevità d'ascolto della band meneghina. Le qualità per fare bene infatti ci sono tutte e questo è dimostrato anche dall'assolo progressive in coda a questo pezzo. Poi, ascoltando le successive "Innerscape" e "Secretly I Joined Dark Horizons", non posso che apprezzarne i contenuti, sebbene si tratti di un paio di pezzi un po' più classicheggiante nel loro incedere e quindi troppo ancorate a stilemi che forse andavano di moda una ventina d'anni fa. E qui arriva la mia seconda considerazione: cerchiamo di lavorare maggiormente in termini di creatività e personalità, mettendo da parte gli indottrinamenti dei maestri. 'Portraits of Mankind' è sicuramente un bel rodaggio, ma in futuro mi aspetto grandi cose dagli Abeyance, quindi attenzione, che vi tengo sott'occhio! (Francesco Scarci)
 

Hermon - Blackest Night

#PER CHI AMA: Black/Punk, Darkthrone, Celtic Frost
Era addirittura il 1993, quando i qui presenti Hermon si formarono nella elegante Buenos Aires. Tre anni insieme, nessuna release ufficiale, probabilmente tanto divertimento, birre nello scantinato di una qualche casa, li a strimpellare insieme. I tre musicisti argentini dal 1996 in poi, si sono dedicati ad un'altra miriade di progetti (Windfall, Xenotaph, Artes Negra tra gli altri) prima di riflettersi sul da farsi e tornare insieme solo nel 2018, per dare voce al progetto iniziale Hermon. E finalmente, nel 2019, vede la luce 'Blackest Night', un disco che forse sarebbe dovuto uscire 25 anni prima, vista una proposta a cavallo tra punk, black e death. Questo ci dice infatti l'opener "About the Dark Hours", una traccia che poteva essere stata rilasciata tranquillamente dai Darkthrone negli anni '90. Poi, con "Funeral Black Winter" si scatena l'inferno: ritmica cingolata lanciata a tutta forza, con un mood a metà strada tra i primi Mayhem e ancora con la band di Fenriz e compagni. La proposta, come potete immaginare, è assai oscura, ma ovviamente non aggiunge nulla alle forze del male del passato, a cui aggiungerei altri tre nomi per chiudere il cerchio e dare una giusta connotazione al sound della compagine argentina, ossia i primi Celtic Frost, i Venom e i Bathory. I primi due per la loro aura spettrale e qualche influenza che si ritrova a schizzi nell'album, la terza band per una certa vena epica che si riscontra qua e là nei vocalizzi di Nan "Noctambulo" Herrera. Poi, parliamoci chiaro, dai due minuti di "Thinking to Kill" in avanti, per concludersi con "Black Celebration", il disco potrebbe suonare come una celebrazione della carriera dei Darkthrone, ma per quelli è sempre meglio ascoltare gli originali. Insomma un bel salto indietro nel tempo con questa "Notte più Profonda" che ci porta dritta agli albori del black metal. (Francesco Scarci)

(Sons of Hell Prod. - 2019)
Voto: 66

www.facebook.com/hermon-black-metal-183876585863641

venerdì 17 aprile 2020

Akeldam - Domain of Two Kingdoms

#PER CHI AMA: Black Old School, primi Rotting Christ, Gehenna
Perù, lago Titicaca, la splendida località Puno si pone sulla costa occidentale dell'enorme lago montano. Qui nascono addirittura nel 2002 gli Akeldam con il moniker di Titans (durato solo un anno e poi cambiato nell'attuale). Tre album all'attivo per il trio peruviano, datati 2005, 2009 e finalmente ecco arrivare lo scorso anno, 'Domain of Two Kingdoms'. Il nuovo lavoro, complice un lungo silenzio perdurato ben dieci anni, contiene quasi 80 minuti di musica, si dovevano far perdonare qualcosa i ragazzi, eh? Dopo una lunga intro, faccio conoscenza dei nostri con "Despertar en Los Suburbios" ed un sound che mi catapulta indietro nel tempo di almeno 25 anni, grazie ad un black melodico di vecchia scuola ma comunque in linea con quanto proposto nei '90s da gente del calibro di Rotting Christ, la band che sento realmente più vicina al terzetto, anche se in certi passaggi, sono alcune reminiscenze di scuola Dimmu Borgir, ad emergere. Il thrash si coniuga perfettamente qui col black grazie a delle ritmiche, se vogliamo, un po' elementari, ad un lavoro alle tastiere che rende il tutto estremamente atmosferico, proprio in linea con le prime produzioni della band di Sakis e compagni, e penso ad album quali 'Thy Mighty Contract' o 'Non Serviam', il tutto cantato da una voce che ricorda lo screaming degli Immortal (o anche dei cechi Master's Hammer). "Siniestro" è una mitragliata in faccia stemperata solo da un bel break melodico di tastiere e chitarre; magari si avverte qualche imprecisione strumentale, ma francamente non posso che farmi ammaliare dal sound cosi retrò dell'ensemble peruano, poi volete mettere anche il fascino di un screaming distinguibile cantato in spagnolo? Si continua con la contraerea di "Gritos de Guerra", una song che fa sempre della miscela black speed e thrash il suo punto di forza, con le keys relegate in un ruolo piuttosto marginale ma alla fine di grande effetto, qui soprattutto più che in altre parti, a richiamare un certo 'Stormblåst'. In inglese e più mid-tempo oriented, la title track dell'album, anche se le stilettate nella sua prima metà rischiano di essere fatali, mentre le orchestrali sinfonie giungono in nostro aiuto per ridurre il ritmo infernale della song; peccato solo non ci sia qualche assolo a completare l'opera (lo si sentirà solo nella conclusiva "Sacramento") che a quel punto avrebbe goduto di una maggior vena creativa. Più classicheggiante l'incipit di "Abrazando las Sombras", quasi a cavallo tra heavy, power e ovviamente il black, a dispensare note maligne ma sempre dotate di una buona dose di melodia, qui quasi fin troppo eccessiva. Le trame chitarristiche di matrice black thrash (che evocano nella mia mente un altro nome della scena norvegese, i Gehenna) ad opera di Mitchell Calderón Holguín, il furente drumming assassino di Giovanni Calderón Holguín e le harsh vocals dello stesso Mitchell, si mantengono intatte fino alla fine, anche in quelle che sono le tre bonus track finali, che arrivano dal più vecchio materiale della band, ma che comunque mantengono inalterato lo spirito indomito del combo sudamericano. Niente di originale sia chiaro, ma se avete un po' di nostalgia di un passato che ormai non esiste più, perchè non dare una chance a questi Akeldam? (Francesco Scarci)

(Thrashirts - 2019)
Voto: 66

https://www.facebook.com/AKELDAM

lunedì 13 aprile 2020

Antipathic - Covered with Rust

#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse
Torna la band italo-americana degli Antipathic, con un EP che include un paio di song più o meno nuove, ma anche una cover degli Obituary e una dei Cannibal Corpse, ossia quella "Covered with Rust" che dà il titolo al dischetto (mi sembra che un omaggio ai gods americani risieda anche nella cover del cd, da quel 'Butchered at Birth', dal quale la stessa title track di questo EP è estratta). “Hinexorable Hierarchy“ apre con la solita prepotenza schizoide dei nostri, ormai loro marchio di fabbrica, e il classico brutal death del duo formato da Tato e Chris (qui coadiuvati peraltro in alcune parti anche dal vocalist Bob Hodgins dei Human Repugnance) scorre come un fiume in piena tra accelerazioni al limite del grind, spaventosi intrecci sonori e rallentamenti con retromarcia incorporata, che ci fanno entrare in un maelstrom di follia, mentre le isteriche vocals di Tato, vomitano tutto il loro disprezzo per il mondo. Annichiliti dall'opening track, arriva "Reautonomous" (rilettura della vecchia “Autonomous Mechanical Extermination”) con il suo carico di veemenza in formato famiglia, sebbene la band si prodighi costantemente nella creazione di attimi di rarefazione dell'aria e conseguenti momenti di asfissia opprimente. Per fortuna è solo una scheggia di poco più di tre minuti che lascia il posto a "IDGAF" cover di quella ""Don't Care" dei maestri Obituary che figurava in 'World Demise' nel 1994. L'attitudine mid-tempo è la medesima dell'originale ma lasciatemi dire che la voce di John Tardy rimarrà per sempre inimitabile. È il turno dei Cannibal Corpse e del rifacimento di "Covered with Sores" qui cambiata appunto nel titolo, in "Covered with Rust", una song che parte lentamente ma poi divampa in quell'incendiario sound brutale degli originali. Un delizioso antipasto quindi, preludio forse di un nuovo album in arrivo? Mah, staremo a vedere. (Francesco Scarci)

Pornohelmut – Bang Lord

#PER CHI AMA: Experimental/Electro/Industrial
Ottimo il debutto del musicista texano e artista audiovisivo Neil Barrett, sotto il moniker, un po' banale se mi permettete, Pornohelmut; la musica mi ispirava infatti un nome più intellettuale, più nerd. Con questo esperimento sonoro, intitolato 'Bang Lord' (fuori per Atypeek music e Show & Tell Media), Neil si affaccia al mondo musicale con una proposta se non altro eccentrica ed abrasiva. Il lavoro è il risultato di una serie di patterns corrosivi e ritmi messi assieme con gusto e centrifugati al computer, per una manciata di brani che spingono veramente bene, tra crust punk, digital noise, techno, metal, indie, ambient noise ed elettronica sperimentale. Nel disco non c'è niente di nuovo o innovativo poichè tante di queste sonorità sono già state usate, tuttavia bisogna ammettere che una certa geniale intuizione ed una vera fiammata, di reale e sana ispirazione, abita davvero in questo lavoro. Venti minuti per un totale di sette tracce tutte al veleno, ruvide, infiammabili ed esplosive, come una molotov pronta ad essere lanciata. L'effetto in certi casi è immaginabile ed accostabile ad una catarsi musicale tra Godflesh, Prodigy, Swamp Terrorist, Pushifer, l'universo Pigface e perchè no, anche retaggi del seminale progetto denominato Scorn, con i vari paralleli di Mick Harris, tutto rigorosamente filtrato da un tocco digitale moderno e un occhio di riguardo per i suoni più di tendenza tra elettronica e dance. "Wizard Sleeve" è una chicca che sembra essere suonata dai mitici Warrior Soul, in maniera più acida e sintetica, in un futuro temporale lontanissimo dalla loro era, splendida, come l'apripista "Astroglide" e la notturna suite dalle trame techno, "Night Rider". Un disco, 'Bang Lord', stralunato e contorto ma allo stesso tempo omogeneo e straripante di idee sonore, amalgamate con vigorosa e urgente creatività. Un album velocissimo, devastante e carico di energia che per venti minuti di sana follia rock digitale, e ripeto, scrivendolo a caratteri cubitali, mostra un gusto per il crossover di generi, contrapposti tra loro, di tutto rispetto. Una visione del rock tra pixel e transistor, che può piacere a molte fasce di ascoltatori dai target musicali più variegati. Un disco decisamente interessante, da non sottovalutare assolutamente il cui ascolto è parecchio consigliato. (Bob Stoner)

(Atypeek Music/Show & Tell Media - 2020)
Voto: 74

https://pornohelmut.bandcamp.com/album/bang-lord