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mercoledì 1 aprile 2020

Matteo Muntoni – Radio Luxembourg

#PER CHI AMA: Post-Rock/Jazz/Neo Progressive
Matteo Muntoni è un musicista, polistrumentista e compositore sardo con poliedriche visioni sul mondo della musica. La sua ampia versatilità lo porta a spaziare con una certa libertà tra echi post rock e reminiscenze jazz ("The Jellyfish Dance Drift"), scaglie di psichedelia d'annata e minimalismo sonoro misto ad ampie aperture, sulla scia di alcune geniali intuizioni a la Steven Wilson. Così, si susseguono colori e suoni da ogni angolatura, sempre con una moderata vena rock melodica e controllata; la sua è una musica complessa, variopinta ed allo stesso tempo di piacevole impatto che scivola bene all'ascolto, che si estende addirittura in ambito pop (l'omonimo brano che porta il nome del disco 'Radio Luxembourg') senza mai scadere nella banalità, ed anche se intavola tematiche più semplici, non si priva mai di una certa personalità. Il titolo dell'album è una dedica alla storica radio, punto di riferimento per tutti gli aspiranti dj delle prime radio libere italiane degli anni settanta, nata nel 1933 a Marnach in Lussemburgo e dedita alla diffusione di musica d'avanguardia, assai diversa dagli allora programmi delle radio pubbliche europee. Il caldo tepore del jazz d'atmosfera, arpeggi cristallini e stili che si fondono in una manciata di canzoni multicolori, fanno di questo album un marchio di fabbrica, con il rock alternativo ed i chiaroscuri musicali a susseguirsi brano dopo brano, mettendo il giusto brio al disco. Un album corposo che non si perde in virtuosismi ma che mostra un lavoro di squadra molto intenso, un disco dalle molteplici qualità artistiche e dalle sentite e cercate derivazioni compositive di certo rock progressivo più soft degli anni settanta, azzardando il paragone al sound dei mitici Sweet Smoke, o al prog dei Willowglass, con punte verso il rock fusion dei Both Hands Free, ovviamente personalizzato dall'autore, rivitalizzato ed attualizzato ai giorni nostri. Un lavoro strumentale, interessante e tutto da scoprire, partendo dal mio brano preferito ossia la bella suite progressiva in chiusura dell'album, "Werewolf Cricket". (Bob Stoner)

Untitled with Drums - Hollow

#PER CHI AMA: Alternative Rock, A Perfect Circle
Secondo lavoro per questo quintetto francese che prende il nome da una canzone dei mai troppo lodati Shipping News. Questo l'indizio che aiuta ad inquadrare le coordinate di riferimento della musica degli Untitled With Drums, cosi tesa tra reminiscenze post-rock e noise di fine anni '90 e le influenze quasi progressive dei primi anni 2000, portate da band quali Tool o Cave in. Quello dei cinque francesi è un rock oscuro e di sicuro impatto, nel quale un songwriting di qualità si fa strada attraverso coltri di feedback e bassi distorti, sorretto da un drumming potente e preciso, e una voce sempre in grado di reggere il pathos. Difficile scegliere i brani migliori, laddove la qualità media è sempre piuttosto alta (con una leggera flessione forse nella seconda parte dell'album), raggiungendo notevoli picchi di intensità nell’incedere marziale della drammatica “Silver” o nei saliscendi emozionali di “Passing on”, “Amazed” o “Strangers”, con il suo drumming tribale, mentre “Hex” lambisce gli A Perfect Circle o i migliori Incubus. Quello che piace, in generale, è come ogni pezzo contenga un’evoluzione, un twist in grado di tenere costantemente vivo l’interesse, scongiurando il pericolo dato da una certa omogeneità di atmosfere di far assomigliare un po’ troppo i brani tra loro. 'Hollow' è un disco solido e compatto, fosco e potente, perfetto per chi ama i nomi di riferimento e non solo. (Mauro Catena)

(Seeing Red Records/Araki Records/Brigante Records/Atypeek Music - 2020)
Voto: 74

https://untitledwithdrums.bandcamp.com/

martedì 31 marzo 2020

Noam Bleen - Until the Crack of Dawn

#PER CHI AMA: Post-grunge, Alice in Chains, Porcupine Tree
Era il 2016 quando un EP rilasciato solo in formato digitale, mi faceva sobbalzare nel suo magma chitarristico intriso di post-HC anni '90 e un song-writing tutt’altro che banale, il tutto supportato da una produzione scintillante. Dopo tre anni, i Noam Bleen cambiano nella formazione (Nick Bussi si aggiunge ad Antonio Baragone e i due si dividono scrittura, voci e strumenti, con la batteria di Silvio Centamore) e nel suono. Laddove l’omonimo EP era un concentrato incendiario di Helmet, Quicksand e primi Tool, in quest'ultimo 'Until the Crack of Dawn' le asperità vengono smussate, i ritmi rallentati e in generale si respira un’atmosfera meno rovente e più rilassata. Siamo sempre negli anni '90, ma il modello di riferimento si sposta verso i mid tempo elettroacustici che nel migliore dei casi ricordano gli Alice in Chains di 'Jar of Flies' o i Porcupine Tree meno acrobatici, anche se spesso il sound dei nostri finisce dalle parti di certo tardo grunge che personalmente non ho mai troppo amato (Bush, Live, Staind e compagnia cantante). E se è vero che l’incipit “Feeling Bleen” è un biglietto da visita di quelli che si fanno ricordare, in virtù di un cantato pinkfloydiano e delle sue bellissime chitarre, il resto del programma stenta a mantenere lo stesso livello, ma oggettivamente non era semplice. Il mood del disco si mantiene per lo più su mezze tinte fosche, sicuramente più nelle corde della band, che quando prova ad accelerare, risulta a fuoco solo parzialmente (“As of Yore” meglio di una “Opera House” un po’ goffa). I tre Noam Bleen dimostrano di saper scrivere canzoni piuttosto epiche e discretamente orecchiabili, anche se li preferisco quando enfasi e chitarroni rimangono in secondo piano e ad emergere sono una scrittura non scontata (“New Year’s Eve”, “Departure” o la stessa title track). 'Until the Crack of Dawn' è un lavoro di sicuro spessore, da approfondire con ascolti ripetuti e che piacerà non solo agli orfani del post-gunge della seconda metà degli anni '90. (Mauro Catena)

lunedì 30 marzo 2020

Frontside - Twilight of the Gods (A First Step To The Mental Revolution)

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash, Slayer, Morbid Angel, Dismember
Il titolo 'Twilight of the Gods' quanti ricordi è in grado di generare, almeno nel sottoscritto; speravo di ritrovarmi fra le mani un qualcosa che ricordasse almeno in lontananza il capolavoro dei Bathory e invece questi Frontside avrebbero dovuto rappresentare la risposta europea a Bleeding Through e Killswitch Engage, e forse ci riescono anche, ma pensate la mia delusione. La band polacca, in giro dal 1993 e già vincitrice in passato dei Grammy Awards del proprio paese, con il miglior album heavy metal dell’anno, ci propinano il solito death/thrash ultra aggressivo, dal killer sound, che combina voci growl a coretti clean. Poco di nuovo all’orizzonte anche per il 2006 quando il lavoro fu rilasciato: melodie calcitranti, il tipico swedish style alla Dismember, unito al classico temperamento hardcore americano della scena di New York, miscelato alla pesantezza del death “made in USA”, ecco in breve l'essenza di questo lavoro. Il risultato tuttavia è buono anche se con i soliti quattro ingredienti messi in croce, molte band riescono a raggiungere un discreto successo, mentre ci sono altre band in giro dalle idee geniali ma prive di uno straccio di contratto. A parte le mie sterili polemiche, il quintetto polacco è impressionante per quanto sia preparato: ritmiche debordanti emergono dai solchi di questo 'Tramonto degli Dei', che rende giustamente merito ad una formazione tecnicamente valida, con buone idee e un’energia vitale da vendere in quantità industriale, peccato che alla fine sia però la solita solfa. Sebbene saturo di tali sonorità, questi Frontside si presentano già da diversi anni come una delle migliori band in circolazione per il genere proposto. Dannatamente potenti, dannatamente bravi!! (Francesco Scarci)

Walls of Jericho - With Devils Amongst Us All

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Metalcore, The Black Dahlia Murder, Bleeding Trough
Sinceramente con un nome del genere mi aspettavo più una band di power o speed metal, però vedendo prima la casa discografica e mettendo poi il cd nel lettore, mi sono reso conto che fra le mani avevo l’ennesimo esempio di metalcore. Che scrivere di diverso allora per questa band di Detroit, che già non sia stato scritto per le altre centinaia o forse migliaia di band metalcore che popolano il music biz? Il quartetto statunitense ci spara sulle nostre facce il solito polpettone di furia hardcore unita ad attitudine punk per un concentrato esasperante di adrenalina pura. Undici irriverenti tracce, caratterizzate dal solito thrashy riff, esplodono nelle casse del vostro stereo, undici pugni nello stomaco in grado di mettervi presto ko. La release dei Walls of Jericho ormai datata 2006 è energia allo stato puro, che mi fa saltare come una gazzella, sbattere il muso come un topo intrappolato in gabbia, lanciarmi in un headbanging frenetico dall’inizio alla fine, per ritrovarmi madido di sudore alla fine dell’ascolto di questo 'With Devils Amongst Us All', un disco la cui non troppo piccola pecca è quella di risultare uguale ad altri mille dischi metalcore. Da segnalare infine che le vetrioliche vocals sono ad opera di una cantante donna, tale Candace Kucsulain che attacca il microfono con un'incredibile ferocia. Solo per gli amanti del genere. (Francesco Scarci)

(Roadrunners Records - 2006)
Voto: 62

https://www.facebook.com/WallsofJericho/

venerdì 27 marzo 2020

Dark Fount - Become the Soul of Mist (幽浮林澗之霧)

#PER CHI AMA: Black/Acoustic Folk
Dati per dispersi da ben 13 anni, i cinesi Dark Fount tornano a farsi vivi, rilasciando un EP (tra l'altro disponibile in soli 30 pezzi esclusivi in cassetta) di un paio di brani, edito dalla Pest Productions. La one-man-band di Tai'An, guidata da Li Tao, si è fatta portavoce fin dagli esordi del black metal made in China, in compagnia dei soci di scuderia Zuriaake. Dicevo solo due pezzi per questo 'Become the Soul of Mist', che si aprono con il black mid-tempo di "幽浮林澗之霧", un esempio di glaciale e melodico sound oscuro che vede delle accelerazioni al limite del post black comparire nella seconda metà del brano, ove le grim vocals del mastermind cinese trovano ampio spazio, mentre la melodica linea chitarra ricorda un che dei Mahyem di 'De Mysteriis Dom Sathanas'. La seconda "餘燼" è una suggestiva song acustica che nel suo desolante e malinconico incedere folk, sembra tributare quell'ultimo saluto alle vittime del virus che sta falcidiando il mondo in questi giorni complicati. Certo la proposta del musicista cinese è un po' troppo risicata per delineare in modo strutturato il come back discografico dei suoi Dark Fount, per cui conto assolutamente di risentirli quest'anno in un disco dalla durata più importante, per ora da parte mia solo un ben tornato. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2020)
Voto: 64

https://pestproductions.bandcamp.com/album/--8

Candles and Wraiths - Candelabia

#PER CHI AMA: Symph Black, Angizia, Cradle of Filth
Arrivano da Vienna i musicisti di quest'oggi, i Candles and Wraiths con un sound che, coniugando un black e death sinfonico con venature goticheggianti, ammicca non poco ai Cradle of Filth. Poco male, visto che di band di questo tipo non ce ne sono poi molte e allora, in attesa di ascoltare gli originali con una nuova release, perchè non distrarsi con una band di questo tipo, che dopo tutto, qualche idea niente male ce l'ha pure. Parliamo quindi del debut album del trio austriaco, intitolato 'Candelabia', un lavoro che si apre con la classica intro sinistra ed inquietante ch funge da apripista ad "After Midnight", una song che accosta immediatamente i nostri a Dani Filth e soci ma in cui trovo anche un che dei nostrani Ecnephias. Ecco quindi come prende forma il sound dei Candles and Wraiths, tra scorribande black, orchestrazioni pompose e screaming vocals. Un cantato quasi operistico sembra aprire "Nightmares on Forsaken Soil", ma è qualcosa di impercettibile lasciato proprio ad una frazione di secondo, visto che poi si riparte con delle accelerazioni infuocate, i consueti cambi di tempo tipici del sound dei nostri, il tutto corredato da ottime melodie di supporto. Una spinetta apre "Fire Amidst the Crashing Waves", un altro brano in cui sono sempre le ingarbugliate partiture chitarristiche a farla da padrona, con il cantato abrasivo (e nevrotico) di Prabhin Velankanny in primo piano che ben si adatta allo scorrimento instabile del disco. Un brano più convincente è "All Hallows Eve" che, partendo sempre da reminiscenze a la Cradle of Filth, si lancia in saliscendi tortuosi con un riffing nervoso ed una dirompente sezione di blast beat che configura il suono della band a quello di una sassaiola allo stadio. "Melpomene" è un pezzo strumentale, stile colonna sonora da film. Con "The Stranger" le ostilità riprendono come un flusso letale contraddistinto da ritmiche sincopate che trovano comunque un break centrale più meditato a concedere giusto quella manciata di secondi sufficienti per prender fiato e ripartire con un rifferama perennemente contorto e aggrovigliato su se stesso attraverso estenuanti giri di chitarra. Un altro brano che ho particolarmente apprezzato è "Wartorn Lovelorn", per quel suo approccio militaresco ma anche per l'utilizzo di clean vocals che arricchiscono ulteriormente la proposta della band viennese, che in certi tratti mi ha rievocato un che di un'altra band austriaca, gli Angizia, li ricordate? Alla fine, 'Candelabia' è un disco che sottolinea già la marcata personalità e professionalità dei nostri, e che pone le basi per una crescita futura, giusto per prendere le distanze da quelle che sono le influenze dell'ensemble austriaco. Per ora direi un buon punto di partenza, in futuro mi aspetto qualcosa di più spettacolare, visto che le potenzialità ci sono tutte. (Francesco Scarci)

The Pit Tips

Francesco Scarci

Lunarsea - Earthling/Terrestre
Madra - Bittersweet Temptation To Disappear Completely
Ulvik - Volume One & Two

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Shadowsofthesun

Ramin Djawadi - Westworld (Soundtrack)
Orbital - Brown Album
Dynfari - Myrkurs er þörf

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Alain González Artola

Violet Cold - Noir Kid
Faidra - Six Voices Inside
Barbarian King - S/t

Maya Mountains - Era

#PER CHI AMA: Psych/Stoner, Kyuss, Ufomammut
Era da un bel po' di tempo che non sentivamo parlare dei Maya Mountains, ossia dal 2008 quando i nostri fecero uscire il loro debut, 'Hash and Pornography'. La band si è poi disunita, cosi presa dai molteplici progetti paralleli. A distanza di 12 anni e soprattutto dopo cinque anni spesi a buttar giù idee e riff, ecco che 'Era' vede finalmente la luce. La proposta del terzetto veneziano è un concentrato di stoner rock dai risvolti psichedelici che si srotola attraverso le 10 tracce contenute in questo Lp, raccontando la storia di tal Enrique Dominguez (il titolo della opening track) e il suo vagabondare interspaziale che lo condurrà in un deserto di un mondo sconosciuto dove, pungendosi con un cactus, finirà in uno stato di allucinazione tale da condurlo ad incontri particolari. Detto del concept che sta dietro ad 'Era', veniamo anche alla musica qui contenuta che si apre con la tribalità della già citata "Enrique Dominguez" e dei suoi effluvi ritmici che ci portano a sballarci già con i primi 120 secondi di brano, almeno fino a quando i vocalizzi filtrati di Alessandro Toffanello, faranno la loro comparsa. Il riffing è compatto, lento, ossessivo, con i classici rimandi a chi ha fatto la storia di questo genere, Kyuss e Black Sabbath in testa. La parte solistica è suggestiva e, mentre la chitarra di Emanuel Poletto tesse interessanti linee melodiche, è il basso di Alessandro a pulsare il proprio magnetismo in sottofondo. Il sound dei nostri s'ingrossa man mano che scorrono le tracce: "In the Shadow" e "San Saguaro" scorrono via che è una bellezza, soprattutto la seconda con quel suo chorus cosi coinvolgente. Più pachidermica invece "Dead City", che parte lenta e possente, per finire con un rifferama decisamente più nervoso. Il mio pezzo preferito del disco è però "Raul", con quelle linee di chitarra ipnotiche e profonde, avvolgenti fino quasi a stritolarci; l'unico neo di questa traccia è però il fatto che sia strumentale e sapete quanto alla fine mi pesi la mancanza di un vocalist, sebbene qui non sia particolarmente evidente la sua carenza. Ribadisco comunque che tutto il lavoro ha un suo fascino, dopo tutto se i Maya Mountains ci hanno impiegato 12 anni per rilasciare un disco, si auspica che l'impegno non sia stato del tutto vano. E in effetti da un punto di vista qualitativo, il prodotto è davvero buono; se devo muovere qualche appunto è che forse sia uscito un po' fuori tempo massimo per riscuotere il successo che verosimilmente meriterebbe, d'altro canto di gioielli in questo ambito ne sono stati rilasciati ormai parecchi ed aggiungere qualcosa di nuovo e coinvolgente, a mio avviso, rimane davvero complicato. Comunque tutti coloro che amano sonorità di questo tipo, pregne di rimandi seventies o che strizzano l'occhiolino a gente del calibro di Ufomammut, Monster Magnet e Melvins, sapranno apprezzare alla grandissima le esplorazioni fantascientifiche di 'Era'. (Francesco Scarci)

(GoDown Records - 2020)
Voto: 74

https://www.facebook.com/mayamountainsera/

mercoledì 25 marzo 2020

Goatwhore - A Haunting Curse

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Hardcore, Darkthrone, Soilent Green
Era il 2006 quando la Metal Blade rilasciò un concentrato dinamitardo di brutal metal a cura dei Goatwhore, combo di New Orleans, che con questo 'A Haunting Curse' giungeva al terzo album, una band peraltro dove militavano il vocalist dei Soilent, Green Ben Falgoust e il chitarrista dei Crowbar, Sammy Duet. Dopo essere scampati alla ferocia dell’uragano del 2005 e ad altre innumerevoli sfighe, la band statunitense è tornata più tosta e decisa che mai: undici tiratissime songs di un feroce mix death-black, partorite ai Mana Studios di Erik Rutan. I Goatwhore con la loro musica, ci scagliano addosso violenti scariche adrenaliniche, massacrando il nostro cervello con un sound tritabudelle che prende in prestito un po’ di rabbia dal brutal death e un po’ di malvagità da un black metal old school. Potete ben immaginare il risultato che ne viene fuori: nessun accenno alla melodia, nessun momento atmosferico, nessuna pausa, nessuna voce angelica, solo rabbia, furia cieca, frustrazione all’ennesima potenza che si traducono in scariche elettriche, montagne di riff di chitarra che costruiscono un muro sonoro inespugnabile, impazziti blast-beat che devastano ogni singolo neurone sopravvissuto nei nostri emisferi encefalici. La voce di Ben vomita tutta la cattiveria che imperversa nell’animo di questi quattro ragazzi. Difficile trovare un termine di paragone per questa band, perchè poche erano le band in giro a suonare questo improbabile ibrido black-hardcore: un po' come se i Darkthrone suonassero alla Soilent Green. Questi i Goatwhore 2006: veloci, ferali, oscuri, brutali, malvagi; è proprio vero il detto “ciò che non uccide fortifica”... (Francesco Scarci)

Bernays Propaganda – Vtora Mladost, Treta Svetska Vojna

#PER CHI AMA: Punk/Indie/New Wave
Tornano dopo tre anni i Bernays Propaganda, band macedone di cui abbiamo seguito i passi fin dall’esplosivo 'Zabraneta Planeta' del 2013, passando per quel 'Politika' che già nel 2016, e sempre per la meritoria etichetta slovena Moonlee Records, aveva lasciato intravedere una svolta verso sonorità più dance-punk, con un uso piu massiccio di drum machine e chitarre più affilate che selvagge. Oggi, in 'Vtora Mladost, Treta Svetska Vojn' (seconda gioventù, terza guerra mondiale), la sterzata è completata in modo netto e deciso, tanto che la prima domanda che ci si fa è dove siano finite, le chitarre. L’evoluzione dallo street punk-wave tutto feedback e Gang of Four di 'Zabraneta Planeta' si è completata in favore di una decina di brani pop declinati mescolando influenze new wave più o meno “morbide” ed elettronica vintage e arriva a lambire interessanti contaminazioni con la musica balcanica e perfino certe strutture tradizionali africane. Il disco è basato sull’incastro e l’interazione tra ritmiche pulsanti, groove elettronici, linee di basso essenziali e un massiccio utilizzo di synth, con una scaletta attenta a bilanciare pezzi prettamente danzerecci e momenti più pensosi ed eleganti. In generale 'Vtora Mladost, Treta Svetska Vojna ' è un lavoro piuttosto stratificato e complesso, a dispetto di un’apparente semplicità e linearità, che richiede diversi ascolti per essere apprezzato al meglio nelle sue non poche sfaccettature Da segnalare la presenza del grande Mike Watt (dei leggendari Minutemen, e poi Firehouse, Stogees e tanto altro) al basso in “Ništo Nema da nè Razdeli”. Spiazzante ma godibile. (Mauro Catena)

lunedì 23 marzo 2020

Pyrior - Fusion

#PER CHI AMA: Stoner/Psych Rock strumentale
Terminata la trilogia iniziata con 'Oceanus Procellarum' e conclusasi con 'Portal', per i teutonici Pyrior è tempo di accedere ad un nuovo domani che comincia proprio da questa nuova release intitolata 'Fusion'. A distanza di quattro anni dal precedente lavoro, ecco che tornano i nostri musici berlinesi amanti di sonorità space rock che si sposano alla grande con stoner e psichedelia, il tutto rigorosamente proposto in forma strumentale. Le influenze stoner si palesano già con "Hellevator", la seconda traccia che segue la breve intro ("Guanine") di questo lavoro. L'inizio tribaleggiante (che tornerà con qualche similitudine anche nella monolitica "Norfair") lascia immediatamente posto ad un riffing roccioso, che si dimena in modo nevrotico tra cambi di tempo e melodie sghembe, che nelle porzioni soliste offrono forti rimandi classic rock. Tempo di un altro breve intermezzo desossiribonucleico ("Adenine" - una delle basi azotate insieme a Guanina e Citosina che formano il DNA e che ritroveremo come brani nel corso dell'album; probabilmente c'è un errore invece con la Timidina - doveva essere Timina per coerenza - nel suo utilizzo come titolo del pezzo acustico "Thymidine") e si riparte a rockeggiare con "Splicer" (non so se anche qui ci siano riferimenti alla biologia molecolare visto l'esistente processo di splicing), una scorribanda rock'n roll dove una bella voce roca avrebbe fatto certamente la sua porca figura. E invece no, giusto mantenersi coerenti alla propria idea di strumentalità fino alla fine? Mah, ho i miei dubbi. E allora andiamo a goderci "X", song dall'intro blues rock ma dalla successiva ritmica bella tosta e ostica da digerire, non proprio il mio pezzo preferito a dirla tutta. Molto meglio invece la title track, cosi sfrontata e visionaria, un calcio in culo per chiunque si metta all'ascolto di 'Fusion' e finalmente una song con carisma che ha modo di ammiccare anche ad un certo post-rock notturno. A chiudere il disco, ecco l'ambient onirico di "Cytosine", un pezzo delicato che sancisce la fine delle ostilità stoner proposte dai Pyrior. Francamente, mi aspettavo qualcosa di più, 'Fusion' mi sembra più un disco di transizioni per nuovi futuri viaggi interspaziali. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2020)
Voto: 64

https://pyrior.bandcamp.com

domenica 22 marzo 2020

Selenite - Mahasamadhi

#FOR FANS OF: Funeral Doom
From the second half of the '90s, funeral doom has seen a constant growth of new bands which defined the core elements of a quite extreme genre. Slowness, abysmal vocals and super heavy riffs are a constant in a quite rigid genre, though it still leaves a little room for the bands that try to add their own touch. Anyway, it is quite difficult to stand out from the rest and many bands sound too similar between them. This initial difficulty wasn´t however an impediment for the Austrian musician Stefan Traunmüller to create a new project called Selenite, back in 2015. If anything has to be remarked about Stefan is that he is a super active musician, as he is involved in several projects, being some of them especially interesting bands like Rauhnåcht or The Negative Bias, among the others. Thanks to his different musical approaches in those projects, it is quite clear that he has enough talent and many ideas to create a funeral doom metal project, which could be reasonably interesting.

'Mahasamadhi' is the result of his four years working and it is indeed an album which doesn´t escape from the core sound of the genre, though it has enough elements to make it interesting. First of all, the concept of the lyryics has a strong Eastern influence, trying to avoid the quite typical lyrics of the genre. Still, the atmosphere is gloomy and dark as anyone could expect when you listen to a funeral doom metal album. Thankfully, Selenite is a band which tries to add plenty of atmospheric touches, making the album more interesting. Stefan manages to avoid the monolithic and sometimes quite boring compositions of some bands that sorely focus on repetitive riffs, without adding anything special. The songs have, unsurprisingly, a very slow pace where the ultra heavy riffs and the expected growls have a constant presence. Anyway, from the very beginning, Selenite creates a quite special atmosphere with, for example, some chants with a ritualistic touch, like it occurs in the album opener "Chanelling Chants From Beyond". Moreover, the background keys have also an important presence in their form of church-esque organs or eerie keys, which enhance the mystic atmosphere wraping the songs. Vocally, the album has the aforementioned growls, which sound quite good, though they don´t reach the level of deepness of another purely funeral doom metal projects. Apart from that, Stefan introduces some clean vocals, which try to sound evocative, like it happens in the mainly instrumental track "Hidden Presence". As another enriching element, we can hear some female vocals, which have a quite relevant presence in the track "Final Reckoning". All these efforts are used in order to widen the musical spectrum of the album and make it more varied. With regards to the guitars, the cavernous riffs have a major role, though Selenite tries to add some melodic riffs, which are quite good and also help to create songs easier to keep in mind. Heaviness and memorable melodies are not incompatible and its balance always helps to forge a more enjoyable work.

All in all, Selenites’s debut album 'Mahasamadhi' is a pretty good effort of funeral doom with a strong atmospheric and a ritualistic approach. This touch helps to make the album a quite enjoyable listen. 'Mahasamadhi' may appeal the fans of the genre, leaving us waiting what this project can offer in the future. (Alain González Artola)

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