Cerca nel blog

venerdì 16 dicembre 2016

Dopemachine - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal/Drone/Math Rock
Un'odissea... Quasi sei mesi ci sono voluti infatti a quest'album per giungere tra le mie mani; credo abbia percorso migliaia e migliaia di km in giro per l'Europa, un po' come fece Ulisse per ritornare alla sua amata Itaca, ma tant'è che ne è valsa la pena. Sto parlando dei russi Dopemachine, originari di San Pietroburgo e quando penso a quella magnifica città, confido sempre di ritrovare nelle band originarie di quella zona, la genialità degli ahimè scomparsi Follow the White Rabbit. Non siamo certi a livelli di follia e menti superiori di quell'incredibile realtà sparita ahimè troppo presto, ma i Dopemachine la sanno lunga e nella loro proposta, coniugano con sapienza e una certa raffinatezza, sonorità densissime che si rifanno a post metal, sludge, drone, math, post-rock, doom, noise e psych in un crogiolo di stili che si condensano amabilmente nei due pezzi semi-strumentali a loro disposizione (per oltre 40 minuti di musica). "Dope" apre (chiuderà ovviamente "Machine") con sonorità circolari che vanno via via ingrossandosi a livello di fragore delle chitarre, le cui linee, perennemente instabili, acquisiscono strane forme, liquide, massicce e compatte, e infine gassose, materializzandosi quindi nei diversi stati della materia, con delle urla in background che rendono il tutto ancora più precario ed allucinato, riflettendosi in un'alternanza stilistica pregna di significati. Nelle sue circonvoluzioni, il sound dei quattro musici russi assume sembianze eteree, sognanti o addirittura paranoiche, asfissianti ed ossessive, che vengono assorbite anche dalla seconda traccia. "Machine" si infila fin da subito in reconditi luoghi misteriosi e da li si districa in contorte e convulse sonorità droniche che per oltre sei minuti ci mantengono ipnotizzati. Poi è nuovamente quella mutevolezza a prendere il sopravvento ed ecco la psichedelia ad emergere dal suono desolato e malinconico delle chitarre su cui si stagliano, per una manciata di minuti, anche dei flebili ed incomprensibili vocalizzi in background, in un sound in costante ma effimero equilibrio con se stesso, che trova modo di accelerare pericolosamente in uno schizoide finale. Due tracce avvincenti, sicuramente non facili da digerire, ma di dotate di grande fascino. (Francesco Scarci)

giovedì 15 dicembre 2016

Foxton Kings – Crooked Tales

#PER CHI AMA: Alternative Rock
A vederli nella foto presente nell’artwork (un digipack sobrio ed elegante), questi cinque australiani di Perth, li si assocerebbe ad un combo di hardcore più o meno emotivo. Questione di look, di pettinature, di sensazioni generali. E invece. Già, perché questo 'Crooked Tales' mette in fila otto tracce per poco meno di mezz’ora (album? Ep? Poco importa) di un rock (chiamiamolo alternative, per quel che vale) tanto ispirato ai classici southern e blues, quanto moderno ed assolutamente attuale nelle sonorità e nell’esecuzione. Perché se è vero che i riff e la costruzione dei brani sono quelli tipici del blues-rock, è anche vero che i Foxton Kings non fanno sconti in termini di compattezza sonora e nessuna concessione a facili cliché del genere, suonando con un approccio che si può definire quasi post-hardcore. Chitarre sature, grosse, potenti e affilate che non si perdono mai in ricami leziosi, una sezione ritmica chirurgica e tellurica. La voce e il modo di cantare, quelli si, sono piuttosto classici, ma ben si sposano con il resto, creando un mix davvero ben riuscito. I brani sono discretamente vari e di buona fattura (su tutti segnalo “Thief” e “Bottom of the Bottle”, oltre a “Got a Gun”, con un bel numero giocato solo con voce e chitarra acustica) e riescono a farsi largo negli ascolti seppur accompagnati da un’inevitabile senso di deja-vu, forti di un piglio un po’ ruffiano (la tripletta iniziale “Hell Cat”, “22 Minutes” e “Autumn”) che rende tutto il lavoro assai godibile anche per un pubblico ampio. Forse, alla fine, l’insieme risulta un po' troppo pulito ed educato e rimane la sensazione che i Foxton Kings possano fare decisamente di più con poco, magari spingendo poco di più sui contrasti. Comunque interessanti nel loro approccio alla materia. Da tenere d’occhio. (Mauro Catena)

mercoledì 14 dicembre 2016

Soothsayer - At This Great Depth

#FOR FANS OF: Black/Doom
Leaping lizards! I'm baffled! How can a band release a thirty six minute long EP comprised of three tracks, then follow up a year later with a "full-length" debut limited to just two (yes, 2!) tracks which add up less than a half-hour?! Well, these are precisely the mysterious steps taken by an enigmatic outfit from Cork, Ireland. Say hello to Soothsayer as it plods along a bizarre and forlorn voyage on the far-out fringes of doom metal, namely atmospheric doom for lack of a better term. Released yesterday under Transcending Obscurity Records, 'At This Great Depth' is comprised of a mammoth, sixteen minute-long track, "Umpire" (which bears no relation to Major League Baseball) and a half as mammoth track, "Of Locusts And Moths", clocking in at eight minutes. Needless to say, there's only so much I can recount in regards to this unquestionably odd full-length debut, as much by its brief duration as musical queerness. Then again, nothing's too bizarre or avant-garde for those who take the much less travelled road which is this little known doom sub genre. While it's definitely not my cup of tea - I prefer upbeat, hard-driving doom - I see its appeal as it sets the tone for a melancholic yet cosy mood/state-of mind while also making for interesting background music to introspective thought processes. However short, this release is aptly titled as it does indeed make one feel like they're submerged underwater. Imbued with dark and mournful undertones, "At This Great Depth" unfolds at a snail's pace. The band mates pour heart and soul in their respective vocations, from a tribal driven Will Fahley on drums, Steve Quinn with his glum, spaced out bass lines, or guitarists Marc O'Grady and Con Doyle who manage to coax an intense gallimaufry of discordant and unorthodox sounds out of their instruments. Considering the genre at hand, it's unsurprising druid front man Liam Hughes pops up late in the game, lazily integrating himself with the sporadic musical experimentation at hand. "Umpire" really does make one feel like they're slowly sinking towards the Ocean floor, away from the bright, dry comfort zone of every day life. (Hence my irrepressible impulse to re-surface thirteens minutes in, which is a heck of a long time to hold your breath!). Nevertheless, I'm impressed no keyboards or artificial sounds were employed in the making of this production. The entire affair is rendered with standard heavy metal equipment. It's rather the apparent abuse Hughes subjects his vocal chords to which is unforgivable (yet thankfully forgettable). His spastic nothings can be described as an unsettling cross between a hiss and a screech. Any kind of lyrical clarity is nonexistent, while the bass playing and drumming doesn't quite amount to a comprehensive and steady rhythm section. In fact, they sound like nothing more than thunderously irregular accompaniment. In general, the spotlight (er, dark light?) is placed on Hughes and the guitarists. To sum this up and avoid a tedious, thousand word play-by-play, I'll simply place At This Great Depth in the realm of well established atmospheric doom who'll probably enjoy this recording if only for its esoteric nature. To Soothsayer's credit, the desired atmosphere - one of a cold numbing grace - has been adequately achieved. Unfortunately, it also lacks any kind of memorable passages or singular musical thrills. Therefore, I strongly urge "regular" doom and/or heavy metal fans to tread lightly when giving this release a cursory listen. Adventurous as it was, one glacial plunge was enough for me. Proceed with caution. (Eric Moreau)

(Transcending Obscurity - 2016)
Score: 45

https://soothsayerdoom.bandcamp.com/

martedì 13 dicembre 2016

You Win Again Gravity - Let Go Lightly/What's Left of the Distance


#PER CHI AMA: Alternative/Post-Hardcore, Adventurer, Oceansize, Fightstar
Windsor, Regno Unito. No, non vi voglio parlare della casata reale britannica, ma semplicemente della cittadina in cui sorge il castello omonimo, e località da cui proviene anche la band di oggi, i You Win Again Gravity. Nelle mie mani due EP, 'Let Go Lightly' del novembre 2014 e 'What's Left of the Distance', uscito a fine ottobre di questo 2016 che volge al termine. A rigor di logica dovrei iniziare a parlarvi del primo lavoro per arrivare ad elencare le progressione musicali mostrate nel secondo dai nostri. Invece che attenermi a questo rigido canovaccio, ho deciso che partirò dal nuovo dischetto perché è il primo che in realtà ho ascoltato. Potrei dirvi intanto che stiamo parlando di un sound dall'approccio tipicamente djent (Tesseract è il primo nome che mi viene in mente e che rimarrà in realtà ancorato solo alla traccia posta in apertura) che si miscela con la rabbia del post-hardcore, l'inquietudine ritmica del math rock e certi fraseggi progressive. Tutto chiaro no? Questa era solamente la opening track, "A Lack of Clairty", dove facciamo peraltro la conoscenza della duplice anima del vocalist, una versione pulita ed una screamo, mentre le chitarre si divertono in saliscendi armonici che richiamano gli Oceansize di 'Frames'. Con "Seamless", le cose sembrano ancor più orientate verso un rock venato di progressive, mantenendo comunque intatta una certa rabbia primordiale, probabile retaggio dei primi episodi più feroci dei nostri. La schizofrenia math torna ad esibirsi a livello ritmico nella terza "Swept to the Waves and Lost", song che nel corso dei suoi cinque minuti, vede mutare il proprio spirito un incredibile numero di volte, con una linearità ritmica facilmente accostabile a quella del tracciato elettrocardiografico di una persona tachicardica. Questo per dirvi quanto l'imprevedibilità delle linee chitarristiche dei You Win Again Gravity rendano il lavoro vario, ma anche di non cosi facile assimilazione. Veniamo ora al lavoro precedente che rappresenta comunque già il terzo atto della band, dopo gli EP datati 2012 e inizio 2014. Altri tre brani inclusi, "Composer", "Snakes on Paper" e "Skyline", che rappresentano verosimilmente un ponte tra il passato più burrascoso della band e un futuro che potrebbe lasciar presagire qualche variazione stilistica. Apparentemente, sembra che nella prima traccia ci sia un maggior uso dello screamo hardcore, ma riascoltando il brano credo che i due modi di cantare si bilancino equamente. La musica si conferma comunque arrembante, in costante evoluzione, un dilagare di cambi di tempo, rallentamenti, pause e accelerate improvvise, con l'approccio prog magari più relegato in secondo piano. Francamente però, dopo svariati ascolti, mi ritrovo a confutare anche le mie stesse parole, dicendo che probabilmente non sono cosi palesi le differenze tra i due EP. Potrei infatti affermare che le sei tracce ascoltate quest'oggi, potrebbero coesistere tranquillamente su di uno stesso disco. Solo la terza "Skyline" potrebbe in apparenza sembrare più aggressiva, ma la furia iniziale è stemperata da ritmiche sicuramente nervose (sempre collocabili in territori math), ma comunque ben calibrate da una performance vocale davvero convincente. I You Win Again Gravity alla fine si confermano una bella scoperta per il sottoscritto per poter allargare la mia visione del mondo più alternativo. (Francesco Scarci)

domenica 11 dicembre 2016

Wedingoth - Alone in the Crowd

#PER CHI AMA: Prog Rock/Gothic
Ciò che salta subito all’occhio quando si viene a contatto con questo disco, 'Alone in the Crowd', è sicuramente il suggestivo artwork, con i suoi colori sgargianti e i bei contrasti tonali. All’interno della cornice (su cui sono incise peraltro due date che non riesco ad interpretare, 1945-2012) viene rappresentato uno scorcio su di una scogliera da cui emerge un faro, che si eleva isolato in lontananza. La pittoresca veduta sembra scaturire dalla violenta tempesta che inghiotte una metà del dipinto con la sua oscurità. Pare sia proprio questa tenebra ad essere raffigurata dai francesi Wedingoth nella prima parte del loro terzo lavoro, i cui brani presentano delle liriche a tematica appunto “decadente”, in stile gothic, con uno sprazzo luminoso sul finale, in cui si assiste ad una sorta di salvazione dalla rovina iniziale. L’album, cosi come tutto il progetto Wedingoth, è opera del mastermind Steve Segarra, ufficialmente chitarrista, ma che in realtà si occupa anche della composizione di tutti i pezzi, suonando anche tutte le parti di tastiere (non poche tra l’altro) presenti nel cd. È innegabile dunque che di lavoro dietro ce ne stia parecchio, e che idee e impegno di certo non manchino al musicista transalpino, questo va riconosciuto. Il risultato che si avverte però in questo full-length lascia un po' perplessi. Attorno alla emotiva femminilità delle vocals, si articola la struttura sonora dell’ensemble di Lione, che suona un prog molto melodico e ricamato, evitando sonorità più potenti e prediligendo una certa pulizia e leggerezza. Questa trova la sua massima realizzazione nel brano "Sing The Pain", quasi completamente acustico, molto pop-eggiante, insomma, non troppo piacevole per come messa in pratica. Si avverte qualche leggero sprazzo progressive nelle tempistiche spesso articolate dei brani e qualche sonorità che in certi momenti richiama i gods Dream Theater (senza però poter osare nessun tipo di paragone), per esempio nella prima parte dell’ultima traccia “Alone in the Crowd pt.2”. Per il resto, il disco non è riuscito ad attirare particolarmente la mia attenzione, a causa di un eccessivo "piattume" di fondo: mancano infatti quegli spunti che lo renderebbero godibile ed interessante. Da apprezzare comunque il gran lavoro di Segarra, per cui sono sicuro che, trovando la giusta formula per i suoi Wedingoth, potrà realizzare presto qualcosa degno di nota. Mezzo punto in più per la grafica! (Emanuele Norum Marchesoni)

(Dooweet Records - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/Wedingoth/

Fiave – Dall’Alto di una Roccia

#PER CHI AMA: Black, primi Ulver, Borknagar, Enslaved
Mi affascinano le band che utilizzano l'italiano nei titoli, nelle liriche o che si rifanno a leggende locali, mi permettono di sentirmi più vicino a loro e di capirne maggiormente l'essenza. I trentini Fiave sono una di queste realtà, un gruppo che vede la sua fondazione addirittura nel lontano 1998 e da allora, un demo nel 2001 e questo primo lavoro, intitolato 'Dall’Alto di una Roccia', nel 2016. Si tratta di un cd di sei pezzi che mi proietta indietro nel tempo, proprio sul finire dei mitici anni '90 e mi colloca fisicamente in mezzo ai boschi norvegesi. Si, perché questa è l'essenza che riesco a cogliere dalle note di queste sei tracce. Il primo accostamento che ho fatto ascoltando l'opera prima dei Fiave è quello con gli Ulver primordiali, vuoi perché l'intro è un arpeggio acustico di chitarra che accompagna quelli che credo essere passi di una persona sulla neve, vuoi perché nel '96 usciva quel capolavoro intitolato 'Kveldssanger', album che trova molti punti di contatto con la opening track, cosi vicina al folk ancestrale di quel disco. Un secondo dopo, ecco "E il Custode Accoglieva con Sé Cenere e Morti", un pezzo che evoca invece il furioso 'Nattens Madrigal', per il rigore delle sue linee di chitarra, per la bestialità dei suoi screaming infernali, cosi come per l'elementarità di una batteria martellante. Poi, quei cori di epica passione nella sua seconda metà (che ritorneranno anche in altri brani), mi smuovono il leggendario 'Bergtatt', prima fatica dei norvegesi capitanati da Garm, ma anche 'Vinterskugge' degli Isengard o ancora l'album omonimo dei Borknagar e 'Svartalvheim' degli Ancient. Comunque sia è l'aria della Norvegia quella che respiro in questi solchi dei Fiave. Sono passati vent'anni da quel tempo in cui mi dilettavo con gli ascolti delle famigerate band dell'Inner Circle e ora i Fiave tornano a far bruciare la fiamma del verbo nero, e speriamo che si limiti solo questo a bruciare. La quarta "E con Sé Tutti i Lamenti, Lasciando il Loro Significato al Tempo" prosegue nel suo percorso alla scoperta delle origini del black, con ritmiche serrate, cavalcate mai sbiadite nel tempo, urla feroci che narrano di leggende antiche. Nel caso di 'Dall’Alto di una Roccia', la storia ruota infatti intorno ad Irone, piccolo borgo medievale che al tempo della peste del 1630, vide uno dopo l'altro tutti i suoi abitanti morire a causa di una pestilenza a parte un ultimo superstite che, probabilmente in preda alla follia, si rifugiò in cima ad una roccia, scrisse su un pezzo di carta il proprio testamento, lo avvolse attorno a un sasso e lo gettò nel vuoto; e dopo essersi fatto il segno della Croce, si buttò nel vuoto pure lui. Angosciante di sicuro, ma intrigante non poco. E i Fiave proseguono il loro racconto con un tumpa tumpa primordiale che apre "Delle Parole Restava il Silenzio", un pezzo che per certi versi mi ha ricordato a livello ritmico 'Vikingligr Veldi' degli Enslaved, mentre a livello vocale, nelle parti pulite, gli Arcturus. Il brano, assai ritmato, continua proponendo i classici riff zanzarosi del black made in Norway, conducendoci per mano fino all'ultimo atto, "E le Memorie si Liberarono nell'Ultimo Canto di Preghiera", traccia strumentale che rappresenta il momento in cui l'ultimo sopravvissuto si lancia dalla rupe nel vuoto e il cui finale acustico dipinge tutta la drammaticità del momento. 'Dall’Alto di una Roccia' alla fine è un discreto album di black metal norvegese, che non aggiunge nulla a quanto già detto nel corso degli ultimi venticinque anni, ma che comunque si lascia apprezzare per la sua genuinità di fondo, nonostante la sua elementarità e una produzione non proprio cristallina. (Francesco Scarci)

giovedì 8 dicembre 2016

Blinding Sparks - Renaissance Insipide

#PER CHI AMA: Post Rock
Confesso: non ci ho capito niente. Non ho capito chi sono i Blinding Sparks e che cosa fanno, chi vorrebbero essere e cosa vorrebbero fare. Non ho capito il senso di quest'uscita. Non capisco se il connubio tra gli stili grafici dell’artwork, i font utilizzati e l’immagine dei musicisti sia volto a cercare un voluto effetto straniante o se sia solo frutto di un gusto al limite del kitsch. 'Renaissance Insipide' è quello che negli anni '90 si sarebbe chiamato un maxi-single, contenente 3 pezzi. “Renaissance” è un rock piuttosto classico nella struttura e discretamente epico nello svolgimento di un tema di pianoforte, archi e chitarra acustica che si fa via via più robusto fino a svelarsi in una seconda parte tutta chitarroni magniloquenti. Il cantato, in francese, potrebbe ricordare alla lontana il timbro di Bertrand Cantat, pur mantenendosi ben lontano dal suo carisma. Il secondo brano “Insipide” spariglia completamente le carte in tavola: robusto riffone hard e un cantato che si trasfigura passando da pulito a growl all’interno della stessa frase, lasciando per lo meno attoniti. A confondere ulteriormente le acque la terza traccia “La Complainte de Jack”, sorta di teatro canzone declamato con enfasi su una base di archi sintetici di cui non comprendo minimamente il senso (non aiutato dalla barriera linguistica). Come se non bastasse, la scaletta prevede anche le (prescindibilissime) versioni strumentali dei primi due pezzi (a uso karaoke?). Questa deluxe edition vede poi accoppiato al primo un secondo cd che non contribuisce affatto a diradare la nebbia che ho davanti agli occhi, e anzi la infittisce, se è vero che affianca ad un pugno di canzoni (di cui una, “Sandra”, peraltro migliore delle tre contenute nel cd ufficiale), una serie di bozze e spezzoni di brani, semplici idee o appunti che, in tutta sincerità, starebbero molto meglio nel cassetto in cui erano chiuse. Di certo i Blinding Sparks sanno suonare, ma alla fatidica domanda “Ma questi ci sono o ci fanno?” non ho risposte, anche se sarei più tentato dalla prima ipotesi. L’unica cosa che so è che per scrivere queste righe ho ascoltato questi dischetti molto più di quanto non fosse ragionevole pensare, per cui mi arrendo, sperando che la storia renda giustizia alle ambizioni del trio francese. (Mauro Catena)

Homicidal Raptus - Erotomaniac Hallucinosis

#FOR FANS OF: Brutal Death, Autopsy
Homicidal Raptus is a one-man brutal death metal band from Italy that has been around since 2013. With his first full length release, 'Erotomaniac Hallucinosis', clocking in at only half an hour, Riccardo Cantarella gives you some of the most disgustingly heavy brutal death metal to come out this year. Unlike some brutal death metal acts though, Homicidal Raptus not only acknowledges the comedy of such a ridiculously abrasive and over-the-top style of music, the main mind behind this band revels in it with some of the most irreverently funny song titles I've seen this year. However, none of this comedy comes at the expense of musical quality or a keen ear for producing his powerful sound. Riccardo Cantarella is a fantastic musician who lays down a thick and grotesque symphony of slaughter throughout this short but engrossing album.

There is a lot of Autopsy sound in “Disemboweled in a Public Toilet” with a great swing and rip to it. Parts of the song give off a vibe like a disgusting version of Deeds of Flesh creating a technical frenzy of drumming intermixed with the early death metal giant's guitar sound. This song is definitely the album's money track. The guttural sounds like some Brodequin while the high screams sound enough like Corpsegrinder to give a sanguine sonic skillfullness to this very sanity shredding song. Cantarella tacitly brings in double bass triplets during the opening before the main riff is done away with for a serious slaughter, sprinkles some impeccable snare grinds each time the song ramps up, intensely breaks down through the end of the song, and immediately picks that rhythm back up as the basis for “Acid Disfigured Justice”. The snare blasts combined with the guitar riff are excruciatingly exhilarating and the pacing of this album coalesces into an undulating assault of brutal death metal. From the ridiculous vocals and the grooving breakdown in “The Pride Sanitarium” to the memorable rhythm of “Raped by the Mutants”, there is no shortage of creative and pummeling ideas thrown into this roiling carnage stew.

In all, 'Erotomaniac Hallucinosis' is an album that maims to please. Homicidal Raptus delivers straightforward brutal death metal done very right and leaves you wanting more of this repugnant ridiculousness.