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domenica 11 dicembre 2016

Fiave – Dall’Alto di una Roccia

#PER CHI AMA: Black, primi Ulver, Borknagar, Enslaved
Mi affascinano le band che utilizzano l'italiano nei titoli, nelle liriche o che si rifanno a leggende locali, mi permettono di sentirmi più vicino a loro e di capirne maggiormente l'essenza. I trentini Fiave sono una di queste realtà, un gruppo che vede la sua fondazione addirittura nel lontano 1998 e da allora, un demo nel 2001 e questo primo lavoro, intitolato 'Dall’Alto di una Roccia', nel 2016. Si tratta di un cd di sei pezzi che mi proietta indietro nel tempo, proprio sul finire dei mitici anni '90 e mi colloca fisicamente in mezzo ai boschi norvegesi. Si, perché questa è l'essenza che riesco a cogliere dalle note di queste sei tracce. Il primo accostamento che ho fatto ascoltando l'opera prima dei Fiave è quello con gli Ulver primordiali, vuoi perché l'intro è un arpeggio acustico di chitarra che accompagna quelli che credo essere passi di una persona sulla neve, vuoi perché nel '96 usciva quel capolavoro intitolato 'Kveldssanger', album che trova molti punti di contatto con la opening track, cosi vicina al folk ancestrale di quel disco. Un secondo dopo, ecco "E il Custode Accoglieva con Sé Cenere e Morti", un pezzo che evoca invece il furioso 'Nattens Madrigal', per il rigore delle sue linee di chitarra, per la bestialità dei suoi screaming infernali, cosi come per l'elementarità di una batteria martellante. Poi, quei cori di epica passione nella sua seconda metà (che ritorneranno anche in altri brani), mi smuovono il leggendario 'Bergtatt', prima fatica dei norvegesi capitanati da Garm, ma anche 'Vinterskugge' degli Isengard o ancora l'album omonimo dei Borknagar e 'Svartalvheim' degli Ancient. Comunque sia è l'aria della Norvegia quella che respiro in questi solchi dei Fiave. Sono passati vent'anni da quel tempo in cui mi dilettavo con gli ascolti delle famigerate band dell'Inner Circle e ora i Fiave tornano a far bruciare la fiamma del verbo nero, e speriamo che si limiti solo questo a bruciare. La quarta "E con Sé Tutti i Lamenti, Lasciando il Loro Significato al Tempo" prosegue nel suo percorso alla scoperta delle origini del black, con ritmiche serrate, cavalcate mai sbiadite nel tempo, urla feroci che narrano di leggende antiche. Nel caso di 'Dall’Alto di una Roccia', la storia ruota infatti intorno ad Irone, piccolo borgo medievale che al tempo della peste del 1630, vide uno dopo l'altro tutti i suoi abitanti morire a causa di una pestilenza a parte un ultimo superstite che, probabilmente in preda alla follia, si rifugiò in cima ad una roccia, scrisse su un pezzo di carta il proprio testamento, lo avvolse attorno a un sasso e lo gettò nel vuoto; e dopo essersi fatto il segno della Croce, si buttò nel vuoto pure lui. Angosciante di sicuro, ma intrigante non poco. E i Fiave proseguono il loro racconto con un tumpa tumpa primordiale che apre "Delle Parole Restava il Silenzio", un pezzo che per certi versi mi ha ricordato a livello ritmico 'Vikingligr Veldi' degli Enslaved, mentre a livello vocale, nelle parti pulite, gli Arcturus. Il brano, assai ritmato, continua proponendo i classici riff zanzarosi del black made in Norway, conducendoci per mano fino all'ultimo atto, "E le Memorie si Liberarono nell'Ultimo Canto di Preghiera", traccia strumentale che rappresenta il momento in cui l'ultimo sopravvissuto si lancia dalla rupe nel vuoto e il cui finale acustico dipinge tutta la drammaticità del momento. 'Dall’Alto di una Roccia' alla fine è un discreto album di black metal norvegese, che non aggiunge nulla a quanto già detto nel corso degli ultimi venticinque anni, ma che comunque si lascia apprezzare per la sua genuinità di fondo, nonostante la sua elementarità e una produzione non proprio cristallina. (Francesco Scarci)