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martedì 11 dicembre 2012

Spylown - Depth

#PER CHI AMA: Industrial Grind, Breech, Helmet, Treponem Pal, Godflesh
Gli Spylown vengono dalla Svizzera e portano una sana ventata di concentrata rabbia, con questo cd davvero ben fatto, dal titolo "Depht". La copertina è ben curata e si sgretola tra frammenti di foto di ingranaggi e tubi, per cogliere la fine di una nave da guerra colpita ed in procinto di affondare. Essa ben rappresenta la musica robotica, granitica e molto industrial/hypnotic oriented del combo elvetico. Il sound è sicuramente da categorizzare come una via di mezzo tra post hardcore, Isis style e hardcore di matrice Architects/Confide, con un po’ meno cantati puliti, ma dalle infinite colorazioni e derivazioni dai generi metal e grind. Un’impostazione hardcore alla Botch, una passione per l'esecuzione fredda dei brani in stile Meshuggah, ma senza gli iper tecnicismi dei gods svedesi, un solido background noise/grind/industriale, cadenze ipnotiche date da un mid-tempo di metallo pesantissimo e psichedelico, nessun un attimo di respiro, ma con un sound compatto e con varianti centellinate a misura e ben calibrate. Ho notato che sulla rete qualche critica gli Spylown con questo album l'hanno dovuta affrontare, ma noi ci schieriamo con la band, perché non condividiamo l'idea che questa band sia un clone mal riuscito dei Dillinger Escape Plan (e dire che noi siamo anche grandi fan dei Dillinger!), anzi siamo convinti che le radici della loro musica si debbano cercare dentro il sound di altre grandi act, ora dimenticati, degli anni novanta, come Helmet, Breech, Godflesh, Treponem Pal, a cui i nostri devono tantissimo e che con grande tenacia, dimostrano di esserne degni prosecutori. Forse oggi gli Spylown non sono una novità per chi ha amato quell’ondata alternativa, che cercava di contrastare l'avanzata del grunge, in un momento in cui il metal era decaduto nel dimenticatoio totale e nemmeno risulteranno all'ultimo grido per chi ama band giovani e ruspanti come i Bring Me the Horizon, ma ciò non toglie che "Depth" sia un ottimo lavoro potentissimo, coinvolgente, aspro e urticante, sicuramente con uno sguardo al retrò di quegli anni ma anche con la voglia di fare, di chi non ha limiti temporali e guarda al futuro e con un piglio di malessere esistenziale notevole, incarnato nella possente prestazione vocale. Un modo di intendere il metal estremo diverso dagli altri, con l'ira dei Clinging to the Trees of a Forest Fire, contaminato da diversi sottogeneri della musica dura di diverse annate e provenienze, un velo industriale, un amore per i Napalm Death e tanta forza d'urto. Sicuramente un album da amare. (Bob Stoner)

The Horn - Volume Ten

#PER CHI AMA: Black/Industrial
The Horn's A D MacHine è la mente che si cela dietro questo ambizioso progetto, la classica one man band, che ancora volta giunge dall’Australia; non stiamo certo parlando di un tizio di “primo pelo”, che la mattina si è svegliato e ha pensato di mettere in musica le sue deliranti visioni sull’antico Egitto. The Horn infatti giunge con questa release al traguardo dell’undicesimo lavoro (deve essersi un po’ incasinato, avendo fatto uscire nel 2011 il “Vol. 11” e nel 2012 il “Vol.10”). Lo Stargate si apre e io vengo proiettato, come nell’omonimo film, su un altro pianeta, altamente civilizzato, ma dove il popolo adora ancora le divinità nelle piramidi, intese qui come luogo di culto, distribuite su tutto il globo. I suoni che sento sono strani, ovviamente di origine aliena e a cui il mio orecchio non è decisamente abituato, anche se tra le linee delle feroci ritmiche extraterrestri, si insinuano melodie che sembrano derivare dalla antica tradizione araba, tanto da indurre il nostro eroe a definire il proprio sound come “Pure Ancient Occult Egyptian Space Metal”. “Spell 124” è una traccia di black industriale, ipnotica e malata, che si inocula nel mio sangue in modo pericoloso, con il vocalist che sembra aver assunto le sembianze vocali di un Predator. Una danza tribale esordisce in “Spell 47”, poi solo delirio sonoro, con suoni che non avevo mai udito sul mio pianeta, ma magari in questo nuovo mondo che sto esplorando, ne rappresentano la consuetudine. Il black noise che qui si scatena, ha un effetto intimorente. Un coro ritualistico alieno domina “Spell 146”; sinceramente non riesco a decodificare la nuova lingua antica, ma il ritmo ha un che di esoterico. Con “Spell 26” ci addentriamo in territori ambient/drone mentre con la successiva magia, torniamo ad esplorare nuove terre, nuovi paesi, che assumono sempre di più i connotati medio orientali, per suoni, colori e profumi; e ancora una volta ho la sensazione di essermi perso in un qualche suk di una qualsiasi città araba e ne approfitto per assaporarne ogni sfaccettatura. Ma una nuova tempesta magnetica è già pronta a scatenarsi sopra la mia testa, con un fragore ed una violenza inaudite, accompagnate da belluine vocals inumane. Sono terrorizzato e scappo, passando attraverso il Portale, pronto a chiudersi, per poter finalmente ritornare sul mio amato pianeta. Ma quando passo al di là di esso, mi ritrovo catapultato nel passato, con un sound che sembra un mix tra rock’n roll, black metal e funeral doom. Sono confuso, non capisco dove sia finito e se riuscirò a far mai ritorno a casa. Nel frattempo mi lascio conquistare dalla mitologia, dalla storia e dalle forze occulte che guidano quest’opera, e dal desiderio del factotum The Horn, di mettere in musica, l’intero “Ancient Egyptian Book of The Dead” di R.O. Faulkner. Appare come un progetto ambizioso, ma al momento i The Horn sembrano essere sulla strada giusta con questa delirante composizione di black industriale, ambient, noise e drone, di non facile accessibilità, ma assai affascinante. Provate anche voi a lanciarvi nello Stargate e vedere in quale dei mille universi paralleli andrete a finire… (Francesco Scarci)

(Shaytan Productions)
Voto: 70

http://www.myspace.com/thehornproject

domenica 9 dicembre 2012

Nargis - Was Lange Lag Im Dunkeln...

#PER CHI AMA: Black, Altar of Plagues, Nachtmystium, Saattue
Dalla Germania ci arriva questo album uscito per la Lycaner Records, in una produzione limitata di 500 copie cariche di odio e ortodossa fede anticristiana, come lascia ben travisare la croce rovesciata impressa nel logo con cui la band si presenta. Questo full lenght è il primo per i Nargis e segue un precedente demo dal titolo “Triumph des Zons”, del 2009. La band è attiva dal 2008 e propone un black metal dalle tinte oltranziste e in mille sfumature di nero. Dei Nargis ci sono poche informazioni sul web e dalla traduzione del titolo che più o meno è “Ciò che a lungo giaceva nel buio...” e dei titoli dei singoli brani, subito ci si rende conto che abbiamo a che fare con una band volta a riportare in musica una forma poetico-teatrale di temi legati alla solitudine e all'oscurità, alla visione nordica, pagana e nichilista della vita. La musica ha mille sfaccettature, tutte intente a mostrare i tanti volti dell'oscurità, pertanto si passa da momenti ferali e violentissimi, a strutture doom che sfiorano l'ambient, ma sempre deprivate dell'uso di suoni esterni o tastiere (nessuna tendenza symphonic metal, non temete), quindi il tutto risulta musicalmente molto interessante ed alternativo, un modo diverso, moderno ed in evoluzione di intendere questa forma di disciplina metallifera. I Nargis ricordano, pur mantenendo una propria originalità, gruppi come Altar of Plagues, Nachtmystium, Saattue, estendendo ampiamente la durata delle loro composizioni, tanto che alcuni brani superano la soglia dei 12 minuti. Si tratta di suite sonore molto interessanti con una verve doom/psichedelica che si presta bene ad un certo alternative metal e un attacco diretto e cerebrale nelle parti più dure. Di questo album però bisogna capirne anche la componente psichica, per poterlo meglio apprezzare e questa componente risulta alla fine determinante per il suo ascolto. Il non cogliere questo fattore emotivo potrebbe infatti condizionare l'ascoltatore ad un giudizio troppo affrettato, inducendolo a cestinare prematuramente questa release. I brani infatti sono resi taglienti e poco socievoli da un uso molto violento dello screaming, che a volte può risultare leggermente oppressivo e monotono, un soffio in più di fantasia nella performance vocale e tutto sarebbe stato da incorniciare. Il risultato comunque c'è ed è buono, musicalmente si mostra attraente, anche se stiamo parlando di un viaggio molto duro ed aspro nei meandri di una spiritualità oscura, un disco da ascoltare in solitudine ed in particolari condizioni mentali... preparatevi ad aprire le porte dell'inferno! (Bob Stoner)

(Lycaner Records)
Voto: 70

https://www.facebook.com/nargis666

venerdì 7 dicembre 2012

Asidefromaday - Chasing Shadows

#PER CHI AMA: Post Metal, Neurosis, Cult of Luna
Continua l’ondata violenta di band post ad abbattersi inesorabile come un distruttivo tsunami che si schianta contro le coste del Giappone. Lo so, è una brutta immagine che noi tutti non vorremo più vedere alla televisione, però questo è per giustificare l’avanzata e il successo inatteso che questo genere sta riscuotendo nell’ultimo periodo. Non so se sia realmente solo merito della popolarità e dei riconoscimenti che hanno visto bands affermarsi quali Neurosis e Isis negli States, ed in Europa, The Ocean o Cult of Luna ed andando più nel dettaglio, General Lee e Dirge in Francia. E ora anche questi Asidefromaday, che come il più banale dei fulmini a ciel sereno, mi ha scosso le membra, con il nuovo “Chasing Shadows”, già terzo album all’attivo per la band transalpina, ma dove diavolo ho tenuto gli occhi fino ad oggi? Ma che lavoro signori miei… Sette tenebrose tracce di metal post apocalittico che si aprono con la fitta nebbia di “Process of Static Movement”, quella foschia che sembra attanagliare i porti in pieno autunno. Quindi atmosfera è la parola d’ordine, quella che questi cinque bravi ragazzi costruiscono sin dall’opening track. C’è poca voglia di scherzare in questa traccia dal crescere minaccioso, con la voce di Fred ad incanalare l’irruenza del combo, senza nulla togliere a Julien, Nicolas e David, rispettivamente batteria, chitarra e basso dei nostri. Non mi sono dimenticato di Sébastien, il tastierista, ma ho conservato una menzione alla fine per lui, in quanto con i suoni angoscianti delle keys, tiene sulle spine l’ascoltatore, in uno stato di ansia continua. Poco importa poi se le tracce si chiamano “Death, Ruins and Corpses”, “Black Sun” o quant’altro, ciò che convince appieno in questa release è la capacità dei nostri di tenerci col fiato sospeso, senza mai cadere nel banale, offrendo una prova davvero superlativa. Ottime le melodie, i giri sulfurei di chitarra e ancora una volta, mi preme sottolineare il fattore “K”, ossia quel lavoro egregio, tenuto costantemente in secondo piano, che il buon Séb, effettua per tutta la durata del cd, anche nel modo più banale, quando ad esempio apre “Wolf Tears are Falling Stars”, song peraltro da brividi, in cui la chitarra ha un effetto raramente sentito, che ben si amalgama con il tocco suadente delle tastiere, a creare una circonvoluzione spazio-temporale, che inevitabilmente induce il mal di testa. Prezioso il contributo vocale del buon Fred, che cercando un po’ di emulare i suoi idoli (Neurosis e Cult of Luna) e mettendo poi ampiamente del suo, con vocalizzi che dall’acido (con una impostazione talvolta post-hardcore) arrivano anche in una forma pulita/parlata, contribuisce ad accrescere ulteriormente il livello di un lavoro che mai mi sarei immaginato di ascoltare. Cosi come mai avrei immaginato di provare simili emozioni, grazie ad un lavoro di squadra cosi genuino che ci prende e sbatte a destra e manca, con un sound che poco ha da invidiare ai gods mondiali: suoni glaciali, ma al contempo caldi, melmosi e affabili, che un po’ come sulle montagne russe, mi inducono pesanti sbalzi pressori. Insomma, avrete intuito che “Chasing Shadows” mi ha proprio colpito (ed affondato), intrappolando i meandri della mia mente nella paurosa matrice creata da questi indomiti musicisti. Ottimo comeback discografico! (Francesco Scarci)

mercoledì 5 dicembre 2012

Narrow House - A Key To Panngrieb

PER CHI AMA: Funeral Doom, Thergothon, Unholy
“Una chiave per Panngrieb”. Un occhio, una serratura e delle mine sono inserite, in uno stile surreale in una gamma di colorazione opaca e infelice. Si scaglia subito contro gli organi visivi, il curioso artwork in stile krautrock, utilizzato per presentare questo debut album dei Narrow House, band ucraina proveniente da Kiev. Quattro tracce di puro funeral doom, ci cullano dolcemente per tre quarti d'ora facendoci riprendere speranza nella immensa ma stagnante situazione del doom estremo dell'est Europa. La prima cosa che mi fa alterare immediatamente è però la completa impostazione del booklet in cirillico, come faccio a leggermi i testi e tutte le altre cose inutili, se non riesco neppure a decodificare la scrittura? Io voglio bene alla Solitude Production ma non può giocarmi questi scherzi. Il fatto è che non ho ancora capito cosa sia codesta Panngrieb, non so voi ma io la notte non dormo. Oltre a ciò, un'altra cosa che non mi sta proprio a genio è la cover degli Esoteric nel finale; apprezzo l'aria di gioventù del gruppo che vuole rinnovare l'ambiente con una cover, ma nel funeral doom non ho un buon occhio per questa cosa, soprattutto se occupa quasi un terzo dell'opera. Biricchini questi “Casa Stretta”, perché non disdegno tanto la cover ma identifico ciò, come voglia di non creare una traccia propria e quindi di disimpegno. Ad ogni modo, ascolto dopo ascolto sono sempre più soddisfatto di questo full length perché denota un notevole sviluppo dal genere classico, un po' come stanno facendo gli Ea, e difatti alcuni studiosi del generi stanno identificando (ed etichettando) questi nuovi lavori come atmospheric funeral doom. Il suono è calibrato in modo da risultare ampio per far respirare completamente ogni momento dell'opera, con i volumi non eccessivi per permettere di godere della dinamica nei vari cambiamenti d'atmosfera. I Narrow House potrebbero essere dei validi capofila di un nuovo movimento doom. (Kent)

(Solitude Productions)
Voto: 70

http://narrowhouse.bandcamp.com/

Lustre - They Awoke to the Scent of Spring

#PER CHI AMA: Black Ambient
Dammi tre riff che ti faccio un album, e potrei tranquillamente chiudere la mia recensione qui. E vorrei anche farlo sinceramente perché nulla ha da dire quest’ultimo disco dei Lustre, one man band di Nachtzeit. Bello da ascoltare, melodie eccezionali ma quanto mai banali come poche cose a questo mondo. L'unica apparenza di black di quest'opera è la voce che è pure mixata troppo alta e "cantata" come un sussurro in formato scream, ovvero un fruscio fastidioso. L'idiofono non fa altra che ammorbidire l'atmosfera e rallegrare il tutto che, combinato con dei riff di chitarra estremamente melensi, mi induce a riflettere un attimo sul perché stia ascoltando questa cosa. Ma, come ho già detto, il disco è veramente bello, tiene compagnia come la musica di sottofondo nelle pubblicità delle automobili mentre percorrono i tornanti, e lo si ascolta pure volentieri, ma l'amara verità è che risulta intriso di una tristezza completamente priva di fondamento, riscontrabile quasi perfettamente con l'opinabile scena black/shoegaze francofona. È inutile scriverci romanzi attorno secondo i quali quest'opera evocherebbe "immensa melancolia dispersa nel vuoto", ti immergerebbe in "boschi innevati dove il sole penetra solo attraverso le goccioline di rugiada negli aghi dei pini" ed altre frasi d'effetto simili. In quest'album ci sono quattro tracce, tre riff e poco più, stop. (Kent)

(De Tenebrarum Principio)
Voto: 65

Inborn Suffering - Wordless Hope

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Anathema
Li avevamo saggiati quasi un paio di mesi fa, in occasione dell’uscita del loro secondo album, "Regression To Nothingness"; ora facciamo un piccolo passo indietro, andando a pescare quello che è invece il loro vero e proprio debut album, datato 2005, ma rilasciato anch’esso nel 2012, sempre dalla Solitude Productions. La proposta? Decisamente non si discosta granché da quella che è la nuova produzione dell’act francese, andando tranquillamente a pescare da quelli che sono i dogmi del death doom britannico, identificando però negli Anathema di “The Silent Enigma” (il capolavoro death doom gothic, per eccellenza), il loro punto di riferimento. Il riffing è corposo a livello chitarristico, le vocals, ottime, passano dal sofferente/parlato al growling catacombale; l’utilizzo del violino, come sempre poi, è in grado di conferire quel consueto tocco straziante all’album. Questi in definitiva gli ingredienti qui presenti e tipici del genere; a questi si aggiunga anche l’estenuante durata dei pezzi, impegnativo sin dagli abbondanti 11 minuti della opening track, “This is Who We Are”, da cui si evince immediatamente l’amore dei nostri per i gods inglesi, per cui si passa dalla malinconia stillata dalla traccia omonima alle atmosfere depressive di “Monolith”. Tutte tracce interessanti per carità, anche se rappresentano un riverbero di quanto già sentito negli anni ’90; “Wordless Hope” manca di un qualche sussulto che consenta di porre una maggiore messa a fuoco durante il suo ascolto. Non credo che l’inserto di una angelica voce femminile in “Thorn of Deceit” in un contesto quasi esclusivamente death, possa cambiare le sorti di un album, che ricordo comunque essere stato concepito nel 2005. Che altro dire: se avete amato gli Anathema degli esordi e siete sostenitori della corrente death doom attuale (Draconian, Saturnus), date pure una chance a questo “Wordless Hope”. Peccato solo che il combo abbia appena pensato di separarsi... (Francesco Scarci)

domenica 2 dicembre 2012

Netra - Sørbyen

#PER CHI AMA: Suoni molto sperimentali
A molti di voi il nome Netra non dirà nulla, a me invece dice tanto, e per questo infatti li attendevo al varco con la loro seconda fatica, sempre targata Hypnotic Dirge Records. La one band band francese si ripropone con un imponente lavoro di ben 70 minuti, che li per li mi ha lasciato decisamente spiazzato, per i suoi contenuti. Devo essere sincero al primo, forse al secondo, ma anche al terzo ascolto, mi sono sentito deluso dalla nuova performance di monsieur Netra, vuoi per dei suoni troppo freddi che non ne risaltano quel giusto calore che una release di questo tipo dovrebbe emanare, vuoi anche per un suono delle chitarre un po’ troppo lineare. Al quarto ascolto però qualcosa è straordinariamente mutato nella mia testa, e il pianoforte che apre “A Dance with the Asphalt” ha iniziato a minacciare la mia tempra morale e indurmi a rivedere il voto di questo sorprendente “Sørbyen”. “Mélancolie Urbaine” è ormai un ricordo lontano, mettetelo da parte; “Sørbyen” è un sussulto continuo emozionale che dalla delicata apertura della opening track, che ben presto si tradurrà in una cavalcata black (Burzum style) con tanto di urla belluine, si passa alla successiva psichedelica “Crawling”, che sembra provenire piuttosto da un album degli ultimi Muse. Si, ecco immagino di avervi già disorientato, e non poco, perché è la stessa sensazione che ha lasciato a me. Vocalizzi puliti su una base di synth e batteria, prima che una chitarra funambolica prenda il sopravvento e induca la mia pelle d’oca a sollevarsi di due dita. Peccato solo per questa maledetta pastosa produzione, che manca decisamente di pulizia nei suoni. Poco male, posso anche soprassedere; intanto parte la quasi catacombale e strumentale title track e l’impressione è di aver già ascoltato tre brani di altrettante band che giungono da panorami differenti. Divertente no? Ancor di più quando un killer riff apre, accompagnando il rutilante incedere di un drumming impazzito, la quarta traccia, “A Kill for a Hug”, che puntualmente evolve nel modo più inatteso possibile, andando ad esplorare per un minuto i territori trip-hop del precedente lavoro, per poi scatenarsi in un impetuoso turbinio evocativo di suoni, luci, pensieri e colori che mi fanno finalmente realizzare. Eccoli i veri Netra, quelli che ho apprezzato enormemente due anni fa: e quindi, per quale motivo stupirsi se nei solchi di questo cd possiamo imbatterci nel black metal in stile norvegese, o in un elettro sound; che sciocco spaventarmi di fronte al “tump tump tump” tribale del trip-hop o a deliranti giri psichedelici di pink floydiana memoria (“Emlazh”), epici scenari innevati (“Streetlamp Obsession”), song strumentali, divagazioni di matrice jazzistica, vere pop dance song o ninne nanne? Non siate ottusi neppure se accanto alle lancinanti urla del mastermind transalpino su una base romantico/malinconica/drum’n bass, potete trovare vocals soffuse, recitate o pulite, piazzate magari su epiche galoppate o drappeggi di suicial depressive black metal. Ancora una volta, questi sono i Netra e vi intimo di farne presto ascolto, potreste scoprire nuove forme di musica che pensavate non potessero esistere o addirittura potrebbero dischiudersi le porte del paradiso… o dell’inferno. (Francesco Scarci) 

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 80