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sabato 20 agosto 2011

Consciousness Removal Project - The Last Season

#PER CHI AMA: Post/Progressive, Isis, Decoryah, Neurosis, Pelican, Mogway
Per una volta tanto non dirò ai miei lettori di prendere carta e penna e segnarsi il nome di questa band in quanto il cd è completamente sold out (semmai andatevelo a scaricare dal sito ufficiale della band), ma la mia segnalazione va alle etichette discografiche italiane, che non si facciano scappare l’ennesima new sensation che arriva dal freddo nord della terra dei mille laghi. Cosi da Tampere in Finlandia, ecco accomodarsi nel mio stereo un fantastico lavoro, che fin dalle iniziali note mi ha messo a totale agio con l’ascolto di questa perla. Antti Loponen è la persona responsabile di tutta questa meraviglia (liriche, musica e arrangiamenti), che mi avrà anche fatto penare per riuscire ad avere questo cd di 5 pezzi, per un totale di 40 minuti, ma sicuramente l’attesa ne è valsa la pena. Il lavoro si apre appunto con le suadenti note post metal di “Soil Sacrifice”, 11 minuti di musica sofferente, dilaniante l’anima (ottima la voce di Antti), sempre melodica e dinamica, capace di seguire i dettami delle band leader di oggi in fatto di post (Isis, The Ocean, Pelican, Rosetta) e secondo me fare ancora meglio grazie all’inserimento di violini (fantastica la parte conclusiva della opening track, che poi si abbandona ad un vibrante quando mai caldo ed emozionante assolo finale), violoncelli e theremin (che per chi non lo sapesse è il più antico strumento musicale elettronico inventato in Russia nel 1919). Sono ancora inebetito da cotanta bellezza dei suoni proposti da questo ennesimo eccezionale collettivo proveniente dal nord Europa, che vengo investito dal riffing pachidermico di “Moraine”, una sorta di Mastodon in acido che decidono di rallentare il proprio sound nella vena dei Mogway, piazzandoci sopra un bel cantato cavernoso, prima di ricordarsi che sia il caso di citare anche i maestri del genere, Neurosis e Isis, giusto per non fare un torto a nessuno. Quello che ne esce alla fine è un qualcosa dotato di una propria spiccata personalità che alla fine riesce nell’intento assai arduo di prendere le distanze dalle band appena citate. I miracoli della tecnologia eh già: mettere insieme in un bel pentolone tutto quello che abbiamo a portata di mano e farne uscire una succulenta e prelibata pietanza. I Consciousness Removal Project riescono in tutto questo e io mi sbrodolo ascoltando queste sonorità che riverberano nel mio cervello portandomi allo sballo più totale (e senza assumere alcun tipo di droga). Concediamoci una breve pausa ambient prima dei lunghi dieci minuti della esplosiva “Kyoto”, che ben presto si trasforma nelle più dolci delle song, con tocchi di piano vibranti, malinconiche melodie, immagini di foreste dapprima verdeggianti, solcate da bellissimi fiumi blu, poi devastate dalle fiamme avvolgenti che portano soltanto morte e distruzione. Rimango paralizzato di fronte a questo sobbalzare di emozioni altalenanti nel corso di questa meravigliosa song quasi interamente strumentale, una canzone che sembra raccontare quali siano i cataclismi naturali che potranno ben presto colpire il nostro pianeta, ma un barlume di speranza c’è ancora e lo si capta nei passaggi atmosferici e acustici del brano che nella mia mente ha fatto sobbalzare il ricordo degli ormai andati Decoryah. Straordinario l’uso degli archi, degli arrangiamenti, tutto il brano in essere che si candida ad essere uno dei miei preferiti dell’anno e già mi mordo le mani se qualcuno farà finta di non vedere questa band o la ignorerà, a costo di metterla io sotto contratto… La conclusiva title track mi conferma che una nuova mostruosa realtà musicale ha acquisito una propria identità e consapevolezza: ecco comparire una rasserenante clean vocals che forse ci annuncia che la fine del mondo (forse quella che incombe nella cover cd) non è ancora cosi vicina, anche se nubi oscure stanno per avvicinarsi minacciose. Scoperta eccezionale questi Consciousness Removal Project. Dirompenti e geniali! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90

Dwelling - Humana

#PER CHI AMA: Folk, Neoclassic, Dead Can Dance, Miranda Sex Garden
I Dwelling nascono nel 1998 come progetto solista di Nuno Roberto e con l'intento di creare musica basata interamente su strumenti acustici, ispirata ai paesaggi costieri dell'Algarve. Col passare del tempo il progetto si arricchisce dell'apporto di altri musicisti e nel 2001 esce un mcd, "Moments", per Equilibrium Music, etichetta personale di Nuno Roberto. La line up del gruppo portoghese in tale lavoro si è estesa a cinque musicisti, grazie all'ingresso in formazione di Catarina Raposo alle voci, Silvia Freitas al violino, Nicholas Ratcliffe alla chitarra e Jaime Ferreira al basso. La natura esclusivamente acustica rimane un segno distintivo nei Dwelling, che nel 2003 pubblicarono "Humana", il primo full length. Nove canzoni vibranti di emozioni dense e struggenti, nelle quali la voce incantevole di Catarina Raposo gioca, intrecciandosi, con le chitarre acustiche e il violino e che si sviluppano in passaggi dal tocco sensibile e appassionato. Sembra essere un tratto tipicamente portoghese l'ardente malinconia che si posa con grazia nelle note di quest'album, soprattutto in "Silêncio Intemporal", "Tecelões da Nova Realidade" e "O Cinzel do Tempo", cantate in lingua madre e, non nascondo, le mie preferite, in quanto sono i momenti più sentiti. Lo spazio di silenzio tra i pezzi è quasi ridotto al minimo, forse a voler trasmettere un senso di dinamica evoluzione che fa di "Humana" un'unica opera in divenire, dove le canzoni hanno senso solo se inserite nel contesto generale, perché singolarmente perderebbero la loro intensità e apparirebbero come un tassello al quale manca il resto della struttura. Degne di menzione anche le altre canzoni che compongono l'album: "The Wheel", "Remember Virtue", "As the Storm Chants", dove la componente neo-classical si sprigiona in tutta la sua leggiadria, "Lingering Stupor", "Chasing the Rainbow's End" e "Reality that Remains", nelle quali si scorgono gradevoli episodi dal sapore folk e tradizionale. Unica pecca è forse da ricercarsi nel fatto che al primo ascolto l'album può risultare un po' troppo uniforme e non immediatamente emozionante, ma sicuramente è un'opera che va scoperta e merita di essere ascoltata con attenzione, solo così si può apprezzarla fin nel profondo della sua anima. "Humana" non è un'opera per tutti, ma solo per chi sa lasciarsi carezzare dal romanticismo degli strumenti classici. (Laura Dentico)

(Equilibrium Music)
Voto: 75
 

Influence - Where Does Your Way Lead To?

#PER CHI AMA: Techno Death/Thrash, Death
Non è stato particolarmente facile trovare qualche informazione su questa band polacca, proveniente da Goleniów e dal look molto accattivante. L’EP in questione rappresenta il loro esordio assoluto, una miscela incandescente di death tecnico, a tratti melodico. L’album si apre con il basso incendiario di “Mental Disease” e la martellante batteria di Karol. La song però quando scopre la sua componente chitarristica, perde un po’ in potenza, in quanto i riffs stanno un po’ troppo in secondo piano e non esplicano al meglio la potenza del quartetto polacco. Peccato, perché se le sei corde di Arek e Sowa, seguissero il roboante incedere fornito dal drumming furioso, sicuramente ne avremo sentito delle belle. La voce dello stesso Arek lascia un po’ a desiderare, ma sono certo che ci sono ampi margini di miglioramento. “World of False” attacca in maniera ancora una volta esplosivo grazie all’egregio lavoro dietro le pelli, ma il techno death dei nostri risulta ancora penalizzato dalla pessima registrazione delle chitarre, sempre abbandonate in secondo piano, salvo in quei casi in cui la batteria lasci completamente il campo agli assoli delle due asce, che si riveleranno assai interessanti. Il fantasma di Chuck Schuldiner e soci, aleggia costantmente nelle songs di questi Influence, però là eravamo ad altri livelli, grazie alla classe cristallina dei singoli musicisti. “Lie Poetry” presenta inizialmente un suono un po’ più bilanciato, ma poi, al solito le chitarre si perdono per strada come un lontano eco nel deserto, nonostante la song si palesi con un configurazione prettamente thrash. Ancora una volta è un peccato che i nostri non abbiamo potuto godere di una registrazione all’altezza, che avrebbe certamente conferito più spessore alla proposta e avrebbe fatto godere appieno dei suoni rilasciati dalle scorribande vetrioliche dei due chitarristi. La conclusiva “Nightmare” conferma le buone potenzialità della band mittleuropea, ma il consiglio che ci sentiamo di dare è sicuramente quello di dare una maggiore dignità ai suoni delle chitarre, spesso intrappolate dall’esponenziale potenza del divertente drumming. Cosi come pure, darei più che volentieri una sgrezzata alla voce, talvolta banale. Comunque una sufficienza abbondante mi sento di darla a questi ragazzi, spronandoli fin d’ora a rivedere alcune cosine nel proprio sound alla ricerca di una propria precisa identità che non rischi cosi spesso di sconfinare nel già sentito. Forza, è tempo di rimboccarsi le maniche! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65
 

Ektomorf - What Doesn’t Kill Me…

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Sepultura
Deve essere una costante per gli ungheresi Ektomorf aprire il proprio lavoro con suoni abbastanza etnici, perché ricordo che anche quando recensii “Outcast”, l’album si apriva con un'ancestrale melodia di un didjeridoo. Anche qui, ma solo per una manciata di secondi, si respira qualcosa di tribale, che poi si scatena nel thrash/death super ritmato, in pieno Sepultura style (era “Chaos A.D.”), che caratterizza drammaticamente l’intero lavoro. Quindi capirete quanto sia facile recensire un lavoro di questo tipo, che di certo non brilla in originalità, essendo estremamente derivativo dalla band sud americana. Che volete che vi dica, un po’ di tristezza me la fa ascoltare questa release: sentire suoni che sono nati più di 15 anni fa e a distanza di tempo, vedere che c’è ancora chi si ostina a ripetere pedissequamente gli stessi riffs, mi fa parecchio incazzare. A differenza del precedente album poi, mancano quei richiami etnico popolari (a parte i 10 secondi centrali di “I Got it All”) che mi avevano fatto apprezzare la musica dei nostri in passato. Solo “Sick of it All” prova ad uscire dagli schemi con l’utilizzo di vocals quasi rappeggianti e un’energia decisamente superiore alle altre song. Nonostante la partecipazione di Lord Nelson (Stuck Mojo) e Mille Petrozza dei Kreator, la bombastica produzione dell’onnipresente Tue Madsen, "What Doesn’t Kill Me…” si rivela alla fine, troppo statico nel suo incedere, senza una impennata, una uscita dagli schemi o comunque qualcosa in grado di smuovere l’ascoltatore: solo ritmiche scontatissime, vocals alla Max Cavalera e una ripetitività estenuante che mi costringe a bocciare il lavoro. Della serie “piccoli Sepultura crescono”, ma da una band che da quasi 15 anni calca la scena, mi aspettavo ben altro. (Francesco Scarci)

(AFM Records)
Voto: 50
 

Memories of Pain - .rewind

#PER CHI AMA: Black Symph., Dimmu Borgir, Emperor, Aborym
Ancora Italia e sempre più Italia in questo mercato discografico brulicante di bands spesso inutili. Però oggi sono fiero di presentarvi una band, che per quanto giovanissima e in taluni frangenti mostri ancora un po’ di immaturità, farà ben presto parlare di sé. Si tratta dei pugliesi Memories of Pain, capaci nel corso di queste 11 tracce, di sorprenderci con linee melodiche e soluzioni musicali assai interessanti. Si parte con la solita intro e poi già da “Absentia Mentis” è chiaro che i nostri non siano assolutamente degli sprovveduti. Chitarre in pieno stile Dimmu Borgir schizzano via veloci come la luce: si stagliano su di esse meravigliose partiture tastieristiche che vanno ad intersecarsi con improvvisi stop’n go e altri effetti in grado di stordirmi e sorprendermi non poco, che di questo periodo è cosa assai rara. Dopo gli otto minuti e più della seconda traccia, ecco arrivare “Impera, Aeterna Roma” dove fanno la comparsa le liriche in italiano in pieno stile Aborym (da sottolineare che in “The Last Portrait” compariranno addirittura versi tratti dall’Inferno di Dante). Lo spettro degli Emperor aleggia in tutti i 70 minuti e passa di questo lavoro, ma sinceramente me ne frego. Se la musica è ben suonata, ricca di idee ed imprevedibilità (ascoltate l’orientaleggiante “Black Queen” per capire), per quanto possa richiamare alla mente mostri sacri del passato, sarò ben lieto di propagandarla al mondo. E devo ammettere che “.rewind” è un album con le palle, cosi come questi giovani ragazzi di Acquaviva delle Fonti mostrano un grado di maturità che talune band, cosiddette veterane, neppure se la sognano. Non è da tutti comporre pezzi lunghi (che si assestano sui 7-8 minuti), altamente strutturati e caratterizzati da un tasso tecnico assai elevato, senza annoiare; i Memories of Pain centrano in pieno l’obiettivo sfoderando una prova intelligente che riesce a coniugare il black sinfonico norvegese con certe sonorità death progressive, vero punto di forza di questa release. Qualche accorgimento deve ancora messo appunto: migliorerei le growling vocals ed eviterei il più possibile l’uso dei blast beat assestando il sound più su mid-tempos piuttosto che su ritmiche serrate, però sono certo che se saranno seguiti da vicino da persone competenti, il quintetto italico mostrerà la propria bravura al mondo intero. Avanti cosi! (FrancescoScarci)

(Self)
Voto: 75

Solution .45 - For Aeons Past

#PER CHI AMA: Melodic Death, Soilwork, The Few Against Many
Frequentando varie testate di settore e webzine, un dato di fatto salta subito all’occhio: “For Aeons Past” è un album che ha diviso la critica in giudizi nettamente contrastanti. Per questo motivo pare quasi d’obbligo un invito a ridimensionare i miei toni entusiastici a chi non prova grande sintonia con il filone melodico del death, genere che in passato ha visto come precursori i Soilwork, autori di almeno una tripletta di album assolutamente riusciti. Chi invece rimane ancora legato a tali sonorità e prova dunque nostalgia per l’energia di lavori come “Natural Born Chaos” o “Stabbing the Drama” potrà trovare nei Solution .45 materia di assoluto appagamento. Il paragone insistente con i Soilwork trova fondamento in alcune tangibili peculiarità che accomunano le due formazioni svedesi, dagli intrecci melodici di gran classe, all’alternanza continua tra il canonico growl ed i ritornelli di voce pulita di facile appiglio. Tuttavia, il contenuto di “For Aeons Past” non deve essere scambiato per uno sterile surrogato di quanto già proposto dai cugini di Helsingborg. I Solution .45 puntano ad un approccio piuttosto personale al genere, giocando su contrasti nettamente più marcati tra la brutalità del death e momenti di un lirismo quasi “pop”. Complice di quest’attitudine tra l’estremo e l’accessibile non è solo la complessa ossatura ritmica dei brani, ma anche l’eccelso contributo vocale di Christian Älvestam, fino al 2008 tra le fila degli Scar Symmetry ed ora attivo anche in band quali Miseration e The Few Against Many. Älvestam è superbo nel modulare le parti di voce pulita su registri che per molti altri cantanti del genere risulterebbero impervi e risulta ugualmente convincente nelle esplosioni rabbiose di growl, quando deve sostenere i passaggi più violenti. E di violenza in “For Aeons Past” ce n’è parecchia, stemperata unicamente in un paio di episodi come “Lethean Tears” e “Into Shadow”, che assumono il ruolo di vere e proprie ballad. In realtà quasi tutti i brani dell’album potrebbero fungere da “radio-hit-single”, ma mi limito a citare “Gravitational Lensing”, forse perché scelta dal gruppo per la realizzazione di un videoclip ultra-professionale o forse perché riassume in poco meno di cinque minuti tutte le caratteristiche che rendono i Solution .45 un gruppo d’alta caratura: una spruzzata di tastiere mai invadente che dona all’insieme un tocco di modernità assolutamente efficace, l’apporto di Älvestam che, come ampiamente sottolineato, è il vero punto di forza della band ed infine un lavoro di chitarre che vede gli “axeman” Jani Stefanovic e Tom Gardiner rincorrersi in una serie di virtuosismi da capogiro. Un’ultima nota di servizio va spesa per la partecipazione di Mikael Stanne dei Dark Tranquillity, che oltre ad aver preso parte alla scrittura di quasi tutti i testi, appare attivamente in veste di guest vocalist in "Bladed Vaults" e "On Embered Fields Adust". Cosa chiedere di più? (Roberto Alba)

(AFM Records)
Voto: 80
 

giovedì 21 luglio 2011

Collateral Damage - Collateral Damage

#PER CHI AMA: Heavy Thrash, Iron Maiden, Judas Priest
Chiudo gli occhi, schiaccio play e mi sembra di essere tornato negli anni ’80, vi giuro. Ho i jeans grigi strappati, il giubbino in jeans senza maniche (ovviamente strappate) e la fascia di spugna sulla fronte. E mi lancio in un selvaggio headbanger per la stanza (intanto, faccio anche un po’ di air guitar). Bravi questi Collateral Damage, ottimi musicisti. Mi piace questo lavoro del quintetto viterbese. Di primo acchito, mi scapperebbe di dire che si rifanno quasi completamente al classic heavy metal, tipo Iron Maiden e Judas Priest, giusto per citarne un paio. Questo il filone dove inserirei il disco, però, dopo un ascolto più attento, in realtà non mancano spunti di altro tipo. Riffoni thrash metal molto anni ’90, un certo qualcosa di selvaggio dell’hair metal e altre influenze sono dietro l’angolo. Prendiamo l’inizio della open track “The Sin Flower”: ecco io ci trovo qualcosa delle atmosfere dei The Cult. Giurerei di sentire all’inizio di “Drunk in Bloody Rain” una citazione musicale, peraltro molto azzeccata, della scena finale del film “Blade Runner” (“Io... ne ho viste cose...” tanto per chiarire). Nulla da dire sulla parte musicale e della produzione: le grandi capacità del combo si sentono davvero benissimo. Apprezzabili in particolare le chitarre, molto ordinate, con accordi e assoli puliti, potenti. Notevole il cantante, tiene molto bene tutto l’album e sciorina un gamma vocale niente male. L’album mostra una certa coerenza nello stile compositivo; le tracce sono tirate come si deve e, sebbene non ci siano grandi innovazioni, non stancano e anzi tutto gira liscio che è un piacere. Non manca (come potrebbe?) la power ballad: in “Light in the Dark Side” si dispiega tutta la capacità melodica del gruppo (notare gli accordi di violino) e non è niente male. Segnalo inoltre la finale “Man of Brain”, molto particolare per il ritmo più veloce rispetto alle precedenti canzoni. Se non si fosse capito, sono rimasto colpito da questo platter. Ascoltatevelo fiduciosi. Bravi, bravi, bravi. (Alberto Merlotti)

(Alkemist Fanatix Europe)
Voto: 80
 

Meshuggah - Catch Thirty-Three

#PER CHI AMA: Djent, Techno Death
Avevo 16 anni, quando acquistai nell’estate del 1991, il primo Lp dei Meshuggah, “Contradictions Collapse”, album pesantemente influenzato dai primi lavori dei Metallica. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti fino a condurre il combo svedese a rappresentare una delle più importanti e influenti band in ambito estremo. Oggi ripeschiamo “Catch Thirty-Three”, che rappresenta una delle tappe che hanno portato alla consacrazione definitiva il quintetto scandinavo, anche se tuttavia questo lavoro non è uno dei più brillanti fin qui partoriti. Di primo acchito, ci si rende subito conto che per assimilare i 47 minuti che compongono l’album, servono ripetuti e ripetuti ascolti. La musica non differisce più di tanto dalle precedenti release: si rende solo più arzigogolata e schizzata, talvolta snervante al punto tale da farmi spegnere lo stereo e riprendere fiato; e ancora, in altri frangenti (quando la band si ferma, e per 5 minuti si intestardisce a ripetere gli stessi 3 accordi) risulta noiosa e prolissa. Sicuramente questo è l’album più sperimentale dei 5 ragazzi di Stoccolma: allucinati riff di chitarra in primo piano (chitarre a 8 corde, accordate bassissime - downtuning) sorreggono una batteria totalmente impazzita (ottimo come sempre l’apporto di Tomas Haake dietro le pelli, a conferma del fatto che sia uno dei migliori batteristi in circolazione), e poi i classici controtempi su controtempi tipici dei Meshuggah, con i ritmi dispari, spezzati, e il cantato urlato di Jens Kidman sopra. Concludendo, “Catch Thirty-Three” rappresenta una tappa di avvicinamento al grandissimo "Obzen"; mi aspettavo qualcosina in più... Comunque, lo sapete anche voi, i Meshuggah o si amano o si odiano, voi da che parte state? (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast)
Voto: 70
 

Confusion Gods - At the Gates of Confusion

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Il nome scelto da questa band italiana si identifica perfettamente con le sonorità che l’album stesso prova a ricercare nella sua evoluzione. Confusione… si… e di confusione ce n’è molta, ve lo posso garantire, nelle 6 tracce che andrete ad affrontare. Dal thrash sporco degli eighties inviato all’ascoltatore come un pacchetto anonimo, al rimando atipico (mai come in questo caso) della scuola black dei primi nineties, con una sosta al genere atmosferico senza diritto di cittadinanza. Lo screaming è violato alternativamente da sussurri e da un growl death che fatica a raggiungere tonalità profonde (non si possono forzare troppo le corde vocali, se non ci si è portati). Nichilistica e corrotta, la voce mi riporta agli esordi dei blasfemi Enthroned, e a mio avviso la band si doveva mantenere su questa precisa direttrice. Facendo le veci del critico stronzo che cerca il cosiddetto ‘pelo nell’uovo’ (scusate, oggi mi ci sento costretto) posso dire che i Confusion Gods hanno una buonissima conoscenza della tradizione black più semplice e statica. Per intenderci: quella delle registrazioni veloci e poco ricercate. Manca quel personalissimo valore spirituale del nord più freddo, ammesso che questa componente non sia stata evitata volontariamente nel lavoro di creazione delle canzoni. Se d’altronde manca la componente armonica dei riff ritmici, i passaggi melodici da una sezione all’altra delle tracce risultano al contrario molto ricercati. È questo che intendo con ‘confusione’ musicale.Davvero non comprendo l’obiettivo della band. Un piccolissimo bagliore di personalità emerge dalle mie cuffie quando li ascolto; nulla più. Indubbiamente è un buon album, certo, e ci sono tutti gli elementi per poter confidare in futuro in qualcosa di più ragionato. Ma per adesso, purtroppo a malincuore, le orecchie del mio spirito blackster-doom non provano che un minimo sussulto. Album adatto a chi vuole ascoltare un po’ di thrash-black senza tanti fronzoli. (Damiano Benato)

(Self/Necrotorture)
Voto: 65

Fangtooth - Fangtooth

#PER CHI AMA: Heavy Doom, Ozzy Osbourne, Tristitia, Cathedral
Se amate le tonalità heavy doom dei Cathedral o i riff del primo Ozzy potenziati all’estremo (Ozzy da solista) non potete lasciarvi scappare questo prezioso album dei Fangtooth. I pezzi sono davvero possenti, pesanti in sonorità, melodici negli assoli, a tratti epici. Ampio l'uso della batteria e dei piatti annessi (avete presente i Cathedral di “Electric Grave”?). La voce presenta diverse gradazioni di tono, ma risulta comunque pulita e omaggia la follia ironica del buon vecchio Osbourne. Al di là di tendenze musicali più estreme, e ce ne sono, il gruppo a cui più si possono rapportare i Fangtooth, giusto per dare un’indicazione di stile, sono i Tristitia di Luis Galvez. Magnifici gli esempi di chitarra doom dai toni compressi, arpeggi melodici profondi e graffianti. Magari ce li vedo solo io, ma gli innesti della southern school Down e BLS mi sembrano più che voluti. È un lavoro che combina moltissime influenze in un insieme compatto e coerente, davvero molto piacevole da ascoltare. L’andamento dei ritornelli acquista come una valenza cerimoniale, plasmata su una voce che funge da litania. Le liriche utilizzano tematiche care al doom: il rapporto dell’uomo con la divinità, le colpe e le condanne di una vita vissuta nel bene e nel male, la futura distruzione dei popoli corrotti, aspetti occulti e rimandi alla stregoneria e alla mitologia. L’ultima canzone si intitola “Cry of the Nephilim”, l’antica razza semidivina che avrebbe avuto uno stretto rapporto con l’evoluzione della razza umana. Vi cito un paio di versi della track “Martyr”, poiché riassumono in toto l’ideologia della band: “Now / I’m going to die / No fear inside my heart / The light embrace my soul”. È questo l’apogeo e il mistero della bestia Fangtooth (in senso positivo) celato in poche righe. Un gruppo da seguire obbligatoriamente nel suo evolvere. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 85

http://www.myspace.com/fangtoothdoom  

Aamunkajo - Avaruuden Tyhjyydessä

#PER CHI AMA: Black Funeral Doom
Signori miei, questo è puro funeral doom. L’effetto ipnotico sui sensi è garantito. Lo stacco da una canzone all’altra, infatti, appare nel complesso innaturale: toglie all’armonia un suono che pretende essere di infinito, perennemente in attesa come il cosmo. Anche in questo album l’alternanza di voce pulita a growl-screaming, funge da collante per i lenti riff. Efficacissimo l’uso di tastiere, che più che creare una loro melodia fungono da irreale sfondo. Per quaranta minuti sarete inghiottiti in un abisso vasto e profondo, dominati dal senso spasmodico di una perdita continua. Aamunkajo ci introduce in questa desolazione con la simbolica “Seinättömässä Talossa Kanssasi”, ovvero “In a Wall-less House with You”, facendoci capire fin da subito che da questo momento in poi non esisteremo altro che noi e lui, nell’universo conosciuto. Esatto: universo ‘conosciuto’… perché il titolo dell’album ha evidentemente a che fare con il senso di vuoto buio ed eterno, inneggiando a quella solitudine cosmica tanto esplorata da Lovecraft (“Avaruuden Tyhjyydessä” significa precisamente “In the Emptiness of Space”). Per quanto riguarda gli aspetti tecnici, tutte le canzoni, se non contiamo l’ultima di 8 minuti, durano attorno ai 5-6 minuti. È davvero un peccato, perché questo genere necessita di tempo, non di una toccata e fuga. Si sente l’influenza di Burzum, prevalentemente in quelle parti che alternano voce sofferente ad una gutturalità decisa. Citazioni alla lontana di “Until Death Overtakes Me”. Fantastiche anche le chitarre, che lasciano graffiare senza ritegno le loro corde, lente e dure, accompagnandoci per mano attraverso la vacuità della rovina. Il cantato è totalmente (a quanto sembra) in finlandese, lingua madre dell’autore (eh già, one man band nella più consueta tradizione funeral). Questa è realmente musica nera, senza alcun rimando ad emozioni. Doom del più buio, dove la melodia esiste solo per evitare la perpetrazione di uno slow più tetro. Per precisazione si dovrebbe parlare più di un black metal rivisto in chiave doom (è l’impossibilità di una definizione che crea la qualità). L’ultima traccia, “Graves” è la più angosciante, l’alchimia tormentata dell’intero album. Da ascoltare evocando lovecraftiane creature, ad altitudini estreme, persi tra i boschi notturni, quando le ombre che temevate da piccoli iniziano la loro processione verso oscuri antri di anfratti antichi, i cui snodi conducono a recessi insondabili. (Damiano Benato)

(Satanarsa Records)
Voto: 90
 

martedì 19 luglio 2011

Shadow Man - Dark Tales

#PER CHI AMA: Doom/Gothic, Candlemass, Solitude Aeternus
Gli Shadow Man sono una one man band formatasi ad Aachen, Germania, che ha pubblicato il primo lavoro nel 2010 (da li in poi ne sono susseguiti altri tre, da gennaio a giugno 2011, con cadenza bi/trimestrale). Come visione d’insieme, si può dire che "Dark Tales" sia un album a tratti noioso, senza alcuna emozione se non fosse per gli incipit di stampo orrorifico. Si parte con "At the Gates of Trigania”, la prima traccia puramente strumentale: l’intro è misterioso, l’ambientazione che ne esce potrebbe far parte di un film thriller; degne di nota poi possono essere la terza traccia, “I Am Not” - in cui i suoni sono duri e cadenzati (con un forte rimando ai Candlemass) con la voce che si alterna tra quella di Messiah Marcolin e dei sussurri nel buio - e “The Human Factor” – che con un inizio in pieno stile Metallica, in cui in primo piano viene messa la chitarra, prova a rifarsi poi alla tradizione doom americana. Proseguendo nell'ascolto, sebbene l’inizio prometta bene, non vi sono altre tracce che possano dare particolari emozioni. Andando per ordine i commenti sono più o meno uguali. “Anachronisma” e “Black Swan Dying” sono pressoché identiche nel loro ritmo, con l’unica differenza nella voce cantata (poco incisiva, monotona e a tratti lamentosa). Da notificare il fatto che 7 minuti poi per un brano strumentale sono esagerati, per il forte rischio di cadere nella narcolessia profonda. "Bitter Sweet” e “Still Silent” sono accomunate dal fatto di essere entrambe acustiche, mentre il cantato si rivela piatto, monotono e sofferente (addirittura sembra di sentire David Bowie cantare “depressive metal”, anziché gothic metal, con risultati terribili): il nostro "uomo oscuro" tende ad inserire un po’ di cattiveria nei brani, ma manca la convinzione di base. “Fear” e “The Inner Path” sono definitivamente orfane di ispirazione e della sopraccitata cattiveria, ingredienti base perchè una canzone che possa far parlare di sé. Se mai si fosse alla ricerca di un brano strumentale buono per un videogioco di ruolo, “Life in the Shadows” potrebbe essere l’ideale. Suoni campionati e nulla più, ma almeno diventa orecchiabile. L’apice del “depressive metal” (è la definizione che più si adatta, in quanto mi ha messo di cattivo umore) è “Eternal Winter” dove si possono ascoltare gli stessi insieme di note trovate nei brani precedenti, il che ha reso arduo l’ascolto fino in fondo (dettato più dalla speranza di trovare qualche sorpresa che mi possa ridestare dal buio in cui sono piombata, piuttosto che dal piacere di ascoltare l’album). La sorpresa di cui parlavo poco fa l’ho trovata invece in “Cold Silence”, anche se tanto distante dall’essere una traccia entusiasmante e viva. Se l'uomo nero provasse a modificare un po’ la voce, magari tentando altre tonalità, il commento potrebbe anche essere diverso. Fortunatamente tutto il lavoro si conclude con una nota positiva: non per il fatto che “Zar’rah” si distingua dalle altre canzoni perché diversa, migliore o ricca di sonorità, ma perché dura pochissimo (rispetto ai 6 minuti di lunghezza media, ne dura 2,45): un collage di riff di chitarra elettrica (ovviamente identici gli uni con gli altri) messi assieme con la saliva, che non convince nemmeno un passante casuale. Concludo dicendo che questo cd andrà nell’angolo buio della scrivania, quasi nel dimenticatoio, con la richiesta che il quinto album (che magari starà producendo ora) possa avvalersi della collaborazione di qualche musicista di talento, in modo da diventare di maggior piacevole ascolto. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 55
 

Mortal Form - Taste the Blood

#PER CHI AMA: Death, Arch Enemy, Death, Kreator, Over Kill
Sono un po’ perplesso perché di solito i ragazzi della My Kingdom Music difficilmente sbagliano un colpo nello scegliere le band da inserire nel proprio roster eppure non riesco ancora a capire, dopo vari ascolti, cosa abbiano trovato di cosi interessante negli olandesi Mortal Form. Con questo non voglio dire che il combo dei Paesi Bassi non sia valido, ma di band che suonano questo genere (e forse meglio), su cui puntare in Italia, ce ne sono una infinità, e mi viene da pensare ad esempio ai napoletani Symbolyc. Veniamo comunque al quintetto di Arnhem/Duiven: la band propone un suono dal primo impatto decisamente roccioso, che non può che riportarci indietro nel tempo di quasi vent’anni, per quel suo stile vicino agli Over Kill o al sound ruvido di stampo teutonico. Il thrash e il death metal delle ritmiche si fondono con gli influssi dell’heavy classico, riscontrabili negli assoli di chiara scuola maideniana, ad opera dei 2 axemen Vince e Teun. Il suono si presenta bello solido, compatto, una sorta di tanker schiaccia sassi, brutale e melodico al tempo stesso che però, a causa della sua scarsa originalità, ci porta a spasso nel mondo, riecheggiando nelle nostre menti gli act storici che hanno reso grande questo genere: Kreator, Morbid Angel, Death e In Flames, si ritrovano infatti nelle note di questo “Taste the Blood”, album che per forza di cose, non può avere grandi pretese, se non piacere agli amanti di questo genere di sonorità, peraltro andate evolvendosi, lungo gli anni. Growling vocals e blast beat completano il quadro di un disco dal suono non troppo ricercato, ma bello diretto e adrenalinico; se è questo quello che cercate, l’album dei Mortal Form, può fare al caso vostro, altrimenti è meglio girarci alla larga, rischiereste di stancarvi alla velocità della luce… (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music)
Voto: 65