Cerca nel blog

domenica 3 ottobre 2010

Adimiron - When Reality Wakes Up


Pochi istanti d’ascolto ed eccomi violentemente catapultato nell’ipnotico trip degli Adimiron. Subito mi identifico in uno di quei caduchi angeli ribelli di Pieter Paul Rubens, al seguito dei quali precipitano a catena uomini e donne trascinati sulla via del male. Gli Adimiron sono cinque, sono italiani, sono vincenti. Con “When Reality Wakes Up” giocano la loro partita e la vincono. Nulla da spartire con quegli undici perdenti d’azzurro vestiti. Le vorticose note di “Desperates”, prima track della release e la successiva “Wrong Side of the Town” dal sound potente, tecnico ed aggressivo, mi travolgono, ghermiscono o forse abbracciano. Mi sento sempre più vicino, sempre più solo, sconfitto e perduto, al fondo degli inferi. Si, proprio là dove sta il drago, a cibarsi dei dannati ma senza alcun San Giorgio a dissuaderlo. “Mindoll”, al contrario di una droga, stimola nel mio encefalo la formazione di nuove lisergiche reti neurali cablate dalla successiva “Das Experiment” e cauterizzate definitivamente poi con “Spitfire” (cover dei Prodigy): ormai sempre più vicino al drago, avverto l’odore del suo mefitico fiato. Non convince invece, a mio parere, la scelta della strumentale title track come titolo di questo lavoro: non che sia brutta ma nemmeno da premiare. Una parentesi, a questo punto, se la merita sicuramente anche il packaging: davvero ben curato, esteticamente perfetto, grafica riuscita ed un libretto davvero moderno. Chiusa la parentesi, tornando alle musiche, a chiudere per sempre(?), di sicuro in bellezza, le fauci del drago ci pensa “Flag of Sinners”. Ancora una volta, quindi, vince Giorgio ma stavolta, non con una lancia ma con l’asta di una bandiera. D’altronde questo è un anno di mondiali ed al posto delle trombe ad annunciarci l’apocalisse ci tocca, purtroppo, una schifosissima vuvuzela. (Rudi Remelli)

(Alkemist Fanatix)
voto: 75

Moloken - Our Astral Circle


Lo ammetto: ho appena iniziato ad ascoltare l’album di questi svedesi Moloken, che seguono l'EP di debutto “We All Face the Dark Alone”, e la mia faccia si è dipinta di un’espressione indecifrabile, misto tra curiosità, senso di cattiveria e anche stupore: questo perché l’album presenta un’alternanza di suoni, che passano dalla furia accompagnata da un growling cavernicolo alla pacatezza e alla lentezza delle note, rendendo il tutto a tratti pesante e a tratti rilassante. L’opera d’arte (perché anche la capacità di mescolare tonalità contrapposte è un’arte) si apre con le atmosfere lugubri di “Molten Pantheon”, ben sottolineate da una voce cattiva e cavernicola, alternata da chitarre e batteria ben equilibrate tra loro: il sound risulta degno del death che più death non si può, rendendo l’animo ben oscuro e pesante. Se si provasse a chiudere gli occhi mentre scorre il cd, si verrebbe attanagliati dai incubi paurosi che scaturiscono dalla menti di questi oscuri individui Svedesi, immagini che riportano alla mente le distese infinite di boschi durante il lungo inverno, che sembra non avere mai fine. Qualche barlume di speranza lo si ha con “Untitled I”, grazie ad un riffing di chitarra molto malinconico e pacato, ma che viene sconvolto quasi subito dal growling del singer. Tutto il brano, comunque, alterna la furia del trio chitarra-batteria-basso con le note della sola chitarra, come a voler risanare le orecchie prese d’assalto. “Die Fear Will” sembra voglia strapparci di dosso l’anima, grazie ad una voce disumana e agli strumenti che la seguono fedelmente, come in un turbine senza fine. È poi la volta di “Followers”, che riprende le atmosfere ferine e il sound della precedente, anche se si rivelerà un po’ più melodica. “Untitled II”, strumentale all'inizio, genera sensazioni più malinconiche e tristi ma man mano che la traccia avanza, e il ritmo si fa più serrato è un senso di oppressione a schiacciarci il petto. Arrivati a metà album, il sound rimane sempre lo stesso, anche se inizia a far tiepidamente capolino una certa vena progressive rock anni '70: ne è l'esempio “Ebeorietement”, con molti inserti di chitarra, ad opera di Patrik Ylmefors, che rallentano la traccia, giusto per lasciare un po’ di respiro alla mente (e alle orecchie). Questa pace, però si conclude ben presto con “My Enemy”: una vera e propria dichiarazione di guerra con la batteria di Jakob Burstedt e la chitarra a picchiare veramente duro, ma condito da un mood a volte rallentato e subdolamente perfido. Sembra che la band scandinava pecchi un po’ di fantasia visto che arriva anche “Untitled III” più tranquilla rispetto alle precedenti songs con quella sua verve più progressive, per la mia gioia (finalmente posso chiudere gli occhi e immaginare le distese di boschi… ma stavolta di giorno!), anche se per pochi minuti… infatti a metà brano la cattiveria non può mancare, facendo ripiombare la mente nell’oscurità più profonda di un bosco a mezzanotte (e senza luna piena). Si arriva così all'ultimo brano, “11”12”: l'inizio di chitarra non fa presagire nulla di buono, come lo dimostra perfettamente la voce lacerante poi... le vertigini che questo brano crea sono a dir poco inquietanti, quasi non si riesce a scrollarsi di dosso l'angoscia che i riffs di chitarra ripetono continuamente, asfissianti nel loro incedere e a rendere questo brano quasi eterno! Ti martella così tanto che ti viene l'istinto di togliere il cd dal lettore... ma vi consiglio di resistere, perché dovete assolutamente ascoltarla fino in fondo. Traendo le conclusioni, non nascondo che ho faticato non poco ad arrivare alla fine del disco per il forte peso che mi ha messo sul costato! C’è sicuramente da ammirare la capacità dell’act scandinavo, di associare il death metal al progressive rock, rendendo questo album veramente degno di nota e di ascolto. Può piacere e non piacere, ma merita davvero un ascolto attento, anche da chi, come me, preferisce altri tipi di metal ma che comunque vuole comunque spaziare sin nell’oscurità più profonda di questa musica, incontrando l’anima più caotico malvagia del metal. (Samantha Pigozzo)

(Discouraged Records)
voto: 70

Sad Dolls - About Darkness


Formatasi nel 2007, questa band proveniente dalla Grecia (con un’età media molto bassa), dà alle stampe il loro album di debutto (dopo il demo “Dead in the Dollhouse”), mescolando le sonorità più cupe del gothic metal con l'elettronica più industrial: ne esce così un lavoro che può essere definito “electro gothic metal”. Il tema ricorrente sono le tenebre e la sensazione che esse portano (oltre, anche, a tutte le sue caratteristiche come il sangue, lacrime e l'abbandono). L'intro cattura da subito l'ascoltatore in un mondo oscuro, con parole sussurrate e accompagnate prima dalle tastiere e poi dal pianoforte, per poi lasciare spazio ad una chitarra malinconica, in grado di sottolineare con le sue note, i temi dell'oltretomba e della solitudine, oltre al sentimento di smarrimento e d'inquietudine. “Bleed All I Can” è già meno cupa, ma ricorda immediatamente il sound degli Him, con la voce alterata ed accompagnata dal connubio tastiere-chitarra, lasciando in secondo piano la batteria: si direbbe quasi che il sound sia perfetto per il tipico brano da cantare a squarciagola. Seguendo il filone dell'electro-metal, “Misery” lascia più spazio alla batteria, denotando un sound più industrial (leggasi Deathstars) rispetto al gothic della prima traccia. La voce è meno alterata, le chitarre sono messe in primo piano assieme alla batteria e le tastiere si limitano nella creazione dell'atmosfera. “Life Equals Zero” invece si distacca dal sound verso cui l'album stava virando e torna sul percorso gothic iniziale, con l’elettronica elemento costante di fondo e con la voce del singer tendente al grave/cupo: alta è la concentrazione di suoni elettronici e graditissimo l’assolo di chitarra nel mezzo del brano. “Watch Me Crawl Behind” prosegue con le sue atmosfere tetre, sottolineate anche dalle liriche incentrate su angeli, tenebre, sangue e amore finito: colonna sonora perfetta per film come “Twilight” e affini. “In Your Lies” si prosegue sulla stessa linea d’onda della precedente, se non per l'inserto di una voce femminile che sottolinea le tematiche meste e desolate: tastiere e chitarra sono all'ordine del giorno, come anche gli archi e la voce pulita e tenue. Con “Hopes” ci si desta dallo stato catatonico in cui si è caduti e si è più spronati a risorgere, cercando di lasciarsi alle spalle tutti i pensieri negativi: finalmente una song che dopo tanta negatività ci dona un barlume di speranza, come il titolo dice. “Death is Your Name” e “Dawn of Love” si avvicinano più a sonorità doom, una vera sorpresa dopo tanta elettronica: un momento di totale relax per la mente, dove da padrone sono le chitarre pure e semplici, con la voce che pare provenire dalle viscere della terra, quasi demoniaca per quel suo estremo growling, dopo averla sempre sentita pulita. “Evil One” è la copia sputata di “Misery”, più electro-industrial sulla scia dei già citati Deathstars, mentre “Mistress, Goodnight” recupera le sonorità di “Life Equals Zero”. L'album si chiude con “Don't Say Goodbye”, caratterizzata da pianoforte e violoncello, oltre alla voce sussurrata e dolce: scelta azzeccata, volendo restare sempre in tema gotico e lugubre. Non può però mancare la parte di chitarra, chiara espressione della tristezza e della disperazione più profonda. Nonostante i Sad Dolls siano una band giovane e influenzata dal sound dei finnici Him, saranno di sicuro in grado di sorprendere e di creare lavori sempre migliori. Quindi sarà meglio tenerla d'occhio, in quanto hanno ancora ampio margine di miglioramento. (Samantha Pigozzo)

(Emotion Art Music)
voto: 70

Sancta Poenas - Artificiell Gnosis


Disturbati e disturbanti. Parafrasando un noto adagio, non bisognerebbe mai giudicare un album dalla copertina. Io però voglio essere sincero: mi capita spesso di farmi un’idea mentale del contenuto dal contenitore. Delle volte le due cose hanno una certa continuità. Prendiamo l’immagine frontale di questo Cd: lisergica, contorta, vagamente disturbante. È un ottimo viatico della musica contenuta. Questa band, formatasi nell'autunno del 2007 da Jimmy e Niclas in Svezia, originariamente era chiamata “Sanctus Pathos”. All'inizio del 2008 si uniscono TH e Marcus ed il nome cambia in "Sancta Poenas”. Ecco quindi la line-up: Niclas (testi, voce), Jimmy (chitarre, composizione, canto), TH (basso) e Marcus (batteria). L’immagine prevalentemente evocata è oscura, indefinita, strisciante, angosciante. Visivamente penso a quei quadri espressionisti tedeschi astratti di metà ‘900, tipo quelli di Hans Hofmann. Sembra di stare in quella zona della coscienza in cui si è a metà via tra la veglia e il sonno, dove i pensieri corrono senza controllo, si compenetrano e formano degli arazzi interminabili. I pensieri sono cupi e tuttavia il loro defluire è aggraziato. Similmente le canzoni dell’ensemble svedese sono ora molto armoniche, ora dissonanti, con ritmi lenti, sognanti. I cantati, calmi nonostante la durezza della lingua svedese, si alternano repentinamente a parti sussurrate, ad altre urlate, alcune persino disperate. Gli innesti elettronici sono spesso distorti e reiterati in maniera quasi malata. Ritmicamente si notano alcuni cambi di cadenza, tuttavia la velocità non ha accelerazioni e fughe. Tutto ciò si amalgama nelle 6 tracce. Se ascoltate l’album tutto d’un fiato, dopo le prime due songs, avrete la sensazione che anche le canzoni si mescolino tra loro, che i confini tra l’una e l’altra si facciano nebbiosi, si perdano, formando un tutt’uno quasi continuo. Un vero punto di discontinuità si trova nella lunga “Geschtonkenflopped”, in cui vi è una parte recitata prolungata, che sembra tratta da un film. Più omogenee le altre tracce. “Artificiell Gnosis”, che apre il disco, è la più elegante della produzione. Sfuggente, inquietante, con suoni di pianoforte che partono limpidi e poi mutano in distorti. “Svårmod” chiude in una maniera per nulla rassicurante. La produzione poi, mi ha spiazzato fin dal primo ascolto, impegnandomi a risentirla più volte, cercando di carpirne l’anima. Un plauso per la componente grafica, molto bella e coerente con l’anima del disco. L’uso degli allucinogeni, come l’acido lisergico, negli anni ’70 era previsto per aumentare la propria percezione del mondo, indurre la sinestesia, l’espansione dei sensi, “sentire” i colori, portare a bei viaggi, ma anche ad alcuni spiacevoli. Ad un tipo di “conoscenza artificiale”... a proposito, qual era il titolo dell’album? (Alberto Merlotti)

(Self)
voto: 70

Nihilosaur - The End is Within Sight


Un bel pugno, un martellamento bellico di chitarre. Non ho una grande passione per gli album troppo lineari. Ascolto con maggiore interesse lavori che diano spunti diversi, eclettici. Tuttavia in certi casi, questa coerenza può essere stimolante. Polonia, da qui arrivano i Nihilosaur. La band si è formata nel 2005 (da ex membri di The Analogs, Felicite Pueros, Wise Squit, Dzieci, Baby Blue Eyes) ed ecco i membri: alla voce Pawel ‘Mazak’ Mazur, alla chitarra Wojtek Nadolny, al basso Artur Ciechorski ed alla batteria Ziemek Pawluk. Nel 2006 esce il loro primo demo, seguito nel 2007 da questo “The End Is Within Sight”, che solamente ora finisce tra le mie mani. Ma tranquilli, non aspettatevi nulla di strabiliante. Non troverete né novità, né fusione di generi e stili, tanto meno alchimie sonore. Ascolterete piuttosto chitarre spianate, riff potenti ripetuti allo sfinimento, batterie rutilanti ed un cantato growl ridotto ai minimi termini. Un disco cocente, ma non originale. Punto di forza è senza dubbio la potenza perpetrante delle chitarre ed il pregevole livello tecnico nelle esecuzioni. I Nihilosaur mi hanno circondato di un mare di accordi potenti e reiterati, accordi scarni, condotti dalla chitarra e dal basso spaventosamente metal mentre il lavoro dietro alle pelli di Ziemek si perde, in questo mare. La voce del singer non varia quasi mai con la sezione canora davvero ridotta al lumicino. Ed è un bene sia così, poiché le doti canore di Mazak non sembrano poi cosi eccelse. Potenza come non ne sentivo da un po’. Concludendo tra up e down, nonostante la mancata originalità, la lunghezza talvolta noiosa di alcune canzoni, la possibile pigrizia compositiva, va detto che il cd è registrato bene e se ne consiglia l’ascolto a chi è saturo di generi meticci ed è invece alla ricerca invece di un muro armato di metal. (Alberto Merlotti)

(Self)
voto: 65

Dekadent Aesthetix - Dekadent Aesthetix


Altro duo questa volte proveniente dalla Romania a turbare i nostri sonni tranquilli. Emi (responsabile di tutti gli strumenti) e Cosmin (vocals), costituiscono questi strani Dekadent Aesthetix che sfoderano come prima prova un concentrato davvero interessante di black metal che incorpora al suo interno sonorità provenienti dai più disparati ambiti musicali. Sebbene si tratti di una produzione minimalista decisamente low cost, devo sottolineare che la masterizzazione è stata fatta ai Unisound Studios, da sua maestà Dan Swano (Nightingale, Bloodbath, Edge of Sanity, Katatonia). Il contenuto? Dicevamo che affonda le sue radici nel black metal primordiale, ma da li poi una girandola di umori ed influenze emergono più forti che mai. Superata l’enigmatica intro, ecco subito emergere la forte personalità del duo rumeno: chaos black, soffuse atmosfere shoegaze/post rock, voci industrial, in un turbinio disorientante di musica dal forte impatto emotivo. Che diavolo succede, dove mi trovo sono le uniche parole che riesco a proferire al termine di “Plethora”. Con “Suicide Hobby”, la musica non cambia e anzi, i nostri ci mostrano che anche senza budget faraonici è possibile produrre musica con le palle, dotata di rabbia dalle venature poetiche. Quarta traccia dedicata alla cover electro pop “17” dei Ladytron; con la successiva “Track 0”, si parte in sordina con un arpeggio acustico, risa di una donna e parole sussurrate in rumeno in una sorta di danza amorosa tra due innamorati. “Rock’n’Roll Machine” mostra un altro lato della band rumena: una sorta di song dal vago sapore stoner-psichedelico, con vocals alcoliche e screaming blacksters, un trip in un mondo malato ma è solo l’abuso di acidi a turbarci le nostre menti inizialmente sane. Ancora una volta non capisco cosa stia succedendo al mio cervello, troppi sono gli impulsi che alterano la mia rete neuronale, sollecitati dalle sonorità completamente schizofreniche di questo duo di pazzi scatenati. Perversi, imprevedibili e folli, signori e signore vi presento i Dekadent Aesthetix… (Francesco Scarci)

(GoatowaRex)
voto: 75

Galar - Til Alle Heimsens Endar


Se anche voi come me siete rimasti scossi dalla scomparsa dalle scene dei grandi Windir (il vocalist Terje "Valfar" Bakken morì infatti in circostanze misteriose nel 2004), non temete perché una nuova creatura è finalmente pronta a sostituirli nei nostri cuori. Si tratta dei qui presenti Galar, già autori di un discreto cd nel 2006 “Skogskvad”, ma che con il nuovissimo "Til Alle Heimsens Endar" sorprendono tutti gli addetti ai lavori per le loro sonorità che non possono non rievocare le cavalcate pagane di cd come “Arntor” o “1184” dei già sopraccitati Windir. Mi sono emozionato ed infiammato subito nell’ascoltare le note di questo “Fino alla Fine di Tutti i Mondi”, proprio per l’emozioni che da subito si sono manifestate in me, come una sorta di deja vu per qualcosa che avevo già vissuto anni orsono all’ascolto dei capolavori dei vichinghi norvegesi. I giovani Galar, non sono da meno, e fatti propri anche gli insegnamenti di altri maestri quali Ulver o dei folkers Isengard o Storm, ci regalano sette emozionali tracce di black pagano. Il duo di Bergen, aiutato da Phobos dei Malsain/Aeternum, prende ancora spunto dalla tradizione mitologica nordica per dipingere desolati paesaggi ghiacciati, combinando un sound estremo raffinato (Enslaved docet), con il tipico riffing di matrice norvegese, intermezzi acustici, richiami alla musica classica (meravigliosa la strumentale “Det Graa Riket”), elementi folk e ovviamente il viking metal (“Ván” e “Ingen Siger Vart Vunnin”), in un incedere emozionante e suggestivo di suoni che da tempo non sentivo. Ottime le linee di chitarra, eccellente la prova del vocalist capace di spaziare dallo screaming black ai vocalizzi puliti alla I.C.S. Vortex (o potremo addirittura smuovere il padre dell’epic black Quorthon), "Til Alle Heimsens Endar" ci consegna una band davvero matura e capace di stupirci per la bellezza delle antiche melodie e la freschezza della loro proposta musicale. Forti di una eccelsa produzione ai Conclave & Earshot Studios (Taake, Enslaved) i Galar rappresentano una graditissima ed inattesa sorpresa di questo primo semestre del 2010. Spero si possa parlare a lungo di loro… (Francesco Scarci)

(Karisma Records/Dark Essence Records)
voto: 80

Re123+ - Magi


Immaginate di trovarvi in una sbiadita stazione ferroviaria del secolo scorso. Siete soli. Il silenzio che vi avvolge minaccia di far esplodere la vostra mente. Sentite finalmente un rumore. E’ un incedere lento di ferraglia che mai esce dalla nebbia. Ecco descritto il primo brano, che martella per fagocitarvi tra le ritmiche incessanti, ritmiche mal definite, che affannose tentano di vincere, senza riuscirvi, la ruggine strumentale. Ascolto ideale se volete dedicarvi alle arti evocative in cui è necessario alienare il pensiero cosciente dall’inconscio. Procediamo con la seconda traccia: la meta questa volta è una alcova dai colori esotici. Le sonorità evocano le geometrie descritte da una danzatrice del ventre in una ascesa sensoriale con il brano che si conclude con un tragico risveglio in cui piombano chitarre ululanti contrapposte agli esordi morbidi dei tamburi. Consigliato l’ascolto a personalità scisse alla dottor Jekyll e mister Hyde. La terza ed ultima traccia chiude l’album con evocazioni gitane, dalla melodia circolare, ridondante, che come un mantra, ipnotizza se ascoltata in cuffia e tedia in diffusione. Consigliato l’ascolto a chi vuole compiere un viaggio psichico a basso costo. La musica di questa band biellorussa Re123+ si rivela come un profondo atto di meditazione, intelligentemente accompagnato dalle citazioni de “L’Isola del Giorno Prima” di Umberto Eco. Suggestivi! (Silvia Comencini)

(BadMoodMan Music)
voto: 70

Carcariass - E-xtinction


Uno dei più interessanti lavori che mi è capitato di ascoltare ultimamente, proviene dalla Francia, nazione che ha dato i natali ad una delle band più preparate nel panorama techno death, i Loudblast. E proprio partendo dagli insegnamenti dei godz francesi, i Carcariass sfoderano una prova davvero eccellente che da tempo non mi capitava di sentire. “E-xtinction” è il terzo album per questa band proveniente dalla Francia che, delusa per i risultati sportivi della propria nazionale di calcio, può per lo meno tranquillamente consolarsi con uscite di assoluto livello in ambito musicale (cosa che noi italiani non possiamo neppure permetterci in quest’ultimo periodo). I Carcariass sono dei mostri per quanto riguarda la capacità di coinvolgimento che sanno attuare con i loro strumenti, per il loro dinamismo sonoro, la pregevole ricerca delle melodie, e una tecnica sopraffina assai rara; non ho altre parole. Si parte alla grande con “Chaos and Decay” e le sue linee di chitarra ricercata e raffinate; si prosegue con l’esplosiva e strumentale “In Cold Blood” dove sono sempre le chitarre a condurre i giochi in un alternarsi di emozioni degno delle più ripide montagne russe. Un basso apre “Domination”, ma ben presto si fanno largo malinconiche linee di chitarra e altri riffoni effettati assurdi, che rallentano ben presto il passo per far posto a ritmiche dal forte sapore grooveggiante, quasi rockeggiante oserei dire, con le vocals di Raphael Couturier davvero espressive nel suo growling mai troppo esasperato. La cosa incredibile sono i continui cambi di tempo che in un batter di ciglia ci danno l’idea di trovarci in un disco gothic, un secondo dopo in un arrembante disco di techno death americano e poi ancora in disco rock progressive, il tutto racchiuso in una manciata di minuti, meraviglioso. Una cascata di emozioni che ci pervade l’animo e ci lascia attoniti, sognanti, inebriati da cotanta bellezza di suoni. Un altro lungo break strumentale con “Exulting Pain” (come bonus track alla fine ci sono anche le sole 4 songs cantate dell’album, in versione strumentale), song dai forti richiami di scuola Iron Maiden: ancora cambi di tempo, cavalcate heavy metal, qualche riffone thrash e una produzione veramente degna per un lavoro di questa portata, vera e propria sorpresa per il sottoscritto. E quale peccato vedere che uscite come queste, passino totalmente inosservate nel nostro paese, perché ci consentirebbe di capire che con il cuore si possono fare grandi cose e regalare forti emozioni. Grandissimi Carcariass, per me già numero uno!!! (Francesco Scarci)

(Great Dane Records)
voto: 85