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lunedì 28 ottobre 2019

Caliban/Heaven Shall Burn - The Split Program II

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Metalcore
Nel 2001 usciva 'The Split Program I', a mettere insieme due gruppi metal alle prime armi, Caliban e Heaven Shall Burn. Nel frattempo le due band hanno fatto uscire altri dischi, hanno suonato parecchio in giro e hanno maturato un buon successo nel panorama metal internazionale. Caliban e Heaven Shall Burn, per chi non li conoscesse, sono due valide entità del panorama death/metalcore tedesco, la cui fondazione risale alla fine degli anni ’90. La casa discografica, forte del successo del primo split, ha deciso di regalare ai loro fan un secondo split, che racchiude undici brani (sei per gli HSB e cinque per i Caliban). Che dire della proposta? Il cd parte con le tracce firmate Heaven Shall Burn, validissimi brani che proseguono là dove 'Antigone' si era fermato: techno death combinato con hardcore di scuola americana alla Hatebreed, riff devastanti lanciati su una possente base ritmica, amplificata da un’ottima produzione (effettuata presso i Rape of Harmonies Studios), un pizzico di melodia, retaggio degli insegnamenti di At The Gates e Dark Tranquillity, e il gioco è fatto. "Nyfaedd Von" è una ripresa dell’intro dell’album precedente, suonata però con violini e pianoforte; "Downfall Of Christ" e "Destroy Fascism", le ultime due songs, sono due cover rispettivamente dei Merauder e dei finlandesi Endstand. Passiamo ora ai Caliban: la band ci propone “The Revenge”, song che potrebbe tranquillamente stare sul loro cd 'The Opposite From Within', caratterizzata come sempre dal mosh cadenzato tipico dell’act tedesco, da velocità e melodia, e infine, dalle stridule vocals di Andy. I brani a seguire sono poi sostanzialmente riedizioni di vecchi brani, riveduti e modificati, ma niente di nuovo all’orizzonte. In conclusione direi buona la prima parte del cd, quello dedicato agli Heaven Shall Burn, con tanto materiale inedito e succoso, mentre scarsa è la performance dei Caliban. Ad ogni modo, lo split è consigliato agli amanti di queste due band e a chi vuole avvicinarsi, curioso di dare un ascolto alla proposta musicale dei nostri. (Francesco Scarci)

sabato 26 ottobre 2019

The Monolith Deathcult - The White Crematorium

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death Metal, Napalm Death
Mi veniva da ridere quando sui flyers informativi relativi alle band leggevo definizioni del tipo “Innovative Death Metal” perché mi creavo molto spesso delle aspettative che puntualmente venivano disilluse. E cosi successe anche per i Monolith Deathcult, per cui diciamolo subito, non suonano alcun tipo di death metal innovativo. Se non conoscete questa band, vi dico che il loro paese di origine è l’Olanda e i suoi membri hanno fatto parte di altri gruppi della scena quali Altar e Dead Head. Questo 'The White Crematorium' è un concept album sulla Seconda Guerra Mondiale, è il loro secondo lavoro uscito nel 2005, il primo per la Karmageddon Media, dopo il non troppo esaltante 'The Apotheosis' del 2003, uscito invece per la Cold Blood Industries (la label di Henri Sattler, mastermind dei God Dethroned). Visto che adoro fare raffronti con altri lavori del passato o altre band per farvi meglio capire cosa andate ad ascoltare ed eventualmente acquistare, vi cito immediatamente 'Utopia Banished' dei Napalm Death come termine di paragone per questo album, il tutto logicamente rivisitato in un’ottica relativamente più moderna. Non solo Napalm Death però quale fonte di influenza per questi quattro violentatori di strumenti, ma anche Morbid Angel, Hate Eternal, Immolation, Nile e God Dethroned, senza tralasciare gli Slayer per quanto riguarda alcuni assoli riconducibili alle sfuriate assassine di Larry King e Tim Hanneman. Attraverso questi nove pezzi i Monolith Deathcult faranno grondare il sangue dalle vostre fronti, non vi lasceranno un attimo di respiro, vi tritureranno le ossa con la loro furia e quando il tutto finirà, sarà come se un treno vi avesse investito. Atipica la title track, che attraverso il suo lento e pesante incedere, vi porterà nei più profondi abissi della vostra psiche dove tutto sembra un assurdo incubo dal quale non risvegliarsi. Molto bello il booklet interno corredato da una serie di commenti per ogni brano. I Monolith Deathcult sono adatti per lo più ad insegnare una nuova cultura di Morte. (Francesco Scarci)

Nazca Space Fox - Pi

#FOR FANS OF: Instrumental Post Rock/Psych
'Pi' is the 2019 release from three piece German instrumental post-rockers Nazca Space Fox. 'Pi' opens with "Windhund", initially sounding like a dystopian future, the guitar leads the way with its serious tone and hard-rock melody, eventually sounding like Incubus in the middle with its stop/start structure. "Space Drift" is the longest track on the album, at over ten minutes long with its short dirty riff that grunges along until the groovy base line completely changes the dynamic acting as a cushion to soften the second half of the song, excluding the screeching guitar that is. "Space Farm Blues" does exactly what it says on the tin, with a laid back blues riff that continues to grow. "Hummingbird" would fit right in on an Audioslave record letting the simple hard riff speak for itself. "Showdown" returns to the ambient side of the album, initially, but it is evident throughout that Nazca Space Fox can't help themselves and need the sound of each song to evolve into hard-rock despite the sound that comes before. The final track "Grinder" feels like it has more intent, however follows suit with the rest of the album with the riff growing bigger and noiser as the song progresses ending abruptly. 'Pi' by Nazca Space Fox is hard to pin down post-rock with some obscure moments, hence why they also identify as psychedelic rockers, presenting an eclectic take on a typical hard-rock record with its inclusion of blues, ambience and groovy base lines all lead by hard-rock riffs. (Stuart Barber)

(Tonzonen Records - 2019)
Score: 65

https://nazcaspacefox1.bandcamp.com/album/pi

Treehorn - Golden Lapse

#PER CHI AMA: Stoner/Noise Rock, Post-Hardcore, Melvins, Unsane, Big Black
Gli appassionati di storia come me (appassionato suona meglio di nerd) si saranno sicuramente imbattuti nel termine “epoca d’oro”, usato per identificare l’apice di una civiltà, di una nazione, di una corrente di pensiero o artistica. Si tratta di fasi determinate dal contemporaneo verificarsi di condizioni favorevoli e che possiamo ritrovare anche su scala più piccola, come ad esempio nelle nostre vite: a tutti è capitato di attraversare un periodo particolarmente propizio durante il quale si saranno presentate occasioni lavorative, realizzazioni personali e conquiste sentimentali. Certo, nulla dura in eterno, l’epoca d’oro è destinata ad esaurirsi e magari ci saremo poi ritrovati a raccoglierne le macerie: è una legge storica ed è probabilmente il motivo per cui dovremmo soffermarci a godere di quei brevi momenti in cui tutto fila liscio, momenti d’oro appunto. In 'Golden Lapse', i Treehorn non raccontano di epoche d’oro, anche perché basta dare un'occhiata alle notizie di cronaca o scorrerne i commenti sui social per capire che sarebbe fuori luogo: l’intervallo di tempo di cui parlano potrebbe essere quello trascorso tra il 2014 a oggi, passato lontano dai palchi e senza dare segni di vita. Cinque anni di assenza sono praticamente un eone e un gruppo viene considerato spacciato per molto meno, tuttavia questa pausa è servita a far germogliare le idee del trio di Cuneo (zona dove peraltro non sembra mancare il terreno fertile per del sano rock pesante, basti pensare a Ruggine, Cani Sciorrì e Dogs For Breakfast), portando lo stoner/grunge del precedente 'Hearth' ad un nuovo stadio di evoluzione, ossia questi dieci pezzi stortissimi e furibondi che non appartengono completamente né allo stoner, né al grunge, né al noise o all’hardcore: sono dei Treehorn e tanto basta, i quali hanno miscelato questo e quel genere secondo una personale ed esplosiva formula. La prima traccia “The Recall Drug” mette subito in chiaro le intenzioni della band: è un missile sparato a velocità ipersonica verso coordinate tutte sbagliate e di cui è impossibile determinare la rotta, ma che sicuramente si schianterà su ciò che incontra. Pezzi come “Virgo, Not Virgin” (un richiamo a “Taurus, not Bull” presente su 'Hearth'), “The Same Reverse” e “Damn Plan”, si sviluppano tra spericolate cavalcate del più classico stoner rock ed improvvise destrutturazioni noise, dove la chitarra si lancia in tormentosi riff sghembi, sorretta dalle percussioni massicce e da un basso cupo e fangoso; in 'Golden Lapse' però c’è anche spazio per composizioni meno intricate e non per questo scontate o meno adrenaliniche, come “Onlooker” and “Hell and His Brothers”. “A Shining Gift” sembra essere uscita dopo un tamponamento a catena tra Unsane, Melvins e Big Black, mentre "Modigliani", che si apre con un feroce giro di basso, si avvicina invece al più malato post-hardcore, manifestando punte di estrema sofferenza e anche malinconia. Dopo il breve intermezzo atmosferico di “Lapse”, scandito da rade note di chitarra, ecco la conclusiva e pachidermica “Coward Icons” che tira le somme di tutto il lavoro. Quale sia il motivo conduttore dell’album è difficile stabilirlo: un invito al “carpe diem” probabilmente, tuttavia “Lapse” si può tradurre anche con “sbandamento morale” e i titoli di molte canzoni, così come l’artwork luciferino, potrebbero giocare sull’ambiguità del termine. In questi cinque anni di “ghosting”, ai Treehorn è accaduto quello che molti avrebbero sperato succedesse ai Tool negli ultimi tredici: trovare i giusti stimoli, le giuste energie, la coesione di tutti gli elementi della band, l’ispirazione più pura e quel pizzico di “machissenefrega, noi suoniamo” che è terreno fecondo per l’opera di un musicista. 'Golden Lapse' è un lavoro spaccaossa che gode di freschezza, suoni potentissimi e un efficace songwriting, il tutto magistralmente enfatizzato da una produzione fantastica (registrazione a cura di Manuel Volpe e master di Enrico Baraldi, scusate se è poco): prendetevi un attimo di tempo per ascoltarlo e vi garantisco che sarà il vostro momento d’oro. (Shadowsofthesun)

(Escape From Today/Brigante Produzioni/Vollmer Industries/Taxi Driver Records/Canalese*Noise/Scatti Vorticosi Records - 2019)
Voto: 80

Sons of Alpha Centauri - Buried Memories

#FOR FANS OF: Instrumental Industrial/Post Rock
'Buried Memories' is the 2019 instrumental release from industrial post-rock band Sons of Alpha Centauri (SOAC). The album is immediately intriguing as the first three tracks are separate mixes and remixes of the same track "Hitmen" by Justin K. Broadrick. The first is a standardized mix with dark distortion, typical of its genre, lacking depth, until the final two minutes of the track, that resembles Pantera, however that maybe an overreaching comparison. The second remix feels more original with haunting sounds that accompany the distorted instrumentation and even though it continues the dark theme there are hints of ambience and lightness layering the mix creating more depth to the sound. The third remix follows nicely with a literal more industrial sound, with the rhythm section being replaced with what can only be described as a moving machine, with the song evolving into a haunting wobble. The second half of the album is mixed and remixed by James Plotkin who improves the sound massively with his creativity and originality. "Warhero" strips back the effects with cleaner sounds creating a mild uneasiness at first, until the marching band style drumming begins and the conventional repetitive heavy guitar riff takes over. "Remembrance" delivers the optimum industrial sound of the album with moments of almost silence at times that seemingly include the sound of rain drops echoing in a cave. SOAC saves the best for last with the final track "SS Montgomery" - the single taken from their debut album. Remixed again by James Plotkin it begins with a pleasant base line and a truly original and unique drum beat. The remix is reminiscent of "Wake Up" by Rage Against the Machine with an outro that leaves you wanting more. SOAC deliver an original idea with this record and the collaboration with James Plotkin elevates their sound to new heights. (Stuart Barber)


mercoledì 23 ottobre 2019

Halma - The Ground

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale
Se avete bisogno di rilassarvi e ricaricare le batterie, non c'è niente di meglio che affossarvi in una bella poltrona comoda, un po' di penombra ed un volume dello stereo non troppo elevato, lasciando fluire nel vostro corpo e mente, le note di questo nuovo capitolo dei teutonici Halma. 'The Ground' è il titolo del loro settimo album, se non vado errato, con il quartetto di Amburgo a prenderci per mano e farci fare un giro nel loro sottosuolo. Mentre me ne stavo spaparanzato ad ascoltare il cd però, le immagini che mi si compongono nella mente sono più quelle di un giro notturno per una luminosissima città sconosciuta; fuori dall'auto il caos, ma io dentro mi ritrovo ovattato in anomali suoni, costituiti da timidi bassi e flebili percussioni, come quelle che potete assaporare durante l'ascolto di "Advanced Construction" o "Peak Everything", le prime due song di 'The Ground'. Per quanto i quattro musicisti ci propongano una forma strumentale di post rock, sappiate che l'ascolto del cd non è propriamente dei più semplici. Potrete ritrovare infatti divagazioni noise, proprio come accade nella seconda parte di "Peak Everything", oppure lisergiche partiture psyck rock, perennemente guidate da quel basso che sembra essere lo strumento portante degli Halma, e che nel corso ritroveremo tonante a tratti, tipo quando sostiene la linea di chitarra di "CK and Why?", più sciamanico nel suo incedere nella seconda parte dello stesso brano, che per certi versi mi ha evocato un che dei The Doors. Il disco prosegue su queste coordinate anche con le successive "It Could All Be Different", song asfittica ed eccessivamente ridondante per i miei gusti, in quel suo nebuloso incedere. Troppo spazio infatti viene concesso al basso e dopo il un po' il rischio di annoiarsi è dietro l'angolo, invece quando è la chitarra a prendersi la scena, le cose si fanno più interessanti. Detto che in un simile contesto, una voce ci stava verosimilmente come il pane a destabilizzare un sound talvolta troppo monolitico, il cd prosegue con la malinconica e riverberata verve di "Keep it in the Ground", dove ancora l'abuso del basso finisce per abbassare il mio indice di gradimento verso la band. Ed è un peccato perchè i presupposti iniziali erano più che positivi, perchè va bene rilassarsi, ma qui il rischio è di piombare in un sonno pesante. (Francesco Scarci)

Magic Pie – Fragments of the 5th Element

#PER CHI AMA: Hard Rock/Prog Rock, Kansas
Ci sono voluti alcuni anni di attesa per gustare il ritorno in grande stile della navigata band norvegese dei Magic Pie, che al quinto album, uscito per la Karisma Records (prodotto ottimamente da Kim Stenberg e mixato in maniera esemplare da Rick Mouser), tocca una vetta artistica notevole, compiendo un ulteriore balzo in avanti nella qualità musicale proposta, offrendo un disco variegato e ricercato da veri esperti, sapienti e conoscitori del genere prog/retro rock, ovviamente rivisitato e adattato in chiave moderna, da sempre manifesto intento della band. Le indiscutibili doti compositive ed esecutive si esprimono al meglio sin dal primo dirompente singolo di questo 'Fragments of the 5th Element', intitolato "The Man Who Had It All". La song incanta con i suoi virtuosismi sopraffini ed una spettacolare composizione degna di nota, spostandosi tra il Gabriel e i suoi Genesis storici, aperture beatlesiane e fraseggi alla Dream Theater/Marillion, ed uno scambio di voci e cori curatissimo che proseguirà per tutto il disco, canzone dopo canzone, caratterizzandolo fortemente. Tracce di hard rock in stile Kansas e pefino dei vecchi Judas Priest, scorrono nelle vene di "P&C (Pleasure & Consequences)" con un corridoio free jazz rock inaspettato e una coda di chitarra e tastiere per un finale melodico che mostra una band perfettamente in grado di giocarsela anche con le ultime uscite dei Deep Purple. Da notare la splendida voce di Eirikur Hauksson che riporta in auge il tono rauco appena accennato, da sempre di casa anche nei fantastici Jethro Tull d'annata. "Table for Two" è un pezzo impressionante, che riesce a fondere l'elaborata leggerezza rocciosa dei Kansas con il suono cosmico di "Alladin Sane" del duca bianco, e lo spettro sofisticato del più recente Bowie si aggira anche in "Touch by an Angel", una ballata virtuosa che rimanda al romanticismo futurista di Nad Sylvan. Ci si abbandona al puro piacere nella lunga "The Edonist", brano conclusivo, complicato e multicolore (come la splendida copertina del cd, cosi raffinata ed intrigante) di circa 23 minuti, carico di ricercati snodi stilistici alla Yes, o alla maniera di Neal Morse con tanto di aperture nel segno di Gillan e compagni, a cui aggiungerei anche, in alcuni tratti, una certa colta aggressività alla ELP, un piccolo gigante sonoro che non deluderà gli amanti del progressive rock, volto a rinvigorire i fasti del passato, una musica progressiva capace, intelligente ma soprattutto esageratamente piena di vita. Lunga vita al Prog Rock! (Bob Stoner)

domenica 13 ottobre 2019

Vixa - Tutto a Posto

#PER CHI AMA: Crossover/Rapcore
Scrivo Vixa ma va letto vipera, sarà fatto e mi adeguo. 'Tutto a Posto' è l'album d'esordio di questo quartetto ferrarese che ammetto non incontrare proprio i miei gusti musicali, ma cercherò di essere quanto mai oggettivo nell'analisi del presente lavoro. Si parte col noise rock introduttivo di "Sbaglio da Me", una song che per almeno il primo minuto mi lascia ben sperare tra ritmiche cibernetiche ed un riffing compatto; quello che temevo era il cantato in italiano e le mie paure si tramutano in dura realtà, difficile da digerire perchè è il classico modo di fare degli artisti italiani che affidano interamente la scena al vocalist (non proprio un maestro nel canto), relegando in secondo piano gli altri strumenti, ma perchè? Molto meglio infatti la seconda parte del brano, quando voce e ritmica vanno a braccetto, anche se la performance vocale di Alen Accorsi lascia un pochino a desiderare. Ancora un buon inizio con "Borderline", tra l'altro il singolo apripista del quartetto, che si qui lancia in una commistione sonora tra crossover, rapcore e un roccioso rock, quasi un mix tra Rage Against the Machine, Faith No More ed IN.SI.DIA, il tutto condito da un colorito utilizzo delle liriche a base di "vaffanculo vari". Decisamente un passo in avanti rispetto all'opener. Con "Immobile", la sensazione, per lo meno iniziale, è di apprestarsi all'ascolto di un brano grunge, in realtà poi è un'alternanza ritmica adombrata a tratti, ancora dalla voce del frontman. E dire che la song si muove piacevolmente su coordinate stilistiche che evocano un che dei Deftones, ma ci sono ancora un po' di cosine da aggiustare, perchè la strada sembrerebbe quella giusta, soprattutto quando la performance vocale si amalgama in modo ottimale con gli altri strumenti. "Veleno (parte 1)" è un massiccio pezzo strumentale che si chiude con una sorta di parodia rap. "Riserva di Calma" è un altro brano che combina rap e rock, che forse poteva anche andare alle selezioni di X-Factor, pur di evitare di cadere tra le mie grinfie e dire che comunque a livello di testi, i Vixa sono anche interessanti (e socialmente attivi). "Veleno (parte 2)" è un brevissimo intermezzo che ci porta a "Illuso", il pezzo più oscuro del lotto soprattutto a metà brano dove c'è un bel rallentamento atmosferico e degli ottimi suoni, tra stoner e space rock, decisamente il mio pezzo preferito e anche quello più convincente, soprattutto per l'uso di voce e keys. "Lavoro di Stomaco" sembra aprire sulle note di uno dei primi pezzi dei Metallica per placarsi immediatamente e affidare lo stage ad Alen in un'evoluzione litfibiana del brano di cui sottolinerei il chorus, graffiante e accattivante quanto basta. A chiudere il disco ecco la nevrotica title track, schizoide nella sua natura ritmica e rapper nel cantato, infine detonante nella sua magnetica conclusione. Un lavoro per quanto mi riguarda interessante, che con qualche aggiustamento in più, potrebbe conquistare anche la fiducia di chi come me, non ama queste sonorità. (Francesco Scarci)

((R)esisto - 2019)
Voto: 67