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martedì 13 marzo 2018

Aikira - Light Cut

#PER CHI AMA: Instrumental Post Metal/Post Rock
Il post rock italico va a gonfie vele: a casa nostra abbiamo leve di caratura ormai internazionale, e penso ai Thank U for Smoking, ai Valerian Swing che si aggiungono a band più borderline quali Klimt 1918 e Sparkle in Grey, giusto per citare qualche gruppo a caso. Vorrei aggiungere un altro nome a quelli appena citati, un nome che pian piano sta venendo fuori, soprattutto dopo aver rilasciato il nuovissimo 'Light Cut'. Sto parlando dei marchigiano/abruzzesi Aikira, nati inizialmente come side project di Fango e di El Kote, rispettivamente chitarra e batteria degli hardcorers Vibratacore, per soddisfare i loro impulsi più onirico-intimisti. E proprio per dar voce al bisogno di dilatare quanto più possibile la loro musica, pur mantenendo in seno una forte dose di aggressività, ecco completarsi la line-up con Andrea alla chitarra e, dopo una serie infinita di avvicendamenti, Lorenzo al basso (ma nel disco suona Giuseppe Pirozzi), per una formazione strumentale dedita ad un post-metal con venature post rock, che si traduce a distanza di quattro anni dal precedente album omonimo, in questo secondo capitolo. L'album si apre con la nervosissima ritmica di "Etera", altalenante nel suo incedere tra ritmiche frenetiche e gelidi fraseggi di chiara estrazione post rock, tra richiami sognanti, tunnel psichedelici e frangenti malinconici che ci conducono alla più roboante "Yonaguni", una song che parte con una serrattissima anima post black che palesa un'irrequietezza di fondo che agita il quartetto. Per fortuna nostra, la furia distruttiva che catalizza l'attenzione nei primi secondi della canzone, lascia posto a suoni che sottolineano ancora una volta l'inquietudine che imperversa nei solchi di questa release, tra suoni discordanti, momenti atmosferici e riverberi che mi consentono di non avvertire l'assenza di un cantato, mostrando pertanto la personalità ben delineata dei nostri. L'incipit oscuro di "Vantablack", unito ad una ritmica angosciante, mi regala attimi di grande fascinazione, dove vorrei sottolineare la performance di basso e batteria su tutto il resto. "Voyager" è un brano meno sperimentale che vanta tuttavia robuste linee di chitarra e atmosfere sagaci. "Elemental 3327" è invece un breve intermezzo che vede la partecipazione di Davide Grotta, responsabile della registrazione del disco, in veste di guest star al pianoforte (lo troveremo anche nella tenebrosa conclusione di "Elemental 06", dove si diletterà col theremin). Con "Drive", l'ambientazione si fa più soffusa, rilassante ma non troppo, perchè l'aria da li a poco, si renderà più pesante e cupa, con suoni che richiamano quei landscape sonori desolati assai cari ai Cult of Luna. I quasi nove minuti catartici di "Something Escapes", oltre ad avere un lungo incipit in bilico tra suoni ipnotici e space rock, vedono una seconda ospitata, ossia la voce sussurrata di Emanuela Valiante, ad aumentare, quasi ce ne fosse bisogno, lo stato di alterazione emozionale generata dai suoni liquidi ed alieni rilasciato dai quattro musicisti. Nel frattempo arrivo ad "Alan", penultima song di un album sempre ricercato nelle sue strutture e melodie, un disco che necessita sicuramente di svariati ascolti prima di poter essere masticato al meglio, in quanto le sperimentazioni soniche unite alle contaminazioni noisy e droniche dell'album, lo rendono un lavoro di classe e grande speranza per far uscire definitivamente la musica italiana dai ristretti confini nazionali. Ultima menzione per il mixing affidato ad Enrico Baraldi (bassista degli Ornaments) presso il Waiting Room Studio di Bologna, a sancire l'eccelsa di quest'ennesimo prodotto made in Italy. (Francesco Scarci)

Martin Nonstatic - Ligand

#PER CHI AMA: Ambient/Elettronica
Martin Nonstatic è un artista sofisticato, ma non lo scopriamo certo oggi, avendo già recensito un paio di suoi album. In tutti i suoi lavori di musica d'ambiente riesce a far esplodere un oceano di emozioni nell'ascoltatore. Emozioni di varia natura che convergono tutte con la voglia di ritagliarsi uno spazio etereo in cui poter sentirsi vivi. Così, i bassi ben tarati e mai invadenti, l'incedere lento della miriade di rumori e ronzii che vagano perenni tra i brani, si fondono a synth vintage e ultramoderni, tra suoni alla Tangerine Dream e un Eno raggelato da correnti di suoni freddi e crepuscolari, tanto elettronici, che ti soffiano in faccia una sospesa e rigenerante armonia futurista, una tecno a rallentatore di origine teutonica che, come lo stupendo artwork, ci proietta in un mondo incantato, invernale, fatto di lenti movimenti, estasi e momenti di velata malinconia. L'ora in cui si srotola il cd sembra infinita e l'album sembra una lunga colonna sonora che ci porterà in un sogno che ci donerà riflessione ma anche l'illusione di essere stati liberi almeno mentalmente durante il suo ascolto. La media delle composizioni è lunga perciò si raccomanda un posto isolato ed intimo, ottimo per viaggiare in macchina di sera, in solitudine a riordinare le idee. "Ligand" è il brano che mi ha colpito di più per la qualità del suono e l'infinità di rumori che ne determinano il ritmo minimale e frastagliato, un brano fantastico anche per l'uso diverso e frantumato dei synth, che per qualche strana alchimia, mi ricorda certa new wave sperimentale dei tempi d'oro. Sempre supportato dalla Ultimae Records (uscito nel novembre del 2017), il nuovo disco di Martin si presenta divinamente, come di consuetudine per la casa francese, ricalcando la tipica filosofia ambient elettronica dal leggero sentore sperimentale, carica di suggestioni cinematiche, musica per umani dal cuore puro che dialogano con il mondo digitale, nel tentativo di immaginare una natura incontaminata che li possa ancora accogliere. Una vera e propria fuga dalla realtà, solo così posso definire "Dendrictic Ice" e l'intera opera, un'estensione dell'infinito. Immancabile il suo legame con l'astrologia/astronomia ("Kepler's Law") e la biochimica con la song che dà il titolo all'album. Un ricercatore sonoro d'altri tempi. Un ascolto consigliato. (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2017)
Voto: 85

https://ultimae.bandcamp.com/album/ligand

Laconic Zero - Sun To Death

#PER CHI AMA: Industrial/Electronoise/8-bit/Djent
“Chi vuole recensire un disco programmato col Commodore 64?”. Ovviamente: io! Premo play ma ho già la bava alla bocca, perché adoro la musica folle e perché sono un nerd che ha vissuto a pieno l’esplosione informatica degli anni ’80. Alcune coordinate per capire i Laconic Zero: ogni singolo bit è pensato, scritto e suonato dal norvegese Trond Jensen — già chitarrista e bassista dei Next Life e dei Mindy Misty — che aveva esordito come Laconic Zero la bellezza di 11 anni, fa con l’applaudito 'Tribeca'. Questo secondo lavoro, 'Sun To Death', è un viaggio mesmerizzante di poco meno di mezz’ora, suddiviso in 11 movimenti che raramente superano i 3 minuti l’uno. Poca roba? Aspettate a dirlo. Ogni brano è un condensato multilivello di follia strumentale come non ne sentivo da parecchio, una supernova di bassi distorti, synth gorgoglianti e un tessuto fittissimo di casse, rullanti, percussioni e beat con quel sapore vintage che solo una programmazione old-school in 8 bit è in grado di dare. I primi 10 secondi della opening “Evoke Heat” sono già una dichiarazione di guerra, con quei blast-beat (o dovremmo dire blast-bit?) spietati e quel 6/8 ripetuto all’infinito tra crescendo e calando. “Gladeflicker” ha il sapore dei Ministry sotto acido, sorretto com’è da un synth giocattolo e un basso gorgogliante di distorsione. Reggetevi forte ai vostri neuroni quando entra l’arpeggiator in “Inborn Eclipse”, perché potrebbero scivolarvi tra le dita. Se la coppia “Infractor” e “Into The Plasma” lasciano respirare tra strings lunghi e ipnosi noise, è solo per prendervi nuovamente a pugni in faccia con la velocissima “Diamond Crash” (ah, se gli Shining di 'Blackjazz' fossero nati negli anni ’80!) o la finale “The Sun To Death”, che sembrano i Nine Inch Nails suonati da Super Mario Bros. Non vi spaventi il solo apparente sapore midi dei suoni: non c’è nulla che sappia di antico o vintage, qui. La mente di Trond Jensen è un vero labirinto di metal modernissimo e industrial death, e questo 'Sun To Death' è un inno alla violenza elettronica suonata con cuore, anima e testa, prima ancora che con super produzioni e tecnologie contemporanee. (Stefano Torregrossa)

(Handmade Records - 2018)
Voto: 80

https://www.facebook.com/laconiczero

domenica 11 marzo 2018

Black Sin - Solitude Éternelle

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Shining, Burzum
I Black Sin sono un quartetto francese, formato da membri di Cult of Erinyes, Imber Luminis e Deluge, che dopo aver rilasciato lo scorso anno questo 'Solitude Éternelle', ha pensato bene di sciogliersi. Ora, non conosco le cause che hanno portato allo split della band, tuttavia posso solo sottolineare ombre e luci della proposta suicidal black dei quattro musicisti transalpini. Il disco si apre con un'intro a base di urla disperate e ritmica caotica che preannuncia l'arrivo di "Lente Descente", una traccia che evidenzia il lineare quanto elementare approccio black dei nostri, nelle cui allegre scorribande, mi sembra di captare una certa influenza punk. La musica dell'act occitano, sebbene la sua primitiva irruenza, ha comunque qualcosa di interessante nelle sue note che evocano un che dei pazzi suicidi Shining (quelli svedesi mi raccomando). Il riffing è quanto meno accattivante anche nelle sue improvvise accelerazioni e frenate, mentre lo screaming arcigno e sconsolato del vocalist, alla fine risulterà estremamente convincente nella sua performance. Più altalenante la terza "Dévastation", in cui le ispirazioni per i nostri sembrano provenire da gente tipo Lifelover e dalle forme più doomish degli Shining. Niente affatto male le linee di chitarra, cosi come i break acustici, da dimenticare invece le ritmiche punkeggianti sul finire della song. Le chitarre burzumiane di "Derniers Instants de Vie", mi riportano indietro di quasi 25 anni quando sulla scena si affacciavano gli album 'Det Som Engang Var' e 'Hvis Lyset Tar Oss'. Ecco direi, fuori tempo massimo e forse proprio in questo risiedono le ombre dei Black Sin che vengono però spazzate via da quelli che sembrano quasi degli assoli (ma non lo sono) che incrementano invece la componente atmosferico-emotiva del disco e che in questa traccia, identificherei in ben due momenti di catalizzazione massima della mia attenzione. Se "K.A.H.R II" suona un po' meno convincente, troppo dritta e scontata, il giochino di chitarre quasi sul finire, sembra risollevarne le sorti, almeno parzialmente. "Cendres" è una mazzata in pieno volto di incandescente musica black: dieci minuti tra serratissime sfuriate black, rallentamenti depressive, bridge armonici e udite udite, addirittura anche la triste melodia di un sax che trasmette il giusto mood autolesionista al brano. Peccato solo che col pezzo successivo, il decadente romanticismo svanisca del tutto e si torni a viaggiare a velocità infernali giusto per dimostrare quanto la band abbia una certa dimesticazza anche su ritmiche tiratissime. Ecco cosa significava quando parlavo di luci ed ombre. I Black Sin se si fossero focalizzati maggiormente sul genere depressive black metal, forse avrebbero reso oltre ogni più rosea aspettativa. In territori esclusivamente black, finiscono nell'infinito calderone delle band dedite alla fiamma nera. Meno male che si ritirano su con la conclusiva title track che ci riporta nei meandri della solitudine e della disperazione, per gli ultimi sei minuti di passione targata Black Sin. Altalenanti. (Francesco Scarci)

(Black Pandemie Productions - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/blacksin88/

Fleet Foxes - Crack-up

#PER CHI AMA: Neofolk/Rock
Le velleità letterarie di Robin Pecknold, recentemente suggellate da una laurea in lettere conseguita presso la occhialuto-hipsterosissima Columbia University, si concretizzano mirabilmente nelle tortuose eppure conturbanti liriche dell'album. Sottomissione e misoginia ("- Naiads, Cassiades"), la insensata iperviolenza urbana di "Cassius" (l'assassinio di Alton Sterlin, avvenuto il 5 luglio del 2016 è ricondotto al complotto di Cassio nei confronti di Giulio Cesare in un modo che non potrà non ricordarvi certi recenti sforzi tecnopop degli Ulver), la coraggiosa riconsiderazione di sé ("I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar", una canzone gioviale, nelle parole dello stesso R-P, ma anche l'allegoria malinconica di Mearcstapa), o dei propri rapporti interpersonali ("Third of May / Ōdaigahara" ma anche la successiva "If You Need to, Keep Time on Me"). Progressivamente scoscesi fino all'inaccessibilità i suoni, dove il folk regredisce a mero substrato, quasi una sorta di pretesto di lusso per dipingere impressioni sonore di inoppugnabile e distante alterità. Pensate ai dettagli: ai grappoli di note vagamente percepibili in "Kept Woman", alle digressioni casualmente progressive di "Mearcstapa", alle tinte melodrammatiche di "Third of May / Ōdaigahara", a certe improvvise (dis)orchestrazioni new-björkesi (la title track e nuovamente la “gioviale” opening track "I.A.A.T.I.N. / A.S. / T.C."). Alla distanza interposta tra sé e i Fleet Foxes che conoscevate, intenzionalmente oggettivata in canzoni come "Fool's Errand". La medesima sensazione che provaste ascoltando i Talk Talk di 'Spirit of Eden' dopo quelli di 'The Colour of Spring', i Pink Floyd di 'The Final Cut' dopo quelli di 'The Wall', o ancora i Radiohead di 'Kid A' dopo quelli di 'OK Computer'. Ehi, che diamine vi succede? Vi sentite bene? (Alberto Calorosi)

(Nonesuch Records - 2017)
Voto: 75

http://fleetfoxes.co/crack-up

sabato 10 marzo 2018

Blueriver – Waiting for the Sunshine

#PER CHI AMA: Country Rock, Buffalo Tom
La Music for People alimenta il braciere del rock promuovendo (è uscito nel settembre 2017) il primo EP ufficiale di questa band proveniente dalla provincia di Lecco, pubblicato in precedenza dal gruppo autoprodotto nel 2015. Le quattro cavalcate elettriche scorrono veloci, aggraziate da una verve brillante e una buona dose di tecnica musicale, il suono è in carreggiata con band di grossa rilevanza, tra Buffalo Tom e Grant Lee Buffalo e devo ammettere che l'iniziale "You and Me" gioca la sua carta emozionale nel migliore dei modi portando alla mente un po' di quel sogno americano pieno di libertà e strade polverose da macinare. La title track, "Waiting for the Sunshine", porta con sè ottime linee vocali a stelle e a strisce, dove si sente tutto l'allinearsi dei Blueriver con i mitici Buffalo Tom e se non fosse per una registrazione assai buona, ma non troppo per gli standard yankee e anche non così calda come dovrebbe, in più momenti in quest'album, si sarebbe potuto gridare al miracolo. Ottima l'interpretazione vocale e i ricami chitarristici, che aprono le composizioni con un suono cristallino e aggressivo al tempo stesso, buone le scelte ritmiche, la varietà delle canzoni che pur rimanendo saldamente ancorate ad un genere molto classico, dall'impianto tipico del cantautorato rock, si muovono libere e per certi aspetti anche originali. Ripeto ancora che con una scaldata ulteriore al sound in direzione Drive-By Truckers sarebbe stato perfetto. Buon debutto ufficiale, attendiamo notizie per un full length con i fiocchi! (Bob Stoner)

(Music for People/GoDown Records - 2017)
Voto: 70

https://blueriverockband.bandcamp.com/releases

giovedì 8 marzo 2018

Death Rattle - Volition

#FOR FANS OF: Groove Death/Thrash, Lamb of God
Death Rattle has returned after nearly six years with a fresh full-length album of very worthy groove and metalcore. Continuing down a well-trodden path, the band seems set for success so long as it simply follows each curve to a tee, however Death Rattle's sure-footedness ensures a smooth example of modern groove metal while meeting each crag and rock in this second outing with a finesse that shows a few fresh tricks hidden up the band's sleeve. Newly fronted by Trey Holton of the hardcore band 12 Step Program, and forging ahead with a fresh confidence, the northern New England outfit has finally received the studio it deserves in the Brick Hithouse and has done it the honor of giving an incredible performance worthy of its perfect production.

Death Rattle proudly sports its primary influence like ink tattooed under its sleeve, an armband encircling a bicep that devotedly honors a modern metalcore institution. Many moments in this album, including the opening lyric in “Love and War”, sound exactly like Lamb of God while retaining enough signature energy and personality as to remain a proprietary product. Some segments of songs are so astonishingly similar in production and attitude that they have me wondering whether this band has perfected the cloning process and is hiding from the world court in a low profile metal band. There must be some sort of atrocity going on here because a beheaded chicken in the name of voodoo can't be the only explanation for such on-the-ball resemblance. The addition of Trey Holton on vocals greatly enhances the delivery of Death Rattle's early songs, however the lyrics display apparent differences. Unlike the past lineup with Donnie Lariviere, this new vocalist does a great job of getting the lyrics out through a range of gruff yells and long drawn out screams, but the content of some of these new lyrics is more vague and distant from reality than the songs comprising the reprisal segment of 'Volition'. Where there is a direct and obvious object of one's anger to confront in songs like “Snake in the Grass” or “Sociopath”, the lyrics to a song like “Adrenalize” focus more on an internal boiling over as rage precludes destruction. This is best displayed in “Internal Determination” as the song describes how “you'll see the past of a psychopath” while invoking metaphysical manifestations of mayhem.

There is a marked improvement in quality from Death Rattle's first foray. The proficiency in the guitar riffing and the cohesion of the ensemble between the songs from the previous album bring this new iteration in 'Volition' into full bloom. This band would be a good Lamb of God clone on a bad day but such fresh and original arrangements in songs like “Sentenced to Hell”, “Adrenalize”, and “From Blood to Black” show that Death Rattle is in top form with more than a cursory sense of its direction. Meaty breakdowns between headbanging runs, chunky guitars full of reverb like blenders overloaded by intermittent power surges, and grooves that drive with every needle riding a red line make this album worthy of any enthusiasm it receives. Ryan VanderWolk and Jimmy Cossette round out their lead and rhythm guitars incredibly well, creating an ideal interplay between industrial machinery sticking to its protocol and sentience screaming out for recognition. The intricacies of guitar in “Adrenalize” accelerate and twist around Chris Morton's deceptively steady drumming rhythm through hypnotic churning that grows like barbed vines deliberately digging into flesh, bleeding its prey while weaving a bed of thorns that tears into the meat of an immobilized deer. This glacial but cutting pace denotes waves of aggression in fits and bursts, perpetuating the motion of a fiery and intricate mechanism, interconnecting each sharp tooth of its clockwork gears with laser precision.

With a thrashing start, “Sentenced To Hell” charges its way into a fantastic breakdown, a melee that runs right into “Blood of the Scribe” territory with tinkling cymbals joined by punchy bass kicks, crashing this riff into roaring drum fills that pummel a heart into submission in endurance of an eternal sentence in headbanging perdition. An orgasmic bluesy solo rounds out the album in “From Blood to Black” that persists through a dozen rounds of the drum rhythm. These moments of soloing ecstasy are exactly what anyone would want to experience live and bring a final punishing end to this album as the guitars wail in pleasure-pain throughout this drawn out climax. Improving on the template established in the first album, 'Man's Ruin', Death Rattle has made the discovery of more intricate flowing guitar grooves that maintain an aggressive tone throughout each song a paramount concentration to its groundwork while venturing farther from this foundation with finesse.

Rerecording the singles “Snake in the Grass”, “Sociopath”, “Order Within Chaos”, and “Doomsday” from 'Man's Ruin', as well as reworking “Vicious Cycle” into the new song “Unfinished Business”, displays the leaps and bounds that this band has made in tightening up its delivery and crystallizing its intonation. The run after the solo in “Sociopath” sounds spectacular and proves that this recording truly achieves the aim that the first album attempted but never truly reached. The dropping strings, riding the waves churned by Kevin Adams' bass, throughout the elaborate solo section sounds like a seventh string strung to stretch a neck and beautifully rejoins the run with a pummeling punch, as though dozens of victims of a diabolical overlord are beating the hanging tyrant like a piñata.

“Unfinished Business” takes another crack at the sound started by “Vicious Cycle” on 'Man's Ruin'. The song is streamlined with more focus on the leading riff before swirling, in the second verse, a blending melody in New England metalcore style and beating it furiously with percussion. While I would have preferred to have heard the drum interlude reprised to open the song, it seems that the percussion has been reigned in a bit tighter than entirely necessary as Morin's drumming has become far sharper and well-timed but is also lacking in inventiveness. Rather than cascade each cymbal clink throughout a fill to drive the tone of a song like “Unfinished Business” into the deepest pit, the tripling on the double bass helps to up the ante but the top of the percussion stays too uniform to truly grab you and shake things up. Meanwhile, the guitars slope down into a murky marsh of melody in the chorus that magnificently satisfies a metalcore mania. Though all the cylinders may not be firing with fury, there is still plenty of roar in this engine to top out at breakneck speed.

As much as Death Rattle will inevitably end up compared to Lamb of God due to the Virginia stalwart's heavy inspiration and similarity, this newcomer shows its ability to thrive as it strays from the derivative. A template formed on the aggression of 'As the Palaces Burn' combined with the crisp refinement of 'Ashes of the Wake' makes Death Rattle achieve its production aims throughout 'Volition'. However, it is in approaching its early offerings with fresh ideas where the band has revitalized its previous pieces. The newest songs on this album greatly expand the aims and scope of the band's ambition, riding its own waves of sound off of coattails and into its own atmospheric layer. Considering the new normal presented in 'Volition', Death Rattle has a bright future ahead of it. While the band is not out to replace any established brand or define a new cultural direction, the band shows itself as a confident and competent outfit with plenty of personality to boot. (Five_Nails)

Decemberance - The Demo Years (1998-2001)

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi The Gathering, primi Anathema
Considerate subito una cosa: avevo definito l'ultimo album della band ellenica una prova di sopravvivenza, cosa aspettarsi dunque da un lavoro che recupera i primi due demo della band, datati 1998 e 2001, che propongono una registrazione alquanto casalinga e che esordiscono con la marcia funebre? Francamente, io temerei il peggio. "Dying" è il primo pezzo, estratto dal demo d'esordio 'Decemberance', una song che mantiene per quasi tutta la sua durata, la melodia di fondo della marcia funebre appunto e su cui poggia il cantato sussurrato di Yiannis Fillipaios. Si va avanti con "When Darkness...", dieci minuti di suoni che lasciano intuire quello che il combo dell'Attica avrebbe concepito e migliorato nel corso degli anni, ossia un death doom robusto, sorretto da delle tastiere forse un po' troppo elementari, ma che mi hanno ricordato l'album d'esordio dei The Gathering, quelli estremi, non le derive pop rock dei giorni nostri. Comunque già s'intravedono quelle che saranno le peculiarità dell'act greco, con quei suoni violenti ed opprimenti, smorzati da un break acustico che scomoda pesanti paragoni con "Remember Tomorrow" degli Iron Maiden, mentre la voce del frontman è qui in versione growl, cosi come nella successiva title track, lenta ma venata di un alone orrorifico, con tanto di lamentosa voce femminile in sottofondo. A chiudere la prima parte del cd ci pensa la strumentale ed acustica "Sorrow". Vado ad affrontare il demo 'Just a Blackclad...' e prima cosa che posso notare è una registrazione leggermente più pulita ed un approccio musicale forse più feroce ma al contempo più votato alle tenebre, con accenni agli Anathema di 'Serenades' che si fanno più importanti. Il disco è un bel macigno da assorbire, non ne avevo dubbi; meno male che torna un break semi-acustico dal sapore barocco ad allentare una tensione che, si stava facendo via via sempre più pesante da tollerare. Certo l'incedere del disco è mastodontico ed ecco che mi sovviene un altro paragone col passato, quello con l'EP 'Preach Eternal Gospels' degli olandesi Phlebotomized. Ascoltare per credere ed apprezzare la monumentalità di ritmiche iper-distorte, che viaggiano in profondità, la cui pachidermia viene alleggerita dal suono di archi. "Numquam" è un Everest di 21 minuti da scalare tutti d'un fiato, e chi si ferma è decisamente perduto. E allora via ad affrontare l'ennesima inerpicata tra sonorità a rallentatore, delicati arpeggi di violino, gorgheggi d'oltretomba, sprazzi atmosferici, raffinati squarci acustici che evidenziano già un certo talento nelle corde di un ensemble che non vuole comunque rinunciare nemmeno alle classiche galoppate brutal death. Devastato, giungo all'ultima "...Of Decay and Sadness", in cui è il suono del flauto ad aprire le danze, prima di lanciarsi in una serie di divagazioni acustiche con tanto di strumenti ad arco, che per oltre sette minuti deliziano i padiglioni auricolari con della musica classica, che precede l'ultima breve fuga death metal di quest'interminabile ma affascinante raccolta. Ora che ho compreso da dove i Decemberance siano nati, tutto mi è molto più chiaro. (Francesco Scarci)

(Endless Winter/GS Productions - 2018)
Voto: 70

lunedì 5 marzo 2018

Aorlhac - L’Esprit des Vents

#PER CHI AMA: Epic Black, Windir, Einherjer
Il monicker Aorlhac (mi raccomando si pronuncia "our-yuck") sta per Aurillac, ossia la citta natale dalla quale proviene la band, espresso nel linguaggio occitano. 'L’Esprit des Vents' è il terzo capitolo di una trilogia iniziata nel 2007 con 'La Croisée des Vents' e seguita da 'La Cité des Vents' nel 2010, volta a narrare storie e leggende medievali dell'Occitania, ossia quella parte di territorio che comprende il sud della Francia, ma anche alcune aree dei Pirenei spagnoli e alcune valli piemontesi. Tutto questo attraverso dieci brani che, partendo dalla tellurica "Aldérica", si concluderà con la strumentale "L'Esprit des Vents", in un cammino musicale votato ad un black thrash epico e belligerante. Pochi infatti i momenti di quiete, il disco è frenetico e spavaldo, fiero portavoce delle proprie origini ancestrali. Durante l'ascolto dell'album, le citazioni per questa o quell'altra band però si sprecano, mostrando una certa dose di influenze provenienti dal Nord Europa, che si miscelano con l'heavy metal britannico (l'assolo classico de "La Révolte des Tuchins" è a dir poco spettacolare) e la scelta di cantare in francese, per un risultato alla fine dei conti, comunque più che discreto. Non siamo di fronte a nulla di estremamente originale sia chiaro, il black metal degli Aorlhac è onesto, dotato di buone melodie (fischiettabile il motivetto della folkish "Infâme Saurimonde") e di una buona preparazione tecnica, con la prova del batterista sicuramente sugli scudi. Echi di Einherjer e Windir rieccheggiano nelle linee di chitarra vichinghe di "Ode à la Croix Cléchée", su cui si poggia il cantato abrasivo ma abbastanza originale di Spellbound. "Mandrin, l'Enfant Perdu" si muove tra sonorità black e thrash, chiamando in causa anche i cechi Master's Hammer oltre ai norvegesi Taake e verso la fine, addirittura emerge forte un riconoscibilissimo richiamo agli Iron Maiden. Tra le mie song favorite citerei sicuramente "La Procession des Trépassés", intensa a livello ritmico quanto dotata di sagaci melodie e di un forte tocco malinconico; ultima citazione infine per "L'Ora es Venguda" dove addirittura sento un che dei Primordial. In conclusione, 'L’Esprit des Vents' è un disco che sicuramente farà la gioia di tutti gli amanti di sonorità black pagane ma che, almeno personalmente, non mi ha appagato in modo totale. (Francesco Scarci)

domenica 4 marzo 2018

Interview with Arallu


Follow this link to know much more about the proposal by Arallu, an Israeli band mixing black metal, thrash and Arabian/Middle Eastern sounds. The interview with them allowas also to understand better the Middle East tensions and their day by day situation:

Premarone - Das Volk Der Freiheit

#PER CHI AMA: Psych/Doom sperimentale, Nibiru
Inquietanti, da brivido, deliranti. Tornano i piemontesi Premarone con un secondo lavoro, 'Das Volk Der Freiheit', dalle forti tinte psichedeliche oltrechè psicotiche. Il quartetto di Alessandria, forte del nuovo deal con la russa Endless Winter, rilascia un mastodontico album di 60 minuti, coperti per buona parte, da sole due song. Si viene risucchiati immediatamente dal vortice lisergico dell'intro, che ci introduce alle cupe atmosfere di "Parte I - D.V.", un colosso di quasi 29 minuti di durata, in cui il doom claustrofobico dei nostri si fonde con lo psych, lasciando alle chitarre quel quid che evidenzia inevitabili reminiscenze stoner. Liquidare una traccia di mezz'ora in due sole righe sarebbe alquanto riduttivo, ecco perchè posso aggiungere che dopo sette minuti di suoni sfiancanti ed ipnotici, i quattro folli si lanciano in una serratissima ritmica black, che dopo qualche secondo, lascia posto a delle voci che richiamano la storia politica italiana. Questo perché il disco è in realtà un concept che propone una sorta di analisi personale dell'ultimo ventennio della storia politico-sociale dell'Italia: non sono solo le voci di politici (sempre all'insegna della par-condicio) quindi a palesarsi nel corso del flusso angoscioso di un brano, potente sia sotto il profilo musicale che vocale, ma anche pubblicità delle reti Mediaset con rievocazioni al Grande Fratello o ad altri programmi che arrivano dalle reti di Piersilvio. Dopodiché, spazio al delirio assoluto, tra kraut-rock teutonico, suoni progressivi che arrivano direttamente dai nostri anni '70, ma soprattutto tanta improvvisazione, il che significa originalità a profusione che non posso far altro che apprezzare. Certo, bisogna affacciarsi a questo disco con una mente assai aperta se non si vuole soccombere agli stralunati deliri musicali dei Premarone, che ci infilano nel loro poco confortevole shakeratore, buttandoci dentro ancora qualche elemento che scopriremo poco più in là, mentre le urla inviperite di Fra eccheggiano nel mio stereo, rievocandomi peraltro il cantato di una band storica del panorama italiano, i CCCP, quanto tempo. Stordito da brutali suoni schizofrenici, vecchie registrazioni vocali, rallentamenti abissali, synth che ci riportano ad un'altra epoca, mi accingo finalmente ad affrontare l'intermezzo ambient-drone di "Interludio - Interferenze", che con un titolo cosi non può far altro che alterare lo stato già di per sè alterato, del mio cervello. E allora, mentre scorrono suoni/rumori dal vago sapore casalingo, vi posso svelare la ragione del titolo in tedesco: 'Das Volk Der Freiheit' vuole infatti evocare lo spettro di un regime totalitario (andatevelo a tradurre su Google translator e capirete). Andiamo avanti con l'esplorazione degli ultimi venti minuti affidati a "Parte II - D.F.", una traccia la cui matrice ritmica ha forti sentori sludge/doom su cui si agitano poi le narrazioni di Fra, in una song apparentemente più stabile e lineare della precedente, ma che comunque ha ancora modo di sorprendere con i suoi (mal)umori, le sue nevrosi e gli abbattimenti, in una digressione musicale che sembra voler evidenziare quel decadimento imperante nel nostro amato paese. Alla fine, 'Das Volk Der Freiheit' è un signor album, sicuramente difficile da approcciare, ma che certamente sarà in grado di offrirvi un interessante spaccato dell'ormai deprimente società italica, dimostrando allo stesso tempo che almeno a livello musicale, l'Italia ha diritto di sedersi con i più potenti stati del mondo. (Francesco Scarci)

sabato 3 marzo 2018

Senzabenza - Pop From Hell

#PER CHI AMA: Punk Rock
Dalla old school ultralondinese con guida a destra alla Madness ("London Town", eccheccaz, "Ten Day Holiday") a quella cazzon-revival-americana stile Social Distortion ("A Street Car Named Desire") o Ramones ("Someone" o "She is Just a Runaway"); dalla prima dollarosissima reviviscenza rock-oriented early-90 a trazione Green Day (quasi ovunque, per esempio in "Never Really Hurts") e NOFX ("Father Jack") per raggiungere certe soleggiate pennellate sixty-surf ("Someone") oppure inopinatamente psych-beat tardosessanta ("Mrs. Lucy Simmons" sta indubbiamente svolazzando in "The Sky With Diamonds"). Sedici nitide policromie happy-punk provenienti dall'affollato inferno del pop per conficcarsi direttamente nei vostri padigilioni, a chiara dimostrazione che la punk-band italiana apprezzata da Joey Ramone, giunta al ventottesimo anno di carriera e al quindicesimo anno di astinenza dallo studio di registrazione, paradossalmente, ancora non ha terminato la benza. (Alberto Calorosi)

Mothership - High Strangeness

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Black Sabbath
Il terzo album dei cosmic-sassaioli Mothersip, provenienti dalla medesima città di J.R. Hewing e Meat Loaf, esordisce con uno strumentale, "High Strangeness", se possibile persino più psico-cosmico del già largamente psico-cosmico "Celestial Prophet" collocato in apertura del precedente 'Mothership II' (avrete senz'altro ascoltato 'Embryo' dei Pink Floyd almeno una volta nella vita). Ma a differenza del precessore, più monolitico, qui lo stoner è una sorta di substrato sedimentario ove collocare, di volta in volta, chitarrismi eminentemente secondozeppeliniani (la quasi citazionistica chiusura di "Midnight Express" e "Wise Man") o primosabbatiani (i riverberi infernali emanati dalla conclusiva, eccellente, "Speed Dealer") oppure polverose aspirazioni nu-grunge (la deboluccia "Crown of Lies"). Quello che sorprende è che si tratta proprio dei momenti maggiormente riusciti, a (ulteriore) testimonianza di un futuro auspicabile distaccamento dal genere di riferimento oppure, vedete voi, del fatto che chi scrive nutre una conclamata antipatia nei confronti delle ortodossie musicali in generale e dell'ortodossia stoner in particolare. (Alberto Calorosi)

Abigor - Höllenzwang (Chronicles of Perdition)

#FOR FANS OF: Black Metal
For an Austrian black metal band that has been around since the early '90s Abigor's only outstanding aspect is in its failure to impress with this 2018 offering, released as soon as possible into a new year to garner some credence before this band's betters begin breaking solar silences. 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)' is an album that aims to capture the chaos of a hellacious descent and torture the listener with an avant-garde style that supplants harmony with horror to diverge from meditation with exhaustive apocalyptic exercises. Instead, and maybe in spite of such an ambition, Abigor accomplishes little more than a parody of itself, as though tethered so tightly to cliched notions of evil and scary ideas that the only way it can seem different from a thousandth viewing of The Exorcist is to provide utterly unlistenable music as introductions to inane horror movie interludes.

That isn't to say that there isn't anything redeemable in 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)'. The regal and theatrical synth that closes a series of unusual arrangements in “All Hail Darkness and Evil” introduces an offering that initially intrigues while leaving listeners wondering just how such chaos can be sustained by presenting such an intimidating mix buffered by such truly off putting aspects. A cursory glance at the shrieking and stumbling leads as they are trodden upon by a litany of drum changes does pique some initial curiosity. However, that is only until moments of clean singing and choral outpouring of the song's namesake call out from the winds of controlled chaos crashing into cliffs of cringe, as though the lyrics are being yelled into an oscillating fan as the guitars clamor up blood soaked walls with tormented and grotesque limb movements, their jagged joints having been bent, broken, and repurposed in opposing directions. The album does well to focus on the agony of malformation while drastically abusing the register but finds itself stuck in the most unsophisticated and sophomoric senses of the sentiment that it renders its bewilderment moot to its own emasculated execution.

The weirdness doesn't stop there as “Sword of Silence” awkwardly runs up, down, and around its register like the little feet of spectral children haunting the staircase where their necks were broken. The absurd vocal delivery boots this clumsy song as far from evil territory as its kick can muster and instead jams its big toe into the anus of parody. The guitars attempt to corrupt and distort the flow of a song like “The Duelists” or “Flash of the Blade” with a delivery that inverts any and all chivalric concepts to dishonor past regal Iron Maiden bouts, yet its realization merely comes off as a goof on black metal so easily able to fit into a Spinal Tap sequel's montage as the aging band attempts to stay relevant by hopping from style to style in search of a following. Just because three separate songs can be played at once, it doesn't mean that they combine amicably or even hint at the fruits of jazz. The avant-garde treble movements in this album seem like an excuse to feign intellect while having no prescribed direction before jumping into wholly unsatisfying runs, but at least the rhythm tries to pump some adrenaline despite its dilution. 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)' is made even more comedic by the disharmony of “Black Death Sathanas- Our Lord's Arrival” and the groans that accompany it and “The Cold Breath of Satan” into what sounds like a harem full of Fergie replicants all singing “The Star Spangled Banner” while reenacting The Exorcist by masturbating with golden eagle flag toppers in order to shock Dani Filth out of an opera house. By the end of “The Cold Breath of Satan” there is a breakdown where the guitars create a ghastly and intriguing curl that creeps down the spine, finally achieving the sort of eminent evil that draws out images of horror rather than residing only in parody. Sadly it is too little too late after enduring such unpalatable mechanics, made even less enticing by this meandering maelstrom maiming its majesty.

Unfortunately, the redemption found in achieving maleficent notation is in sparse supply as its most apparent instance appears in “Christ's Descent into Hell” where the ensemble careens into the depths with a frolicking tumble, as though chasing a wheel of cheese into a cauldron of shaved steak. Idiotic souls are left screaming as their mouths melt from the delicious lava in spite of knowing exactly what luncheon grotesquerie they were lunging into. An opening run in “None Before Him” provides paltry satisfaction before the guitars are allowed to run riot and the ensemble embraces the boredom brought by Dimmu Borgir. As much as Abigor promises the unusual and pads it with a slight bit of interesting, 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)' is an album that tries too hard to fail laterally. This is an album that prefers to crash and burn so terribly that Don McLean may noodle through a song about it, that Tommy Lee would love to neglect it at a pool party, and that has strung itself up by its own umbilical cord rather than experience the pain of seeing its own misshapen visage burned by the light of day. This is an album that surely did not make it far past the drawing board and somehow is burning itself into my ears, like ice picks tipped with sulfuric acid, just to make way for thoughts as banal as this album's ideas. As hard as this band attempts to be ugly, it simply sounds crass, phony, and annoying. As hard as this band tries to be avant-garde, it merely comes across as unlistenable dreck, but at least it's not as bad as Chepang, Nic, Mutilated Messiah, or many of the other unutterable failures that populate a realm hell-bent on reveling in mediocrity in order to feign depth in its pathetic poetry. This album needs to be heard like I need another höllen my zwang. (Five_Nails)

giovedì 1 marzo 2018

Blackfield - Blackfield V

#PER CHI AMA: Progressive Rock
Distensivi (il singolo "Family Man" et molto al.) o corrucciati ("How Was Your Ride?" et poco al.) poppettini idroponici monocultivar seminati da Tel Aviv Geffen, arati a nido di porcospino da Steven King Wilson e incellofanati da Alan Prostatite Parsons, che vanno a costituire l'impronta di dinosauro di quest'album e, più in generale, dell'intera seconda reincarnazione Blackfield (da 'Welcome to My DNA' a questo 'Blackfield V' compresi: la ampiamente annunciata e pubblicizzata rinascita della partnership non è altro che una mozzarella di bufala). Torpidi lentoni 100% Blackfield-iani ("Sorrys", "October" et tantissimi al.), e qualche timidissima concessione progressive, cfr. l'ammorbidente in 7/8 erogato in "We'll Never Be Apart", oppure l'architettura traballante tardo(ne)-Yes di "Life is an Ocean", unica composizione firmata da entrambi gli spaventapasseri del Campo Nero. Ovunque, un registro narrativo (eccessivamente) patinato e trattenuto, nei testi (ascoltate il modo tristerello in cui A-G canticchia "my happiness" in "October") e nei contenuti sonori (cfr. "Lately", la canzone più tardo(ne)-Parsoniana dell'intero album) e, ahimè una diffusa, fragorosa mancanza di ispirazione. (Alberto Calorosi)

lunedì 26 febbraio 2018

The Pit Tips

Felix Sale

Rapture - Paroxysm of Hatred
Exalter - Persecution Automated
Exitus - Hell's Manifest

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Francesco Scarci

Deadspace - The Liquid Sky
Bereft of Light - Hoinar
Rosetta - Utopioid

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Five_Nails

Death Rattle - Volition
Plini - Sweet Nothings EP
Anodyne Mynd - Event Horizon

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Alberto Calorosi

Volwo - Dieci Viaggi Veloci
The Shadow Lizzards - The Shadow Lizzards
Tintinnabula - Mamacita

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Michele Montanari

Red Sun - The Wind, the Waves, the Clouds
Fatso Jetson/Herba Mate - Early Shapes 

Black Elephant - Bifolchi Inside

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Matteo Baldi

Radiohead – Pablo Honey
Soap & Skin – Narrow
Rome – Hall of Thatch
 

Zenden San - Daily Garbage

#PER CHI AMA: Funk/Noise/Math
'Daily Garbage', spazzatura quotidiana, un nome alquanto azzeccato per un disco come quello degli Zenden San edito per la Karma Conspiracy. Dico azzeccato perché si sente chiaramente che la musica è stata scritta per sfogo, per cercare di espiare la noia, l’assillo e il voltastomaco che la vita di ogni giorno sfacciatamente ci lancia addosso. Gli Zenden San sono come dei samurai del mondo antico e combattono a colpi di ritmiche sempre più strane e ricercate contro l’omologazione e l’appiattimento. Difficile infatti ricondurre le influenze del power duo ad un solo genere, ci sento noise, funk, new wave, math ma sempre resi con impeccabile attitudine al groove e alle metriche improbabili. Mi vengono in mente a volte i Melvins per alcune soluzioni ritmiche, a volte gli Incubus o i Rage Against the Machine per la timbrica e la complessità delle linee di basso, altre volte ancora la sezione ritmica di James Brown strafatta di metanfetamine. L’ascolto tuttavia non è semplice, 'Daily Garbage' è un disco che può apprezzare di più chi di musica ne ascolta molta ed è stufo di sentire le solite soluzioni e i soliti arrangiamenti. Ponendosi nei panni di un neofita del genere invece, la sensazione sarebbe sicuramente di sgomento e smarrimento, che in ogni caso, se si è coraggiosi abbastanza, non è male ogni tanto provare. Il disco inizia con "Bang!", nome alquanto appropriato per un pezzo che colpisce come un mitragliatore e lascia l’ascoltatore mezzo stordito dalle continue pause e cambi di ritmica. Il metodo di composizione degli Zenden San è implacabile, vicinissimo all’hardcore per la concentrazione di parti in un minutaggio veramente esiguo, il che rende il peso specifico delle canzoni così alto da superare quello dell’uranio. Uno dei miei pezzi preferiti è "Industrial Zone", una cavalcata impossibile che attraversa nel suo inarrestabile incedere mille e uno ambienti, tutti radioattivi, malati e altamente tossici. La sensazione alla fine del pezzo è quella di essere passati in lavatrice e, come i panni sporchi, esserne usciti sbattuti ma puliti. In fondo, questa sensazione si può applicare all’intero disco, si tratta un’opera di purificazione attraverso l’esplorazione dei più malati territori del ritmo e l’espiazione della totale insensatezza e monotonia della quotidianità. (Matteo Baldi)

(Karma Conspiracy Records - 2017)
Voto: 75

https://zendensan.bandcamp.com/releases

domenica 25 febbraio 2018

Térébenthine - Visions

#PER CHI AMA: Post Rock, Mogway
Circolarmente ossessive come una sorta di malta sonora all'interno di una betoniera, le visioni oniriche dei francesi Acquaragia si concretizzano in un tumultuoso magma che scende inesorabile dalle pendici del suono inglobando suggestioni consolidate (Mogwai, Don Caballero), incapace per sua stessa natura di produrre alcunché, se non un'uniforme distesa di suono ribollente ("Au Nom du Paère" e "Poupée Charette"). Costituisce notabile eccezione il saliscendi psych raccontato in "Mer Noire" esordiente da desertiche sensazioni early-floydiana per svilupparsi (egregiamente) nei tre stati della materia: prima liquido, poi solido e infine gassoso, cui fa da contrappeso la furia sublimante solido/ gas/solido espressa più avanti nella robusta "Goutte d'Eau". Analogamente, in "Un Jour Encore", la materia pulsa orizzontalmente, aggredita dal diluente, in un'interminabile successione di ipotetiche rarefazioni e condensazioni sonore. L'omaggio a Jackson Martinez, attaccante tra gli altri, di Porto e Atletico Madrid, ammiccherebbe ai Mogwai di 'Zidane, un Portrait du XXIe Siècle'? Un album complessivamente materico, proprio come si conviene per il genere a cui si riferisce, più digressivo che aggressivo e, in verità, affatto eccellente per ispirazione o per produzione. (Alberto Calorosi)

(Atypeek Music/Poutrage Records - 2017)
Voto: 65

https://terebenthine.bandcamp.com/album/visions

sabato 24 febbraio 2018

Darius - Clôture

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale, Bossk, Pelican
Torna la Czar of Crickets Productions con un'uscita nuova di zecca, come sempre "made in Switzerland". I Darius, che già abbiamo avuto modo di conoscere col loro debut album 'Grain', tornano con un EP di quattro pezzi devoti ad uno strumentale mix tra sonorità in bilico tra post metal e post rock. "Glaucal" ha l'onere di aprire le danze, con la sua flebile intro che assai presto farà posto alla robustezza delle chitarra del duo formato da Yannick e Sylvain, e poi ad una serie di cambi ambientali. È un po' come se passassimo da una stanza estremamente illuminata ad una con delle luci decisamente più soffuse e allo stesso modo, i cinque ragazzi di Bulle, passano da momenti più pesanti ad altri più delicati, con un risultato anche alquanto soddisfacente, peccato solo che manchi una componente vocale ad alleggerire una proposta forse un po' troppo monolitica sin dall'inizio. Si perché poi le cose, non cambiano granché con "Charlotte" e le seguenti "Pipistolet" e "Trace": si confermano delle introduzioni ai brani a base di chitarre acustiche e suoni da penombra, a cui si susseguono riffoni pachidermici e leggiadri momenti di quiete. In "Charlotte" ad esempio, il preambolo che porta al dirompente lavoro ritmico, si dilata in accordi sognanti un po' ripetitivi, che soddisfano, ma non so fino a che punto, l'ascoltatore. Questo perché, pur essendo le melodie buone, la produzione bombastica e le escursioni in territori ambient azzeccatissimi, il lavoro suona nelle mie orecchie come incompiuto, manca sempre quel qualcosa in grado di guidarmi nell'ascolto, nel trascinarmi in slanci emotivi, come solo una voce sa fare. Scusate se insisto, avete tutto il diritto di dirmi che ci sono band che hanno basato il loro successo solo ed esclusivamente sui loro suoni anziché su di una voce, ma io posso anche rispondervi che forse quelli sono dei fenomeni, mentre ai Darius manca ancora quel quid che mi induca a considerarli tali e quel qualcosa nella loro musica capace di condurmi piacevolmente in un porto sicuro. La band, seguendo le orme dei Pelican, dei Bossk o dei Russian Circle, alla fine risulta troppo aggressiva per i miei gusti per proporre un simile sound senza l'apporto di un vocalist, anche se l'ultima "Trace" sciorina diversi minuti di sonorità eteree prima di decollare. Per quanto strumentalmente bravi, i Darius hanno larghissimi margini di crescita, che io sfrutterei nel migliore dei modi, per staccarmi da una scena che vedo in inesorabile declino. (Francesco Scarci)

(Czar of Crickets - 2018)
Voto: 65

Talv - Entering a Timeless Winter

#FOR FANS OF: Depressive Black, Burzum
Talv is an Italian one-man project created back in 2012. Andrea is the sole musician behind this band coming from Milano. The project was previously created with a different name, Trees in the Fog, but he rapidly decided to change it for a much shorter name. Andrea´s purpose was to play black metal with a raw and discordant touch, but keepin always with an atmospheric approach. I am not very familiar with his previous stuff, but there is no doubt that dissonance played a main role on his early works. The vocals, for example, were recorded with several strange effects, though aesthetically they had a clear approach to what we usually can find in several DSBM bands.

Anyway, this third album starts a new era for Talv according to what Andrea says. Has Talv changed that much? Only in some aspects. The album itself is not aesthetically so different in comparison to the previous releases, the songs have again a mainly slow and repetitive tempo and they are quite long. “Dreaming a Funeral in Another Life” is the album opener and it lasts almost ten minutes. Its slow and repetitive tempo is something you will find in the whole album, and its purpose is clearly to create a hypnotic atmosphere. The other three tracks strictly follow the same pattern and the only difference can be found in the fifth song, a cover from the amazing German band Coldworld. This is a purely ambient track which serves as a nice and calm ending for the album. 

The main difference which makes 'Entering a Timeless Winter' a different beast from Talv´s previous efforts, is the production. This new work has a quite much lowered sound, with a quite raw yet atmospheric production. I would say that is the classic low-fi production we can find on bands which play DSBM with an intense atmospheric touch. I am not a great fan of this production, but I must admit that I prefer it over the more dissonant and noisy sound of the previous cds. The vocals sound indeed quite different as this production makes them sound less chaotic, and a little bit more buried in the production, anyway they can easily be listened to. His screams follow the typical pattern, tortured and repetitive screams which fit with the rest of the music. 

In conclusion, my impression is that Talv has left behind his more dissonant and discordant influences, at least if we talk about the production itself, and has immersed in a more traditional and low-fi atmospheric/depressive black metal, obviously influenced, in its repetitive and slow tempo, by Burzum. It’s not by any means an outstanding record but I personally consider it a step forward in the correct direction. Even though a little bit of variety would be more than welcome. Personally, I would strongly recommend a more dynamic instrumentation to make the music more interesting. Anyway, 'Entering a Timeless Winter' can be enjoyed if you dig this style and have the appropriate mood to immerse yourself in this anthem of endless despair. (Alain González Artola)

(ATMF - 2017)
Score: 55

venerdì 23 febbraio 2018

Arallu - Six

#FOR FANS OF: Black/Thrash, Melechesh
Hailing from the urban settlement called Ma'aleAdummim in Israel, Arallu is a five-piece devoted to black/death metal that has been around the metal underground for twenty years. The band got the name Arallu from the Mesopotamian mythology, as it was the name of the underworld kingdom ruled by the goddess Ereshkigal and the god Nergal, where the dead are judged. Arallu's music revolves around the traditional ancient Middle Eastern melodies of fellow countrymen Melechesh, with the high-speed savagery of bands like Angelcorpse and Blasphemic Cruelty, and the atmospheric feel of legendary acts like Immolation and Incantation.

Last 2015 the band released a record called 'Geniewar', and that opus had solidified Arallu's already known talent to the underground extreme metal community. 'Six' is the band's sixth full-length studio album and overall their ninth material released. This release offers the listeners a very stunning infusion of occult black metal with the ancient Sumerian and Middle Eastern sound. The riffs found here will satisfy the listeners with its frenzy melodic tremolo picking that is intertwined with some eerie folk instrumentation. These elements in the guitar section, thrown in with a few folk instruments such as a saz and a darbuka, reveals how the band had successfully stripped metal down to its core adding a personal touch of their own special flair.

But that's not just what the guitars offer here as a labyrinth of aggressive and tormenting crisp guitar riffs also accompanies the songs in this offering. The evident and audible bass line gives a really pleasant mattress for the guitars as it supports them and it provides that extra punch and low-end heaviness to the overall outcome of Arallu's music. It basically lies steadily beneath the guitars as it backs them up with some thick lines that give a more deep feel to the strings and dispenses an ominous atmosphere to the tracks. The drum section also catches the audience's attention with a variety of destructive pummeling double bass blasting to some Middle Eastern tribal drumming that helps a lot in terms of keeping the atmosphere intact.

On the vocal department, the record is filled with some hale and hearty high-pitched piercing shrieks and screams which create a dark and raw soundscape. These vicious shrieks are sometimes jacked up with some uncanny backing vocals that tie together the brutality of extreme death and black metal music to the ancient Middle Eastern scales of the material. 'Six' also parades the band's strongest production to date in their twenty years of existence. Each track in this opus sounds more well-rounded and very lucid than their previous releases, but at the same time, they sound harsh and aggressive that it utterly satisfy the fans' desire to find a memorable black/death metal album.

Overall, although 'Six' may be a typical album from an extreme metal band coming out from Israel, its music takes a different direction on its’ way to epoch-making symmetry. Arallu had created a menacing and atmospheric beast in this style of metal with their release of this varmint offering. These Israelis had put out a savage album that is hardly comparable to its predecessors. If you fellas haven't gotten a copy of this record yet, then you better go and get yours now. (Felix Sale)
 
(Transcending Obscurity Records - 2017)
Score: 75

https://arallu.bandcamp.com/album/six-folk-black-thrash-metal

giovedì 22 febbraio 2018

Drug Honkey - Cloak of Skies

#FOR FANS OF: Psychedelic Death/Doom
Every evening cars pull up and park in front of my house, yet no one is here to visit. Instead, as the average societal drone prepares for a relaxing night, the twilight shift begins for the human excrement with which I have the misfortune of sharing a fence. Itchy, sniffling, pale-faced denizens of the darkest corners of this town descend upon a hapless sleepy street searching for their choice chemicals. Once in a while, in a fit of desperation through intense withdrawal, the neighbor's yard is invaded with screaming and the sounds of windows being pounded all around the property. This is but a taste of my front row seat to a reality that this band reflects as Drug Honkey directs its delirium through distortion, capturing the dragon and watching it decay in a pit of its own delusion.

'Cloak of Skies' aims to tackle the slow, undesirable, and unending delirium of falling into a drug addled demise. Where Black Sabbath overdosed on heroin in “Hand of Doom”, Drug Honkey has found an even more potent opiate concoction to nod off on. Laced with fentanyl, the band slings junk that is best left to an intimate album setting because “Pool of Failure” would make for a boring live show. Still, many may want to get their fix from the source, and “Outlet of Hatred” visits that skeevy squalid slum, like spending a night in a roach motel bordering an industrial park. Train horns blow by in frequent intervals, the interminable pounding of a headboard against a shared wall keeps generic paintings applauding the local prostitution economy, and the stench of pickup truck exhaust invades the gaps and cracks of the curtained window, intermixing with old cigarette smoke to remind you just how thin a building can be built while remaining within the engineering specifications of the municipality. The only stability one may have throughout Drug Honkey's journey is a knowledge that the possibilities are endless when it comes to scrounging up the cash for a fresh fix. Evenings are spent dining on mouthfuls of dick and ransacking humble homes to hock other peoples' possessions for far lower than an appreciable resale value. Yet with every fresh syringe of vein-pumping toxicity, “The Oblivion of an Opiate Nod” falls farther away as death creeps closer.

'Cloak of Skies' is a journey into damnation by way of self-destruction. The album is slow and dingy with growling vocals, psychedelic moments, and loud gravely guitar rhythms while leads scream in and out of each song in a kaleidoscope of synapses showering in endorphins. There is such a large swath of atmosphere and so much open delirious space that this band would probably not work well in a live setting, but on a recording comes across as addled and hopeless as hitting rock bottom, curled in a corner of a strange basement, and fading away into nothingness. So tie one off and join the epidemic, but don't expect to come back from this binge because Drug Honkey promises no NARCAN. (Five_Nails)

Aura Hiemis - Silentium Manium

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Ecco arrivare dal Cile l'ennesima one-man-band, capitanata da V., factotum di questi Aura Hiemis, in giro addirittura dal 2004 ma che per il sottoscritto rappresentano invece una novità, il che è strano considerato che all'attivo hanno ben quattro dischi, uno split ed un EP. Cercheremo di rifarci con l'ascolto di questo 'Silentium Manium', lavoro uscito a dicembre 2017 sotto l'egida della prolifica Endless Winter, ormai diventata sinonimo di funeral-death-doom. E Mr. V. (che ha peraltro un passato nei Mar de Grises che conosco invece assai bene), qui supportato da Lord Mashit, non tradisce le attese, forte di un lavoro dedito ad un inquietante e malinconico sound che con i dieci pezzi di questa release, riesce a trasmettere tutto il proprio pathos e dolore interiore, attraverso passaggi musicali lastricati di un profondo senso di pesantezza e disagio. Lo dimostrano i fatti: subito dopo l'intro strumentale di "Maeror Demens I" che insieme alle parti II, III, IV e V costituirà degli acustici bridge tra un pezzo e l'altro, sopraggiunge "Cadaver Fessum", esempio indefesso del monolitico sound proposto dai due musicisti di Santiago. Suoni a rallentatore, con riffoni inferti ogni cinque secondi e dilatati all'infinito, tastiere da incubo e vocalizzi da orco cattivo, raffigurano e certificano la proposta degli Aura Hiemis. Nulla è comunque lasciato al caso: il suono bombastico, gli arrangiamenti, l'ampio spazio affidato alla componente strumentale che dà enfasi alla drammaticità e al climax che s'instaura nel corso dell'ascolto di 'Silentium Manium'. Mi stupisce comunque l'originale approccio della band nel proporre la propria visione di doom: un esempio concreto è offerto da "Sub Luce Maligna", breve, quasi completamente acustica, sembra strizzare l'occhiolino ai primi Swallow the Sun. Analogamente fa "Between Silence Seas", e a questo punto deduco che sia il vero marchio di fabbrica degli Aura Hiemis per prendere le distanze dalla massa, che affida dei suoi quattro minuti spaccati di musica, la metà a suoni acustici e i rimanenti due alle sole chitarre, escludendo del tutto la componente vocale. Ma la cosa si ripete anche nella successiva "Frozen Memories", il che mi lascia ancora una volta perplesso perchè alla fine, "Cadaver Fessum" e la tremebonda ma atmosferica "Danse Macabre", sono gli unici episodi funeral doom del disco, in quanto il resto è un nostalgico flusso di suoni minimalisti, acustici e nostalgici. Ah, ultima segnalazione: il disco contiene dieci tracce, ma il lettore ne visualizza 11, questo perchè c'è la classica ghost track (quanto adoro ancora questi giochetti) che mostra un abito ancor diverso per i nostri, che partono da una ritmica quasi post black per poi affidarsi ad un suono più pulito e diretto che va a braccetto con l'utilizzo delle vocals, qui meno catacombali. Che stiano volgendo lo sguardo verso altri lidi? Lo scopriremo rimanendo sintonizzati sul canale degli Aura Hiemis. (Francesco Scarci)

mercoledì 21 febbraio 2018

Omza - Otto Maddox Zen Academy

#PER CHI AMA: Hard Rock/Post Grunge
Gli OMZA sono in cinque e sono di Trieste, una band giovane, matura e con un sound che convince e ammaglia sin dai primi minuti di rotazione del loro nuovo album 'Otto Maddox Zen Academy'. Ma andiamo con ordine. La band bazzica l'underground da qualche tempo anche se con nomi diversi e quest'album non fa che raccogliere i brani scritti finora e pubblicati da Brigante Records e Vollmer Industries. Il digipack è del tipo extra lusso, due ante in cartonato super pesante ed un booklet a ben sedici pagine con un artwork pulito e moderno dai toni scuri e netti. Le tracce sono nove e sono un vero e proprio excursus musicale tra rock, punk e pop, fusi tra loro in maniera convincente e dirompente. In "Birds", la opening track ha l'appeal prettamente rock venato di suoni british, dove i riff di chitarra fanno da spina dorsale alla traccia, ed insieme all'ottimo lavoro di batteria di basso, regalano un groove potente e filante. Accelerazioni, break, assoli e quant'altro in poco più di tre minuti e mezzo, in una canzone che racchiude gli OMZA e ne fa da manifesto musicale. "Motivational #1" è meno ammiccante, i toni si tingono di scuro e i pattern si fanno apprezzare per la loro dinamicità. Il vocalist ha un ruolo determinante come in tutti i brani, grazie alla sua timbrica sospesa tra Pierpaolo Capovilla ed Ozzy, che s'incastra perfettamente nel sound dei nostri e li rende riconoscibili dopo pochi secondi. Ottima anche la pronuncia, fondamentale se si vuole avere un appeal internazionale come quello cercato dalla band triestina. I testi invece non si spingono mai oltre al pop, peccato perchè avrebbero dato maggior spessore ad una produzione già di per sé molto buona. L'energià prorompente della band continua in "Time Machine", altro brano profondamente british rock che ricorda i vecchi Radiohead, ma meno sperimentali. Si fa apprezzare il break che rallenta e incupisce il pezzo che non vuole essere che una bella ballata spensierata, con bei riff di chitarra e arrangiamenti puliti. L'album chiude con un tributo al Duca Bianco e lo fa rivisitando un classico come "Moonage Daydream": il pezzo è sicuramente piacevole grazie ai suoni che dopo quarant'anni hanno fatto passi da gigante, ma si sente la mancanza di un tocco di glitter, quel qualcosa che ti fa scattare la scimmia e ti dice che il confronto con l'originale è stato superato con successo. Gli OMZA sono una band che lavora bene sui pezzi e produce bella musica, mettendoci pathos e sudore della fronte. Alla fine 'Otto Maddox Zen Academy' è sicuramente un buon album che andrebbe ascoltato dal vivo per poter meglio apprezzare quella chimica che dovrebbe crearsi tra band e pubblico, quella che non passa attraverso le cuffie o gli speakers. (Michele Montanari)

(Brigante Records/Vollmer Industries - 2017)
Voto: 75

https://omza.bandcamp.com/album/otto-maddox-zen-academy

domenica 18 febbraio 2018

Shattered Sigh - Distances

#PER CHI AMA: Death/Doom, primissimi Anathema
Dall'assolata Barcellona non poteva che giungere un album di solare... death doom. Si ringraziano pertanto i gentilissimi Shattered Sigh, qui al debutto, per regalarci il loro spaccato di suoni deprimenti provenienti dalla Catalogna. Sei tracce rilasciate per l'etichetta russa Endless Winter che per questo genere di sonorità, ha ormai affiancato la più che navigata Solitude Productions. Il disco si apre con le plumbee atmosfere di "Under Your Slavery" e le sue tastiere celestiali che, accanto ad un riffing corposo e pesantino e delle vocals catacombali, costituiscono l'architettura sonora degli Shattered Sigh. Per fortuna che si affiancano anche delle clean vocals che con una massiccia dose di keys, stemperano un animo che talvolta sembra propendere verso tendenze funeral. Le melodie sono comunque buone, seppur elementari e talvolta ridondanti, ma le qualità ci sono tutte e i margini di miglioramento direi notevoli. Per i nostalgici di 'Serenades' dei primissimi Anathema, date pure un ascolto a "Timeless", avrete da che versare lacrime nel ricordare quei vecchi tempi di decadenza ormai finiti nel dimenticatoio di molti, ma non del sottoscritto. E forse anche il sestetto catalano deve ricordare bene la lezione dei fratelli Cavanagh, visto che tra lugubri e funeree ambientazioni, votate ad un catartico sound di dolore e disperazione ("1214"), pezzi più "ariosi" e movimentati (leggasi l'omonima track "Shattered Sigh") o tracce dall'andamento più ritmato ("Alone"), alla fine gli Shattered Sigh sembrano proporre una rilettura piuttosto interessante degli Anathema di quei primi mitici anni '90. A chiudere ci pensa la drammatica "Thou Say Goodbye", song che rafforza il valore di questa release e che consente ai sei musicisti barcelonins di dire la loro nell'affollato mondo del death doom melodico. (Francesco Scarci)