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mercoledì 18 marzo 2015

Captain Mantell – Bliss

#PER CHI AMA: Alternative, Hard rock, Stoner, Queens of the Stone Age
“Il 7 gennaio 1948, alle ore 13.00, a Maysville, nel Kentucky, molte decine di persone videro un oggetto circolare che emanava una luce rossa, sorvolare la città. Dall'aeroporto militare di Fort Knox alle 13.45 si sollevò una squadra composta da tre aerei da caccia P-51, guidata dal capitano Thomas Mantell, per inseguire l'oggetto. Alle 15.15 Mantell comunicò di trovarsi a 6.000 metri e di vedere un oggetto metallico di grandi dimensioni, che dopo avere aumentato la velocità era sparito dietro una nube. Dato che gli aerei non avevano riserve di ossigeno per un volo ad alta quota, gli altri due piloti decisero di rientrare, mentre Mantell decise di continuare l'inseguimento. Dopo pochi minuti si persero i contatti con l'aereo di Mantell. Alle 15.40 il colonnello Hix, comandante della base, fece decollare due aerei per cercare Mantell. Alle 17.00 i resti dell'aereo del capitano furono trovati nei pressi della città di Franklin, sparpagliati su una vasta superficie. Fu trovato anche il corpo del capitano, con l'orologio che si era fermato alle 15.19. Fu recuperata la strumentazione di bordo, che indicò che l'aereo si era spinto fino ad un'altezza di 9.000 metri.”
Da questo episodio nasce la storia del power trio Veneto, capitanato da Tommaso Mantelli, evidentemente affascinato dall’omonimia con lo sfortunato aviatore americano. Dopo quattro album incentrati sulle vicende dell’incredibile inseguimento, 'Bliss' rappresenta il ritorno sul pianeta terra e parla dell’inevitabile shock dovuto ai cambiamenti avvenuti durante l’assenza del Capitano. Il suono è la maggiore novità che 'Bliss' porta in dono rispetto ai precedenti lavori: laddove quelli si incentravano su una matrice elettronica, qui il suono del terzetto si è consolidato e ha ampliato i propri orizzonti andando a radicarsi decisamente nel rock classico dei 60/70, tenendo però bene a mente tutto quanto fatto in seguito da gente come Nirvana e, soprattutto, Queens of the Stone Age. È proprio la band di Josh Homme, nelle sue vesti più accessibili, quella che più di ogni altro viene chiamata in causa in molti episodi del disco (la robusta “With My Mess Around”, il lento stoner “Better Late Than Now”, l’orecchiabile “First Easy Come Then Easy Go”). L’alchimia tra le ritmiche potenti di Mauro Franceschini, il sax ispirato di Sergio Pomante, e i riff della chitarra di Mantelli è davvero perfetta e costruisce solidissime architetture su cui la voce del capitano svetta in modo sempre convincente (e con una pronuncia inglese ottima e credibile, cosa che spesso rappresenta il tallone d’Achille di tante band italiane). Ad arricchire il suono e le atmosfere del disco ci sono poi, qua e là, gli archi di Nicola Manzan (ovvero Mr. Bologna Violenta), e altri ospiti di cui diremo più avanti. La scaletta è molto nutrita (14 brani) ma ben bilanciata, mai prolissa (solo due episodi superano i 4 minuti) e pressoché perfetta almeno per la prima metà: oltre alla già citata “With My Mess Around”, l’iniziale “Love/Hate”, sorta di rivisitazione in chiave hard dei King Crimson di Red, il riff di sax memorabile dell’epico mid-tempo “To Keep You in Me”, mentre “The Ending Hour” si rifà al miglior alternative anni '90 e l’hard blues di “Side On” viene valorizzato dalla voce calda di Liam McKahey (ex cantante dei Cousteau). Nella seconda parte, tolto qualche riempitivo comunque gradevole, spiccano “The Age of Black”, che a metà brano accelera con la super chitarra di Jason Nealy dei Bleeding Eyes, e lo splendido brano finale “Won’t Stop”, che è un po’ una summa delle influenze che hanno caratterizzato il disco: si va dai Beatles a Zappa ai Queen of the Stone Age passando per le sferzate di un sax dal sapore molto free. Influenze che, sapientemente assimilate e mixate alla personalità dei membri della band, fanno di questo 'Bliss' uno dei migliori dischi italiani usciti, nel suo genere, negli ultimi anni. Se poi ci mettiamo l’attenzione all’artwork, davvero ben fatto, non potete proprio non averlo nella vostra collezione. (Mauro Catena)

(Dischi Bervisti - 2014)
Voto: 80

martedì 17 marzo 2015

Vyrju – Black

#PER CHI AMA: Black/Doom, Gorgoroth, Agrypnie 
Una bella grafica tutta nera con logo in rilievo ci accompagna alla scoperta di questa oscura creatura denominata Vyrju, opera di un musicista norvegese, tal Jan F. Lindsø (aka Iudex) responsabile delle vocals, chitarre, basso e synth, aiutato alla batteria e al canto pulito dal collega Tim Yatras (che ben conosciamo nei Germ e Austere). L'EP del mastermind scandinavo si presenta con quattro solidi brani di media lunghezza, licenziato via Black Forest Records nel dicembre 2014, per una ventina di minuti circa di musica. 'Black' contiene le atmosfere cupe di raffinata scuola Gorgoroth, In the Woods e Agrypnie, fatta di ritmi di media velocità sempre pronti a scandire una decadente struttura black metal di ultima generazione. Le composizioni vantano tinte melodiche di buon impatto e durezza, pesanti come un album dei Crowbar, ma che purtroppo non incidono sul piano dell'intensità. "The Constant Void" e "There is no Grave Big Enough to Take All My Sorrows", le prime due tracce dai titoli così intriganti, scivolano via impetuose, cariche e rumorose, fino all'arrivo di "Gone", breve intermezzo molto interessante di acoustic rock strumentale. Un brano che apre nuovi orizzonti alla band ma che purtroppo finisce precocemente lasciando un profondo senso di incompiuto e di rammarico in chi ascolta. A seguire l'ultimo brano, "The Residue of Life", dai colori più gotici e dai timbri ancor più classici, con un sound aperto e scorrevole ed una parte vocale bella ma frastagliata, poco presente, ma con un canto pulito evanescente che si perde in un nulla di fatto cercando di emulare l'ispirazione dei migliori Gorgoroth. Un EP che può essere considerato un buon inizio per questa band ma che ha bisogno di evolvere ulteriormente, la media è alta ma per incidere maggiormente, il mastermind norvegese deve crescere parecchio in originalità. L'attesa è sul campo di battaglia per un futuro full leght, sono sicuro che per allora la band userà le sue armi migliori per superare queste piccole incertezze. Da tenere d'occhio. (Bob Stoner)

(Black Forest Records - 2014)
Voto: 70

Captains of Sea and War - S/t

#PER CHI AMA: Progressive Rock strumentale
Otto tracce otto. Mare in tempesta di Guerra. Partiamo per la traversata. Armiamoci di remi, boccaporti, rum da stiva, marinaresche intenzioni, lasciando a casa le donne e gli uomini che non ci vogliono uomini e donne di mare. L’incipit di “Call Again” è già mare in burrasca. Prepariamoci a innalzare bandiere dai teschi ben in vista. Sorvoliamo come gabbiani rabbiosi queste sonorità ripetute dallo smalto rock alternativo. Costruiamo distruggendo preconcetti, perché “Call Again” trasforma l’acqua salata in vino. Mano a mano che il brano procede muta e rapisce divenendo voce graffiata attraversata da acqua di mare e l’incipit arrogante si trasforma in un ricordo, trasferendosi in quella dimensione che dà più che prendere. Insonorizzate le vostre pareti e lanciate il volume oltremodo. Veleggiamo verso “Kunz”. Schiudete appena le vostre persiane. Sapete che la giornata è uggiosa. Abbiate poesia per le nuvole che sovrastano il mare, poiché “Kunz” vi terrà compagnia come un tè caldo corretto da mille gradi alcolici, descrivendovi il mare d’inverno. Le stagioni sono solo illusione. Rendiamo piuttosto vivo il tempo di questa “Aboard”. Troppo presto il mio parlar di tempo, perché questa song lo frena il tempo sino a renderlo glaciale. I suoni sono lenti. La batteria scandisce le pause tra tempo e chitarra. Si riprende lentamente la scansione sonora, ma solo per favorire animosità mercenarie, sublimi, ma millantatorie. Chi crede che “Aboard” accarezzi l’anima, sbaglia, rischiando di vendersi al diavolo. Assaporate con l’udito, ma non mangiate la mela. Potreste rimanere imprigionati in questo inferno di velluto apparente. Assecondiamo ora “You Need to Restart”. La prigione che vi descrivo è fatta di gabbie invisibili, in cui i tocchi sonori sono accattivanti e subdoli. Non resta che essere lascivi o morigerati. Io mi abbandono. Voi decidete se farvi coinvolgere a scatola chiusa. Io vi consiglio l’abbandono. Risalgo lentamente dalle tenebre travolgenti delle mie perdizioni sonore. Incontro “Far”. È amore a primo ascolto. Mi mescolo carnalmente a questo brano. La musica mi sostiene. Le chitarre mi seducono. La voce mi guida in un viaggio stridente, assordante, suadente. Volete pane per la vostra coscienza? Se si, venite oltre con me. Vi porto in una casa diroccata. Attenti ai calcinacci che d’improvviso cadono da questa “Zittersheim”. Iniziamo dalla fine perché questa traccia ha i suoni che ricordano titoli di coda d’un horror. La partenza poi è in quarta marcia. Un country metallico sorprende contrapponendosi all’esordio. I suoni cambiano ancora. Per divenire pirati minacciosi ad affascinanti nel bel mezzo del brano. Ascoltate questo light metal pregiato. Con la prossima traccia, non posso che scendere sotto coperta. “Five Times the Sea”. L’ascolto è da ovattare tra muri di legno in un veliero che scava le onde sfidandole. Non abbiate paura, ma nel dubbio vi auguro, buon vento. L’ultimo pezzo dell’album è cardinale, "East”. L’album termina con un ondeggiare dolce dall'impronta romanticamente metallica. Ci sono più onde che scogli in questo brano. Il sale guarisce le ferite. Il sole romanza il tramonto. La chitarra mi rende giustizia, così ritmica e leggera da lasciarmi nostalgica dell’estate. Scendiamo dal vascello. È stato un bel viaggio. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 85

lunedì 16 marzo 2015

Rotem – Dehumanization

#PER CHI AMA: Black/Death, Krallice, Gorguts, Deathspell Omega, Pestilence
Scoprire che dietro il progetto denominato Rotem si cela una one man band formata da un unico polistrumentista portoghese mi ha fatto rabbrividire. Il solo fatto che un musicista, al suo primo full lenght uscito nel 2014 per la Ethereal Sound Works, riesca ad immaginare, pensare, sviluppare e pubblicare un tale colosso sonoro mi riempie di gioia il cuore e mi fa gridare al miracolo! Il metal estremo non è ancora morto! L'impronta black/death del suono sotterraneo si incontra con il respiro forsennato delle opere dei Krallice e dei Deathspell Omega, coltivando un amore segreto per i Pestilence più progressivi e un tocco di romantica oscurità dei primissimi Paradise Lost ('Lost Paradise'). Una maligna voce esalta la carica nevrotica di una sezione ritmica in costante evoluzione, tra un growl e uno screaming stupendi e perfetti per incoronare un susseguirsi di istrioniche composizioni guidate da chitarre ricercatissime e violentissime che nelle prime tre tracce trovano l'apoteosi del proprio stile. "Dehumanization", "Human Condition Critical" e "Virtual Reality" spiazzano e distruggono l'ascoltatore che si trova di fronte ad uno spettacolo sonoro esplosivo che non teme rivali. Rotem suona senza mai dimenticare quanto lacerato deve essere il suono di una vera extreme black/death metal band. Il nostro eroe si diverte a destrutturare suoni e ritmiche come se i Gorguts suonassero una cover dei King Crimson, presentandoli con un'immagine di copertina stupenda, crudele e tenebrosa che non lascia dubbi né superstiti. Una figura umana con maschera antigas e un pelouche in braccio su uno sfondo completamente nero, mostra un vuoto emozionale impressionante ed una resa incondizionata nei confronti di un mondo autodistruttivo senza scampo, che associato al significativo titolo 'Dehumanization', offre una visione depressiva di una realtà post atomica di sicuro effetto negativo e destabilizzante. Undici brani contenuti in una scatola di suoni al vetriolo, agghiaccianti e letali, tutti da scoprire e assaporare senza pietà, con cover dei Celtic Frost annessa ("Procreation of the Wicked"). Un tornado devastante che tocca le mille varietà del metal estremo e del progressive metal più tecnico, rivisitandolo con intelligenza e originalità, tanta bravura e dedizione mostrata in brani complicati, sofisticati e urticanti. Quaranta minuti di ascolto che volano in un attimo, senza cadute d'intensità, per un lavoro geniale partorito da una mente perversa, superiore e decisamente deviata. (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2014)
Voto: 85

Artic Fire - Lower and Louder

#PER CHI AMA: Grunge, Alice in Chains, Nirvana
Gli Artic Fire sono un trio portoghese nato del 2006 che con calma ha prodotto questo EP da poco uscito per la Ethereal Sound Works. I nostri tre musicisti si definiscono grunge addicted e i cinque brani di 'Lower and Louder' lo dimostrano senza ombra di dubbio. Tutto si rifà ai primi Nirvana, quelli inquieti e grezzi, fino agli Alice in Chains e ai Soundgarden. Non illudiamoci di trovare la stessa qualità compositiva e sonora però; dopo anni di lavoro uno si aspetterebbe che la band avesse concentrato il meglio del repertorio studiato e rifinito in sala prove. Qui in realtà è ancora tutto grezzo, sporco e urlato, ma se non sei una band di Seattle degli anni '90, difficilmente l'ascoltatore contemporaneo si strapperà i capelli gridando al miracolo. "Running" racchiude tutto ciò, senza tanti fronzoli. L'intro è minimal, voce e basso a dare l'attacco al brano che viene subito rinvigorito da chitarra e batteria. La prima soffre però di una registrazione fatta approssimativamente, con un suono scarno e poco incisivo. Anche il resto degli strumenti sono allo stesso livello, ma è meno percepibile grazie alla maggior attenzione concessa alle ritmiche. Il cantato è in inglese ed ovviamente si rifà allo stile del compianto Kurt Cobain e il confronto è un match perso in partenza. "Prozac Addict" prova la strada della brano simil-folk in versione ballata e dopo un'inizio di chitarra acustica che fa ben sperare, il brano si affossa rallentando bruscamente su l'arpeggio di chitarra (che nel frattempo è diventata elettrica). Sembra un brano messo su raccattando riff qua e là, infatti verso la fine la canzone accelera di nuovo, dimenticandosi dell'introduzione. Probabilmente la chitarra acustica si è sfasciata da qualche parte e ora giace sola e incompresa in un angolo. "Take Me All Way" è il brano più lungo, quasi a rappresentare la prova artistica degli Artic Fire. L'inizio del brano richiama le chitarre minimaliste di Jack Frusciante e poi si alterna il ritornello più incisivo, ma non abbastanza. Tutto questo si protrae per tutta la traccia e nulla si oppone alla noia che imperversa sovrana. Sufficienza risicatissima nella speranza che un futuro album riparatore dimostri che la band abbia davvero qualcosa da dire, con un livello qualitativo maggiore. (Michele Montanari)

(Ethereal Sound Works - 2015)
Voto: 60

Dødsverk - S/t

#FOR FANS OF: Black Metal, DarkThrone, Immortal, Marduk
Though variety is sometimes said to be the key to living life, oftentimes familiarity is what the heart wants and when the term ‘Norwegian Black Metal’ is bandied about in this case familiarity wins out over this Norwegian newcomers’ debut album. Pretty much on-point, all the hallmarks of such a scene are present and accounted for here: tremolo-picked rhythms, proto-thrashing riffing that dwells in the up-tempo registers, the furious blasting drum-work that trades off blastbeats for full-throttle pounding, hateful vocals and a raw edge that’s deliriously old-school to the core that fuels the primal atmosphere of the genre’s origins while not sounding like a band with no recording budget in the studio for the first time. There’s really no surprises in store here (well, maybe one but it might not really count for some) as in structure-form the true Norwegian sound is on full display with the tremolo-patterns serving as the atmospheric accents to the intense, frenzied blasting while dropping off streamlined thrashing rhythms serve as the majority of the album’s attack that still successfully keeps the band firmly in that general pool. The one small, and in some cases might even be negligible, surprise comes from the overall brevity of the album as a whole, coming off like an EP due to the running-length as well as the track-lengths themselves with a majority barely cracking three minutes and only two that could legitimately be said to be epics at over five minutes in time. While this might be nit-picking and there’s a case to that, the fact is this does come against the album by just really getting a solid foot under itself before it’s over, as if the band were really just finding their niche but instead seem to run out of ideas rather than deliver a beat-down and leave while on solid terms with the listener that seems to be the original intent here. While it does crop up, this is barely damaging to the album as a whole which has a lot of great stuff about it. ‘Den siste...' opens this with an unrelenting volley of swirling tremolo-patterns and furious blastbeats that manage to both weave atmospheric landscapes of their forefathers while making some intense, charging rhythms and serves as a great introduction to the madness. ‘Intet mer å gi' manages to use a slightly-less intense series of rhythms against its more atmospheric tendencies yet still comes up with an enjoyable main riff and pummeling drum-pattern for an enjoyable though all-too-brief assault. The brutal ‘Gjendød' offers up an industrialized charge that melds perfectly with their frenzied sound that adds a repetitive drive to the track that makes it one of the album’s best while the dreadful ‘I perversjoner' is simply nothing but droning and industrial noise for its duration that really causes this to be a questionable inclusion and shouldn’t have really been on the album. Thankfully, ‘Aldri tilbake' returns to the gloriousness of their original tracks with another frantic assault of maddening tempos, furious tremolo-picked patterns and plenty of blasting drum-work for a true highlight effort that more than makes up for the previous effort. ‘Renselse' continues the assault with a whirlwind of tremolo-picked rhythms and plenty of dynamic variations in the blasting and riff-work to make for another big strong highlight. The bands’ other attempt at an epic, ‘Motstå frelse' is thankfully a lot better as this scores the prototypical epic slow-moving Norwegian-style finisher that has the massive riff-work, cold atmospheres and plenty of rather impressive variations to cause this to be a strong ending note. Beyond the one lame track that’s not all that appealing, this one really only suffers from the brevity and the reliance of the listener to determine if the familiarity present is a failure or not. (Don Anelli)

(Apocalyptic Empire Records - 2014)
Score: 75

martedì 10 marzo 2015

Potatoes - Cut

#PER CHI AMA: Punk-rock, Post-hardcore, Noise
Una cosa colpisce immediatamente, nella formazione di questo quartetto di Winnipeg, Manitoba (Canada), ed è che accanto al classico trio chitarra-basso-batteria trovi posto un mandolino elettrico, e per quanto mi ricordi, questo è il primo caso in cui tale strumento viene usato in pianta stabile in un gruppo punk rock. Già perché questo sono, in definitiva, i Potatoes, un gruppo amante del punk rock, spesso e volentieri virato sul versante più noise, ma decisamente non maistream. 'Cut' è il loro secondo EP, e mette in fila ben 11 brani veloci (di cui solo due superano i tre minuti) e potenti, registrati in modo diretto e senza fronzoli, anzi lasciando deliberatamente uno strato bello spesso di “sporcizia” tanto sulla voce quanto sulle tracce strumentali. È probabilmente un lavoro di transizione questo, in attesa di una più decisa scelta di campo tra i classici pezzi post-hardcore, e un approccio più debitore al noise anni '90 (leggi Touch & Go). Alla prima schiera appartengono l’opener "L.X.", lanciata a rotta di collo nei suoi deliri r’n’r, l’ultra classica "Devil Manatee", la detroitiana "Love (and What’s Her Face)". Alla seconda invece la tormentata e sofferente "Epiphany", "Surface Mounter" e "Penis, Teeth, Knuckles and Toes", che forse risulta il brano con maggiore personalità dell’intero lavoro. Personalmente, li preferisco nella seconda versione, quella che riesce a convogliare la furia hardcore nelle spire di disperazione dei Jesus Lizard, ma è solo un’opinione personale, e non è detto che i quattro debbano per forza di cose scegliere e che non decidano di portare avanti con fierezza la loro proposta ad alto contenuto di decibel. Disco molto energico e rumoroso, perfetto per chi ama i suoni sporchi e senza compromessi. Vale l’ascolto. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 65

Mallory - 2

#PER CHI AMA: Grunge/Blues/Rock
Questa volta parliamo di blues-rock direttamente dalla Francia, paese che negli ultimi mesi si sta dimostrando una vera e propria fucina di nuove band, molto spesso di ottima qualità. Il quartetto nasce a Parigi intorno al 2012 e dopo il primo EP risalente allo stesso periodo, escono con questo '2'. Si tratta di un ottimo mix di rock, grunge, blues e altre contaminazione che toccano lo stoner e la psichedelia, il tutto ottimamente suonato e arrangiato. Il cantato è in inglese ed è scandito dalla calda ed avvolgente voce del frontman che si destreggia bene tra brani intensi e ballate più quiete. "Ready" è una di quest'ultime e gronda grunge da tutti i pori. Dopo un solitario arpeggio di chitarra la canzone acquista più ritmo e impatto con ottimi fraseggi e arrangiamenti che ricordano i Pearl Jam e i Soundgarden più sentimentali. Grande potenza scorre dagli abbondanti cinque minuti della traccia, merito dell'ottima intesa tra i musicisti con la sezione ritmica formata da basso e batteria a dettare legge e imporre il proprio diktat. L'arpeggio continua imperterrito per tutta la song come un mantra onirico per poi sfociare nell'assolo che guida il break psichedelico a metà brano. Brano, strutturalmente semplice, ma dotato di un buon impatto e anima. "Big Nails" è un pezzo veloce, accompagnato da un basso distorto e basato su una ritmica che cambia ciclicamente per movimentare ancora di più il ritmo. Il cantante dà libero sfogo al suo lato più irrequieto nel quale si trova a proprio agio, mentre i riff di chitarra citano spesso la storia del rock, confermandosi sempre all'altezza e pieni zeppi di groove. Un brano mordi-e-fuggi di quasi tre minuti che risente solamente della mancanza (penso io) di una traccia di basso pulito che avrebbe rimpolpato un po' le basse frequenze. "Bad Monkeys" aggiunge una cartuccia importante all'armeria dei Mallory, il brano infatti è una piccola perla che include quel qualcosa che ricorda i The Doors, i vecchi Radiohead e ancora il filone grunge. La canzone è intrigante come un corpo sinuoso che balla nella penombra, sul bancone di un polveroso strip bar, che esplode e si divincola per un attimo per poi chiudere come era iniziata. Questo '2' è caratterizzato da suoni quasi sempre perfetti, una buona qualità di registrazione e un digipack semplice ma gradevole. Tutti segnali che messi insieme confermano la mia idea che i Mallory sono una band solida, ben tarata sugli obiettivi da raggiungere e che ha ancora margine di miglioramento. Detto ciò mi aspetto un terzo album con il botto, incrociamo le dita... (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 80

lunedì 9 marzo 2015

Stömb - The Grey

#PER CHI AMA: Djent/Progressive, Tesseract, Uneven Structure
Il djent è uscito dai miei radar da un po'. Il fenomeno che è salito alla ribalta grazie a gente del calibro di Tesseract, Uneven Structure e Vildjartha (senza ovviamente trascurare i precursori, Meshuggah), mi sembra che si sia un po' perso per strada. Per fortuna arrivano i francesi Stömb a rivitalizzare le sorti di una decadenza annunciata, con un disco strumentale che certamente renderà felici gli amanti del genere, incluso il sottoscritto, che qualche anno fa, veniva ribattezzato dagli amici, come "Principe del Djent". La band di oggi è un quartetto di Parigi che, rilasciando 'The Grey', riprende in mano quanto fatto dalle band sopracitate (a cui aggiungerei Periphery e Ganesh Rao), con classe e passione. Lo dimostra la opening track, "The Complex", quasi nove minuti di sonorità in cui si fondono progressive, ambient e appunto djent. Forti di una produzione a dir poco cristallina, i nostri infondono nel loro flusso sonico il gusto primigenio dei Tesseract (e questo vale già molto, peccato solo manchi un vocalist con le palle) con la notevole perizia tecnica dei Periphery (mostruose le linee di basso che s'intersecano con un drumming fantasioso, senza tralasciare i giochi "di grigio" che le due asce vanno sciorinando). "Rise for Nothing" è un pezzo da brividi a cui sarebbe bastato anche solo un tiepido vocalizzo per raggiungere la perfezione. La lezione di Meshuggah (e anche Cynic) viene assimilata dai quattro francesini e riproposta con grande personalità e carisma, alternando sfuriate elettriche con ambientazioni in penombra. "Veins of Asphalt" ripropone un'altra lunga traccia dall'apertura quasi drone/noise: un momento che i nostri scaldano i motori e i riffoni di chitarra risuonano nel mio stereo come il rombo del motore di quattro Ferrari all'unisono. Wow, i nostri hanno classe da vendere e lo dimostra il fatto che nonostante le dieci canzoni contenute in 'The Grey" abbiano delle durate medio-lunghe, non stanchino realmente mai. Merito dei sapienti cambi di tempo, delle splendide melodie, dei caleidoscopici salti mortali che i nostri propinano, dell'utilizzo più o meno marcato dell'elettronica (perforante a tal proposito, il suono del synth in "Corrosion Juncture"), della tribalità inferta alle ritmiche dal mostruoso batterista, dalla fantasia, dalla veemenza e dall'assoluta padronanza strumentale dei quattro interpreti parigini che cuociono in ogni brano l'attento ascoltatore, che si ingolosisce sempre di più. Gli Stömb danno dipendenza e quando termini un pezzo ne vuoi immediatamente un altro per capire cosa avranno in serbo i quattro nel successivo. "The Crossing" è solo un interludio che ci prepara a "Under the Grey", song dalla ritmica psicotica e malata, asfissiante ma melodica, che mostra un break centrale con un parlato inquietante. "Terminal City" mi ubriaca immediatamente per quel suo giocare a ping pong con le chitarre tra una cassa e l'altra, mentre il mood della traccia è quello di continua emergenza, anche se nella seconda parte, il pezzo diviene più intimista nel sound. Questo ci salva dalla monotonia che altrimenti un disco lungo e complesso come questo, potrebbe produrre. "The New Coming" è una traccia che colpisce per le splendide linee di chitarra che assolvono quasi al ruolo di cantante e contribuiscono a dare maggiore dinamicità al disco. "Genome Decline" evidenzia quanto la band si senta a proprio agio nel trattare pattern strumentali di difficoltà medio-elevata, mostrando una enorme capacità nel districarsi in fraseggi selvaggi quanto "gentili", in una traccia dal forte temperamento e dall'approccio al limite del cinematico. "Only an Echo" rappresenta la chiusura ideale per un disco quasi perfetto, a cui manca solo la parola... (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 85

domenica 8 marzo 2015

Kayleth - Space Muffin

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock, Hawkwind, Monster Magnet, Motorhead
Mettiamo subito in chiaro una cosa: a me i vecchi Kayleth, quelli recensiti su queste stesse pagine con l'album 'Survivor' e l'EP 'Rusty Gold', non mi andavano a genio, per quelle sonorità già sentite e per la mia non proprio spiccata propensione allo stoner fine a se stesso. Fatta questa semplice premessa, accolgo direttamente dalle mani della band veneta, il nuovo futuristico 'Space Muffin'. Detto che non sono neppure sensibile ai facili entusiasmi, il quintetto veronese verosimilmente avrà di che preoccuparsi nel leggere queste mie parole. Parto la mia analisi dall'artwork extraterrestre del cd che oltre a raffigurare una presunta donna aliena in riva al mare con le piramidi di Cheope Chefren e Micerino sullo sfondo, vede orbitare un paio di lune e un agglomerato di stelle (vi è forse un qualche mal celato significato simbolico?) messe alla rinfusa in un cielo un po' troppo verdognolo. Il disco consta di otto tracce e vede avviare i propri propulsori interstellari con "Mountains". La song apre in modo grandioso con una roboante commistione di suoni granitici di chitarra e batteria, coadiuvati dai cibernetici synth del neo entrato in line-up, Michele Montanari, che sembra aver portato nuova linfa vitale nella decennale carriera dei nostri e che sembra anche allontanare quegli spettri che richiamano da sempre i vari Kyuss e Orange Goblin. Stiamo sempre parlando di stoner sia chiaro, ma questa volta offerto in una salsa ben più raffinata che arriva a citare anche formazioni come Electric Wizard e Hawkwind, senza far finta di dimenticare anche un che dei Mastodon. Forse mi crederete un pazzo visionario ma la proposta dei Kayleth suona più pomposa e matura rispetto al passato e questo costituisce di certo il punto di forza ma anche per una nuova ripartenza, per il combo italico. "Secret Place" è il luogo segreto ove il five-piece ci vuole condurre, un brano che attacca con un riffing che richiama un che dei primi Led Zeppelin ma ne irrobustisce all'ennesima potenza la sezione ritmica, che va via via ingrossandosi ancor di più, nel corso del brano. La voce di Enrico Gastaldo si conferma ai livelli del passato, richiamando con la sua timbrica Ozzy Osbourne, piuttosto che un giovanissimo Chris Cornell o Lemmy Kilmister, ma comunque ben adattandosi al sound della band. "Spacewalk" apre con un messaggio alieno, mentre il pizzicare della chitarra prepara a chissà quale fragorosa esplosione. L'approccio della song ha un che di post rock nel suo prologo, si lancia poi nello spazio infinito con un riffing selvaggio, trascinante, mentre lo screaming di Enrico impera nell'altisonante finale da brividi. Signori i Kayleth sono cambiati, maturati, hanno assunto la piena consapevolezza nei propri mezzi e anche la sempre attenta Argonauta Records se n'è accorta. A testimoniare l'ecletticità dei nostri ci pensa la psichedelica "Bare Knuckle", song che rappresenta l'ideale connubio tra progressive (splendide le chitarre a tal proposito dell'axeman Massimo Dalla Valle), space rock, stoner e doom (chi ha citato i Cathedral di 'The Ethereal Mirrors'?), in quella che probabilmente è la mia traccia preferita. L'impronta blues/hard rock dei Kayleth si palesa nella quinta "Born to Suffer", ma l'apporto dei synth rende il sound decisamente più moderno, anche se questo brano potrebbe stare tranquillamente in un qualche album rock anni '70. Non so se si tratti dei microfoni della hall di un aeroporto quelli che si sentono inizialmente in "Lies to Mind", ma la traccia prosegue sul suo pattern rock/stoner fondendo in un ibrido surreale, i Motorhead con i Kyuss e gli Hawkwind. "Try to Save the Appearances" è un altro bel pezzo, grondante di groove da ogni suo poro che richiama sonorità tooliane (Mick ci sono anche i Lingua qui dentro?) che fino ad ora erano tenute camuffate nel sound dei nostri, ma che comunque vengono reinterpretate alla grande dai cinque ottimi musicisti veronesi, per cui vado a menzionare anche il martellante e preciso drumming a cura di Daniele Pedrollo e il palpitante basso di Alessandro Zanetti. Chiude il disco "NGC 2244", acronimo che individua l'ammasso aperto di Rosetta (che sia forse quello che si vede nel cielo della cover?), eccellente traccia strumentale che sancisce la scalata dei Kayleth nell'Olimpo dello stoner nazionale e, auspichiamo ben presto, mondiale. Bravissimi! (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2015)
Voto: 85

LOOKING FOR NEW REVIEWERS 
(BLACK/DEATH/ALTERNATIVE/THRASH/PROG ROCK/HEAVY) 



Siamo in cerca di nuovi recensori per sonorità Black/Death/Alternative/Thrash/Prog Rock/Heavy

Barrowlands - Thane

#PER CHI AMA: Post Black, Agalloch
Vediamo se avete imparato la lezione. Se una band arriva da Portland - Oregon, che genere di musica dovremo aspettarci? Se anche voi avete risposto di getto Cascadian black metal o post black, meriterete un bel 10 in pagella. Si perché i Barrowlands in questo 'Thane', edito dalla cinese Pest Productions, ci propina un 5-track di sonorità nere come la pece, a partire addirittura da un artwork minimalista in bianco e nero. Poi i nostri musicisti, alcuni peraltro coinvolti nel progetto dei Mary Shelley, si abbandonano al black dalle tinte fosche di "Alabaster", la opening track. Il pezzo offre una ritmica semplicistica su cui si staglia lo screaming aspro di David, mentre in sottofondo si può udire il suono di un violoncello, unica vera peculiarità della band della West Coast. Poi qualcosa per cui valga la pena una segnalazione in effetti non c'è, se non una non troppo accentuata vena doomish nella seconda metà del brano. L'approccio apocalittico si mantiene anche nella successiva "Peering Inward", lenta e magmatica nel suo preambolo che vede echeggiare nell'aria un che dei My Dying Bride più primordiali, prima che si diletti nella ricerca di scoppiettanti linee melodiche che regalino frizzanti frangenti atmosferici. La song si muove in seguito sul classico mid-tempo che da copione cita i primi Agalloch, con le chitarre suonate nel tipico tremolo picking. "Mother of Storms" apre con un arpeggio e lascia quanto prima il passo a una cavalcata epica che evoca il sound dei gods più famosi di Portland mixato a quello dei norvegesi Windir. Direi che il momento topico ce lo regala l'intrecciarsi tra le chitarre "tremolanti" e il suono del violoncello, ahimè troppo spesso relegato in secondo piano. "1107" è una lunga traccia malinconica che parte tranquilla e va via via aumentando di intensità, senza però mai convincere appieno e palesando i veri limiti della band. "On Bent Boughs" ci regala gli ultimi lunghi spettrali minuti di 'Thane', grazie alla timbrica greve del violoncello che quando va dileguandosi dal sound dei nostri, lascia una band acerba, come mille altre ve ne sono in giro. La raccomandazione d'obbligo finale sta pertanto nel concedere molto più spazio allo strumento ad arco, incrementando le parti d'atmosfera e mitigando l'asprezza di fondo racchiusa nelle feroci linee di chitarra e nell'acido cantato. C'è ancora molto da lavorare, ma le basi sembrano già buone. (Francesco Scarci) 

(Pest Productions - 2014)
Voto: 65

Auron - S/t

#PER CHI AMA: Heavy/Progressive
Fresco fresco di stampa (il cd è uscito il 29 Gennaio 2015 per Metal Scrap Records), giunge dalla Russia il debut album omonimo di questi quattro musicisti. Dediti ad un prog/power metal con influenze che richiamano alla mente le piu' blasonate band hard rock degli 80's , gli Auron propongono 12 tracce, di cui le ultime 2 bonus, in lingua madre. Anche se l'artwork e il booklet parlano chiaro, la palese ispirazione prog si avverte fin dalle prime note dove tuttavia il timbro vocale del vocalist finisce per rispecchiare un po' gli stilemi canonici di un certo tipo di hard rock (avete in mente i Gotthard?): si tratta infatti di uno “strano” mix, quello proposto dagli Auron, ove le atmosfere prog presenti (Dream Theater e Symphony X su tutti) sono scevre dall'ossessiva ricerca di tecnicismi a tutti i costi, finendo per privilegiare in qualche modo melodie più care all'hard rock classico. I quattro ragazzi mostrano infatti un'ottima padronanza strumentale ove sembra che tutto sia al servizio della canzone; tecnicamente i mezzi sono notevoli e lodevole risulta il lavoro in studio da parte di fonici e produttore (riportare anche questi dettagli sul libretto non sarebbe stato male). Ho ascoltato il lavoro dei nostri più volte e anche molto volentieri, poiché era da un po di tempo che non mi capitava di imbattermi in una band dedita a tale genere e posso affermare tranquillamente che questo è un buonissimo lavoro. Le dodici canzoni proposte sono piuttosto varie, anche se l'act russo non spinge mai sull'acceleratore preferendo rimanere su più confortevoli mid-tempo; è forse questa eterogeneità di fondo che finisce per mettere davvero troppa carne al fuoco, rendendo gli Auron un buon gruppo a metà strada tra il prog e l'hard rock da capello cotonato e spandex. In episodi come l'ottima opener “Obsession” potrete apprezzare quanto appena affermato, anche se è indubbia la bellezza della song, tra l'altro una delle mie preferite. Si continua con questo mix di prog e hard rock ancora con “Word and Deed”, “Spring” e “Stranger” per poi sfociare in un classico pezzo prog (fin dal titolo) “Prelude in H-moll”. È proprio in questi episodi che i nostri risultano un po' troppo frenati e con il pedale del freno tirato. Discorso a parte merita la bellissima “Mirrors”, sicuramente la migliore del lotto e mia preferita in assoluto, un mezzo capolavoro. I restanti brani sono piacevolissimi a partire da “Heroes of Last Generation”, per finire con la title-track “Auron”. In conclusione un gran bel debutto, in un genere non cosi inflazionato al momento, che permette alla band di Saratov di mettersi in mostra e anche piuttosto bene. Adesso non mi resta che aspettare il prossimo appuntamento con gli Auron confidando in una maggiore chiarezza di idee riguardo alla strada da intraprendere. A parte tutto, comunque, davvero molto bravi. (Claudio Catena)

(Metal Scrap Records - 2015)
Voto: 75

Battle Beast - Unholy Savior

#FOR FANS OF: Heavy/Power, Iron Maiden
Battle Beast have made a mark over the last 4 years, that cannot be denied. But I can't shake the feeling they were living under the shadow of more widely-known bands that they happened to tour with, (Delain, Sabaton, etc.). But now, prepare for the Finnish sextet to totally break free with the release of their third full-length. I'll be the first to admit I wasn't expecting anything special - a few gang-shout choruses here, a few keyboard solos there - but Noora and crew have just completely let loose with one hell of a thrill-ride that simply oozes metal in its purest form. Okay, "purest form" may be bending the truth. 'Unholy Savior' is brimming with an OTT attitude, filling every empty space with bells and whistles. But therein lies the magic of this release; it simply does not let go. From the heralding crash of "Lionheart", right through to their hammering cover of Paul Engemann's Push it to The Limit", this is an all-out, balls-to-the-wall, bombast-athon. That's not to say there isn't plenty of variation. Battle Beast are quite adept at ensuring their audiences never throw the 'one-trick-pony' insult at them. Here you will find up-tempo power metal hymns, mid-tempo stomping rockers, beautiful ballads, and even an 80s-inspired disco-esque tune with "Touch in the Night". Each verse, each chorus, each blazing guitar solo...they're all distinguishable from the last, providing much-desired variety and giving this album 100% replay value. The production is absolutely perfect - so full of power and majesty. Bright keyboards shimmer above a full, rounded guitar tone and a real spiky, piercing drum sound. There are excellent performances all round from this group of talented Finns - especially notable in the duel guitar/keyboard solos which simply glow with both technicality and control. But the star of the show is the magnificent mouth of Noora Louhimo. Often confused as the 'gimmick' of this band, her set of pipes stretches to stratospheric levels on 'Unholy Savior'. She is perfectly capable of sweet, lyrical melody - as exemplified on the gorgeous "Sea of Dreams". But she is best observed employing her rough, edgy, but insanely precise high-pitched screams. Hail, Noora! You are the new queen of metal! Picking out highlights from such a consistently phenomenal album is certainly not easy. But the first three tracks pack so much of a wallop, it digs right into the skin of the listener's face, absolutely forcing him/her to bang their heads like it's 1985! Aside from them, the previously mentioned "Sea of Dreams" lulls the listener into a euphoric haze, before being completely annihilated by the explosive "Speed And Danger" (Hmm, that riff sounds familiar...'Metal Militia' anyone?). I challenge you to find a band who sound more enthusiastic, more energetic, more vibrant, more METAL than Battle Beast right now. Here's hoping that this is a sign of things to come - because if Noora and co. carry on this way, they will be utterly unstoppable. Already on the list of 'best of 2015'? Thought so. "Put your pedal to the metal, It's time to rock and ride! Keep the engine roaring, louder than hell!" (Larry Best)

(Nuclear Blast - 2015)
Score: 90

Ambiguïté - Light & Shade

#PER CHI AMA: Sonorità Post
Per il nome della band, per i colori eleganti del loro sito web e per l'arpeggio iniziale che apre "Nightfliesdance", pensavo che i nostri fossero francesi. Ho sbagliato e di grosso: gli Ambiguïté sono difatti un duo russo guidato da Alexey ed Egor che fa musica sotto questo moniker dal 2011, anche se in realtà suonano insieme dal 2009. La band ha concepito 'Light & Shade' tra il 2013 e il 2014, pubblicandolo su bandcamp la scorsa estate e attirando l'interesse della sempre più potente Pest Production. L'etichetta cinese, in collaborazione con gli amici della Weary Bird Records (entrambe molto attive sul versante post-), hanno deciso di metterli sotto contratto e ora il loro digipack sta tra le mie mani con un 5-track che appunto apre con "Nightfliesdance", una song che si muove tra lo screamo e il post-hardcore, almeno nella sua prima metà, cercando di catturare, senza troppa fortuna, il mio interesse. Fortunatamente, i nostri non sono degli sprovveduti e hanno capito che i generi sopra menzionati non tirano più come una volta se non miscelati con un che di più accattivante e originale. Cosi nella seconda metà del pezzo, i due russi si rintanano in sonorità più introspettive, più marcatamente sognanti e post-rock, e meno male aggiungo io. In "Warm Night" le furiose accelerazioni iniziali mi fanno propendere addirittura per una vena post black degli Ambiguïté, ma le rarefazioni musicali, le melodie delle chitarre stile Alcest, i break acustici, i chorus super ruffiani, i vocalizzi che passano dall'urlato al pulito, mi spingono a rivedere la mia posizione iniziale. Quando "Towards the Fall" attacca con quel suo mood strappalacrime (e mutande) tipico delle ballad (che ahimè mette in mostra anche una certa stonatura del vocalist) inizio a essere un po' confuso. Ancora suoni malinconici (e questa volta strumentali) con la title track, il cui riff portante risuona nell'aria come le melodie shoegaze degli Alcest. Sono alla quarta canzone e mi sembra di avere a che fare con una band totalmente diversa da quella di inizio disco. L'Ep si chiude con "Hear Your Body (Remix 2013)" che rilegge il primo singolo scritto dai nostri nel 2011: un altro brano strumentale che sottolinea le qualità degli Ambiguïté in assenza del cantato; questo a suggerire un approccio definitvamente senza voce da parte dei nostri o la scelta di un vocalist più adatto alla causa. Mentre l'act russo rifletterà sul da farsi in futuro, voi una chance a 'Light & Shade' potete anche darla. (Francesco Scarci)

(Pest Productions/Weary Bird Records - 2014)
Voto: 65