#PER CHI AMA: Jazz-core, Industrial, Noise, Ambient |
Ad un anno di distanza dall’eccellente 'Kundalini Apocalipse', tornano i Combat Astronomy, progetto di James Huggett, con importanti novità. Ricordo di aver chiuso la mia (entusiastica) recensione di 'Kundalini Apocalipse' augurandomi di poter sentire presto gli esiti di una session con un batterista in carne ed ossa, affiancato alle distorsioni sludge della chitarra e del basso di Huggett, e delle invezioni free del sax di Martin Archer. Eccomi accontentato: il batterista che stavo attendendo è l’inglese Peter Fairclough e il risultato è questo monumentale doppio album di quasi due ore, una montagna ostica e impegnativa, che presenta però vette altissime. Una musica aliena, che chiede molto all’ascoltatore, ma molto è quello che è in grado di restituire in cambio. Vi rimando alla lunga e interessante intervista con James Huggett per i dettagli sulla genesi del lavoro, che appare fin da subito meno diretto e più sfaccettato rispetto al suo predecessore. Huggett non facilita certo il compito piazzando subito, in apertura del primo CD, i due brani più lunghi ed ostici dell’intero lavoro; i 17 minuti di "Tenser Quadrant" con i suoi clangori industrial che si fondono alla batteria di Fairclough e al tema del sax di Archer che ricuce di tanto in tanto un pezzo sempre sul punto di sfilacciarsi. "Unity Weapon" si estende invece per ben 21 minuti e rappresenta un perfetto esempio dell’unicità dei Combat Astonomy: una ritmica circolare sulla quale si innestano rarefazioni ambient alternate a impennate free e pesantezze di stampo doom. Il secondo CD ha una struttura più varia anche se in qualche modo simmetrica: in testa e in coda ci sono i momenti più sperimentali e free, mentre nel mezzo gli episodi più potenti, che rimandano in maniera più diretta a 'Kundalini Apocalipse'. In apertura la splendida “Inertia in Flames”, che richiama gli Art Ensemble of Chicago più ispirati, per poi lasciare il campo ad un pezzo totalmente diverso come “SuperFestival”, super-trascinante e perfino orecchiabile nei suoi saliscendi elettronici. Brani come “Ankh” e “Almaz” sono poi in grado di spazzare via qualsiasi cosa con la loro potenza selvaggia, prima di una chiusura ancora una volta noisy ("Arabian Carbines"). Non si puó, infine, non citare il lavoro immane di Martin Archer, veterano della scena free Jazz inglese più improntata all’improvvisazione (sullo stile di Evan Parker), che apporta un contributo enorme al disco non limitandosi a suonare da par suo il sax ma firmando tutte le parti di organo, piano elettrico, mellotron e tutta una serie di altre diavolerie che rendono unico il suono del gruppo. Il progetto è ambizioso ma la statura degli attori coinvolti è tale da non mostrare cedimenti e tale da lasciare intravedere margini di evoluzione ancora non quantificabili. Ad oggi, i Combat Astronomy, con il loro impossibile mix di doom-industrial-ambient-free-jazz sembrano non avere pietre di paragone nel panorama musicale, e sono in attesa di concorrenti in un campionato nel quale, per il momento, giocano da soli. Un quasi-capolavoro, decisamente tra i migliori album del 2014. (Mauro Catena)
(Zond Records - 2014)
Voto: 85
https://www.facebook.com/combatastronomy
Voto: 85
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