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domenica 1 marzo 2015

Combat Astronomy – Time Distort Nine

#PER CHI AMA: Jazz-core, Industrial, Noise, Ambient
Ad un anno di distanza dall’eccellente 'Kundalini Apocalipse', tornano i Combat Astronomy, progetto di James Huggett, con importanti novità. Ricordo di aver chiuso la mia (entusiastica) recensione di 'Kundalini Apocalipse' augurandomi di poter sentire presto gli esiti di una session con un batterista in carne ed ossa, affiancato alle distorsioni sludge della chitarra e del basso di Huggett, e delle invezioni free del sax di Martin Archer. Eccomi accontentato: il batterista che stavo attendendo è l’inglese Peter Fairclough e il risultato è questo monumentale doppio album di quasi due ore, una montagna ostica e impegnativa, che presenta però vette altissime. Una musica aliena, che chiede molto all’ascoltatore, ma molto è quello che è in grado di restituire in cambio. Vi rimando alla lunga e interessante intervista con James Huggett per i dettagli sulla genesi del lavoro, che appare fin da subito meno diretto e più sfaccettato rispetto al suo predecessore. Huggett non facilita certo il compito piazzando subito, in apertura del primo CD, i due brani più lunghi ed ostici dell’intero lavoro; i 17 minuti di "Tenser Quadrant" con i suoi clangori industrial che si fondono alla batteria di Fairclough e al tema del sax di Archer che ricuce di tanto in tanto un pezzo sempre sul punto di sfilacciarsi. "Unity Weapon" si estende invece per ben 21 minuti e rappresenta un perfetto esempio dell’unicità dei Combat Astonomy: una ritmica circolare sulla quale si innestano rarefazioni ambient alternate a impennate free e pesantezze di stampo doom. Il secondo CD ha una struttura più varia anche se in qualche modo simmetrica: in testa e in coda ci sono i momenti più sperimentali e free, mentre nel mezzo gli episodi più potenti, che rimandano in maniera più diretta a 'Kundalini Apocalipse'. In apertura la splendida “Inertia in Flames”, che richiama gli Art Ensemble of Chicago più ispirati, per poi lasciare il campo ad un pezzo totalmente diverso come “SuperFestival”, super-trascinante e perfino orecchiabile nei suoi saliscendi elettronici. Brani come “Ankh” e “Almaz” sono poi in grado di spazzare via qualsiasi cosa con la loro potenza selvaggia, prima di una chiusura ancora una volta noisy ("Arabian Carbines"). Non si puó, infine, non citare il lavoro immane di Martin Archer, veterano della scena free Jazz inglese più improntata all’improvvisazione (sullo stile di Evan Parker), che apporta un contributo enorme al disco non limitandosi a suonare da par suo il sax ma firmando tutte le parti di organo, piano elettrico, mellotron e tutta una serie di altre diavolerie che rendono unico il suono del gruppo. Il progetto è ambizioso ma la statura degli attori coinvolti è tale da non mostrare cedimenti e tale da lasciare intravedere margini di evoluzione ancora non quantificabili. Ad oggi, i Combat Astronomy, con il loro impossibile mix di doom-industrial-ambient-free-jazz sembrano non avere pietre di paragone nel panorama musicale, e sono in attesa di concorrenti in un campionato nel quale, per il momento, giocano da soli. Un quasi-capolavoro, decisamente tra i migliori album del 2014. (Mauro Catena)

(Zond Records - 2014)
Voto: 85

https://www.facebook.com/combatastronomy

Mekigah - Litost

#PER CHI AMA: Drone/Noise/Doom/Experimental, Terra Tenebrosa
I Mekigah sono una band australiana che ho avuto il piacere di ospitare un paio di volte all'interno del Pozzo, prima con il debutto 'The Serpent's Kiss', disco che strizzava l'occhiolino a sonorità gothic dark new wave e poi con 'The Necessary Evil', lavoro più pesante e orientato al versante death doom. Il compositore Vis Ortis, orfano di Kryptus, mischia nuovamente le carte e, coadiuvato da altri amici, tra cui quel TK Bollinger da poco recensito su queste stesse pagine, si lancia in un lavoro dalla forte aura sinistra, il cui legame con il passato è riscontrabile solo nel nome dell'interprete principale, Vis Ortis appunto. 'Litost' è un album controverso, dannatamente oscuro che si muove tra le rarefatte atmosfere della opening track, "Total Cessation of One", song al limite del drone, alla successiva e malatissima "The Sole Dwelling", traccia asfissiante, demoniaca e che alla lunga potrebbe condurre alla pazzia. L'incedere è lento e ossessivo, con suoni e rumori di sottofondo che sembrano provenire direttamente dall'inferno. "Arangutia", la terza traccia, non accenna minimamente a cambiare il tiro, cosi come è accaduto in passato per cui il sound dei nostri andava evolvendosi verso lidi sempre più improbabili. Qui si continua a scavare per scivolare sempre più verso il fondo, raggiungere le viscere della terra, entrare i cancelli dell'oltretomba e magari incontrare di persona Belzebù, Lucifero o quel diavolo che vi pare. A livello di sonorità, trovo qualche punto di contatto con i Terra Tenebrosa, ma i Mekigah hanno superato quei limiti dell'act svedese che pensavo invalicabili. Il violoncello di Ken Clinger si palesa minaccioso nella quarta "By Force of Breath", bellissimo esempio di dark ambient cinematico. Con il noise/drone della breve "Sa Fii al Dracului", si chiude la prima parte del disco che ricomincia da "Wurrmbu", un altro pezzo disorientante che continua a non consentirmi di mettere a fuoco la proposta del mastermind di Melbourne. Che diavolo è successo in questi ultimi tre anni, perchè la dipartita di Kryptos, come mai Vis Ortis si è infilato nel tunnel della disperazione sonora? Con "Circuitous Revenge" ho quasi la sensazione di rivedere la luce, quella luce che è stata spenta all'atto di premere il tasto play su 'Litost'. È solo una vana speranza però. La notte, il buio, le tenebre, l'assenza di luce, l'oscurità sono solo alcuni sinonimi di quello che è oggi la musica dei Mekigah. La litania sonora dei nostri fa quasi paura, i vocalizzi qui inclusi sono solo quelli delle anime dannate sommerse nella pece bollente e uncinate dai diavoli, mentre i suoni desolanti della successiva "Mokuy" sferzano l'aria come le raffiche del Blizzard polare, sebbene la melodia sia lenta e raggelante le vene. È il verso dell'ennesimo demone quello che si sente nell'incipit della conclusiva "Bir'yun", song che chiude un disco di assoluto valore ma anche di difficilissimo approccio. Un disco per poveri diavoli, anime dannate, grandi peccatori, condannati, tormentati e straziati. Se anche voi pensate di rientrare in una di queste categorie, 'Litost' è il disco che fa per voi, altrimenti sappiate che "qui si va nell'eterno dolore, si va tra la perduta gente, lasciate ogni speranza voi ch'entrate". (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2014)
Voto: 75

https://www.facebook.com/Mekigah

sabato 28 febbraio 2015

Waking Aida - Eschaton

#PER CHI AMA: Math/Rock strumentale, Post-rock
Ovvero della deriva math di Mtv, David Foster Wallace e altri discorsi. Ok, dovrei avere un’età che quanto meno mi porti a considerare seriamente se guardare o meno i programmi di Mtv, ma ognuno ha le sue perversioni, per cui confesso che ci sono alcuni programmi che guardo. E li guardo proprio perchè mi piacciono. Beh, ho notato come, da un anno a questa parte, sempre più spesso si faccia uso di commenti musicali math rock (cioè, rock strumentale non troppo rumoroso, con le chitarrine sottili, i crescendo, i controtempi e tutte quelle cose lí) per nulla disprezzabili. E questa è la prima cosa a cui ho pensato dopo aver ascoltato quest’ultimo lavoro degli inglesi Waking Aida. La seconda, in verità, dopo aver notato che tanto il titolo dell’album quanto quello del primo brano ("Incandenza") fossero legati a doppio filo a 'Infinite Jest', il romanzo-monstre di David Foster Wallace che contende all’'Ulisse' di Joyce la palma di libro col più basso rapporto tra coloro che lo citano come libro della vita e quanti di costoro l’abbiano effettivamente letto. Se il disco sia realmente dedicato al libro non ci è dato di sapere, anche perchè i quattro londinesi ci hanno inviato uno spartano CD-r privo di qualsivoglia informazione aggiuntiva, ma a me piace pensare che lo sia, un po’ perchè ció mi conferirebbe un’aria piú intelligente, e un po’ perchè contribuirebbe a rendermi piú simpatici i Waking Aida. I quattro sono senza dubbio dei musicisti eccellenti e propongono il loro rock strumentale che si pone a metà strada tra gli ipertecnicismi math e i saliscendi emozionali del post rock, scegliendo di fatto di non schierarsi. Quello che mi piace della loro proposta è la capacità di restare sospesi su più generi, richiamando suoni e atmosfere che citano tanto gli Explosion in the Sky quanto i Talking Heads (le chitarre di "Glow Coin" e "Time Travel with Firends" ne sono un esempio). A farla da padrone sono sicuramente le chitarre, per lo più pulite e suonate sempre in modo originale anche se un tantino cerebrale. A volte rischiano di richiamare alla mente la terribile parola “fusion”, ma riescono poi sempre abilmente a mantenersi al di sopra della linea di galleggiamento, sporcandosi con divagazioni semiserie che hanno il merito di tenere desta l’attenzione (cosa sempre difficile nei dischi strumentali) e rendere il tutto un po’ più divertente. Brani migliori? Per una volta è difficile dirlo per merito di una qualità media piuttosto alta. Oltre alla già citata "Incandenza", piacciono "How to Build a Space Station", con i suoi crescendo, la sognante "Glow Coin" e "This isn’t Even my Final Form", a cui è affidato il compito di chiudere il disco con un andamento emotivamente ondivago, da perfetta colonna sonora per una scena di tramonto invernale sulla spiaggia di Brighton. Molto interessanti. (Mauro Catena)

(Robot Needs Home Recordings - 2014)
Voto: 70

https://www.facebook.com/wakingaida

Warnungstraum - Mirror Waters

#PER CHI AMA: Black Ambient, primi Katatonia, Cultus Sanguine, primi Ensoph
Dei Warnungstraum non so granchè se non che si tratti di una band lucana, costituita da Bartlett Green, Cabal Dark Moon e Vox Mortuorum, terzetto dedito inizialmente a un black metal ferale, che dal 2009 a oggi, ci ha regalato tre lavori, di cui l'ultimo è il qui presente 'Mirror Waters'. Fatte le dovute presentazioni, ci addentriamo alla scoperta delle quattro song che costituiscono l'album, quattro lunghi sospiri di morte, aperti dalle melodie orrorifiche di "Antarabhava" dai decadenti contenuti lirici. La song mostra fin da subito il cambio di rotta intrapreso dall'act di Potenza che, abbandonati gli estremismi sonori darkthroniani dei precedenti album, si lancia in un sound mid-tempo che ha rievocato nella mia mente i gloriosi e sottovalutati Cultus Sanguine. Auspico che anche voi ricordiate questo nome (se cosi non fosse siete pregati di andarveli a cercare) e possiate quindi capire l'effluvio emotivo che potrete respirare nella opening track, song che gode di una certa maestosità di fondo, sebbene contraddistinta da ritmi di chitarra lenti e delicati, in cui i synth di B.G. rappresentano il vero driver della musicalità dei nostri e l'acido screaming di Cabal Dark Moon ne completa il quadro. Dieci lunghi minuti di sonorità oniriche spezzate da un break ambient, costituiscono il più che discreto biglietto da visita dei Warnungstraum (in tedesco "sogno premonitore"). "The Gardens of Yima" è la seconda traccia dall'inequivocabile impronta ambient, per cui ho chiuso gli occhi e ho immaginato di trovarmi in un tempio buddista, lasciandomi sopraffare dall'affabile spiritualità delle poche note che risuonano in questo lungo brano strumentale in cui non vi è alcun segno di estremismo sonoro. Con "Narkissos" ritorniamo a percorrere il sentiero battuto nella opening track: atmosfere malinconiche, la chitarra acustica che si sublima con quella elettrica, le harsh vocals stemperate dal lavoro delle tastiere in un altro lungo brano dai contenuti accativanti, forse alla lunga un po' ripetitivi, ma comunque di sicuro impatto emozionale, che a metà brano sembrano anche evocare lo spettro dei Katatonia più primordiali, per un risultato alla lunga coinvolgente. Il suono di un'arpa e di un flauto introducono la conclusiva "The Sad Singing Woods", altro pezzo strumentale di suadente misticismo che non sfigurerebbe in un qualche lavoro new age di Kitaro. 'Mirror Waters' alla fine è un buon lavoro che rilegge il black metal sotto una nuova prospettiva, che sia l'inizio di una nuova era? Difficile dirlo ora con soli quattro brani, mi limiterò pertanto a parafrasare il Manzoni con "Ai posteri l'ardua sentenza..." (Francesco Scarci)

(Nykta Records - 2014)
Voto: 70

https://www.facebook.com/pages/Warnungstraum

venerdì 27 febbraio 2015

Amederia - Unheard Prayers

#PER CHI AMA: Gothic/Dark/Doom 
Vi chiedete chi siano gli Amederia? Eccomi a voi per parlarvi di questa band tartara, i cui componenti sono originari del Tatarstan, una repubblica autonoma della federazione Russa locata ad 800 km da Mosca. Con questo 'Unheard Prayers', i nostri sono al loro secondo full-lenght, dopo il primo uscito nell'anno della loro formazione, il 2006. L’apertura dell’album è strumentale e affidata alle note di “Eden” delicata e remissiva aria composta da note d’un pianoforte garbato. Cambiamo registro. Are you ready to go? Questa la carica di “Who We Are”, che perfora i timpani con un growl prolungato emesso da Galeev Damir, che si mescola alla sottile, sensibile voce di Gulnaz Bagirova. Nel brano si alternano growl, sussurri parlati, riff maestosi. “Si aprì il carillon, una ballerina girò e tutto d’un tratto la stanza si rabbuiò…”. Sono proprio le note di un carillon ad introdurre “Loneliness in Heaven”. Questa melodia pesa sul cuore. La musica ed il testo sono impeccabili. Le doti canore dei due protagonisti del pezzo trasudano soggezione e brividi. La chitarra scorsa da Danila Pereladov non scherza, contribuendo all’oblio ansioso, che trasmette questo brano. L’intro di “Dance of Two Swans” è percorso dalle mani di Konstantine Dolgin che scrivono note armoniose sulle sue tastiere. Questo pezzo accantona il growl, in favore delle due voci che s’intersecano in un unisono sognante. Veniamo a “Forbiden Love”. Ora possiamo abbandonarci alle capacità del batterista, Ilnur Gafarov, che non ci dà tregua con un battere e poi levare, ora ritmato, ora lento, sempre agganciato al sottofondo di un leit motive proposto dal bassista Andrey Dolgih. È la volta di “Angel Fall”, che sembra un prolungamento della terza traccia, la ripetitività è in agguato. Ciò che da identità propria ai due pezzi, è l’alternanza dei diversi stili. Prima un dark/doom, poi la parte lirico/sinfonica, che lascia nuovamente spazio al dark/doom. Dopo questo tripudio di suoni e sensazioni voliamo verso la chiusura dell’album. Prima con “Togheter”, che alleggerisce la mente dandole in pasto linfa. Questa love ballad si compone di una suonata di pianoforte struggente, in stile Kivimetsän Druidi. Ne consiglio l’ascolto, dopo aver creato intorno a voi un silenzio assoluto. La fine di questo lavoro, coincide con “Sunset”. E sembra la chiusura di un cerchio, identico a come è iniziato. L’aria che ne traspira è mesta, ma con un barlume in un cuor logoro. L’album nella sua pienezza tecnica ed emozionale risulta un viaggio, che non appesantisce e non annoia mai l’anima. (Samantha Pigozzo)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 75

mercoledì 25 febbraio 2015

Massacre - Back From Beyond

#FOR FAN OF: Death Metal, Morbid Angel, Obituary
I'm not sure I agree with referring to Florida's Massacre as 'legends'. They had one great album in the early 90s, one god-awful pile of shit in the mid 90s, and...pretty much nothing else. While Death, Morbid Angel, Autopsy, Obituary etc. were busy cooking up album after album of superb death metal goodness - Massacre couldn't manage any more than one worth talking about. Legends? Hardly. Yes, 'From Beyond' was a damn fine death metal release. You know why? Because Massacre understood the need for depth within the longer song structures, and for brevity within the entire affair. Their brand new effort, 'Back From Beyond' (yes, they actually called it that), completely misses this point and falls flat on its face. Let's start with the positive: firstly, the absence of Kam Lee might have worried many. Though I never viewed him as much more than a reject from Death's 'Spiritual Healing' era - he did have some nice grunts which enlivened Massacre's debut. However, fear not! Ed Webb is more than capable of filling Lee's murky shoes. In fact, the vocals are the best thing about this record, period. Webb's visceral growls sound so natural and controlled, even when he completely lets loose and treats the listener to a merciless high-pitched scream (see the beginning of "Succumb To Rapture"). He also gains merits in my eyes for being decipherable, helping 'Back From Beyond' to at least succeed in accessibility where it fails in creativity. The production also warrants a round of applause. Tim Vazquez deserves much praise for making 'Back From Beyond' sound up-to-date and glossy, whilst maintaining that classic Flori-Death feeling. Webb's masterful growls still dominate, but the guitars/bass/drums all fuse together as one well-oiled metal machine. Unfortunately - that's really where the positivity ends. The songs themselves are similar to my writing: dull, and appear far longer than they are. I find it almost insulting that they have an ambient intro in the shape of "The Ancient Ones". This implies that they are preparing the listener to delve into a realm full of atmosphere and well-structured schematics. Unfortunately, it only emphasizes the disappointment when you find out that every song is uninspired, devoid of any excitement, and contains as much variety as a Tesco Value biscuit party-pack. Seriously. Every song sounds the fucking same. Not in the hyper-fun Dragonforce way - in a monotonous, bore-you-to-suicide way. This is where the band should have taken a lesson from their superior debut. 'From Beyond' consisted of 9 tracks, mainly between 4 and 6 minutes. This forced each song to have enough substance to be memorable and interesting, encouraging repeated listens. 'Back From Beyond' consists of 14 tracks (!), mainly between 2-3 minutes. This forces each song to end before it ever has a chance to develop any intriguing musical ideas. Even now, after 5 painstaking listens, I cannot distinguish one song from the other. Superb vocals, production, and artwork contrast awkwardly with bland riffs, forgettable 'hooks', and badly-executed solos. I'm not sure I hold out much hope for this band returning with another full-length release, and neither do I care. I'll stick to Cannibal Corpse, Obituary or Gorguts for quality old-school death metal. 'Back From Beyond' is not excruciatingly bad - it just seems irrelevant in today's climate. It would probably make excellent background music though... (Larry Best)

(Century Media - 2014)
Score: 50

T.K. Bollinger & That Sinking Feeling - A Catalogue of Woe

#PER CHI AMA: Blues Rock, Nick Cave, Father John Misty
T. K. Bollinger, da Melbourne, è un losco figuro che nelle foto mostra quell’eleganza old style allo stesso tempo fascinosa e inquietante di un Captain Beefheart, con tanto di cappello piumato e barba da mormone. Il nostro uomo si porta dietro il suo blues come un fardello doloroso quanto necessario e calca i palcoscenici ormai da una decina d’anni, prevalentemente in formato acustico, in solitaria. I That Sinking Feeling sono l’incarnazione del suo nuovo progetto, una vera e propria band (oltre al leader, voce e chitarra, ci sono R.S. Amor al basso e Vis Ortis dei Megikah alla batteria), che pubblicano ora il loro primo full lenght dopo l’EP 'The Roots of Despair' del 2011 con 9 brani frutto di tre anni di lavoro. Fin dal titolo, 'A Catalogue of Woe' scopre le carte e si propone di mettere in fila canzoni che sono brandelli di emozioni forti, squarci nell'anima torturata e inquieta del suo autore. Il blues è senz'altro la parola d’ordine. Blues per come lo potevano intendere una ventina d’anni fa i Bad Seeds di Nick Cave, la cui presenza in termini di influenze è decisamente tangibile. Una delle caratteristiche prominenti del suono dell’album è la voce di Bollinger, il cui timbro particolare – sorta di via di mezzo tra Nick Cave, Father John Misty e un Anthony meno teatrale - caratterizza fortemente i brani, grazie anche al supporto di una strumentazione asciutta ed essenziale. Chitarra, basso e batteria hanno un suono secco ed elettrico, capace di assecondare il leader tanto nel dipanarsi dei suoi blues sepolcrali, dove sanno mettere a nudo le inflessioni quasi soul che ogni tanto la sua voce rivela, quanto di sostenerlo laddove il suono si fa più rock, cupo e rumoroso. Presi singolarmente, i brani sono tutti di ottimo livello, a cominciare dall’opener “Betting on Your Dying Day”, quasi scarnificata nella sua dolente essenzialità, o la solenne “Nothing is Always Certain”, dove vengono evocati i Bad Seeds più innodici. La scaletta viene poi squassata dal (gradito) frastuono di brani come “Tortured by a Racialised Folk Devil” o “That Which Does Not Kill Me, Gives Me Cancer”, fieramente e oscuramente rock, per poi trovare forse il suo apice nel quasi-gospel da brividi “Where You There When They Crucified My Love?”. Da menzionare anche l’elegante “Rich Man’s Heaven”, e la sinuosamente soul “Wearing Down My Devotion”. Impossibile poi non soffermarsi sui testi, un viaggio doloroso e personale dritto al cuore di storie dure, che tuttavia lasciano intravedere la possibilità di una redenzione, che non viene però dall'alto, quanto da dentro. Perché, per dirla con l’autore, c’è sempre la possibilità che “ the shit in life can become the compost for new growth”. Disco davvero bello, toccante e fragoroso allo stesso tempo. (Mauro Catena)

(Yippie Bean - 2014)
Voto: 80

Country Corpses - Protozoan in Love

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore/Sludge
Fantastico, apri la pagina Facebook dei COUNTRY CORPSES e ti ritrovi la foto di loro tre con Cristina D'avena, un must! Dopo questo biglietto da visita goliardico, andiamo a parlare seriamente di questo trio nato nel 2008 a La Spezia. Da quello che ho potuto recuperare dal Web, i nostri sono un side project (vi hanno partecipato tutti e tre gli elementi) degli ALLIGATOR GAR, i quali un paio di anni fa lanciarono un disco dal profetico titolo 'Country Corpses'! Dopo questo principio di emicrania dovuto all'intersecarsi di nomi, passiamo all'album prodotto dalla Skatti Vorticosi Records, contenuto in un semplice jewel case dalla grafica a mano libera che richiama scene di vita agreste di un mondo onirico. Infatti, le figure rappresentate sono incroci di diversi animali o insetti, come la sensuale formica-sirena, anche se il pezzo forte è il disegno all'interno del booklet: il ritratto di famiglia fatto dal piccolo Cthulhu che rappresenta un papà umano e una mamma medusa felicemente ritratti in spiaggia. I Country Corpses sono di sicuro dei buontemponi che raramente si prendono sul serio, ma quando si parla di musica, la questione cambia. I brani sono relativamente brevi, e gli otto pezzi contenuti scorrono veloci in poco più di venti minuti, sposando la filosofia del noise/hardcore/punk. "Healthcare" è il primo brano ed è bello forte, un treno pieno zeppo di grunge/stoner che arriva veloce e che puoi scansare solo se hai i riflessi pronti. Il chitarrista/cantante Dani ci mette l'anima, dando alla luce ottimi riff e assoli, cantandoci pure sopra in maniera abbastanza convincente. Lo stile è sofferente, spesso urlato e graffiante, che regala maggior enfasi alle melodie dei vari brani, ma che talvolta risulta troppo forzato e poco naturale. Eli (basso) e Nico (batteria) fanno del loro meglio per fondersi un'unica entità fatta di puro ritmo con risultati piuttosto piacevoli. "The Cities Kingdom" è il brano che convince di più, arrangiato meglio ed equilibrato, dove anche il cantato si trova più a proprio agio. La canzone graffia e morde come un animale in gabbia, le chitarre sono potenti e oggettivamente belle da ascoltare. C'è pure spazio per un breve break a metà traccia, una giusta motivazione per riprendere dallo stesso punto, senza tante remore. Più interessante lo special che arriva qualche secondo più tardi, dove i Country Corpses si trasformano in satanassi dello sludge. Probabilmente troppo brevi le parti interessanti e troppo lunghe quelle scontate, ma il brano scorre che è una meraviglia. "Worthless" strizza l'occhio ai Verdena e agli Smashing Pumpkins dei tempi passati, una bella cavalcata ruvida e polverosa. Tanta energia incanalata nel modo giusto, un brano che sicuramente renderà parecchio nei vari live che la band sta affrontando in questi ultimi mesi. Un ottimo lavoro questo 'Protozoan in Love', ben arrangiato e registrato anche discretamente. Le uniche pecche sono da relegare alla sezione creatività che dovrebbe spingere la band a cercare una propria strada, da qui il futuro dei Country Corpses si potrebbe rivelare ancor più promettente. (Michele Montanari)

(Skatti Vorticosi Records - 2014)
Voto: 75

sabato 21 febbraio 2015

Diversion End - Building a Maze

#PER CHI AMA: Groove Metal, Scar Symmetry, Soilwork
Come più volte ho scritto, è un vero peccato che alcuni album passino inosservati alla massa semplicemente perchè non c'è un'adeguata promozione sui giornali o in giro per il web. Credo che ormai dovremo farci il callo e andare in cerca, surfando in internet nei giusti canali, di titoli underground che un qualcosa di interessante da dire ce l'hanno pure. La mia corsia preferenziale è ovviamente bandcamp che oggi mi porta alla scoperta dei Diversion End, band finlandese dedita a sonorità moderne, grondanti di groove. E il terzetto formato da Simi, Liffe e Tupe si diverte sin dall'opening track con song che citano Soilwork, Scar Symmetry e Raunchy (tanto per fare qualche nome), calibrando poi la propria proposta con un limitato pizzico di originalità. Chiaro, nulla di mai sentito, ma comunque di sicuro interesse. La title track mostra la robustezza dei nostri in sede ritmica, ma anche il dualismo canoro growl/clean di Simi e l'utilizzo copioso ed esuberante di synth e tastiere che hanno modo di garantire suoni tanto piacevoli quanto ruffiani. E "As the Light Drowns Again" non può che esser da meno con le sue meravigliose linee melodiche, che non faranno certo gridare al miracolo, ma che comunque avranno modo di tenervi compagnia mentre percorrete con la vostra auto strade deserte, fischiettando la melodia accattivante dei Diversion End. "For My Shadows" è la terza traccia di questo mini EP, che si configura come la song più malinconica delle cinque contenute in 'Building a Maze'. Il che ci sta anche, per spezzare quel ritmo forse un po' troppo "happy" delle prime due tracce, dall'impatto easy listening. Non è infatti difficile ascoltare questo terzetto della prolifica scena di Oulu, che torna a spaccare con "Reverie", brano che offre il riffing preciso dei due axemen che va a plasmarmi benissimo con le percussioni chirurgiche di Tuomi in un sound ammiccante e piacione. La conclusiva "King of Illusions" chiude il dischetto, sciorinando un'ultima seducente ritmica cyber death. I Diversion End alla fine, pur rimanendo ancorati ad un genere che ha già detto molto, si lasciano comunque facilmente ascoltare. Per il futuro tuttavia, consiglierei una maggiore ricerca di originalità, diamine siete finlandesi e avete la genialità insita nel vostro DNA. Bravi ragazzi, ma ora serve un po' più di coraggio. (Francesco Scarci)

Love Club – Pearls Dissolve in Vinegar

#PER CHI AMA: Shoegaze, The Stooges, Rolling Stones
Quinto album per il sestetto di Philadelphia, capitanato da Mitch Esparza, dedito ad un rock piuttosto selvaggio, debitore tanto del r’n’r sporco e cattivo degli Stones di 'Exile on Main Street', quanto degli Stooges, ma anche pesantemente influenzato da una psichedelia meno rassicurante. Molto poco confortante è anche l’immagine di copertina, dove un’aquila dalla testa bianca, simbolo degli States, perde di colpo tutta la sua fierezza e maestosità, mostrandosi fragile e agonizzante. Che sia una non troppo velata critica alla grande nazione americana? Inserito il cd nel lettore, dopo un’intro strumentale, "New Phace" ci colpisce in piena faccia con il suo piglio stridente in stile Detroit anni '70. "Lonely Star" potrebbe essere il frutto di una jam sudata tra Stones e Iggy Pop, mentre "God Hates You" sarebbe un perfetto pop soul daclassifica, se non fosse suonato come non ci fosse un domani e cantato da uno sguaiatissimo ed efferato Esparza. Quale sorpresa quindi, riconoscere nella sua stessa voce nel pezzo successivo, "Need Somebody", ne piú ne meno che quella di Dylan, alle prese con una sgangherata ballad acustica. E se "Don’t Shoot me Down" spinge ancora forte sul pedale di un garage-punk ultra-saturo, è nella seconda parte del disco che i Love Club riservano le sorpese piú grosse e i colpi migliori, a partire dal raga psych-noise "Awaken Satan", 6 minuti di innodici gorghi chitarristici e voci zuccherose, come dei My Bloody Valentine piú grezzi. Non si fa in tempo a riprendersi dallo stordimento, che è la volta di "Murder by Contract pts. II & III", uno strumentale che parte dai set polverosi degli western dei Calexico e arriva, senza soluzione di continuità, all’Etiopia supersonica raccontata dai dischi degli Ex con Getatchew Mekuria, nella stessa estasi di chitarre e sax selvaggio. È ancora un sax basso e grasso a scandire il ritmo di "Blue Eyed Big Dicked Baby Faced Killer", rock blues sguaiato che potrebbe essere uscito dalle sessions di 'Funhouse'. Ancora psichedelia per la strumentale "The Mod Trade", con quelle accelerazioni chitarristiche vorticose che mettono il serio pericolo il nostro senso dell’equilibrio. Si finisce con la title track, altro apocrifo Dylaniano suonato, come sempre, non proprio in punta di fioretto. Davvero un bel lavoro, dal suono grezzo al punto giusto, che riserva sorprese inaspettate e tanta passione per un rock fieramente al di là delle etichette e al di fuori da ogni pretesa mainstream. Consigliatissimi. (Mauro Catena)

giovedì 19 febbraio 2015

L'Alba di Morrigan - The Essence Remains

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Post Rock/Alternative, Katatonia, Novembre
Pelle d'oca, esaltazione e nodo alla gola. Quanti di noi possono dire di aver mai provato tali sensazioni ascoltando musica? Personalmente, durante i concerti più belli della mia vita, oppure ascoltando il nuovo album delle band che preferisco. Ma provarlo così, inaspettatamente, aumenta a dismisura l'esperienza sensoriale ed emozionale. Quando il lettore cd va a leggere le prime note di questo 'The Essence Remains' ti rendi conto che hai tra le mani qualcosa di speciale e allora ti lasci avvolgere dai quarantasette minuti che seguono, in caduta libera. La band nasce a Torino nel 2008 e dopo qualche cambio/assestamento di formazione, si consolida con gli attuali cinque membri che hanno dato vita al primo demo 'The Circle' nel 2009 e infine l'album in questione. Il sound si posizione tra post rock e alternative metal, ma quello che colpisce subito è la qualità della proposta, la minuziosa ricerca fatta per suonare ed incidere quelle precise sensazioni che la band regala dal vivo. Un mix tra Katatonia (hanno collaborato con il loro tastierista e questo spiega molte cose), gli ahimè scomparsi Novembre e gli Anathema. "Snowstorm" è una ballata lieve e leggera come fiocchi di neve che si appoggiano a terra senza fare rumore, tra arpeggi profondi di chitarra e il cantato che sussurra una ninna nanna che ci faccia dormire per sempre tra braccia calde. La ritmica non è scontatamene lenta, anzi, batteria e basso si intrecciano e si rincorrono sempre leggeri, ma decisi. In "Lilith" inizia a prendere forma la parte più aggressiva della band: il brano infatti è introdotto da un riff di chitarra, leggermente acido nel suono o comunque che ricorda le distorsioni di qualche anno fa. Il testo è in italiano e gli arrangiamenti sono sempre all'altezza, ben strutturati e che scorrono fluidi come l'acqua di un ruscello. Il riff iniziale ritorna e spezza brevemente la struttura di arpeggi e assoli, permettendo al brano di riprendere il suo mood iniziale. "24 Megatons" racchiude l'anima dei L'Alba di Morrigan fatta di dolcezza e decisione, una duplicità che convive perfettamente in un brano dove fraseggi puliti e cristallini aprono la via a riff potenti che sembrano ancora più decisi proprio perché vengono circondati da tutto in poco più di quattro minuti, ma sono sufficienti per apprezzarne ogni singolo cambio di direzione, come i passaggi math rock, dove la ritmica si protrae in una sequenza chirurgica e cadenzata. Solo alla fine ci si rende conto che è un brano strumentale, ma il lavoro fatto è talmente complesso e ricco di sfumature che sarebbe stato praticamente impossibile infilarci una linea vocale. Un ottimo lavoro questo 'The Essence Remains', peccato solo averlo recensito con qualche anno di ritardo. Personalmente avrei sperato in un suono più potente, ma si percepisce ogni singola vena di speranza ed emozione che solo una band matura e valida può condividere e trasmettere così bene. (Michele Montanari)

(My Kingdom Music - 2012)
Voto: 85

People are Mechanisms - VII

#PER CHI AMA: Doom/Rock Depressive
Quest'album è un viaggio in cui la meta passa in secondo piano. Armatevi di torce, bussole e fuoco. Vi serviranno quando vi troverete sperduti in quelle terre dimenticate dalla coscienza, abitate solo dai fantasmi della vostra anima. “Envy”, questo il brano d’esordio in cui la materialità della terra diviene avulsa allo spirito, in favore della risacca del vento. Turbina la musica, sprigionando abbracci immaginati, in cui il tepore è solo un’illusione. Mentre ascolto questa strumentalità, apparentemente asettica, sento che in essa vi è il potere di alienare freddo e solitudine. Questa essenza in musica, ha l’arroganza e la forza di smemorizzare il cuore, rendendolo un guerriero che vincerà, dopo aver pagato l’obolo del contrappasso. La velocità del nostro viaggio cambia con “Gluttony”. La batteria marcia incalzando gli spazi tiepidi che aveva scavato “Envy”, per poi mescolarsi a corde metalliche di chitarre sprezzanti, quanto definite in un evolvere metal che fa togliere cappello e vestiti, tanto è il calore che si solleva dalla carne in un ballo ipnotizzante descritto da quest’altra song strumentale. Se vi sono sembrata predata romanticamente dal dark, con “Lust”, stravolgerò le vostre percezioni. Vi invito a stringere tra i denti il vostro pensiero più ossessivo. Trattenetelo, perché nel mettere a volume questa traccia potrebbe confortarvi. Ci addentriamo con “Lust”, in verbalizzazioni squisitamente metalliche in cui si avvicendano ottoni violentati, bassi sguaiati, rimembranze sensualmente spinte in accordi graffiati. Un orgasmo sonoro dall’anima nera. Ben fatto. Straziante. Coinvolgente. Riprendetevi in fretta. Perché “Sloth” non vi lascia respirare. Bissiamo “Lust” in un tutt'uno di batteria, gesti secchi sulle corde di chitarre elettriche dallo stomaco ben carburato. Questi due brani sono appendice, l’uno dell’altro. Ora prendete le vostre torce, le vostre bussole ed i vostri fuochi. Spegnete. Buttate. Soffiate. Questa “Proud” ce la assaporiamo avvolti dal buio pesto che non filtra né speranza, né salvezza, né possibilità. Chiudiamo con un catenaccio ferroso la porta dell’anima. Lasciamo che “Proud” ci guidi nei sentieri bui delle paure. Lasciamo all'udito il beneficio del dubbio che questa band russa, possa farci non solo perdere, ma trovare. Lascio il passo al vostro riascolto. Consiglio agli astanti questo viaggio, ma lasciando a casa l’armatura. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 75

Red Hills - Pleasure of Destruction

#PER CHI AMA: Melo Death
Uscito nel 2014 per la label Total Metal Records, il CD di questi cinque ragazzi ucraini arriva tra le mie grinfie con grandi aspettative, in quanto il booklet e l'artwork davvero ben curati, indicano che probabilmente ci troviamo di fonte ad un bel disco, fatto secondo i sacri crismi. La formazione è composta da voce, due chitarre più basso e batteria, e inizia subito forte, martellando a più non posso su ritmi cari al death metal scandinavo più classico (ascoltando i Red Hills, si capisce quanta scuola hanno fatto gruppi come In Flames e co.), con una voce però che cerca di fare il verso al Chuck Schuldiner anni '90 (Control Denied compresi ovviamente). L'abbinamento all'inizio potrebbe spiazzare, ma poi piace, anche se non finisce di convincermi appieno. Doppia cassa onnipresente, ottimo il lavoro di chitarre, i Red Hills continuano la loro marcia lungo i 26 minuti del disco andando a ricalcare, il che si palesa dopo qualche ascolto, terreni già toccati dai Children of Bodom anni or sono. Ecco il punto cruciale di 'Pleasure of Destruction', la poca personalità. Formalmente il disco va oltre la sufficienza, grazie a suoni meritevoli, precisi e degni di un disco metal moderno; tuttavia, le canzoni sembrano davvero tutte uguali e anche dopo svariati ascolti, si fatica a riconoscerle. Tra le song emergenti, per la qualità dei refrains, vi cito la canzone in apertura, “Hard to Be a Good Man”, e la notevole “Nocturne”, mentre tracce come “Whispering in My Mind” e “Bullet in My Head” rimangono piuttosto anonime nell'economia del disco, risultando monotone e poco originali. Un punto a favore dei nostri va invece nella durata delle composizioni, che si attestano su una media di 3 minuti a canzone, rendendo l'ascolto agile e per niente noioso. Tirando le somme quindi, 'Pleasure of Destruction' è un disco piuttosto innocuo, che non aggiunge e non toglie nulla al panorama attuale del genere, barcamenandosi dignitosamente intorno alla sufficienza. Sul filo del rasoio i Red Hills strappano una sufficienza; neanche mezzo voto in più, sarebbe davvero troppo. (Claudio Catena)

(Total Metal Records - 2014)
Voto: 60