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lunedì 27 gennaio 2020

Trail of Tears - Free Fall Into Fear

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic/Symph Black, Dimmu Borgir, Tristania
"Che fine ha fatto Catherine Paulsen, ma soprattutto che ci fa Kjetil Nordhus, cantante dei Green Carnation, nei Trail of Tears", questo è ciò che pensai al tempo dell'uscita di questo 'Free Fall Into Fear', quarto album per i norvegesi. Queste anche le novità sostanziali della band che, scaricata la bella e brava cantante per le solite divergenze stilistiche, pensò bene di assoldare, per le clean vocals, il vocalist della band di Tchort e soci. La musica dei nostri ha quindi subito una notevole sterzata stilistica, prendendo le distanze da quel filone death/gothic che vedeva in Tristania e Within Temptation i maggiori esecutori, e proiettando i nsotri verso lidi leggermente più black metal. Rispetto al precedente e ottimo 'A New Dimension of Might' si può infatti notare una leggera diminuzione della melodia, causata anche dall’assenza della bellissima voce di Catherine, e un incremento della cattiveria, sorretta da un feeling maligno spesso presente ma ben bilanciato da break tastieristici ed inserti melodici. Da sempre sono un fan della band, li ho seguiti dai tempi del primo 'Disclosure in Red', quindi devo essere sincero su una cosa: al primo ascolto di questo lavoro sono rimasto spiazzato e un po’ deluso. Tuttavia ai successivi passaggi, ho potuto apprezzare il nuovo taglio dei sette norvegesi, coadiuvati peraltro dalle ottime vocals di Kjetil che entrò in pianta stabile nelle file della band. 'Free Fall Into Fear' alla fine è un album che si avvicina, se mi passate il paragone, al tanto contestato 'Spiritual Black Dimension' dei Dimmu Borgir, anche se qui la voce di Ronny Thorsen è più gutturale rispetto a quella del suo collega Shagrath, la base ritmica è potente, veloce e melodica. Ascoltandolo e riascoltandolo mi è venuto in mente anche il bellissimo e sottovalutato 'The Shepherd and the Hounds of Hell' degli ottimi Obtained Enslavement, e anche qualcosina degli Arcturus. Sì insomma, a me quest’album è piaciuto perché riesce a coniugare violenza sonora e melodia. Il voto non è più alto solo per un paio di pezzi non all’altezza. (Francesco Scarci)

(Napalm Records - 2005)
Voto: 74

https://www.facebook.com/trailoftearsofficial/

domenica 26 gennaio 2020

Omnianthropy - Therion

#PER CHI AMA: Symph Death, Fleshgod Apocalypse
Una manciata di minuti a disposizione dei messicani Omnianthropy per farsi conoscere oltre i confini nazionali. 'Therion' è infatti un EP di tre pezzi che a distanza di un anno dal loro debut su lunga distanza, fa approdare nuovamente il trio della capitale sui virtuali scaffali del web. Non conoscevo assolutamente la band prima di oggi, però questo lavoro ha captato in un qualche modo la mia attenzione col suo potente death sinfonico. La title track esplode alla grande nel mio stereo con i suoi ritmi tirati, ma anche con le sue orchestrazioni bombastiche che per un attimo mi riportano al death sinfonico della band di cui oggi l'EP ha preso il titolo, ossia i Therion di Christofer Johnsson. Pomposi, melodici, orchestrali e cattivi al punto giusto, la proposta degli Omnianthropy potrebbe essere un mix tra 'Lepaca Kliffoth' e 'Theli' dei gods svedesi, miscelato con le ultime cose dei nostrani Fleshgod Apocalypse. Lo testimonia anche la seconda galoppata, "Claroscuro", tra ritmiche tese, growling vocals, montagne di tastiere, sublimi orchestrazioni, ma anche clean vocals evocative che mi convincono abbondantemente della bontà della proposta dei nostri. L'ultima traccia, "Designis", conferma le qualità dei nostri, in una traccia ancora più nevrotica, in cui sono le keys ad avere il ruolo da leone e in cui sottolinerei uno spettacolare assolo conclusivo nella migliore tradizione heavy classico. Bella scoperta questa, spero ora di ascoltare un Lp più lungo e strutturato. (Francesco Scarci)

Bob Seger - I Knew You When

#PER CHI AMA: Rock, ZZ Top
Aperto da "Gracile", un robusitissimo southern da catene ai polsi, programmaticamente intento a dipanare eventuali (e legittimi) dubbi sulla odierna rocchettosità di questo barbuto ultrasettantenne versione anni duemila-quasi-20, l'album gigioneggia tra ballatonze reggisen-springsteeniane ("I'll Remember You", la title track e "Blue Ridge") ipodermicamente sintonizzate con certe suggestioni eigties. Date un ascolto all'electro-boogie di evidente ZZ-derivazione ottantiana ("Runaway Train" potrebbe provenire ciuffciuffetttando direttamente da "Like a Rock" o "The Fire Inside"), certi lancinanti soli di sassofono che "Careless Whispers" a confronto vi sembrerà una roba dei Jane's Addiction (uno solo, in realtà: quello di "Something More"), confortevoli tastiere Alan-Parsons-iane (la altrettanto robustissima "The Highway"). "The Sea Inside" è una bitorzoluta crasi tra "Black Moon" di Emerson Lake & Palmer e "Kashmir" nella versione con Puff Daddy, mentre la cover di "Democracy" (Leonard Cohen, 1992) vi sembrerà una roba tipo degli U2 in mutande collocati nella hall di una sala massaggi tailandesi. Nonostante gli intenti ammirevoli, l'attenzione si affievolisce mano a mano che l'album digrada lentamente, giù, fino alla scialba "Glenn Song", dedicata al compiato Glenn Frey. (Alberto Calorosi)

(Capitol Records - 2017)
Voto: 63

http://www.bobseger.com/

Dan Auerbach - Waiting on a Song

#PER CHI AMA: Blues/Folk Rock
Più che lo sbandierato omaggio alla adottiva Nashville, dove D-A vivachia da quasi 10 anni al pari dell'intero nu-establishment musicale americano e di conseguenza mondiale, l'album sembra più una specie di caricatura lomografica di quel sunglass-folk californiano anni sessanta visto attraverso quegli occhialetti a raggi X per vedere le donne nude che avete sempre sognato di acquistare da bambini. Stiamo parlando praticamente dell'intero album, da "Waiting on a Song a "Show Me", insolitamente monotono e in questo senso, ammettiamolo, scarsamente auerbach/iano. Costituiscono (blanda) eccezione un paio di auerbaccanali disco-funky in Key musicale assolutamente Black ("Undertow" e "Malibu Man" che sarebbe una mocking song dedicata all'amico Rick Rubin - esiste forse qualcuno al mondo che non è amico di Richettone Dollarone?) e "Shine on Me", un misurato e astuto omaggio a certo roots disimpegnato anni '80 (cfr. il Tom Petty dei Travelling Wilburys) con tanto di ospitata celebre (un praticamente impercettibile Mark Knopfler), non a caso scelto come singolo trainante del dischetto. In un'intervista D-A racconta che la sua giornata tipo consiste nel preparare la colazione per la figlioletta e poi chiudersi in studio fino a sera. Non sorprende che il disco parlotti con discutibile ispirazione di quanto sia bello starsene lì ad aspettare che arrivi l'ispirazione ('Waiting on a Song') e di quanto scarsamente accessibile appaia il mondo esterno ("King of a One Horse Town", ma anche "Never in My Wildest Dreams"), specialmente guardandolo dalla finestra dello studio di registrazione. Ma il rock ahimé è dove è sempre stato, vale a dire là fuori, caro D-A. In bocca al lupo. (Alberto Calorosi)

(Easy Eye Sound - 2017)
Voto: 55

http://danauerbachmusic.com/

The Pit Tips - Best of 2019

Francesco Scarci

Borknagar - True North
Phlebotomized - Deformation of Humanity
Soldat Hans - Es Taut
Cult Of Luna - A Dawn To Fear
Ultar - Pantheon MMXIX

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Shadowsofthesun

Torche - Admission
Cave In - Final Transmission
Devin Townsend - Empath
Rammstein - Rammstein
Cattle Decapitation - Death Atlas
Tool - Fear Inoculum

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Alain González Artola

Firmament - Nightside Valkyres
Ringarë - Under Pale Moon
Grima - Will of Primordial
Midnight Odyssey - Biolume Part.1: In Tartarean Chains
Alcest - Spiritual Instinct

Life of Agony - Broken Valley

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Crossover/Alternative
I newyorkesi Life of Agony si sono lasciati e ripresi mille volte. Dopo lo scioglimento del 1999, sono tornati prima con un live album, registrato all’Irving Plaza di New York nel gennaio 2003 e poi con questo 'Broken Valley' nel 2005. Il disco, anticipato dal singolo "Love To Let You Down", contiene 12 tracce che ripartono là dove, nel 1997 con 'Soul Searching Sun', la band aveva mollato. E il tempo sembra essersi fermato a otto anni prima e che nulla abbia alla fine turbato il feeling instauratosi all’interno del quartetto guidato da Keith Caputo. Tra le mani ci si ritrova infatti un disco di sano hard rock contaminato dall’hardcore, egregiamente prodotto da Greg Fidelman (Jet, Slipknot), che ha segnato a mio avviso la consacrazione definitiva di una delle band più influenti nella storia di questo genere. Il loro ritorno fu contraddistinto anche dalla presenza della line up originale che rese celebre la band, nella scena di New York, negli anni ‘90. 'Broken Valley' non è però l'album violento che ci saremo aspettati, sembra molto più intimista, meditativo e intenso, con brani permeati di una sottile malinconia. I Life of Agony sono quindi in grado di farci emozionare con un sound talvolta ruvido ma sempre appassionante, intriso ancora di quel grunge che li contaminò durante gli anni ‘90: “Junk Sick” è infatti un omaggio agli Alice in Chains, “The Day He Died” è un pezzo in cui Keith parla della morte del padre, e insieme all’energica “The Calm that Disturbs You”, rappresentano forse i migliori pezzi di questo cd, un album in grado di offrire musica di alto spessore artistico. La splendida voce di Keith ci mostra poi il motivo per cui il singer abbandonò la band per intraprendere la carriera solista. La musica dei Life of Agony è in grado di dipingere un quadro decadente della società americana attraverso linee ed ombre trasportate in note dal quartetto di Brooklyn. (Francesco Scarci)

(Epic Records - 2005)
Voto: 76

https://www.facebook.com/lifeofagonyfamiglia/

Ritual Carnage - I, Infidel

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash/Death, Exodus, Slayer
Dalla terra del “Sol Levante” (ma con qualche contaminazione americana) ecco i Ritual Carnage, riesumati con il loro quarto e ultimo album (non si sa poi che fine abbiano fatto) partorito per la Osmose Prod. nel 2005. 'I, Infidel' è un 35 minuti di assalti frontali thrash/death di chiara matrice americana, stile Bay Area. C’è da dire subito che se questo lavoro fosse uscito sul finire degli anni ’80, avrebbe ricevuto larghi consensi, mentre vent'anni dopo, il sound proposto dai nostri, sembra abbastanza anacronistico. Dodici brani, per una durata media di tre minuti ciascuno, caratterizzati da una struttura quanto mai scontata: cavalcata thrash, coro, bridge, il classico tagliente assolo dei due chitarristi in pieno stile Exodus/Slayer e infine la chiusura con la ripresa della strofa iniziale. Cosa volete che vi dica di più, gli elementi tipici del genere ci sono tutti e costanti in ogni traccia. Posso solo aggiungere che i nostri sono abili nel maneggiare i loro strumenti, la produzione è buona, però ciò che più conta è che non siamo più nel 1987 quando usciva 'The Legacy' dei Testament. Da rivedere poi la voce, fastidiosa e castrata nelle sue tonalità più basse. I testi si occupano di problematiche sociali: guerra, religione e le altre piaghe che colpiscono il nostro pianeta; in “Room 101” ritroviamo anche riferimenti letterari a “1984” di George Orwell e altri richiami ad Edgar Allan Poe. Insomma, se ci fossero state, oltre alla perizia tecnica, anche le idee, forse non appiopperei a questi quattro ragazzi giapponesi (e all’americano di turno) questa stroncatura. (Francesco Scarci)

giovedì 23 gennaio 2020

Order of the Ebon Hand - VII: The Chariot

#PER CHI AMA: Hellenic Black
L'Attica, la culla della civiltà occidentale con la sua splendida Atene, luogo da cui emerse l'hellenic sound. Il quintetto degli Order of the Ebon Hand arriva proprio da là, forgiando il proprio sound laddove nacque quello di altre divinità greche quali Rotting Christ, Kawir, Thou Art Lord, Zemial, Necromantia, giusto per citarvene alcuni. La band di oggi si riaffaccia col terzo album, 'VII: The Chariot', fuori per la russa Satanath Records, dopo ben 14 anni dal secondo disco, 'XV: The Devil', sebbene nel mezzo siano usciti un paio di split. I pezzi per convincerci della bontà del lavoro di quest'oggi sono otto. L'album si apre con "Dreadnaught", un black mid-tempo che mi colpisce soprattutto in chiave solistica, visto un lungo assolo dai connotati heavy rock da stropicciarsi gli occhi. La song è poi ammantata da una sinistra aura occulta che rende più appetibile il dischetto. La seconda "Μόρες" è decisamente più tirata con un forte orientamento ad un black minimalista; quello che colpisce in questa traccia, oltre alla ferale architettura ritmica, sono delle limitatissime ma orchestrali tastiere di sottofondo che sembrano smorzare la furia incontrollata dei cinque ateniesi. Con "Wings" si prosegue sulla stessa lunghezza d'onda, con i classici suoni neri come la pece, fatti di taglienti melodie di chitarra (in stile Swedish black) e gracchianti vocalizzi. Peccato solo siano scomparse quelle chitarre classiche che mi avevano ben impressionato nell'opener. Si continua infatti a picchiare come forsennati anche nella successiva "Sabnock", song che vede la partecipazione alla voce, in veste di guest star, proprio del buon Sakis dei Rotting Christ, quasi a dare il proprio benestare al lavoro degli Order of the Ebon Hand; e la prova del frontman è come sempre indiscutibile. "Knight of Swords" parte più tranquilla con un arpeggio di un minutino a prepararci alla furia distruttiva di un brano di elevata intensità che mi porta a pensare "che mazzo deve farsi il batterista dei nostri". La grandinata prosegue anche in "Αίαντας" ma sarà cosi fino alla fine: in questa song compaiono delle sofferenti ed epiche voci parlate, mentre in "Bael" il ritmo si fa addirittura più furioso. "The Slow Death Walk" è l'ultimo episodio del disco caratterizzato da un riffing più trattenuto che si muove a braccetto con stralunati e quasi barocchi tocchi di tastiera che mi hanno evocato un'altra band greca, gli Hail Spirit Noir. Quello degli Order of the Ebon Hand è un gradito ritorno anche se un po' troppo derivativo. Speriamo solo che la band si levi un po' di ruggine di dosso e non ci faccia attendere altri tre lustri per un nuovo full length. (Francesco Scarci)

Laethora - March Of The Parasite

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death, Napalm Death, Hate Eternal
Se pensate che il solo fatto di avere tra le proprie fila Niklas Sundin dei Dark Tranquillity e alcuni membri dei The Provenance (band avantgarde svedese), significhi che il sound di questi Laethora possa stare a metà strada tra le due band sopra citate, beh vi sbagliate di grosso. Infatti, per chi non conoscesse la band di Gotheborg, i nostri suonano un death abbastanza feroce ed ispirato più al brutal americano che allo swedish death. Le dieci tracce di 'March of the Parasite', debut album del 2007, partono subito forte con chitarre al fulmicotone, ritmiche violentissime, iper blast-beat e growling vocals, di chiara matrice americana, con fonte d’ispirazione inequivocabile il sound di Morbid Angel e Hate Eternal. La prima sorpresa giunge però alla quinta traccia, “Black Void Remembrance”, dove in mezzo allo scatenarsi del putiferio, spuntano all’improvviso clean vocals (stile Katatonia) a spezzare, per un attimo, il ritmo infernale imposto dal quintetto svedese. Con la successiva “Repulsive”, si rendono chiare altre influenze che lì per lì, mi erano sfuggite nei primi brani, ossia un chiaro riferimento al sound dei Napalm Death (periodo 'Utopia Banished'). In “The Scum of Us All” il ritmo indiavolato dei nostri rallenta di brutto, a livelli quasi doom claustrofobici, per poi ripartire a pestare con la successiva “Y.M.B.”. Chiaramente, non siamo di fronte a nessun tipo di innovazione in campo estremo, tuttavia 'March of the Parasite' rappresentò una bella boccata d’aria fresca in un periodo abbastanza stantio per la scena estrema di metà anni 2000. (Francesco Scarci)

(Osmose Productions - 2007)
Voto: 73

https://www.reverbnation.com/laethora

Mithras - Behind The Shadows Lie Madness

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Atmospheric Brutal Death, Akercoke, Morbid Angel
Nel 2007, dopo quattro anni di silenzio in cui avevo temuto il peggio pensando che la band si fosse sciolta, sono tornati sulle scene gli inglesi Mithras e il loro brutal death chiaramente influenzato da Morbid Angel e Nile, ma personalizzato da inusuali clean vocals e stralunate soluzioni chitarristiche. La base di partenza dell'allora duo di Rugby è sempre il brutal death “made in USA” ma arricchito, come di consueto - e questo rappresenta la loro forza - da eclettici e complessi arrangiamenti ed evocative parti atmosferico-spaziali, che da sempre mi fanno apprezzare la band. Le dodici tracce di 'Behind the Shadows Lie Madness' vi fanno sussultare dalla sedia, per la violenza e l’intensità profusa dagli strumenti di questi due impavidi musicisti. Mastodontici suoni di chitarra massacreranno di certo i vostri timpani, mentre velocità disumane, dettate dalle furiose ritmiche e dai veloci blast-beat, segneranno il tempo per un frenetico headbanging. Growling vocals, magnifici e tecnici assoli, ammalianti inserti tastieristici, completeranno un lavoro maturo e complesso, per cui valse la pena attendere così tanto tempo. La divinità solare è ha colpito ancora col proprio atmosferico brutal extreme metal. (Francesco Scarci)

lunedì 20 gennaio 2020

Vofa - S/t

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Evoken
Tre sole tracce (di dodici minuti ciascuna) sono sufficienti per gli islandesi Vofa per farci sprofondare nel loro sound cupo e deprimente. "I", "II" e "III" sono i titoli delle suddette song che faranno la gioia sicuramente di tutti coloro che amano il funeral doom nella sua accezione più viscerale ed atmosferica. Gli ingredienti del genere ci sono ovviamente tutti e non possiamo certo parlare di quale miracolo musicale o quant'altro però in una serata in cui la nebbia scivola sinistra attraverso le vie della mia città, una proposta cosi spettrale ci calza giusto a pennello. Le melodie sono dissonanti e stritolanti quasi ci si trovi tra le spire di un serpente a sonagli. La voce cavernosa del frontman è bella arcigna e ben ci sta su quel tappeto ritmico altrettanto aspro e al contempo indolente. Questo per dire che l'ascolto del debut album di questi misteriosi Vofa, band formatasi in Islanda in un non meglio specificato luogo, non è proprio la più facile delle release a cui accostarsi. Le tre tracce sono tutte accumunate dalle medesime caratteristiche strutturali, con una musicalità asfissiante che colpisce ai fianchi fino a farci barcollare, in una vena che può ricordare gli Evoken o gli altrettanto misteriosi EA. Nella seconda traccia sottolineerei la presenza di un cantato pulito spettrale che si affianca al growling ed un lavoro alla batteria quasi tribale che caratterizza il sound dei nostri. La terza track, a parte presentare un intro ambientale, poi si muove sulle medesime coordinate stilistiche, ossia a rallentatore, anche se a metà brano, la proposta sembra movimentarsi un po' di più e con delle voci demoniache a supporto. Insomma, avrete capito che quello dei Vofa non è proprio un album per tutti, quindi la raccomandazione è quella di avvicinarsi con cautela a questo caustico maelstrom sonoro. (Francesco Scarci)

domenica 19 gennaio 2020

En Declin - A Possible Human Drift Scenario

#FOR FANS OF: Dark Rock, Anathema, Klimt 1918
The Italian project En Declin is not a new band being founded in 1996 under the moniker My End. Later on, the project evolved and changed its name to En Declin, releasing two different albums between 2005 and 2009. As it usually happens, the line-up stability was the main problem for these guys to continue improving and evolving its sound, as some members came and left the band during a long period of time. In 2016, the three remaining members, Andrea, Marco and Mauricio decided to continuing as a trio in order to forge a renewed sound and release a new work, which would mark a new beginning for En Declin. The result of this effort is ‘A Possible Human Drift Scenario’.

En Declin’s style on this album is a more sophisticated and mature form of its previous sound. ‘A Possible Human Drift Scenario’ navigates between the realms of dark rock, melancholic pop and some noticeable progressive influences. The band´s music is a vivid soundtrack of a dreamy journey, forged by deep emotions as melancholy or the evocation of a long forgotten past. Musically speaking ‘A Possible Human Drift Scenario’ recalls the softest creations of bands like Katatonia or Anathema. Maurizio’s vocals are delicate yet mournful with a very fragile and beautiful tone; his vocals appear quite in the front of the mix, mainly alone, but also many times doubling them and giving the effect of having several singers singing at the same time, some nice examples would be the excellent ‘Caronte’ or the also fine tune ‘Mr. Lamb’. As mentioned, this is not a particularly heavy album, but a release more focused on being evocating. For this reason, the guitars play an accompanying role of the vocals with tastefully done melodies and chords with a strong prog nature, but being closer to the pop style more than an actual rock band. The guitars compositions like the necessary rhythmic base create structures with a simple, but a interestingly evolving progression in the most inspired compositions. A representative example of this is given by the longest track of the album ‘Das Eismeer’, which is probably the most interesting composition. These highlights improve the overall result because sometimes these kinds of albums tend to be slightly monotonous, as one may find some tracks particularly similar in its structure. Marco, who is the guy behind the drums, tries to enrich the sound of this album adding some atmospheric arrangements, like little electronics effects which serve as a intro for some songs or as a background ambience. I particularly like these adds as they reinforce the evocating nature of this album.

Overall, ‘A Possible Human Drift Scenario’ is a pleasant listen if you like these calm and slightly gloomy albums, where the atmosphere is more important than the strength of the compositions. It will obviously please those who enjoyed the softest side of the aforementioned bands like Katatonia or of particularly emotional projects like Klimt 1918. (Alain González Artola)
 
(My Kingdom Music - 2019)
Score: 70

https://endeclin.bandcamp.com/

Prime Creation - Tears of Rage

#PER CHI AMA: Heavy/Power, Hammerfall, Stratovarius
Dopo le iniziali scorribande nelle lande del power metal, i membri orfani del gruppo svedese Morifade, si riuniscono nel 2015 in un nuovo progetto che sancisce una svolta sostanziale negli intenti dei musicisti di Linkoping: i Prime Creation. Esauritasi infatti la spinta del filone power scandinavo, probabilmente indispensabile per sostenere i quattro album all’attivo, non molto convincenti a dire il vero, e terminati gli argomenti da spendere in materia, i tre amici e compagni Henrik Weimedal al basso, il batterista Kim Arnelled ed il chitarrista Robin Arnell hanno optato per una brusca sterzata al loro sound originale. Già dal 2016, con l’omonimo (ottimo) disco d’esordio, i Prime Creation mettono in chiaro i propri intenti per un deciso passaggio verso territori meno aulici e più diretti. Un solido heavy metal di scuola svedese con qualche riffone di chitarra e cavalcate in doppia cassa da headbanging puro, talvolta a sconfinare nel thrash. Un po’ il percorso che seguirono a suo tempo i connazionali Hammerfall, ma senza il loro classico biker-appeal. Durante la stesura del primo album, l’ensemble si completa con il reclutamento di Esa Englund ($ilverdollar, Hellshaker), vocalist dalle tonalità baritone, decisamente più adeguate allo scopo. Tuttavia, sembra quasi che il cambio di direzione fosse più convinto e convincente, nell'album d’esordio, rispetto a quest’ultima uscita intitolata 'Tears of Rage', risalente a pochi mesi fa. Nonostante l’impronta sia quella più heavy tradizionale che avevamo sentito in 'Prime Creation', questo secondo disco lascia permeare tra i solidi riff, qualche respiro rievocante il passato dei Morifade. Qualche refrain a ritmi abbassati, i cori e le tastiere che ritornano a farsi sentire pressoché in tutti i brani (seppur con peso differente) e sporadici rimandi a certe icone della vecchia guardia. Penso per esempio ad “All for my Crown” che sa un po’ di Stratovarius, anche se quelli meno ispirati del periodo tardivo. Oppure i Symphony X più orecchiabili (di 'Paradise Lost', per dire), con un alone percepibile in “Before the Rain”. Appunto, pare che solo qualche anno fa, i nostri fossero stati più radicali nelle scelte stilistiche. Oltre al sound meno deciso rispetto al precedente esordio, le sezioni “di respiro” si fanno più frequenti. Le tastiere ritornano ad assumere maggiore importanza, in tracce come l’opener “Finger Crossed”. Oltre a questa, buoni anche i brani “Pretend till the End” con la suo intro elettronica e la title-track “Tears Of Rage”, coi suoi carichi ed abbondanti riff ed un’ottima sezione solista di chitarra. Mancano però quei meccanismi che inneschino la giusta scintilla. Questa seconda fatica dell’ensemble svedese non è decisamente al livello del precedente. Un po’ troppo diluita forse. Oppure banalmente povera di ispirazione nel songwriting, magari troppo affrettata a causa del contratto discografico, anziché beneficiato dai giusti tempi per composizione e organizzazione delle idee. Anche la conclusione appare un po’ fuori luogo, con un tappeto di tastiere e la cadenzata voce di Englund su ritmi blandissimi in "Endless Lanes". Un passetto all’indietro quindi per i Prime Creation: peccato perché ci avevano davvero stupiti all’esordio, piazzando un bel colpo alla prima uscita. Ma appunto per questo, restiamo fiduciosi in attesa. (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

giovedì 16 gennaio 2020

Monarque - Jusqu'à la Mort

#FOR FANS OF: Atmospheric Black
When we speak about strong local scenes in the black metal sub-genre, there are a few ones which always stand out among the best, and if I should choose one with a particularly strong profile, I would personally mention the Quebec scene. It has always amazed its almost infallible quality, its devotion to the French language and this area´s cultural heritage, regardless of the specific lyrics of each project. Another fact I find particularly interesting, is the tasteful balance between a straightforward aggression and the atmospheric essence of the genre, which all these projects seem to master. You will find some of them which tend to lean to one side or another, but without leaving apart completely the aforementioned balance.

Monarque is one of the most interesting projects of this scene and unsurprisingly they master this delicate balance between strength and ambiance. This is not a new project as it was founded in 2003 by musicians who actively take part in other bands located in the same region, as the excellent Forteresse, Cjethe or Dèlétère, just to mention some of them. Prior to the current work, the band released three very interesting albums, the last one, ‘Lys Noir’, was released in 2013. It seems that the band is taking an increasing time to release a new full length, although fortunately they have returned with a new EP entitled ‘Jusqu'à la Mort’. The new work contains only three songs though its length, clocking around 22 minutes, and its quality make the listen worth of your time. The homonymous opening track is the finest example of a black metal song equally rich in ferocity, speed and melody. The vocals are aggressive, raw and wild, always accompanied by generally fast drums, though with a healthy variety in their tempo. The guitars are obviously the highlight with those riffs full of atmosphere and strength. Their melodies are truly addictive and excellently executed. In the background we find here and there some arrangements which enhance the ambience, making the music even more hypnotizing. As the EP progresses, those characteristics become stronger, especially for those touches which make each composition unique. Those acoustic guitars, the background keys or the organ, just to mention a few examples, provide the perfect contrast to the ferocious vocals and the top-notch guitars. All the songs may present a similar structure, but all the tweaks make each song in this EP distinctive and interesting.

At the end, Monarque has returned with an excellent EP which makes the wait for the next full length even more exciting. Personally, I only hope that the next record will have new compositions in the vein of this EP. Moreover, I would not be unhappy if they include some of these tracks as I have really enjoyed them. (Alain González Artola)


(Sepulchral Productions - 2019)
Score: 80

https://monarqueqc.bandcamp.com/album/jusqu-la-mort