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domenica 1 dicembre 2019

Isor - S/t

#PER CHI AMA: Instrumental Black
Gli Isor sono una misteriosa creatura proveniente dalla Germania, verosimilmente una one-man-band, la cui città d'origine mi rimane sconosciuta. Non so nemmeno se questo sia un EP d'esordio o cos'altro, visto che le informazioni sul web sono praticamente assenti oppure rimandano ad una omonima band inglese. E allora lasciamo spazio alla musica contenuta in questo 5-track omonimo che apre con l'intro sinistra di "Abgleiten" e prosegue con le melodie accattivanti (disturbanti, ridondanti e qualsiasi altra cosa che termini in -anti) di "Kein Zurück": una serie di impulsi sonori in grado di penetrare pericolosamente le nostre menti come se un trapano si avvicinasse alla fronte e li iniziasse a bucare per far fluire internamente i suoni ingannevoli di questa song, che a me ha affascinato per lo più per il suo carattere disperato e disperante. Mi aspettavo un cantato almeno nella terza traccia, "Einsamkeit", ma ancora non v'è traccia di una voce, e qui ancora peggio, dato che ci troviamo al cospetto di una stralunata song noise ambient. E allora ci si riprova con "Leibes Hass", ma il suo carattere cerimonialistico-tibetano, mi lascia presagire l'ascolto di suoni meditativi per tutti i suoi sette minuti. In realtà la song evolve la propria musicalità in melodie soffuse (sempre rigorosamente strumentali) che ci conducono fino alla conclusiva "Geist", l'ultimo atto di questo complicato 'Isor'. (Francesco Scarci)

Pènitence Onirique - Vestige

#PER CHI AMA: Symph Black
Della serie a volte ritornano nel Pozzo dei Dannati, ecco arrivare il tanto atteso comeback discografico dei francesi Pènitence Onirique, intitolato 'Vestige'. Detto che l'uomo fotografato in copertina somiglia a Jeff Bridges nei panni del Grande Lebowski, del combo della Valle della Loira avevo parlato già molto positivamente in occasione del loro debutto. Sempre supportati dalla Les Acteurs de l'Ombre Productions, la band transalpina sembra qui far addirittura meglio rispetto al passato, senza peraltro stravolgere di una virgola il proprio sound. Sempre di black sinfonico infatti stiamo parlando, un black però di alta qualità che dall'infima e malefica "Le Corps Gelé de Lyse" si giunge alla conclusiva ed epica title track. Detto che l'opener ci dice dell'attuale eccellente stato di forma dell'act di Chartres, "La Cité des Larmes" sottolinea ancora una volta la bravura con cui i nostri riescono a produrre un black metal elaborato, dinamico, atmosferico ma soprattutto estremamente convincente. Il tutto sostenuto da ottime trame ritmiche accompagnate da una grande performance vocale del nuovo arrivato Ebrietas e da un sontuoso lavoro alle tastiere che, per quanto non invasive, contribuiscono ad elevare la qualità dell'opera, che ancora una volta partendo dai vecchi insegnamenti dei Limbonic Art, li fa propri, e anzi li arricchisce di una propria personalità che si esprime appunto attraverso i pezzi già menzionati, ma soprattutto attraverso l'inquieta spettralità di "Les Sirènes Misérables", e di un suono che trasuda spaventosi incubi ad occhi aperti, in particolare nella sua debordante seconda parte. A calmare i tormenti dell'anima, ci pensa fortunatamente la strumentale "Hespéros" che ci regala quasi 180 secondi di delicate melodie mortali, prima che la pura devastazione prenda il sopravvento nelle rimanenti tracce del disco. Si perchè con "Extase Exquise" e a seguire con quello che è stato il singolo apripista, "Souveraineté Suprême", ma anche con la devastante title track, c'è solo da prepararsi al peggio, visto che il quintetto non scherza assolutamente. Ci attendono infatti gli ultimi 20 minuti di melodie malinconiche, blast beat furenti, screaming vocals e splendide atmosfere, che fanno di questo 'Vestige' finalmente un lavoro black di interessanti prospettive. (Francesco Scarci)
 
(LADLO Productions - 2019)
Voto: 77

https://ladlo.bandcamp.com/album/vestige

Atom Made Earth - Severance

#PER CHI AMA: Psych Rock
Davvero interessante la proposta dei marchigiani Atom Made Earth, band comparsa da queste parti in occasione del precedente album 'Morning Glory'. Il gruppo, dopo gli ottimi responsi ottenuti con quel lavoro, torna con questo nuovo 'Severance' e otto brani nuovi di zecca, calibrati tra lo shoegaze dell'opener "First of a Second Split" ed un sound che ammicca in modo inequivocabile alla psichedelia dei Pink Floyd, così come avevamo avuto modo di sottolineare in precedenza. E nella stessa opening track balzano all'occhio, nella porzione solista, le influenze seventies della compagine italica, nelle cui tracce si ritrova peraltro un'elevata dose di malinconia. "Childhood Song" è un breve intermezzo strumentale che ci introduce a "Youth" attraverso atmosfere morbide e suadenti di un post-rock comunque dai connotati decisamente nostalgici che mi hanno evocato nel cantato anthemico, gli americani *Shels. In questo meraviglioso fluido sonoro, altri generi musicali invadono la musica dei nostri, dall'elettronica, quasi perennemente in background, al kraut prog-rock, che fanno della lunga "Youth", il mio pezzo preferito. "From Earth With Hurt" è un'altra piccola perla, in cui i nostri giocano con una girandola di colori a pastello e calde emozioni messe in musica, che si fanno però più scure nella seconda metà del brano. "Native" ha una forte componente etnico tribale nelle sue note, quasi un rito di iniziazione dei nativi d'America attorno al fuoco per un tributo alla Madre Terra. "El Roi" è invece il brano di cui avrei fatto volentieri a meno, troppo vintage per i miei gusti e a mio avviso troppo scollegato dai pezzi ascoltati sino ad ora, anche se la seconda parte va riprendendosi coi suoi frequenti rimandi ai Pink Floyd. Per fortuna con "In the Glow" si rientra nei binari del post rock qui ancora pervaso da un certo shoegaze. La title track chiude col suo ambient minimalista un disco affascinante che conferma le eccellenti doti tecnico-artistiche di una band, il cui nome è da imprimere nel proprio taccuino. (Francesco Scarci)

giovedì 28 novembre 2019

Kenneth Minor – On My Own

#PER CHI AMA: Rock Blues
Arriva dalla Germania l'acclamato terzo album dei menestrelli di Wiesbaden Kenneth Minor, premiati qua e là per i precedenti lavori e dopo aver suonato un po' ovunque in giro per l'Europa. Musicalmente si vedono evoluzioni stilistiche più intime e pop, la produzione è molto buona, forse troppo chirurgica e leggermente fredda, manca infatti un po' del sudore e della polvere del blues, mentre country e folk si fanno sentire, anche se non sempre con un carisma e calore perfetti. Più sporco sarebbe stato meglio, un errore forse legato alle tecnologie digitali moderne che hanno colpito anche i Rolling Stones nella loro ultima fatica. I brani filano e la voce nasale di Bird Christiani s'intreccia bene con quella di Athena Isabella ("Fed Up" – "Hidden Berries"), evocando il ricordo della mitica coppia Johnny Cash & June Carter in una forma più consona all'epoca attuale. Il blues sporcato di punk rock si presenta in "Wrap up a Deal", brano dinamico dotato di una buona verve e bei suoni, ma con modi troppo pop per poter esprimere una certa rabbia. Non male anche il blues fumoso di "On My Own" ma ai Kenneth Minor le vesti più intime del folk si prestano di più, cosa che emerge con forza nei riff della ballata "True", brano scarno fatto di voce/chitarra/armonica dal sapore rurale, di terra e cieli aperti, sognante e riflessiva allo stesso modo, in puro stile Dylan. In verità, la figura acustica ed elettrica del vecchio Bob si aggira spesso tra le note della band, cosa non disdicevole che non passa inosservata. Anche l'estro alla Andy White non sfigura nello stile dei nostri, associato peraltro ad una esposta vena alla Fab Four, ("Bad Conscience Blues" ricorda con il suo lento incedere da funerale "The Importance Of Being Idle" degli Oasis), forma un sound maturo e coinvolgente. In "Dash of Sadness" emergono per una manciata di minuti, cenni di sperimentazione tra le retrovie ritmiche vicine al Tom Waits dei giorni più acidi ma poi tutto torna alla normalità con una coda conclusiva che si divide tra umori rock alla Steve Earle, là dove il campo di suoni diviene più colorato e psichedelico, grazie all'ingresso delle tastiere e la perfetta chiusura con tributo finale al mito Neil Young di "My My, Hey Hey (Out of the Blue)". Un disco derivativo ma di certo ben fatto. (Bob Stoner)

Decem Maleficivm - La Fin De Satán

#PER CHI AMA: Death Avantgarde, Arcturus, Insomnium
Album di debutto per i cileni Decem Maleficivm, per cui la Les Acteurs de l'Ombre Productions ha voluto fare uno strappo alla regola alla propria policy legata alla promozione di sole band francesi (un'eccezione che avevamo già ravvisato con i baschi Numen e che d'ora in poi smetterò di sottolineare). Evidentemente la band di Santiago deve avere le carte in regola per aver solleticato l'interesse della label transalpina. Il genere proposto è essenzialmente in linea con i dettami dell'etichetta, ossia un black melodico, peraltro con alcune venature avanguardistiche che scomodano grandi nomi della scena norvegese, in primis Arcturus e Borknagar. L'opener di questo 'La Fin De Satán' infatti, nel suo veemente black fatto di ritmiche (un pochino obsolete) e grim vocals, sfodera una seconda voce che richiama proprio i vocalizzi in pulito delle band appena nominate, e per fortuna aggiungerei io. La musica del sestetto sud americano infatti non è che mi esalti granchè; nei primi cinque minuti di "The Ceremony", la proposta mi è sembrata alquanto scontata, ma le voci pulite di Daniel Araya tengono in un qualche modo a galla la band, almeno fino a quando non si sviluppa una splendida coda solistica che innalza sopra la media la performance dell'act cileno. E le cose tendono a migliorare con "Instinct" anche se francamente, devo ammettere di non aver amato particolarmente il suono stile barile (pensate ai Metallica del periodo 'St. Anger') del drumming e quel coacervo di suoni che si sviluppa nelle parti più serrate dei brani. Di contro, quando la sezione solista prende la scena, beh mi dimentico di tutte le imperfezioni sin qui descritte e mi lascio sedurre dalle splendide melodie delle sei corde. Gli accostamenti che mi sovvengono in questi frangenti, decisamente più prog death oriented, pongono i Decem Maleficivm al fianco di realtà quali Insomnium o Throes of Dawn. Certo poi bisogna anche sapersi preparare al peggio, al caos sonoro ad esempio della title track e ad un sound in alcuni passaggi un po' impreciso, legato mi pare, più al desiderio di voler strafare che ad altro. Poi signori, quando i due chitarristi decidono che è ora di regalare i loro famigerati solismi, beh non ce n'è per nessuno, si cali il sipario e chapeau per l'ottimo gusto melodico. Tuttavia, non posso far finta di niente e lasciare che le chitarre siano una sorta di tangente per farmi dire che 'La Fin De Satán' sia un album eccezionale, giammai. Vorrei dire piuttosto che c'è molto da lavorare per dare più personalità a brani come "After the Chaos" o alle vampiresche "The Birth of the Cursed Book" e "Denial Tragedy", che se non godessero di un eccellente lavoro nella porzione chitarristica, probabilmente finirebbero nel dimenticatoio alla velocità della luce, bollate per il loro tentativo di imitazione di band quali Dissection o Emperor. Un plauso finale alla più sperimentale "Before the Chaos", l'ultimo atto di un disco che ci dà molte indicazioni su dove questi Decem Maleficivm vogliano andare a parare. Questo è un momento cruciale per la carriera della band per capire se voler rimanere ad uno stato di profondo underground o fare pulizia nei suoni ed emergere dalle viscere degli inferi. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 68

https://ladlo.bandcamp.com/album/la-fin-de-satan

Obsidian Tongue - Volume III

#FOR FANS OF: Atmospheric Black Metal
Founded ten years ago in the US, Obsidian Tongue was initially one of those common one-man black metal bands, whose only member was the founder Brendan Hayter, currently involved also in other projects, all of them related to the extreme metal scene. The most notorious one is the excellent Canadian band Thrawsunblat, a folk infused melodic black metal ensemble, which is a quite interesting project. Going back to Obsidian Tongue, the project rapidly became a two-man band with the incorporation of a drummer. With an established line-up, the duo debuted with a decent first album, which was rapidly improved by the subsequent works, like the sophomore ‘A Nest of Ravens in the Throat of Time’ or the split ‘Northeastern Hymns’. This improvement caught the attention of the quite respected label Bindrune Recordings, which took the decision of releasing the Obsidian Tongue´s future works.

2020 will be the year when Obsidian Tongue’s new work will see the light of the day. The new opus is entitled ‘Volume III’ and, as it happens with the third album, this work should confirm whether the band has or not a promising future. Obsidian Tongue plays a guitar based atmospheric black metal with some quiet and intimate interludes, creating an interesting contrast with the most aggressive sections. For instance, the album opener "Anathk" is a pretty clear example of what the band can offer. This track, being the longest one, has indeed enough room to flow quite naturally between the blackest metal parts, with the expected aggressive vocals, being sometimes accompanied by some clean melancholic vocals, and the calmest sections. Those calmer sections have an introspective nature and they are like a bridge between the black metalesque sections. I find these serene sections quite interesting as they are tastefully done with very nice melodies. As for the guitars in the typically black metal parts, they are clearly less melodic as they fluctuate between more dissonant and aggressive chords and a trance inducing riffs, which I think are the most interesting ones. This contrast is clearly perceived in shorter songs like "Poison Greem Dream", which delivers both sorts of riffage. Furthermore, these songs, though being shorter, have also room for the aforementioned clean vocals, which at first didn´t like that much, but which I dig more as I listen to the album more times. Although musically speaking long songs like the album opener or "Empath" let the band introduce more serene and hypnotic parts, which is always nice, the shorter compositions have also interesting elements. Their immediacy and straightforward strength is always a necessary element to create a balanced album.

In conclusion, ‘Volume III’ is a good album and though I couldn´t consider it a groundbreaking record, it has enough interesting elements and quality in the compositions, to make it interesting. Any fan of atmospheric black metal or this sort of modern black metal made in the US will find absorbing elements in this record, which will make them enjoy the album. (Alain González Artola)

(Bindrune Recordings - 2020)
Score: 75

https://www.facebook.com/obsidiantongueband/

lunedì 25 novembre 2019

EUF - NBPR

#PER CHI AMA: Instrumental Noise/Post-Rock
Non mi è stato chiaro fin da subito quale fosse il nome della band e quale il titolo dell'album. NBPR e EUF, due acronimi che possono voler dire tutto e niente. Alla fine mi viene in aiuto il web e mi dice che gli EUF sono una band navigata della zona di Milano, dedida ad un post-rock strumentale, mentre 'NBPR' è il loro primo Lp (il cui acronimo sta per "Non Basta Più Rumore") dopo un trittico di EP rimasti a livello di underground. Il motivo di questa scarsa conoscenza del quintetto milanese può essere sicuramente legato ad un genere non certo malleabile come quello proposto dai nostri. Scrivevo post-rock strumentale nelle prime righe, ma facciamo subito chiarezza che non è nulla di celestiale, sognante o comunque di facile presa, quanto suonato dai cinque musicisti lombardi. Il disco infatti è davvero ostico e lo conferma immediatamente l'opener "I'm not WW" (ci risiamo con queste sigle, allora è un vizio?) che nel suo incedere più rumoristico che etereo, mi mette in difficoltà sin dai primi minuti, colpa di suoni freddi e dissonanti, quasi i nostri vogliano prendere le distanze da tutto quello che è invece morbido e affabile nel genere. Di sicuro, ascoltando la band, almeno in questa prima traccia, non c'è nulla che mi evochi la produzione dei Mogway, vista la maggiore scontrosità sonora da parte della compagine italica. Un miglioramento in tal senso, si può vivere nella seconda song, "I Know You Want This", ma francamente preparatevi ad un voltafaccia dai risvolti aspri ed incazzati, visto che dai suoni quasi celestiali (con tanto di voci di bambini in sottofondo) dei primi minuti, si passa nuovamente a chitarre spigolose, irrequiete e di difficile digestione. Ci si riprova con "Burn You! Slow Idiot, Again", un titolo che a costruzione sembra richiamare i Godspeed You! Black Emperor, ma che musicalmente mostra una stratificazione chitarristica abbastanza pesante. Si fa fatica ad ascoltare gli EUF, uno pensa che qui ci sia modo di rilassarsi, riposando le membra dopo una giornata faticosa, ma mi spiace deludervi, serve attenzione e forza per affrontare il disco. "No Escape for Surrenders" appare più abbordabile, complice verosimilmente l'uso in sottofondo di alcuni sample cinematografici che sembrano alleggerire (di poco in realtà) l'architettura musicale dei nostri, costantemente tenuti in tensione da ritmiche nervose ed inquiete. La musica nel suo crescendo musicale non offre poi il fianco a grandi aperture melodiche ma si conferma perennemente sospesa tra ridondanti e tortuose trame sonore e frangenti più minimalistici. Le spoken words si palesano nella voce di una ragazza anche nella conclusiva "A New Born", che continua in quel lavoro certosino di fughe strumentali di difficile assimilazione, dimostrando da un lato che si può suonare post-rock in modo originale, ricercato e talvolta sperimentale, dall'altro che, eccedere in questa direzione rischi di rendere un bel viaggio assai faticoso. (Francesco Scarci)

(I Dischi del Minollo - 2019)
Voto: 69

https://eufband.bandcamp.com/

ADE - Rise of the Empire

#FOR FANS OF: Techno Symph Death/Folk, Nile, Fleshgod Apocalypse
Recently, we have seen some death metal bands trying to combine the most brutal sound you can imagine with epic or folk touches, trying to forge a unique style where melody, majesty and relentless aggressiveness can coexist. The Americans Nile is, without any doubt, the most notorious example, but we can find through Europe other fine examples that shows us how theoretically incompatible styles can tastefully combined with some success. One of the best examples are the Italians ADE, a band founded 12 years ago in Rome. This city and the whole country have an enormously rich and grandiose history, so it is not a big surprise that these guys took the inspiration from their ancient history and tried to create a beast, equally influenced by the most aggressive metal and majestic history of Rome and Italy. From its inception, ADE has tried to mix a perfect technically executed death metal, with great Eastern/Mediterranean folk touches. The aim was to create a folk infused death metal, which sounds imposing, a key aspect because lyrically, the band is equally epic with lyrics based on the Roman Empire and its legendary history. The band debuted with an interesting album, whose limited attention didn’t stop the band´s hunger to reach higher levels. The sophomore album entitled ‘Spartacus’ was a higher step as it got more attention in the scene, not only because of its indubitable quality, but mainly due to the contribution in the drumming section of George Kollias, the master behind the drums in Nile. That was indeed a great excuse for many fans to discover the band. ‘Spartacus’ was an inspired album, where brutality, technics and epic infused folk arrangements were masterfully mixed. A key member in the latest aspect was Simone who played all the folk instruments. Sadly, he left the band after this album, and this had an important impact on the band, as in the later album the folk influences were decreased in favour of a more symphonic and epic approach. ‘Carthago Delenda Est’ was the third album and although it was a nice effort, I still preferred ‘Spartacus’, as it sounded more distinctive.

Three years later ADE returns with a surprisingly almost renewed line-up, where only the founder guitarist Fabio remains. With this initial surprise, I didn’t know what to expect, maybe a major change in ADE´s sound. Fortunately, at least for me, this isn´t the case as the band retains a great part of its core sound. ‘Rise of the Empire’ is another piece of powerful death metal, profoundly influenced by its epic and historical lyrics. The new vocalist doesn´t sound too different and his well executed growls remind me the previous front man. His cavernous voice has enough power to fit perfectly well ADE´s notoriously aggressive style and it is the perfect companion of the precise, yet brutal guitars. The drums played by the new member Decivs are as brutal and technically accurate as they were in the past, which says a lot, because ADE has been always a pinpoint machinery. The song "Veni Vidi Vici" is a clear example of how good the drums are, with many tempo changes, going easily for the fastest sections to more mid-tempo ones. This track, alongside other ones like "The Blithe Ignorance" and "Once the Die is Cast", for example, are also useful to write about one of the most important aspects of this album, the folk and symphonic arrangements. Although, as far as I know, there is no a specific member behind these duties, ‘Rise of the Empire’ seems to be a creature born from the combination of their previous two albums. I can happily say that this album contains more folk touches in the vein of ‘Spartacus’ as it retains the choirs and other majestic arrangements, but in a slightly lower degree than in ‘Carthago Delenda Est’. The closing track "Imperator" reflects this fusion as it combines both sides in a very tasteful way.

‘Rise of the Empire’ is definitively another great addition to ADE´s discography. Although it is a little bit early to compare it, in terms of pure quality, to albums like ‘Spartacus’, I sincerely hope that this album can be another step in the right direction. ‘Rise of the Empire’ should bring a greater recognition for a band, which clearly deserves it. (Alain González Artola)

(Extreme Metal Music - 2019)
Score: 85

https://adelegions.bandcamp.com/album/rise-of-the-empire

The Pit Tips

Francesco Scarci

Blut Aus Nord - Hallucinogen
Olhava - Olhava
Bliss-Illusion - Shinrabansho

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Matteo Baldi

Mamiffer - the brilliant tabernacle
Aaron Turner - Repression's Blossom
Blind Cave Salamander - The Svalbard Suite

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Alain González Artola

Nile - Vile Nilotic Rites
Wyrd - Hex
Wind Rose - Wintersaga

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Shadowsofthesun

Schammasch - Hearts Of No Light
Alessandro Cortini - Volume Massimo
Devin Townsend - Empath

Tӧrzs - Tükör

#PER CHI AMA: Instrumental Post Rock
Credo che la scena musicale ungherese abbia da sempre un suo perchè. A volte mi domando se l'originalità che molto spesso caratterizza le band magiare, sia in un qualche modo legata al fatto che la lingua parlata in Ungheria non abbia origini indoeuropee, sia nata negli Urali e da lì, diffusasi nelle grandi pianure danubiane. È per me pertanto interessante dare sempre un ascolto molto più coinvolto a quelle realtà che provengono da quella zona. E cosi, quest'oggi faccio la conoscenza dei Tӧrzs, un trio di Budapest che con questo 'Tükör' arriva addirittura al traguardo del terzo album. Il sound proposto nelle sei tracce incluse, è un post rock strumentale dai forti accenni malinconici: è chiaro fin da subito, dallo scoccare di quella chitarra acustica che in "Első" sembra quasi avvisare di prepararci a vivere forti emozioni. Ed è questo signori che faremo nell'arco dei quasi 40 minuti di musica che delicatamente sentiremo scorrere nelle orecchie ma anche nel profondo dell'anima. Che attendersi quindi se non un gentile flusso musicale, peraltro registrato live nell'Aggteleki Cseppkőbarlang, un sistema di grotte inserito all'interno di un parco nazionale ungherese, che sembra quasi amplificare quei riverberi generati dalle fughe chitarristiche dei nostri. Lo dicevo io che erano originali sti tizi e allora cosa di meglio che assaporare quegli anfratti atmosferici fatti di delicate pizzicature delle corde della chitarra, come accade nel break nostalgico di "Második", piuttosto che lasciarsi avvinghiare dalla vena psichedelica di "Harmadik", che farà certamente la gioia degli amanti dei Pink Floyd; qui in effetti le somiglianze con gli originali inglesi, rischiano di essere un po' eccessive. Il disco è comunque piacevole, anche se come sempre, io lamenti l'assenza di una voce che avrebbe potuto dare quel tocco in più ad un album che verosimilmente ne avrebbe giovato alla grande. I Tӧrzs sono alla fine un terzetto da tenere sott'occhio, ma mi sento in dovere morale di spronarli un pochino di più, spingendoli ad una maggior ricerca sonora per uscire dalla loro zona di comfort. Un primo passo è stato fatto con la registrazione nelle grotte, ora serve qualche step addizionale per spiccare il volo e assumere dei contorni di personalità ben più definiti. (Francesco Scarci)

(A Thousand Arms/Lerockpsicophonique - 2019)
Voto: 68

https://torzs.bandcamp.com/album/t-k-r-2

giovedì 21 novembre 2019

Asphodèle - Jours Pâles

#PER CHI AMA: Post Punk/Depressive Black/Shoegaze
Gli Asphodèle si sono formati nel 2019, ma non pensate che siano dei pivelli. La band francese che consta di cinque membri, include infatti batterista e chitarrista degli Au Champ des Morts, una band che ho particolarmente apprezzato nel 2017 con l'album 'Dans la Joie', la ex vocalist degli Amesoeurs, il cantante dei Aorlhac (che abbiamo già incontrato su queste pagine) e il bassista degli svedesi Gloson. Insomma, potrebbe risultare fuori luogo parlare di super gruppo però, se rapportato ai circuiti underground, non mi vergognerei affatto ad affermarlo. Che attenderci quindi da questo quintetto inedito? Vi risponderei semplicemente che tutti e cinque i musicisti hanno portato le loro pregresse esperienze in questo 'Jours Pâles', cercando di conglobarle con quelle degli altri. Pertanto, dopo l'intro strumentale di "Candide", ecco palesarsi in "De Brèves Étreintes Nocturnes" la voce di Audrey Sylvain, a portarmi con la sua timbrica, indietro di una decina di anni quando la brava cantante si dilettava con i vari Neige e Fursy T. nel loro inequivocabile concentrato di post-punk, shoegaze e depressive rock. Ad inasprire il sound però con echi post-black, ecco la chitarra sbilenca di Stéphane Bayle, uno che da 25 anni suona anche (e soprattutto) negli Anorexia Nervosa e ha pertanto una vaga idea di come fare male, a fronte anche di una nuova esperienza nei blacksters Au Champ des Morts. La musica degli Asphodèle si muove quindi in ambiti estremi anche se l'utilizzo massivo delle female vocals, smorzano la vena feroce della band, sebbene le ritmiche si confermino taglienti anche nella title track e il growling/screaming di Spellbound, cerchi di fungere da classico contraltare della soave performance della gentil donzella. Il sound dei nostri si arricchisce comunque di molteplici sfaccettature, dai break acustici della già citata title track, alle asprezze più black oriented di "Gueules Crasses", song dotata di una epica e gelida aura, grazie alle chitarre di scuola scandinava, mitigate dalle melodie vocali della particolare Audrey. Il disco scivola velocemente verso la fine attraverso altri pezzi, alcuni decisamente malinconici ("Nitide") ma comunque molto vari, altri che strizzano l'occhiolino più pesantemente allo shoegaze ("Réminiscences") song che trovo quasi fuori posto in questo contesto sebbene Spellbound cerchi di mantenere con la sua timbrica una certa connessione col depressive black. A chiudere invece "Décembre", un pezzo in stile Shining (quelli svedesi) che sancisce un disco interessante che sembra però mostrare qualche intoppo a livello di songwriting o comunque non avere una fluidità musicale ancora acclarata. 'Jours Pâles' è un lavoro discreto suonato da ottimi musicisti che paiono ancora non particolarmente amalgamati tra loro. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 68

https://ladlo.bandcamp.com/album/jours-p-les

Laika Nello Spazio – Dalla Provincia

#PER CHI AMA: Rock Alternative
In un panorama italiano devastato da banalità musicali, alcune realtà si fanno notare cercando di rinforzare quel percorso iniziato nei primi anni novanta da band storiche che hanno dato una certa credibilità e una dignità alla musica alternativa nazionale come Massimo Volume o Marlene Kuntz, quindi è inevitabile parlare di questo album come un valido lavoro a supporto di quelle lontane realtà. A partire dalle parti vocali, la parentela con i primi Massimo Volume è palese quanto la ricerca di vocaboli poetici non scontati per le liriche, uno stile compositivo che li accomuna a quel modo espressivo italico, alternativo e di tutto rispetto di fare rock per certi versi anche fortemente politicizzato. Musicalmente i Laika Nello Spazio si presentano con una formazione a tre, con due bassi ritmici e una batteria, e un intento atto a creare una musica squadrata e scarna, figlia del post punk con gli istinti dell'hardcore più melodico. Risulta difficile parlare di ricerca sonora ed originalità, l'album suona bene e seppur il sound sia minimalista e rumorosamente ben assemblato, sempre in tiro con melodie sicure e travolgenti, la musica risulta reale, onesta e i temi trattati sono credibili mentre parlano della vita difficile nelle province di oggi. Il cantato è denso, molto sentito e intriso di rabbia stradaiola, direi molto vicino per attitudine alla musica di denuncia dei New Model Army, anche se gli spettri di Clementi e Godano sono sempre dietro l'angolo assieme ai canti di protesta del Teatro degli Orrori e Petrol. Comunque i brani volano veloci, sanguigni, senza fronzoli e nascondono una bella vena poetica, ricercata, evidenziata con il bel video del singolo, "Il Cielo Sopra Rho", geniale ripresa artistica parallela al capolavoro di Wenders. I due bassi sostengono a dovere l'assenza delle chitarre e la ritmica pulsante è padrona indiscussa della scena, linee dirette ed efficaci, non v'è molto spazio per virtuosismi che toglierebbero spazio all'intensità del canto. Le belle canzoni dal titolo, "La Scala di Grigi" o "Dalla Provincia", come del resto tutti gli altri brani, sprigionano rabbia, rammarico e ricordano da vicino certe vette di intensità degli RFT ovviamente rivedute nello stile del trio lombardo. Questo bel lavoro è quanto di più distante si possa immaginare dalle patinate e glamour uscite di Manuel Agnelli & Co. mostrando quanto il sottosuolo lombardo non sia affatto una misera costola di X-factor e non a caso si riallaccia egregiamente all'aspro sentire del capolavoro, 'Lungo i Bordi', mantenendo la tensione di quel disco che ha fatto storia ed insegnato molto al rock italiano. Il suono di questa band non sarà innovativo (cosa comunque che non risulta nei piani della band) anzi ai più risulterà assai derivativo e limitato a livello sonoro ma questo album è fatto, concepito e vissuto con una aggressività contagiosa che non lascia scampo. Da ascoltare. (Bob Stoner)

(Overdub Recordings - 2019)
Voto: 70

https://www.facebook.com/laikanellospazio/

Golden Heir Sun - Holy The Abyss

#PER CHI AMA: Ambient/Experimental/Drone, Earth, Popol Vuh, Neurosis
Da piccolo amavo esplorare i boschi nei dintorni di casa mia: in realtà più che di boschi si trattava di strisce di verde risparmiate da campi e cemento, ma per un bambino era come entrare in un altro mondo che la fantasia ingrandiva a dismisura e dove il tempo perdeva significato. Una volta mi resi conto dell’arrivo di un temporale solo quando il cielo sopra le cime degli alberi era ormai diventato del colore del piombo e il vento aveva iniziato a fare scempio di rami e foglie: per qualche minuto rimasi immobile, incantato da quello spettacolo al tempo stesso meraviglioso ed inquietante, come se una presenza invisibile stesse manifestando un brusco cambiamento d’umore.

Oggi di quei boschi rimane ben poco, ma l’ascolto di 'Holy The Abyss', primo disco di Golden Heir Sun, mi riporta alla memoria quelle immagini ed un indefinito bisogno di isolamento e contemplazione. Del resto il nuovo frutto del progetto solista di Matteo Baldi, già protagonista in una delle migliori formazioni post metal in circolazione, i veronesi Wows, si configura proprio come un inno in onore della natura, fonte di vita ma anche in grado di scrollarsi di dosso da un momento all’altro questa fastidiosa infestazione di esseri troppo spesso inconsapevoli del fatto di essere solo l’ennesima specie di passaggio su questo pianeta.

Come il precedente 'The Deepest', 'Holy The Abyss' è costituito da un'unica composizione di ben venti minuti di lunghezza che si snoda tra ampie sezioni dominate da atmosfere sacrali, eterei intrecci di chitarra ed esplosioni di dinamica, il tutto concepito come una sorta di rituale catartico volto a ripristinare l’armonia tra l’essere umano e la sua spiritualità più ancestrale. Non a caso, ad accoglierci troviamo il suono oscillante di una campana tibetana affiancata da un lento e malinconico arpeggio di chitarra, mentre da questo ipnotico tappeto sonoro emergono alcuni accordi più duri che si smorzano all’ingresso della voce di Matteo, quasi assorto in un mantra:



“On my hands, Before the Dawn I kneel, in awe.
On my knees, Before the Sun I kneel, in awe.
On my hands, Before the Clouds, I see, rain down.”

Così come l’universo tende inevitabilmente al caos, alla conclusione della “preghiera” corrisponde l’imporsi della chitarra distorta, lanciata in un furibondo crescendo ove il brano aumenta di intensità, raggiungendo il climax al riprendere del cantato, ormai trasformatosi in uno straziante grido:



“Nature is enough, Nature always wins.”

Improvvisamente l’apocalisse sonora si consuma e si disperde come vento: al suo posto riaffiora il vibrare della campana e alcuni tenui accordi che infondono sia un senso di rinnovata quiete che di precarietà, quasi a voler rappresentare il ciclo perpetuo di ordine e disordine che domina il cosmo, nonché il pericolo sempre in agguato degli istinti distruttivi dell’umanità.

Trasporre in note la propria interiorità, le proprie emozioni e suggestioni rappresenta una vera e propria sfida con se stessi, ma a Matteo (non a caso discepolo di maestri quali Neurosis, Godspeed You! Black Emperor e Tool) piacciono le imprese difficili, tanto da concepire questo lavoro come qualcosa che va oltre l’aspetto meramente musicale e che si fonde con altre forme di espressione, allo scopo di coinvolgere l’ascoltatore in questo viaggio introspettivo: parte integrante dell’opera sono infatti le ammalianti coreografie di Giulia, danzatrice che accompagna le esibizioni di Golden Heir Sun, e gli evocativi visual creati da Elide Blind, due componenti fondamentali del progetto che possiamo apprezzare nel videoclip creato per il brano.

Dunque, quale è il messaggio di 'Holy The Abyss'? Una critica ad una vita quotidiana resa sterile dalla superficialità e dalla dipendenza da troppi beni inutili? Un invito a lasciarci alle spalle tecnologia, consumismo e lavori alienanti? Forse. O forse è solo una riflessione su quanto sia meschina l’esistenza senza una presa di coscienza di quanto ci sia di meraviglioso nell’Universo e su quale sia il nostro reale posto in esso. Non basterà a curare questa società malata, ma forse spingerà me a tornare tra i pochi alberi rimasti della mia infanzia e ad inginocchiarmi sulla terra umida mormorando una preghiera:


“Holy the Abyss, free us all.”


(Karma Conspirancy/Toten Schwan/La Speranza Records - 2019)

Suzan Köcher - Suprafon

#PER CHI AMA: Psych/Folk/Rock
La musicista tedesca Suzan Köcher e la sua band pubblicano per Unique Records il secondo disco intitolato 'Suprafon', una miscela di dream pop, folk e psichedelia che ricorda i Velvet Underground ma anche i Fleetwood Mac per la pacatezza e morbidezza dei suoni, oltre che al piacevolissimo ascolto. Proprio la facilità d'ascolto secondo me è il punto di forza di questo lavoro, può funzionare da sottofondo infatti in qualsiasi occasione e non richiede una concentrazione particolare, anzi ha il potere di sciogliere la tensione emotiva e ristabilizzare le emozioni anche se per un breve tempo. Il singolo “Peaky Blinders”, peraltro aperto da un bellissimo video dai toni plumbei e piovosi, è una ballata calma e sognante, le chitarre sono chiare e riverberate e accompagnano la splendida voce di Suzie nella sua passeggiata musicale tra synth melliflui e nuvole sonore. Sentire 'Suprafon' è come andare a fare un picnic in campagna, circondato da campi di grano e raggi di sole, la pacatezza e l’atmosfera sono avvolgenti ed esortano a prendere la vita non troppo sul serio, a divertirsi e pensare positivo. Una song da citare è sicuramente "Night by the Sea" che con il suo dolce incedere tra chitarre acustiche e l’accoratissima linea vocale che sembra rievocare un’atmosfera western, perfetta per la colonna sonora di un film di Tarantino, senza dubbio risulta il mio pezzo preferito del cd. Impossibile non nominare l’incantevole chiusura del disco, la title track "Suprafon", forse la summa delle intenzioni che la band ha voluto riversare in questo secondo disco. Le vibrazioni sixties si sentono prepotentemente, una pulsante linea di basso fa da sfondo ad una ballata rock'n'roll dai toni chill out lisergici e colorati, con un ritornello così catchy quasi a far venire nostalgia della summer of love, di woodstock e degli hippie. Suzan Kocher & co. hanno sfornato un disco altamente godibile, consigliatissimo a tutti gli amanti del folk rock che abbiano voglia di sentire una band nuova dal suono originale e che porti il vessillo della musica sessantiana senza alterarne l’idea originale, ma anzi arricchendola di freschezza e nuove idee. (Matteo Baldi)

(Unique Records - 2019)
Voto: 78

https://suzankoecher.bandcamp.com/