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domenica 28 febbraio 2016

Sequoian Aequison - Qual der Einsamkeit

#PER CHI AMA: Post Rock/Drone/Ambient
Quando arriva materiale dall'etichetta Slow Burn la giornata prende subito una buona piega, vista la qualità dei lavori da loro prodotti. In realtà stavolta c'è una collaborazione con Tokyo Jupiter Records (supporto cd) e Towner Records (cassetta), quindi le aspettative crescono a dismisura. I Sequoian Aequison (SA) nascono nel 2012 nella bellissima e ricca città di San Pietroburgo e nel corso della loro giovane carriera 'Qual der Einsamkeit' si posiziona come secondo e penultimo lavoro (si tratta di un EP di due lunghissimi pezzi), infatti qualche mese fa è uscito anche uno split con i Dry River, mentre il debut album 'Onomatopoeia' è stato recensito sempre dal sottoscritto su queste pagine alla fine del 2014. Il cd che ci è pervenuto è la versione per gli addetti ai lavori, priva di booklet, molto minimalista quindi e per cui non potremmo dare un giudizio sulla versione disponibile per il pubblico. Il genere perseguito dai SA è un post rock intriso di atmosfere ambient e doom, come la prima traccia "Der Sklave Des Nichts" (lo schiavo di niente) mostra con un inizio affidato a un lungo monologo in lingua tedesca. Man mano, il quartetto russo tesse una trama sonora oscura e malinconica, ma allo stesso tempo carica di tensione repressa pronta ad esplodere ad un cenno del capo. Arpeggi liquidi di chitarra e un pattern ritmico ipnotico crescono e calano a rotazione per circa undici minuti che grazie ad un'interpretazione artistica di tutto rispetto, riescono ad ammagliare e coinvolgere l'ascoltatore senza mai annoiarlo. Anzi, basta abbassare un poco le difese mentali e si entra subito nel mood della band, ciondolando lenti come un paziente di psichiatria che ha preso la sua dose giornaliera di farmaci. Nonostante la ritmica doom, sia il batterista che il bassista riescono a intrecciare riff e battute in modo da arricchire la composizione che altrimenti affonderebbe nella totale accidia. "Abendwasser" sembra il secondo atto dell'opera musicale imbastita dalla giovane band e come tale, ricalca suoni (perfettamente curati) e melodie già dettati dai maestri che segnarono la via da seguire. La struttura è la solita: campionamenti di voci e qualche suono elettronico qua è la, anche se in realtà è proprio l'esplosione che arriva quasi alla fine a far rimpiangere uno svolgimento diverso. La visione epica che la band crea in modo immaginario davanti ai nostri occhi, è una sorta di mondo parallelo, fatto di colori e profumi mai percepiti prima. Un mondo nuovo che esiste, ma che ci sfugge troppo presto dalle mani. In sè l'album è eccellente, i SA hanno studiato e messo in pratica alla perfezione tutto quello che già è stato fatto in questo genere, ora il punto da capire è se qualcuno avrà il coraggio e le doti per mischiare le carte in tavola e trovare un'evoluzione stilistica non fine a se stessa. (Michele Montanari)

(Tokyo Jupiter Records/Towner Records - 2015)
Voto: 75

https://sequoian.bandcamp.com/album/qual-der-einsamkeit

Orphans of Dusk - Revenant

#PER CHI AMA: Death/Gothic/Doom, Type O Negative, My Dying Bride
Australia e Nuova Zelanda non sono dopo tutto cosi lontane, cosi come non lo sono Canada e Russia. In un mondo in cui le distanze siderali sono azzerate dall'esistenza di internet, non c'è da stupirsi se gli Orphans of Dusk siano un terzetto formato da personaggi della scena di Sydney (Australia appunto) e di Dunedin, sconosciuta località confinata all'estremo sud della Nuova Zelanda. Altrettanto vale per le etichette che hanno messo le mani in cooperazione su questo act oceanico: la canadese Hypnotic Dirge Records e la russa Solitude Productions. Originariamente uscito in solo formato digitale nel 2014, 'Revenant' ha pertanto modo di farsi vedere più vicino al mondo grazie all'intervento delle due case discografiche, dimostrando che la scelta fatta è stata assai arguta. Quattro i pezzi a disposizione del trio, che in questo primo EP, ha modo di citare nelle proprie composizioni, i primi My Dying Bride e i Paradise Lost, grazie alla vena death gothic doom che ammanta l'intero lavoro e in secondo luogo, e qui sta il forte interesse per i nostri, anche i Type O Negative per l'uso delle vocals baritonali da parte di Chris G (membro dei Mesmur), molto vicine a quelle del compianto Peter Steel (ma anche al vocalist dei Crash Test Dummies), nonchè anche per un certo uso delle tastiere che richiamano i primi lavori, più doom oriented, della band di Brooklyn (ascoltate "August Price" e capirete cosa intendo). La musica si muove comunque tra gli anfratti del doom più atmosferico e decadente, con le keys che sprigionano una certa sacralità per quella loro affinità con l'organo da chiesa, forte soprattutto in "Starless". "Nibelheim", la terza, è forse la traccia più ostica a cui avvicinarsi, laddove le asperità del death in stile Bolt Thrower trovano pace in un gothic ammaliante in grado di placare l'istintiva brutalità espressa nella prima metà del brano e donare una certa vena di originalità alla proposta dell'ensemble oceanico. Chiude l'EP "Beneath the Cover of Night", un mellifluo brano di oltre otto minuti in cui a farla da padrone sono quasi esclusivamente le vocals di Chris (in formato growl e gotico) e i synth di James, sorretti comunque da una buona base ritmica. Se il buongiorno si vede dal mattino, mi aspetto grandi cose nell'immediato futuro da questo terzetto. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records/Solitude Productions - 2015)
Voto: 70

https://orphansofdusk.bandcamp.com/album/revenant

martedì 23 febbraio 2016

Ataraxie – Slow Transcending Agony

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Gli Ataraxie vengono da Rouen in Francia, sono attivi dal lontano anno 2000, suonano doom death e hanno tre album all'attivo. Inserendo la cover dei Disembolvement ("The Tree of Life and Death") e magari pensando di riprendere e rivedere, anche il titolo del famoso film di Terrence Malick, 'The Tree of Life', il quintetto transalpini si è fatto ispirare dal maniacale e celebre perfezionismo del regista statunitense per creare un album curatissimo, sofisticato e multiforme che mostra al suo interno una radiosa vena doom, ai confini con il funeral ed una marcata attitudine death di vecchia data. In realtà, il cd non è un nuovo album, non è altro che la reissue della prima release registrata dalla band per festeggiare il decimo anniversario dalla sua uscita, distribuito in formato digipack dalla giapponese Weird Truth Production e disponibile anche sulla pagina bandcamp del gruppo in formato digitale. Impressionante e impegnativa la durata di sessantadue minuti del cd, compresa la bonus track ovvero la cover, che da sola va oltre i dieci minuti, che qui è presente mentre non è disponibile in download da bandcamp. Ottima la qualità dei suoni e la produzione è più che perfetta, la costruzione dei brani, suonati benissimo da musicisti navigati e capaci, volge lo sguardo ai My Dying Bride quanto ai Mournful Congregation o in anticipo temporale sugli Ahab dell'ultimo capolavoro 'The Boats of the Glen Carrig', senza dimenticarci degli Swallow the Sun e lo spirito indomito di alcune band black metal stile Zuriaake. Tutte queste influenze amalgamate con il suono metal oscuro di qualche anno fa, quello che rese immortale 'Morbid Tales' dei Celtic Frost o il sound dei mitici Incantation. Una cosa molto strana che infonde in alcune parti del disco una vena molto death e vintage al suono della band. L'intero lavoro, anche se uscito un decennio fa, è da considerarsi un gioiellino oscuro di doom moderno, carico di un potente sound che non abbandona mai l'atmosfera e la pesantezza, la maestosità e un'inquietudine perenne che si stende come un velo su tutte le note del disco. Il trittico micidiale formato dai brani "L'Ataraxie", la title track e "Another Day of Despondency" (brano delizioso) ha un qualcosa di innato e infernale, con chiaroscuri dal tratto drammatico e teatrale, realistico e capace di rappresentare delle vere scene di sofferenza, uno stato di trance depressiva talmente coinvolgente che, all'ascolto, si rischia una qualche sorta di ferita dell'anima. Non mi stancherò di ripetere che è un opera alquanto impegnativa, per soli cultori del genere in questione, senza sprazzi di luce e tutta da scoprire, da ascoltare per intero se possibile per assaporarne la forma progressivo/cinematica dei suoi continui mutamenti sonori, giocata sui colori del grigio e del nero, sulla malinconia e sul confine di una riflessione tra la vita e la morte come induce a pensare il titolo stesso, perfetto nell'esporre i contenuti sonori dell'album. Una band tutta da riscoprire, partendo da questa ultima fatica che riesuma una chicca di dieci anni fa per arrivare ad apprezzarne l'intera discografia. (Bob Stoner)

(Weird Truth Productions - 2005/2015)
Voto: 75

Benighted Soul - Kenotic

#PER CHI AMA: Symph Metal, Epica
Quella che ho tra le mani è la bonus edition (2015) di 'Kenotic', pubblicato nel 2014. Secondo full-length per i sinfonici francesi Benighted Soul, già in attività dal lontano 2003, che fino ad ora avevano pubblicato diversi demo e il debut album 'Start From Scratch'. 'Kenotic', trasposizione in musica di 12 diverse “inclinazioni dello spirito”, rappresenta decisamente i migliori aspetti dell'orchestrale sottogenere metallico: arrangiamenti classicheggianti ed eccellenti orchestrazioni, cori polifonici e melodie studiate, degni degli Epica dei tempi migliori. Il tutto viene condito ad hoc da pesanti contaminazioni elettroniche e numerosi passaggi all'insegna del progressive, cosparsi lungo tutto il corso dell'album, i quali contribuiscono a forgiare il caratteristico ed unico sound della band d'oltralpe, che si è decisamente evoluto rispetto al precedente lavoro. "Halcyon Days" (trasposizione della beatitudine), apre l'album con un'eleganza superba: variazioni ritmiche e tempistiche (che poi si ripresentano in quasi tutti i brani) rendono il pezzo sempre più interessante e mai scontato. In "Too Far Gone" (l'ascesa e il declino), le tastiere cominciano a farsi sentire prepotentemente, con pesanti strings-orchestrations, synth taglienti e sezioni più electro, che si accentuano ulteriormente nella successiva "Si Se Non Noverit" (l'Illusione). Le linee vocali di Jay Gadaut, spesso inframezzate dal growl del bassista Jean-Gabriel, non stancano (quasi) mai: il modo in cui la cantante riesce ad incarnare lo spirito dei brani e a fornirne un'interpretazione davvero sentita, modellata appositamente su di essi, è qualcosa di eccezionale. Fantastico è anche il brano centrale strumentale "Enlightenment" (apoteosi), che a parer mio meriterebbe un 100 e lode anche solo per il contemporaneo/neoclassico intro pianistico. Il canone orchestrale viene portato fino alla fine, sostenuto dal graduale ingresso di tutti gli strumenti, creando un'atmosfera epico-romantica. Senza dubbio il mio brano preferito del lotto. In “The Shallow and the Deep” (tentazione), la placida dolcezza iniziale data dal leggero cantato della Gadaut viene spezzata da passaggi decisamente più aggressivi grazie all'accelerata della band, che appesantisce repentinamente il sound (the Deep appunto). La seguente "Let You Win" (perdono) invece, diventa completamente strumentale dalla metà in poi, con tastiere e chitarre che si articolano in una concatenazione continua di assoli, a sottolineare anche le qualità tecniche eccelse dei musicisti francesi. Subito dopo lo scompiglio di "Bound" (sacrificio), arriviamo alla fine con "One Last Harvest" (l'insignificanza), che rappresenta pienamente lo spirito di un azzeccato finale: i ritmi si abbassano, le vocals si intrecciano elegantemente con i cori che si adagiano su un costante tappeto di tastiere a creare la giusta atmosfera per arrivare allo sfumato finale. Nella mia bonus edition sono presenti anche due traccie finali supplementari, "Jack in the Box" e "The Acrobat", che non sono però necessarie ai fini della valutazione: anche senza di esse infatti, si può comunque constatare l'ottima riuscita di quest'ultimo album targato Benighted Soul. Bel colpo dei francesi che con quest'ultimo lavoro compiono un altro grande passo sul loro percorso artistico. Vedremo quali news ci arriveranno prossimamente dalla Lorena! (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Savage Prod - 2015)
Voto: 85

domenica 21 febbraio 2016

Interview with Phased

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The Pit Tips

Emanuele "Norum" Marchesoni 

Sailing to Nowhere - To the Unknown 
Avantasia - Ghostlights 
Benighted Soul - Kenotic 

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Francesco Scarci 

Postvorta - Beckoning Light We Will Set Ourselves On Fire
Swallow the Suns - Songs from the North pt I, II & III
Secrets of the Moon - Sun

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Don Anelli 

Critical Solution - Sleepwalker 
Nidsang - Into the Womb of Dissolving Flames 
Voltumna - Disciplina Eterna 

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Matteo Baldi 

Thom Yorke - The Eraser 
Pallbearer - Foundations of Burden 
Om - Advaitic Songs 

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Samantha Pigozzo 

Hot Action Cop – Listen up 
Faith no More – King for a Day, Fool for a Lifetime 
Blutengel – In Alle Ewigkeit 

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Claudio Catena 

Megadeth - Dystopia 
Colonnelli - Verrà la Morte e Avrà i Tuoi Occhi 
Pearl Jam - No Code 

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Jeremiah Johnson 

Under the Church - Rabid Armegeddon 
Abbath - Abbath 
Weresquatch - Frozen Void

Earth's Yellow Sun - The Infernal Machine

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Djent strumentale
Facciamo il punto. I canadesi Earth’s Yellow Sun (EYS) sono in cinque: due chitarre, basso, batteria, tastiere. Poi c’è la EYS Saxophone Collective (otto sassofonisti), i sette vocalist del The Infernal Choir e tre extra guest: tablas, violino e vocal. Totale: ventitré musicisti. Dico, ventitré. E sul loro meraviglioso ‘The Infernal Machine’ campeggia a lettere cubitali l’avviso: in questo disco non abbiamo usato campionature di batteria, simulatori di amplificatori, né strumenti virtuali. ‘The Infernal Machine’ è davvero una perfetta, diabolica e ben costruita macchina infernale: cinque movimenti di un unico concept album che, pur durando solo 23 minuti, potrebbero dare riff e materiale per due, forse tre dischi interi. Pochi secondi di piano introduttivo e siamo già in pieno prog-metal contemporaneo ("Assembly"): le chitarre in palm-mute danzano chirurgiche a sincrono con la grancassa, mentre costruiscono arpeggi melodici su cui – sorpresa! – entrano i sassofoni in un gioco di accenti spostati che ha quasi del funky. Il timing cambia: un dissonante solo di tastiere e uno più classico di chitarre, si avvolgono intorno ad un groove incalzante da puro headbanging. L’inizio di "Unveliling" è straordinario: sono quartine o terzine quelle? Lo capirete solo all’ingresso del rullante, che finalmente raddrizza un poliritmo degno del miglior djent. Ancora sax, accenti spostati, poi un organo; e finalmente un'epica melodia di chitarra su un arpeggiatore di tastiera. "Betrayal" viaggia su delle coordinate prog-metal premiate però da una maggiore accelerazione e da interessanti inserti elettronici e industrial (splendidi i suoni di tastiere intorno ai 50 secondi), prima di aprirsi su un poetico break di pianoforte e rituffarsi in un inferno strumentale di riffing serrato, poliritmi e melodie. I tre minuti semiacustici di "Bastion" godono del tocco orientaleggiante delle tablas e del violino, una vera oasi di magia. Chiude "Rapture", il brano più lungo del disco, che in qualche modo riassume l’intero approccio degli EYS alla musica: un gioiello di prog-metal, confezionato in un continuo gioco di rimbalzi tra cori e sassofoni da una parte e distorsioni dall’altra, fino ad un epico finale di strings e soli, quasi una ninna-nanna metal. Ottimo il lavoro della sezione ritmica (sentite cosa combina intorno ai 2 min) – ma è il songwriting la vera arma degli Earth’s Yellow Sun. ‘The Infernal Machine’ è un disco strumentale che non annoia, non lascia respiro, stupisce in continuazione. Gli EYS sono bravissimi e concentrati, non si perdono in fronzoli, non esagerano nell’autocelebrazione tecnica, non amano la ripetizione pur non disdegnando la melodia. Non mi vergogno a dirlo: buttate nel cestino l’inutilmente lungo 'The Astonishing' degli ormai troppo anziani ed egocentrici Dream Theater, e salite a bordo di questa nuova e fiammante macchina infernale. (Stefano Torregrossa)

sabato 20 febbraio 2016

The Leaving - Faces

#PER CHI AMA: Psych Folk Acustico
Lasciate dissolvere il noise dagli ampli saturi di suoni perché in questo viaggio il silenzio e le pause se la giocano alla pari con la musica. Frederyk Rotter, voce e chitarra degli Zatokrev, una band svizzera dedita da oltre dieci anni al doom/death/sludge metal, ci presenta il suo progetto solista a nome The Leaving. Le coordinate sono quelle di un folk acustico, prevalentemente voce e chitarra, roba che si può scrivere e suonare se si è nati nel Pacific North West degli USA o in qualche piovosa campagna scozzese, ma anche nel Canton Basel-Stadt, da dove proviene appunto l’autore. "In Faces" è il brano di apertura che richiama anche il titolo dell’album: qui la voce e lo stile rimandano ad un eroe del folk inglese come Bert Jansch, quasi sicuramente ignoto ai fedeli supporters degli Zatokrev. La narrazione prosegue con canzoni in bilico tra Nick Drake e Steve Von Till, dove la chitarra acustica è accompagnata da preziosi inserti di violoncello e, talvolta, da lapsteel, basso e batteria, il tutto sempre suonato con molta misura e facendo attenzione a non prevaricare sulla voce. Qualche eco di Neil Young compare in "Hands", brano dove il suono vintage crunch di una chitarra elettrica dialoga con la lapsteel. L’umore generale del disco è quello delle ballate che continuano a crogiolarsi in uno spleen mai troppo decadente, piuttosto melanconico nel suo incedere. Solo nell’ultimo pezzo intitolato "Pulse", la tensione sale e i The Leaving sembrano volerci ricordare da dove provengono: la voce del frontman si abbassa drammaticamente di tono e i cori raddoppiati sono la cosa più vicina allo stile degli Zatokrev, pur restando sempre in territori acustici. Molto buona la produzione del disco, con collaborazioni americane nelle fasi di mixaggio e masterizzazione. Disco consigliato, anche per il bene delle vostre orecchie. (Massimiliano Paganini)

(Czar Of Crickets - 2016)
Voto: 85

https://www.facebook.com/theleavingofficial/

Łinie - What We Make Our Demons Do

#PER CHI AMA: Alternative/Stoner/Protometal, Tool
Disclaimer: questo è un disco importante, per cui poco male se decidete di non leggere oltre, ma se decidete anche di non dargli un ascolto, sappiate che state probabilmente facendo un grosso errore. L’oceano di produzioni piú o meno metal (sui generis, tanto per capirsi) negli ultimi anni si è fatto davvero sconfinato, ed esplorarlo tutto in lungo e in largo è impresa inumana, destinata a fallire miseramente, eppure ogni tanto (molto raramente, purtroppo) capita di imbattersi in qualcosa che si staglia per originalità e personalità risultando, di fatto, inaudito. I Łinie sono un quintetto tedesco, sulle scene dal 2012, formato da Jörn Wulff (voce, chitarra), Alex Wille (chitarra, voce), Alex Bujack (batteria, voce), Ralph Ulrich (basso, voce) e Alex “Iggi” Küßner (tastiere, elettronica) che definisce la propria musica con tre parole perentorie e molto precise: desert, noise, darkness. Dopo essermi scervellato per descrivere quello che fanno, devo arrendermi e riconoscere che non puó esserci definizione migliore per questo originale coacervo di influenze e suggestioni. Dovendo cercare di descrivere a parole i 40 minuti di questo esordio sulla lunga distanza, dopo il demo del 2014 'Negative Enthusiasm', punterei l’attenzione su tre aspetti chiave: la base della musica dei Łinie è una sorta di alternative-stoner-protometal come potrebbe essere quello dei Tool piú viscerali e meno cerebrali, quelli di 'Undertow' e 'Aenima', innervata peró di giuste dosi di elettronica mai invadente ma sempre perfettamente integrata, il tutto reso davvero unico da un cantato che si discosta nettamente dai canoni del genere, tanto che Wulff, col suo timbro profondo e bluesy, sembra quasi un novello Glenn Danzig. Il pezzo d’apertura, “Blood on your Arms” non fa progionieri coi suoi riff granitici, il drumming potente, un synth sinuoso e il maestoso declamare del cantante. Il resto del programma fila via senza cedimenti e nemmeno un riempitivo, tra citazioni tooliane ("The City", "Lake of Fire") e accelerazioni stoner ("Non Ideal"), ci sono vere e proprie gemme come “Inability”, “Designate”, o la conclusiva, bellissima, “Natural Selection”, che fa quasi pensare a una versione sludge dei Depeche Mode. Il tutto è sempre fortemente caratterizzato dal particolarissimo modo di cantare di Wulff, che ha un timing e un modo di stare sulla battuta tutto suo, riuscendo a donare quel tocco scuro e minaccioso che aleggia in tutto il lavoro, a partire dall’inquietante immagine di copertina. Album sorprendente, che rasenta la perfezione, in cui tutto, produzione, chitarre, ritmica, tappeti sintetici e voce, concorre a definirne la bellezza epica, allo stesso modo glaciale e rovente. Łinie. Segnatevi questo nome. (Mauro Catena)

Aethyr - Corpus

#PER CHI AMA: Black/Sludge
Gli Aethyr sono un quartetto moscovita, costituito da Mr. D, Mr. W, Mr.S e Mr. Y che escono con il loro secondo lavoro, 'Corpus', per la label CSR, a distanza di cinque anni dal debut, intervallati però da una serie di EP e split album. Sette i pezzi a disposizione per lasciare testimonianza della loro nuova fatica musicale, uno sludge/doom (con ricorrenti fughe nel post black cascadiano, come testimoniato nella traccia d'apertura) guidato da vocals aspre come nel più ferale dei dischi degli Immortal. Si parte con la lentezza disarmante di “Nihil Grail” (già presente nell'EP omonimo del 2011) e le sue lenti falcate, fatte di riff ripetuti allo strenuo, su cui poggiano le voci in acido di Mr. D; per fortuna il finale è un crescendo in intensità che dona un certo brio al pezzo. Si passa a “Sanctus Satanicus” e il rifferama dei nostri cambia, transitando per un apprezzabile stoner sludge, dotato peraltro di una certa fantasia a livello ritmico, ma che lascerà ben presto il posto al riffing, un tantino statico, della opening track. Difficile esaltarsi per cosi poco, ma in aiuto dei nostri sopraggiungono delle rasoiate ritmiche che spostano l'attenzione dell'ascoltatore su altri versanti sonori e evitano un precoce collasso dovuto alla noia. Con i dieci minuti di “ATU” (attenzione, non è la sponsorizzazione di una famosa marca di preservativi), ci inguaiamo inizialmente nelle sabbie mobili di uno sludge abissale, ove la band avrà modo di rivitalizzare ed esaltare il proprio sound con assoli psicotici, momenti di stanca lisergica e soffocanti drappeggi di una musicalità comunque melmosa, che lascia presagira le grandi doti fin qui celate del combo russo. Con "Cvlt" si continua a solcare i territori infausti dello sludge, che in taluni frangenti si concede belle accelerazioni black che hanno il grosso merito di rendere più varia la proposta sonora degli Aethyr. Che ai russi piaccia sperimentare è palese con "The Gnostic Mass", un'inquietante traccia noise/ambient non certo memorabile, se non fosse che la voce campionata che si sente, è quella di Mr. Aleister Crowley. Tralasciabile. Con la title track ci prepariamo ad affrontare altri 10 minuti di suoni al limite del funereo, con delle parabole chitarristiche che strizzano l'occhiolino ai brillanti fraseggi melodici dei Saturnus e ci consegnano un gran bel pezzo di suoni plumbei ma atmosferici, che ci accompagneranno fino alla conclusiva "Templum". La song apre lasciando grande spazio alla batteria e a graffianti riff di chitarra che pian piano troveranno il modo di salire in cattedra e lanciarsi in scorribande di isterico post black di scuola statunitense. 'Corpus' è un album interessante, non proprio semplicissimo da approcciare ma che comunque merita un vostro ascolto. (Francesco Scarci)

giovedì 18 febbraio 2016

Zlang Zlut - Crossbow Kicks

#PER CHI AMA: Hard Rock, Led Zeppelin
Gli Zlang Zlut sono un duo di cinquantenni svizzeri che ha dedicato la propria vita alla musica. Infatti sono attivi sin dai mitici anni '90, quando i due di Basilea si dedicavano prima alla musica classica e poi al rock con diversi progetti. Amici di lunga data, nel 2010 hanno deciso di fondare questo energetico duo dando così alla luce il loro primo EP l'anno seguente. Nel 2014 hanno sfornato l'album omonimo ed ora ritornano con 'Crossbow Kicks', un digisleeve ben fatto con undici tracce di rock dalle influenze hard, ma pieno di sperimentazioni e con così tanta energia che farebbe impallidire parecchie giovani punk band. I ragazzotti amano il rock'n'roll vecchia maniera, ma non disdegnano anche sonorità moderne, distorsioni seducenti e ritmiche taglienti come un rasoio. In realtà la formazione è alquanto strana, nel senso che la line-up prevede un violoncello elettrico/bass synth con controllo a pedali e una batteria/voce, con un risultato finale alquanto soddisfacente. "Hit the Bottom" apre le danze con una ballata rock veloce, un cantato squillante e ben modulato in pure stile hard rock, mentre la sezione ritmica srotola un'ingente quantità di battute. Il violoncello distorto non fa certo rimpiangere la mancanza di una chitarra, anzi, l'assolo permette di godere appieno le diverse sfumature che tale strumento regala. In sé la canzone non offre niente di nuovo, grandi influenze dal passato sia nella struttura che nei riff, ma non fermiamoci al primo brano e passiamo oltre. "Rage" alza il tiro con un mood più oscuro e introverso, sonorità tra i Led Zeppelin e AC/DC, mentre il vocalist si lancia in un cantato ipnotico, sostenuto dai riff ossessivi del violoncello. I cinque minuti abbondanti della traccia rimangono sempre ad un livello che sembra voler esplodere, ma in realtà gioca su altri fattori, come i brevi assoli psicotici di violoncello. Non ancora soddisfatto, passo a "Out of Control", una vergata rock old school fatta di riff ballerini e ritmica figlia dei migliori moto raduni dagli anni sessanta ad oggi. In alcuni passaggi vocali sembra quasi che l'inossidabile Ozzy abbia prestato le sue corde vocali, in realtà il cantante è cresciuto a pane e rock come avveniva qualche anno fa. Anche qui il cello si inerpica in un assolo granitico, dimostrando che non ci vuole per forza una sei corde per scrivere qualche pagina di rock. "Now" è il brano più variopinto dell'intero disco, la struttura è classica, ma il tempo a disposizione permette di dare spazio al bass synth che probabilmente è un Taurus della Moog, a sentirne la cremosità delle frequenze. Anche il violoncello qui si arricchisce di effetti che insieme ai già sentiti excursus sclerotici, permette di inserire dei break che spezzano e rendono più vario il lungo brano. In generale gli Zlang Zlut sono un ottimo duo che brucia di rock come se non ci fosse un domani e nonostante sia restio a prendere la strada della sperimentazione, ne esce a testa alta, grazie anche alla lunga esperienza musicale che i due musicisti si portano sulle spalle. L'impressione è che i due si divertano un sacco, suonino quello che adorano e quindi vincano la loro sfida, senza il bacio accademico però. (Michele Montanari)

(Czar of Revelations - 2016)
Voto: 75

mercoledì 17 febbraio 2016

Dean Wallace - Metal Family

#PER CHI AMA: Heavy, Metallica
Vede la luce verso la fine del 2015 questo CD, frutto del lavoro di un polistrumentista francese, Dean Wallace. Dean è un chitarrista estremamente dotato tecnicamente, più che onesto invece quando si trova alle prese con gli altri strumenti. Se da un punto di vista essenzialmente formale il lavoro si difende discretamente bene, non posso dire lo stesso per quel che riguarda le altre sfaccettature di questo 'Metal Family', a partire da una copertina, che ricalca piuttosto banalmente i cliché del genere con borchie e placche metalliche. Approfondendo poi l'ascolto, emerge subito che il genere proposto è un metal molto classico, con tempi “dritti” e riff più classici del classico. Quello che salta però subito all'orecchio è l'impressionante (e vi assicuro che non esagero) somiglianza del timbro vocale del buon Dean, con quello del “vecchio” James Hetfield, compresi i cari “Yeahhh” di James o lo storpiare le finali delle parole aggiungendo una “A” un po' così a cazzo. Insomma, il ruggito tipico del californiano del periodo post 1991, ecco qui troverete tutti gli elementi che ho citato, e anche di più. E purtroppo, questo è il maggiore difetto di questo cd, e forse dell'artista in toto. Dico questo perché onestamente, ascoltare un CD che puzzi di plagio dall'inizio alla fine, non è ciò che cerco in un album o in un gruppo. Devo essere sincero, non sono riuscito ad ascoltare il CD più di una volta e mezza; anche quando a livello compositivo sembra esserci qualcosa, il tutto scade nel già sentito anche per quel che riguarda i suoni scelti (in alcuni punti sembra di ascoltare dei passaggi riscontrabili sul 'Black' album, ma senza raggiungerne neppure un quarto in termini di qualità). Mi sento solo di consigliare un ascolto ai più curiosi, ma per gli altri, questo 'Metal Family' non è altro che un lavoro superfluo. Per fortuna nostra, questo lavoro non rappresenta assolutamente la famiglia metal che, invece, Dean Wallace intende farci conoscere. (Claudio Catena)

(Tinphlo Records - 2015)
Voto: 45

Goatpsalm – Erset la Tari

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Ambient Noise/Drone/Black
I Goatpsalm sono una band di sicuro interesse per ricercatori di suoni spinti al limite del rumore ambientale, del feedback lisergico oltre confine ed estimatori d'avanguardia black/industrial estrema. La band russa esplora con il secondo album, uscito per la Aestethic Death nel 2012 l'universo storico e l'oscurità che si cela nella cultura sumero/babilonese, raffigurando la divinità Tiamat armata di tridente in copertina e cospargendo l'intero artwork di riferimenti e simboli storico religiosi dall'aria sinistra e minacciosa, mischiati alle poco rassicuranti figure dei tre musicisti sovietici. I nostri propongono la loro musica attraverso sonorità estreme divise in tre brani distinti, di cui il primo e l'ultimo di notevole durata (vicina ai venti minuti), separati da "Bab Illu", più corto e rafforzato da una evidente presenza etnica mediorientale costruita da strumenti a corde irrorati di misticismo e mistero per un'atmosfera arcaica e cupa pregna di sentore nero, un presagio sonoro perfetto per l'imminente disfatta di Babele. La conclusiva "Under The Trident Of Ramanu" mette in evidenza un riconoscibile destrutturato riff di chitarra, sorretto da una rarefatta, rumorosa e lacerata sezione ritmica in salsa lo-fi, con un finale caotico e astratto come se, giocando con il sound più glaciale e minimale del black metal, i Sunn O))) perdessero il mastodontico peso a favore di un groviglio di riff e lamenti chitarristici abissali, rubati ad un Eric Draven, fantasma e malato, nascosto in un luogo solitario tra il Tigri e l'Eufrate, investito da rumori di ogni tipo con finale spettrale che richiama i temi toccati nel brano d'apertura. Ricco di minimalismo rumorista, voci agghiaccianti, sussurrate e recitate, escursioni etnico/tribali che conducono in un viaggio da incubo in compagnia della divinità Marduk; una chitarra scarnificata, tagliente e gelida rallenta il battito cardiaco, giocando le sue carte sul filo del black sperimentale oltranzista (immaginate i Beherit di 'Unholy Pagan Fire' con una sezione ritmica dalla cadenza marziale, eterea, statica e lacerata) e l'industrial/drone più radicale, drammatico, minimale, cinematico, per certi aspetti molto simile ad una vera e propria colonna sonora da film. Aspettando il terzo e nuovo full length in uscita sempre per Aestethic Death a brevissimo, lasciatevi travolgere da questa infinita, affascinante, tenebrosa, tempesta mistica mediorientale! (Bob Stoner)

(Aestethic Death - 2012)
Voto: 75

martedì 16 febbraio 2016

Ha Det Bra – Societea for Two

#PER CHI AMA: Punk/Noise Rock
La meritoria etichetta croata Geenger Records, attenta nel setacciare la scena rock locale e distillare gemme preziose, propone questo cioccolatino imbevuto di noise che promette di placare la voglia di tutti noi orfani inconsolabili dei Jesus Lizard. Sarebbe tuttavia ingeneroso e ingiusto derubricare gli Ha Det Bra a semplici epigoni dell’indimenticata band di David Yow, in virtú della qualità altissima e della varietà di stili che fanno di questo 'Societea for Two' un esordio col botto. Le quattordici schegge che si susseguono lungo i 44 minuti totali, scorrono a meraviglia evidenziando innumerevoli sfumature e una personalità ben definita, attraverso gorghi noise rock, forti di una sezione ritmica granitica, chitarre affilate e urticanti, voce tormentata e graffiante. A colpire sono la qualità media dei brani e la straordinaria resa sonora, potente e sporca come i dischi Touch and Go degli anni '90, tanto che, tracce come “In Lies” o “Sleeping with the Werewolf” (per citarne due tra le tante), non avrebbero affatto sfigurato se inserite in scaletta nei classici del genere di Jesus Lizard o Unsane. Varietà, si diceva poc’anzi, e allora ecco la splendida “Mustafa the Tyrant” con inedite atmosfere orientaleggianti, o “Lowthing”, piccola parentesi che si distacca dal tono malato del resto del lavoro, per immergersi in atmosfere psych che ricordano addirittura gli Screeming Trees di mezzo. Altrove, ("Under the Mould" o "Michael’s Nightmyers") a farsi protagonista è quell’indole blues, quello passato attraverso indicibili torture e sofferenze degli Oxbow, che aleggia sul disco come una presenza maligna e beffarda. Sarebbero da citare tutti i brani, e ci sarebbero da spendere tante altre parole entusiastiche, nonché paragoni e rimandi che scaturiscono continuamente dall’ascolto di questo lavoro, la sfacciataggine malevola degli Swans o la furia iconoclasta dei Birthday Party, ma ogni parola spesa qui è un secondo rubato all’unica attività che invece andrebbe fatta: ascoltare questo disco! Esordi cosí sono rari e preziosi, e credo che se la band, invece che a Zagabria, fosse nata a Chicago, ora il suo nome starebbe di fianco a quello dei nuovi eroi del noise come Pissed Jeans, Whores e Metz. Unico rammarico: aver ascoltato 'Societea for Two' solo dopo aver stilato la mia classifica di fine anno. (Mauro Catena)

(Geenger Records - 2015)
Voto: 85