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#PER CHI AMA: Dark/Folk/Ambient |
Era il 2008 quando recensii per la prima volta i Lord Agheros, in occasione del loro secondo cd, 'As a Sin', dove li indicai come band dal futuro assai promettente in territori black ambient. Oggi, a distanza di otto anni, mi ritrovo fra le mani il disco numero cinque della one-man-band catanese, sempre egregiamente guidata da Gerassimos Evangelou, che ha preso definitivamente le distanze da quegli epici esordi. 'Nothing at All' conferma comunque quanto di buono fatto dal polistrumentista siciliano in passato, proponendo un disco dalle oscure tinte gotiche, che mostra tuttavia qualche passaggio a vuoto che mi abbia lasciato un po' perplesso, anche se non si tratterà di nulla di cosi grave. L'album inizia come se si trattasse di una proiezione cinematografica, con tanto di rumore del proiettore e della pellicola che vi scorre dentro. Poi è il suono malinconico di un pianoforte a subentrare, pianoforte che sarà il vero protagonista di questa release. Dopo l'intro infatti sono ancora i tocchi di piano che aprono "Lake Water", qui accompagnati dalla voce suadente di Federica Catalano, vocalist dei Lenore S. Fingers, in una traccia decisamente autunnale, in un incedere dark ambient alquanto decedente. Un evocativo interludio di folk mediterraneo, corredato da voci corali e poi è lo strimpellio di una chitarra acustica ad introdurre "No More Rules", in cui forse per la prima volta, appare il riffing della chitarra elettrica, in una song interamente strumentale. In "Life and Death" è forte il rimando nelle sue linee melodiche, alla colonna sonora di Blade Runner, ma a stonare, e qui nasce la mia perplessità, è la scelta di utilizzare un riffing più corposo e pesante, che si discosta dai pezzi fin qui ascoltati, e che va a spezzare quell'aura magica e spirituale fin qui creatasi. La cosa si ripete anche nella successiva "The Day to Die", altra traccia che ho sentito scollegata dal resto delle composizioni, ancora una volta a causa di un rifferama particolarmente marcato che a mio avviso stona in un disco che aveva imboccato una strada completamente diversa. Qui risiedono i miei dubbi, non tanto per una qualità musicale scadente, piuttosto per l'idea di utilizzare un approccio musicale che sin qui e da qui in poi, trova meno punti di contatto con il flusso sonico creato dall'artista siculo. Tant'è che la pioggia e il pianoforte di "On the Shore" ripristinano quell'alone di misticismo e forte malinconia, nuovamente spezzati dai riffoni thrash metal di "Idiocracy", sulle cui marziali note si installeranno poi i discorsi di alcuni presidenti degli Stati Uniti ma anche le voci angoscianti di Hitler e Mussolini, in una song più provocante che piacevole d'ascoltare. Il suono degli elementi naturali torna ad aprire in "What We Deserve", con le onde del mare e il soffio del vento che, in compagnia di pianoforte e violoncello, regalano sofferenti attimi di tristezza. Ancora sonorità classiche con il lirismo di "Final Thoughts", traccia raffinatissima che col metal non ha nulla a che fare, cosi come la conclusiva title track che, nello spazio di un minuto e mezzo, suggella l'onorevole prestazione dei Lord Agheros, sulle parole del drammaturgo inglese William Congreve. Peccato solo per quegli episodi troppo metallici per un simile album, che rischiano di spiazzare e non poco l'ascoltatore. Rischieremo poi di essere qui a parlare di un capolavoro in pieno stile Dead Can Dance, ma direi che c'è ancora tempo per calibrare il tiro e raggiungere le vette del duo anglo australiano. (Francesco Scarci)