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sabato 7 giugno 2014

Beyond Grace - Monstrous

#PER CHI AMA: Techno Death, Spawn of Possession 
Ricordo da bambino quando mi dovevano fare un'iniezione, i miei genitori mi dicevano "è un piccolo pizzicotto che dura un attimo"; puntualmente sentivo un dolore incredibile che durava si pochi secondi e passava in un lampo. Questo per introdurvi il brevissimo lavoro (13 minuti) degli inglesi Beyond Grace, un attimo di metallico dolore. Si perché 'Monstrous' irrompe nel mio impianto stereo con "The Chronophage", song che selvaggiamente cresce con un tiro assassino, in grado anche di rallentare la sua corsa, sterzare ma ripiantare l'acceleratore a tavoletta e darcene tanto da lasciare un bruciore simile a quello di una siringa piantata là dove non batte il sole. La ritmica tagliente ronza nell'aria come le pale di un elicottero che tagliano l'aria, l'ugola di Andy Walmsley è bella profonda e ben si amalgama con il killer sound dei nostri. Ovviamente quello dei Beyond Grace non è un sound violento tout court; nell'arco dei brani si ritrovano interessanti rallentamenti, fraseggi progressivi che rimandano a mostri sacri come Death o Spawn of Possession, trovando però il tempo di strizzare l'occhiolino anche al death-metalcore. "Inhumanity" è forse la traccia più selvaggia in cui trovano spazio i blast beat, anche se nella sua seconda metà il brano si rivelerà assai più ragionato. Non siamo al cospetto di nulla di innovativo sia chiaro, però l'EP si lascia ascoltare; non saprei quantificarvi però per quanto gli concederò la mia attenzione prima di abbandonarlo nella mia distesa infinita di cd. "Invasive Exotics", chiude in modo dinamitardo questo primo EP dei Beyond Grace, che proprio dei pivelli non sono, visti i trascorsi come Threnody dal 2005 e Bloodguard dal 2011. La traccia parte da una base di matrice brutal death per poi evolvere in un'esplosione caleidoscopica di suoni di scuola Cynic/Atheist che tocca il suo apice in uno splendido ma brevissimo intermezzo acustico, che lascia intravedere le potenzialità del quintetto di Nottingham. Merito di quest'ultima traccia, l'interesse dei nostri è accresciuto parecchio: speriamo ora che mettano un po' da parte la furia brutale fine a se stessa e concentrino maggiormente i propri sforzi alla ricerca di divagazioni più spinte in ambito death fusion. Da seguirne l'evoluzione attentamente. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 65 

Illuminati - The Core

#PER CHI AMA: Fusion Death Metal, Atheist, Cynic, Pestilence
'Testimony of the Ancients', 'Focus', 'Unquestionable Presence', 'The Key' e il nostrano 'Above the Light' rappresentano quanto di più incredibile il fusion death abbia concepito nei primi anni '90 e forse in tutta la storia del metal. Pestilence, Cynic, Atheist, Nocturnus e Sadist hanno costruito le basi per quelle migliaia di band discepoli che si sono poi susseguite nel corso degli anni a venire, ma che ahimè non hanno raggiunto le vette stellari dei primigeni mostri sacri. Quello degli Illuminati è un altro interessante esempio di mimare quelle insuperabili performance e il terzetto di Bucarest lo fa giocandosi una serie di carte ad effetto davvero impressionanti. Della serie "ti piace vincere facile"? Forse. Si perché i nostri abbracciano alcuni degli artisti delle band sopracitate. Patrick Mameli (Pestilence) si palesa al microfono nella opening track, "Please Lose", con la sua bella voce al vetriolo che si erge su un tappeto ritmico elucubrante, fatto di cambi di tempo, incursioni jazz, ritmiche sghembe, fini atmosfere e linee di basso di scuola Cynic/Atheist. Esagerata. Un breve intermezzo (ce ne saranno sei in tutto, alcuni dei quali contraddistinti da un parlato in lingua rumena) e via con "Storm" dove compare Mr. Mike Browning, ex fondatore dei Morbid Angel ma soprattutto batterista e vocalist dei Nocturnus. La song si palesa nuovamente come un incalzare di riffs ricercatissimi ma anche assai affilati, che non lasciano nulla al caso e giocano tra loro, nel tentativo di disorientare e ubriacare l'ignaro ascoltatore. Arriviamo a "Gulliver's Extraordinary Journey" e diamo il benvenuto a Daniel Mongrain (Martyr, Voïvod), in una song che si ispira molto a 'Focus', suonato in una session con gli Exodus ma che nella sua seconda metà gode di un'aura space rock degna degli ultimi Voivod. Increduli? Io rimango basito, non c'è che dire, sbalordito anche nel piacevole susseguirsi di una serie di solos, intermezzi blues/rock/funky a cui farà seguito uno splendido interludio etnico. Giungiamo a "Sea of Consciousness" e due tra i più talentuosi musicisti del globo, Kelly Shaefer e Tony Choy (che un po' tutti ricordano per la loro militanza in Atheist o Pestilence, tra gli altri) esplodono la loro bravura, il primo con una buona performance alla voce, il secondo con un inesplicabile lavoro al basso, in una traccia che sembra rifarsi anche ad 'Elements' degli stessi Atheist, e per una certa tribalità alle percussioni. Progressive, techno death e ritmiche alternative, riescono poi a forgiare un suono incredibile. Con la breve title track, a deliziarci alle voci troviamo Tymon Kruidenier (Exivious, ex-Cynic) in una cavalcata magnetica, mentre con la conclusiva "Domino Spine" è Luc Lemay dei sottovalutati Gorguts a fare da guest star dietro al microfono in quella che probabilmente si rivelerà la traccia più difficile da ascoltare dell'intero album, una song dotata di poca dinamicità e dal mood decisamente più cupo, tipico del sound della band dalla quale Luc arriva; il finale tuttavia è da applausi (ascoltare per credere). Il sorprendente album degli Illuminati finisce qui, o almeno credevo. Si perché a sancire l'impresa di 'The Core', ecco diffondersi nell'aria la cover di "Unquestionable Presence", riletta in modo esemplare da questi straordinari musicisti rumeni. Ma come diavolo è possibile che una simile release sia passata quasi del tutto inosservata ai media (scarsissime le recensioni sul web)? Per chi come me sentiva la mancanza di questo genere di sonorità, rompa gli indugi e si faccia avanti senza paura. Gli altri affianchino ai 5 album citati all'inizio di questa recensione, una copia di 'The Core'. (Francesco Scarci)

(A & A Records - 2013)
Voto: 85

giovedì 5 giugno 2014

The Pit Tips

Stefano Torregrossa

Wovenhand - Ten Stones
Samsara Blues Experiment - Waiting For The Flood
Down - Part II (EP)
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Don Anelli

Renacer - Espiritu Immortal
Misery Index - The Killing Gods
Savage Messiah - The Fateful Dark
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Francesco Scarci

Skogen - I Doden
Agalloch - The Serpent & the Sphere
Amouth - Awaken
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Alessio Skogen Algiz

Paradigma - Mare Veris
Apotheosis - A Shroud of Belief
Nattvindens Grat - A Bard's Tale
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Kent

Atlantis - Omens
Massive Attack - Blue Lines
Dementia Senex - Heartworm
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Claudio Catena

Spatial - Silence
Alice in Chains - Dirt
Hamferd - Evst
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Michele Montanari

Fu Manchu - Gigantoid
Gozu - The Fury of a Patient Man
Humulus - Humulus

Dead Birds – Dead Birds

#PER CHI AMA: Post-core, Jesus Lizard, Nekropsi, Dag Nasty, Pixies
I Dead Birds sono una band inglese proveniente da Cumbria, che ci presenta il primo lavoro autoprodotto composto da dieci tracce tese e nevrotiche, cariche della tensione che ha fatto emergere band stratosferiche come i Nirvana. Quella carica, selvaggia, incontenibile, che risiedeva nell'album 'Bleach' e che mescolata ad una buona vena psichedelica dava nuova vita ad un genere poco compreso e figlio illegittimo dell'hardcore, il mathcore. Il combo inglese si definisce come molti in questa epoca, post-core ma lo stile canoro variegato, la sonorità scarna e obliqua ricordano alcune cose dei grandissimi Quicksand, certe dei complicati Nekropsi, vagamente la psichedelia garage punk dei Mudhoney (vedi "Pictures"), la follia spaccaossa dei Jesus Lizard e lontanamente i chiaroscuri schizoidi dei Rolo Tomassi ("He's Asexual"). Il legame con 'Bleach' dei Nirvana è dovuto alla tipologia di suono usato dalla band: batteria dinamica sempre in primo piano, voci aggressive e sgangherate, chitarre taglienti e basso pulsante sparato in faccia. Il disco mostra anche delle ottime suite delicate come la bellissima "Bear Hug" dove la band mostra tutto il suo background pop di classe sfiorando apici di liricità vicini ai migliori Beautiful South, apertura del tutto inaspettata, riuscita al 100% che ci fa tanto piacere. Potremmo aggiungere i Dag Nasty e il quadro sarebbe solo in parte completo perché l'alternative punk di questa strana band gode anche di un pizzico di quella irresistibile scanzonata vena che rese splendidi alcuni album dei Pixies (vedi 'Trompe le Monde') e persino echi dei The Clash più dub (nel brano "Through the Trees"). Nessuna pretesa d'innovazione, tanta energia, tanta fantasia nel rimescolare i generi più variegati, e una buona dose di personalità... magari non sfonderanno le classifiche di vendita ma lo spirito c'è e questo ci basta per amarli così come sono. Disco consigliato! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

Halter - Omnipresence of Rat Race

#PER CHI AMA: Death/Doom 
Prodotti dalla ormai nota MFL records, gli Halter danno alle stampe questo cd dalle fortissime tonalità oscure; i ritmi rallentati e le voci gutturali rendono l'album estremamente cupo e tetro, adatto essenzialmente ad un ascolto attento e non “di sottofondo”. Le 5 tracce che compongono il cd fanno subito intendere che le lunghezze delle tracce sia notevole, ed infatti non si scende mai sotto i 6 minuti, con punte massime per la traccia finale di 12 minuti. Doom, doom e poi doom allo stato puro, poche le divagazioni, anche se la tipologia di vocals e il suono delle chitarre rimanda a canoni del death metal; i suoni puliti e non impastati rendono la fruibilità del lavoro più gradevole per quello che ci si può aspettare da un monolite del genere. Riffoni pesantissimi e di scuola Iommi pervadono le intere composizioni, un drumming soffocante e buone linee di basso sono capaci di creare atmosfere sulfuree, ma pienamente godibili. Servono più ascolti per comprendere appieno le qualità del cd che alla fine non delude affatto; le canzoni sono ben strutturate, anche se a mio parere, una durata inferiore di tutto l'insieme avrebbe giovato soprattutto all'ascoltatore, che deve resistere fino alla fine, evitando la tentazione di skippare in qualche occasione. Nota di demerito per non aver indicato nel booklet i componenti del gruppo, anche se non mancano i rimandi alla loro pagina myspace. I testi, stampati in giallo su sfondo marrone e giallo rischiano di farvi vivere un'esperienza lisergica, davvero troppo difficili da leggere. Ma ribadisco, la musica alla fine si rivela di buona qualità: non posso fare a meno di citare le interessanti “Of the Part of Herd” e “Graves are not Full” e la fin troppo "Sabbathiana" (non un difetto intendiamoci...) “Autumn Night”. Senza dubbio avrei preferito delle vocals un po' più pulite su questo letto di note, poiché questo tipo di growling estremo rischia di appesantire ancora di più una situazione sonora che di leggero ha davvero poco... comunque gli Halter avranno tutto il tempo per sperimentare nuove strade o per affinare le loro già presenti abilità musicali e compositive. Siamo già su livelli piuttosto alti e per quello che mi riguarda al momento, basta quello che si può ascoltare in questo 'Omnipresence of Rat Race', senza ombra di dubbio. (Claudio Catena)

(MFL Records - 2013)
Voto: 70 

mercoledì 4 giugno 2014

Skelethal - Deathmanicvs Revelations

#FOR FANS OF: Swedish Death Metal, Grave, Dismember, Unleashed
One of the more out-and-unabashed portrayals of Swedish Death Metal not found in Scandinavia, French horde Skelethal’s second release, this 7-track EP is surely one of the high points in the genre this year and positions the group fairly high amongst the next crop to take aim at the almighty pedestal. This isn’t just a national take on the genre but straight-up Swedish Death Metal in its purest, old-school form with the hallmarks of the genre in fine form from the get-go as the guitars manage to play with that specific tone that recalls a grinding buzzsaw gearing for action, loud bass-lines thumping away with intense grooves and a quick, up-tempo pace that adds a lot from the Thrash scene with the tempo work in particular here and not in execution. Of course, the pounding drumming and deep, guttural vocals present here do add to that grimy, crusty Swedish atmosphere just as much as the guitar rhythms and patterns, but there’s a certain energy that runs throughout the work as a whole that manages to rise this one above the level of most traditional Swedish-styled imitators. This is certainly among the faster bands in the style and certainly makes for some blistering speedsters in here that rattle throughout the chaotic tempos and paces quite well while also being able to handle the occasional slow, sprawling epic that creates an atmosphere more akin to the cavernous retro Death Metal acts in places before charging back into raging Swedish tracks. The appropriately-titled "Intro" gets things going on the right note with eerie winds, piano trinkling and tolling bells to get the listener in the right mind-frame. "Macabre Oblivion," the proper first song, gives away the best tricks of the band from the get-go, showing a penchant for deep grooves, blasting drumming and that ever-present buzzsaw riff-work that weaves throughout the varying tempos from tight thrasher to atmospheric crawl and does it quite well as it rages throughout. Follow-up "Putrefaction" is pretty similar in terms of overall appeal and presentation but benefits greatly from the bouncy rhythms from the constant, pounding drumming but still has the same buzzsaw guitars and dark, guttural vocals to go with its intense tone. The title track continues the blaring guitar-work and raging tempos found in "Macabre," and the blistering "Curse of the Neverending" follows along with strong riffing and a breakneck tempo. The album’s best track, the utterly raging "Death Returns" starts with a sprawling Doom-like crawl before letting loose on blasting, fast-paced Swedish Death Metal that continues on the breakneck and relentless "A Violation of Something Sacred" that closes the album off and gives this a solid punch to end things on. Overall, this is a pretty fun and enjoyable blast of Swedish-styled Death Metal that succeeds far more than it fails. While the tracks aren’t so bad, the production-job on this one does the drums no favors at all as it renders them as far back in the mix as possible and really destroys a lot of their power as there’s some killer fills and blasts throughout but is rendered more indecipherable than it should be, and really becomes the only real flaw present in this. (Don Anelli)

(Iron Bonehead Productions - 2014) 
Score: 85

The Melancholic Youth of Jesus - Gush

#PER CHI AMA: Alternative, Shoegaze, Jesus and Mary Chain, Yo La Tengo
The Melancholic Youth of Jesus è il moniker dietro il quale si cela prevalentemente la creatività del portoghese Carlos Santos, che calca le scene dai primissimi anni '90, tanto da diventare un nome di culto nell’underground europeo. Dalle “scarne” informazioni rintracciabili in rete, si evince che questo 'Gush' sia una sorta di raccolta di singoli, b-sides o rarità usciti negli ultimi anni nei formati più disparati, che mai avevano trovato spazio su album ufficiali. Santos fa quasi tutto da solo, scrivendo e suonando praticamente tutta la musica incisa in questo lavoro, salvo qualche piccolo aiuto qua e là. Il sound dei TMYOJ è ben radicato in quello dell’alternative di matrice prevalentemente chitarristica che ha caratterizzato buona parte degli anni '80 e '90, da entrambe le parti dell’Atlantico, prendendo come riferimenti tanto lo shoegaze dei Jesus and Mary Chain, quanto il suono stratificato degli Yo La Tengo. Pur senza mai raggiungere le vette compositive dei modelli, Santos mette in mostra una grande capacità di creare melodie zuccherose e ritornelli catchy, ben nascosti sotto strati di chitarre grattugiate e sprazzi elettronici di buon impatto. La prima metà della scaletta mette in fila una serie di brani estremamente orecchiabili e dal potenziale molto elevato, come "Paralized" e "Sugar", doppietta che apre l’album, vicina alla psichedelia sfacciata dei Dandy Warhols. Il gioco riesce bene anche con "Detroit" (drum machine inesorabile, feedback chitarristici e basso distorto) e "Insensitivity" (sorta di ibrido tra il paisley underground velvettiano dei Dream Syndicate e i Placebo). Una canzone come "Theme for Ambition" poi, potrebbe aver venduto qualche milione di copie una ventina di anni fa, con quella atmosfera sospesa tra Billy Idol e Dinosaur Jr. Da "Computer Girl" e fino alla fine del disco, emergono elementi diversi come un uso piuttosto massiccio dell’elettronica che sporca le ritmiche e la voce, rendendo l’aria improvvisamente più scura, come la notte che cala di colpo, senza preavviso. E proprio questi ultimi quattro brani sono quelli meno convincenti, nel loro voler rimandare ad atmosfere synth-gothic un po’ fuori tempo e fuori contesto. In definitiva un disco degno di attenzione da parte di un personaggio meritevole di grande rispetto, che pare sia già al lavoro su nuovo materiale. (Mauro Catena)

(Ethereal Sound Works - 2013)
Voto: 65

36 Stanze - Mattanza

#PER CHI AMA: Thrash groove, Sepultura, RATM
Ritmi frenetici si manifestano maestosamente nei primi secondi de "San La Muerte", opening track di 'Mattanza', opera dei piacentini 36 Stanze. Le tracce sono un susseguirsi di chitarroni granitici e batteria supercompressa, accompagnati da un cantato urlato o pulito, costantemente veloce, che a volte sfiora il rappato, sempre e piacevolmente in italiano. La situazione si raffredda un poco a livello ritmico nelle successive "Ottobre Uccide" e "Figlio di un Cane", dove emerge, oltre a una voce melodica e tranquillizzante, anche una chitarra pulita che ben presto si tramuterà nei sopracitati ricorrenti stilemi. Il disco rispetto al genere è abbastanza vario, dato che incorpora vari elementi del thrash/groove, nu metal, rapcore e i testi, seppur tremendamente bassi e scontati, danno comunque l'impressione di una buona ricerca a livello strutturale, dato che le voci riescono sempre ad armonizzare i vari contesti con le emozioni trasmesse dalle tracce. Sicuramente un lavoro ben curato, anche dal punto grafico, corredato poi da un packaging inusuale. Il tocco di stile riguarda poi ricorrenti chitarre acustiche e parentesi melodiche che raramente si ritrovano in un genere come questo. Bravi! (Kent)

(Self - 2012)
Voto: 70

domenica 1 giugno 2014

Sheol - Sepulchral Ruins Below the Temple

#FOR FANS OF: Death Metal, Incantation, Autopsy, Cruciamentum
Despite the funky lettering that constitutes their given name, the band refers to themselves as Sheol and hail not from the Middle East as expected but rather London, England, in the UK, and while this geography lesson has nothing to do with the music within, the fact remains that this is some pretty deep and intense old-school sounding Death Metal. This is decidedly obvious Incantation style worship from the first minutes as the band plays with that ever-familiar ‘Cavernous’ style of Death Metal filled with simple rhythms, blasting drums and deep, deep growls that are so reverb-laden it produces the effect of being recorded in a cavern below the ground, and with the sludgy guitar patterns, blasting drumming and slimey, wet bass-lines that fill this one so well from the get-go, it produces that old-school sound in rather simple fashion as the continuous assaults from the band generate few other points of inspiration. The Autopsy influence comes from the rather filth-ridden guitar lines that have more sonic clarity than Incantation ever attempted, and resonate with more technical flow as well that again recalls the secondary practitioner of this style, and when it’s all wrapped into that sprawling mass of reverb and charging tempos, the result becomes competent-if-not-exactly original fare this time around for it doesn’t really do anything special with this style that other bands have already been playing with and perfecting for years now. Perhaps this has to do with the overall shortness of the EP for this legitimately only has three original tracks to play with as there’s the cover and two instrumentals among the six tracks, leaving only three proper songs to really give any sustenance to the bands’ original style and it comes off with the same feelings that many others have already. Among the two instrumental cuts, intro "Spiritual Desiccation" really generates a far more appropriate feel and vibe of the music with the eerie droning and gradual build-up of the churning guitars and blasting drumming that really sets an intense, dark stage for the rest of the music, while "Katachthomb" is more Middle Eastern rhythms, chanting and melodies that serves as a fine mid-album breather if a twenty-five minute album could be said to require a breather. The first two full-songs, "Deluge of Tehom" and "Perpetual Descent into She’ol" offer pretty much what the band’s really like, with tight, raging guitars, blasting drums and a series of riffs that sound gigantic and muddied with the production issues that charge forth nicely amid a series of sweeps and dives that alternate tempos nicely and show a lot of potential here. As far as their original cuts goes, though, the best is undoubtedly the title track which recalls their cavernous riffing approach only melded to the intense blasting and frenetic pacing of Blackened Death Metal act Cruciamentum, no small feat with their shared members but this extreme blast of Death is certainly worthwhile and shows there’s something potentially interesting about the bands’ burgeoning sound in the years to come. The final song, a cover of DarkThrone’s seminal "Cromlech" retains the intensity and tight riffing but seems to be out-of-place with its lighter atmosphere and doesn’t offer the riffing patterns that fit in with their style attempted here as the tremolo-picked melodies don’t translate too well for this sludgy, down-tuned offering. Again, this is certainly competent material when it comes down to it, but it’s just a misguided teaser when it’s equaled by other factors here that should be ironed out and ready to destroy come the next release. (Don Anelli)

(Iron Bonehead Productions - 2013)
Score: 70

Amouth - Awaken

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna 
L'abito non farà di certo il monaco, ma quando tra le mani mi sono ritrovato un box in legno intagliato a mano, devo ammettere di esserci rimasto di sasso ed essere già partito da un rate di valutazione che sfiorava la sufficienza piena e senza aver ancora ascoltato il lavoro. Allora, vediamo se il mio non soffermarmi all'apparenza, darà comunque i suoi frutti... Faccio partire 'Awaken', EP di debutto dei toscani Amouth. La direzione musicale dei nostri si palesa immediatamente, dopo l'intro "Il Neige", con "Awake", in quanto fortissimo è l'eco dei Cult of Luna a diffondersi nell'etere. Post-metal quindi per il quartetto di Arezzo, che ha nei suoi mid-tempo costellati da nubi minacciose, il suo punto di forza. Nessuna novità tuttavia per questo ormai inflazionatissimo genere: qualche bella malinconica linea di chitarra qua e là, i classici break ambient, il vocione mai troppo pulito che arriva a sfiorare il growl. Con "The Priest", la componente più criptica dell'ensemble italico prende il sopravvento e, pur rasentando a più riprese la matrice musicale dei gods di Umeå, dimostra quanto siano bravi i nostri nel catalizzare l'attenzione di chi ascolta. Forse le strazianti melodie, il limaccioso e ribassato sound delle sei corde o l'aura funerea che ammanta il brano, alla fine ne rendono l'ascolto godibilissimo, nonostante i suoi quasi undici minuti. "City of Gold" scorre più nervosa fino alla sua inevitabile interruzione arpeggiata, un must per il genere, che i nostri sembrano seguire talvolta, troppo pedissequamente. Forse ancora un po' troppo scolastici gli Amouth; tutti i dettami del genere sono del resto stati rispettati anche nella conclusiva "Departure", una song non certo memorabile, che si farà ricordare più che altro per un tremolo picking che rapisce la scena ad un ingresso musicale piuttosto in sordina e prosegue con linee sonore crescenti in intensità. Comunque sia, la band mostra ampi margini di crescita dopo i numerosi commenti (positivi e negativi) piovuti su questa release. Sono certo che i quattro di Arezzo saranno in grado di recepire il meglio da quei commenti e sfoderare la prossima volta, una prova di grande qualità e personalità. C'è da scommetterci, la sufficienza piena è stata del resto raggiunta anche senza la valutazione dell'incredibile packaging, che vale di per sé l'acquisto. (Francesco Scarci) 

(Self - 2014) 
Voto: 65 

Blaze of Perdition - The Hierophant

#PER CHI AMA: Black/Death, Marduk, Haemoth, Hypocrisy, Hate Eternal
Premesso che scrivere di un ottimo album uscito nel 2011 e ricordare che esattamente il 3 novembre 2013 la stessa band in Austria per un concerto, alle 6:30 del mattino è rimasta vittima di un grave incidente stradale che ha portato al decesso del bassista e al ferimento grave degli altri tre membri, non può che averci lasciato frastornati e demotivati. Decidiamo quindi di ricordare la sfortunata band polacca, attiva sin dal 2004 col nome Perdition e passata ad nuovo moniker nel 2007, parlando di questo secondo full lenght intitolato 'The Hierophant', uscito per la Pagan Records appunto nel 2011. Il sound della band è chiuso negli stilemi del genere, ferale, freddo, infinitamente tecnico e decisamente black. Quel black metal della grande scuola Marduk o Bathory ma con un'identità propria e un'attitudine visionaria con spunti verso sonorità più moderne. Veloce, carico di spiccata e violenta destabilizzazione, un po' Hypocrisy e un po' God Dethroned, decisamente Haemoth, anche se alla fine, i Blaze of Perdition risulteranno più pesanti e violenti con una sonorità buia e underground in stile Hate Eternal. Una voce maestosa governa il tutto rendendo il disco apocalittico, nervoso e scurissimo. L'album è velocissimo e ben strutturato, ben suonato e altrettanto ben registrato, con una buona grafica di copertina fatta di immagini ricercate ed impressionanti. Potrebbe essere un must nella vostra discografia del metal sotterraneo, un lavoro degno di lode che cavalca molti degli stili usati nel genere e che mantiene saldo la sua identità, una band che non va lasciata cadere nel dimenticatoio, una band che ha incontrato un'enorme sfortuna, ma una band che merita sicuramente il vostro ascolto. (Bob Stoner)

(Pagan Records - 2011) 
Voto: 70 

martedì 27 maggio 2014

Brave the Vertigo – Oppenheimer Quoting Vishnu

#PER CHI AMA: Rock Progressive, Audrey Horne, Katatonia, Camel
La band di Burlington, nel Vermont, esce autoproducendosi un cd di quasi quaranta minuti diviso in soli quattro episodi di stupendo rock progressivo dal forte sapore vintage ma dall'anima forgiata nelle sonorità più moderne. Una produzione con i fiocchi, un tiro esagerato, una costruzione musicale equilibrata che dà spazio a tutti i componenti del quartetto e che giustamente mette in evidenza la chitarra e la voce del suo inventore, Francis Andreas. La sua voce ha la timbrica oscura del miglior Danzig solista, il taglio pop del Joy Ramone più elaborato (quello di 'Pet Semetery' per intenderci) e il fascino di Ian Astbury dei The Cult, quelli maturi degli ultimi anni e suona proprio come una delizia alle nostre orecchie. Musicalmente ruotiamo intorno alle atmosfere del metal più melodico e cupo in stile Katatonia, anche se il loro sound è più caldo e aperto, con suite di calma apparente e aperture alla Queensryche di 'Tribe', sempre in splendido equilibrio e senza mai cadere in eccessi. La pulizia del suono è basilare e come da più parti riconosciuto, i nostri ricordano in maniera strepitosa la musica dei Camel, in una veste rock/metal evoluta nel ventunesimo secolo. "Fat Man Schematic" e "Yena" presentano una linea vocale irresistibile che si estende sicura anche negli altri brani del disco, epica e maestosa senza mai cadere nei cliché di un certo epic metal di maniera. In "Yena" la band si lascia andare e nel finale dà libero sfogo ad una coda progressive godibilissima. Le chitarre indiscutibilmente fanno la parte del leone in tutti i brani, che siano acustiche o elettriche, emergendo sempre con melodie ancestrali, magnetiche, cosi come lo erano quelle degli Electric Light Orchestra al tempo o quelle degli Audrey Horne dell'album 'Le Fol'. Un vero album, completo in tutto, che farà felici molti ascoltatori alla ricerca di un lavoro ben curato, studiato, suonato con passione e stile, un album di tutto rispetto! (Bob Stoner)

(Self - 2013)
Voto: 75

Throne of Molok - Beat of Apocalypse

#PER CHI AMA: Cyber Death/Black, The Kovenant, Aborym, Plasma Pool
Parental Advisory: l'ascolto di questo cd potrebbe danneggiare seriamente il residuo del vostro cervello. Questo è quanto mi sarei aspettato di trovare sullo splendido digipack dei palermitani Throne of Molok, che con 'Beat of Apocalypse' giungono al terzo lavoro in studio. Sinceramente non conosco le precedenti performance dei nostri, ma me le andrò a cercare di sicuro; certo che quando la title (e opening) track fa la sua comparsa nel mio stereo, vengo investito da un cyber death a dir poco malefico. Sebbene questi due termini stridano quando accostati tra loro, il risultato che ne deriva è spaventoso: non so poi se sia dovuto all'effetto dei synth che accompagnano la fragorosa e serratissima ritmica dell'ensemble siculo o le diaboliche vocals di Morg, fatto sta che 'Beat of Apocalypse' ha un che nel suo incedere che puzza anche di velenoso black metal. Qualche beat cibernetico introduce "Something Black", un'altra cavalcata di acidissimo death metal dotato di un suono meccanico e malvagio, che sembra trarre parte della sua linfa vitale dall'arroganza musicale dei mostruosi Impaled Nazarene. Sfrontati, rabbiosi e fottutamente incazzati con il mondo, i Throne of Molok introducono "Atm:ind:inferno" con sonorità al limite tra l'EBM degli Hocico e le sonorità malate dei Plasma Pool di Attila Csihar. Potrete pertanto intuire quali siano le deviazioni musical-mentali di questi musicisti nostrani, che tra cyber divagazioni alla The Kovenant e sfuriate electro black alla Aborym, hanno tutto il tempo di massacrarci i timpani e deviarci la mente verso lidi a dir poco malsani. "Tuned by Holocaust", la mia traccia preferita, non solo mostra l'attitudine cibernetica del quartetto siculo, ma mette in mostra una ritmica che ha anche il tempo di strizzare l'occhiolino ai Morbid Angel. Si continua con i battiti di "Sentinel Possessed", un cingolato portatore di morte che spazza via quanto sia riuscito a sopravvivere fino ad ora. Rasoiate di chitarra (sembrerebbe un assolo quello che introduce un inaspettato break ambient) inducono un headbanging sfrenato prima della devastazione conclusiva a cura di "Obscure Emotions", la punkeggiante "Evil Invader", vera song al fulmicotone e la ruvida "Walking Death", ultimo atto in cui la voce al vetriolo di Morg riesce a mettersi in luce. A chiudere l'album ci pensa infatti la strumentale "Final Output", una scheggia impazzita di black death dalle tinte industrial che sancisce di fatto, l'eccelsa qualità di questo combo italico e della loro proposta. Un battito animale! (Francesco Scarci)

(Eternal Tombs Records - 2013)
Voto: 80