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martedì 11 febbraio 2014

Breathe Your Last – Fifth

#PER CHI AMA: HC italiano, RFT, At the Drive in, Congegno, Contrasto
La giovane band vicentina alla prima uscita autoprodotta sforna un EP carico di energia, pregno di vigore HC e di rasoiate punk melodiche e moderne, molto vicine alla scena hardcore alternativa e anarcopunk, della penisola tricolore. Niente di nuovo sotto il profilo stilistico ma i brani sono tutti validi, magari poco differenti tra loro ma belli, tirati, intensi e potenti. In risalto soprattutto la voce del vocalist Matteo Giacomuzzo che assieme ai testi assai ricercati (e questo gli fa un grande onore in un epoca dove il punk italiano si lascia andare sempre più verso il demenziale o il testo idiota), cantati tutti in italiano tranne che "On These Days", l'unico brano in lingua inglese. A dir la verità i brani in italiano risultano più incisivi e rendono molto l'idea dell'urgenza creativa dei nostri, del rimorso e della reattività, della volontà di non soccombere in mezzo a tutto quello che di grigio ci circonda. Forse vi sembreranno meno pesanti dei milanesi RFT, più orecchiabili dei Contrasto o dei Congegno e dal suono modernista come lo stile de Gli Altri, con un pizzico di At the Drive In nelle liriche e nei cori, ma i Breathe Your Last svolgono il loro compito egregiamente nonostante questo EP sia troppo corto per soddisfare la nostra voglia di ascoltare il grido della loro rabbia. La speranza che band come questa diventino un esempio per il genere post core/punk/HC italiano dei prossimi anni è tanta, per poter ricordare ai teenagers che si può coniugare il verbo punk con intelligenti testi di costruttiva rabbia esistenziale, e che punk e HC non sono solo e sempre sinonimo di autodistruzione e nichilismo fine a se stesso (chi di voi ricorda i KINA?). Gran bel debutto! (Bob Stoner)

Elitaria - Widescreen Satanas

#PER CHI AMA: Black Industriale, Aborym
C'è sempre più fermento nella scena italica: mentre le vecchie gloriose band del passato si confermano ad altissimi livelli anche con etichette internazionali (Aborym e Forgotten Tomb), e altre hanno la fortuna di firmare per “major” del metal (Fleshgod Apocalypse), nuove realtà emergono quotidianamente, che sperano di forgiarsi una propria strada verso il più che meritato successo. Oggi è il turno dei piacentini Elitaria e del loro minaccioso concentrato di black industriale che proprio dalla band di Fabban e soci trae parte della sua ispirazione. 'Widescreen Satanas' è infatti una perla fusa di metallo nero, cinque pezzi (più intro e outro) fatti di un sound bellicoso, un vortice di velenosa e insana malvagità che combina gli stilemi del black d'avanguardia di Samael e Alastis con la furia iconoclasta degli Aborym più intransigenti. “Widescreen Satanas” parte I e II coniugano alla grande la proposta del combo emiliano: un assalto sonoro, una centrifuga di chitarre, divagazioni cibernetiche e un drumming artificiale, su cui si inerpicano le belluine vocals di D666 che narrano di come le macchine abbiano messo in ginocchio l'uomo. Nei suoi intermezzi più riflessivi, emergono forti anche le influenze black/death di 'Abyss Calls Life' dei Necromass, che ne elevano ulteriormente lo spessore artistico. “Ragnaroek Propaganda” è un altro attacco efferato che non lascia scampo nemmeno per un secondo. Se dovessi identificare l'elemento di maggiore spessore nel sound dei nostri, citerei l'egregio utilizzo di samples e tastiere, che arricchiscono e fortificano non poco, il risultato finale, come accade anche nella parossistica e celestiale “Dawn of Mecha”. Con “Mithocondrion”, gli Elitaria confermano i risultati positivi espressi nelle precedenti song e evidenziano una bella progressione sonora rispetto a 'Ngc 666 (New Galaxies Catalogue 666)' del 2010: si tratta di un mid-tempo in stile Samael, con qualche suono disturbante ma pregno di melodie e risvolti catchy che mettono in luce anche un lato più umano del duo italico. Ora auspico che qualcuna delle etichette nostrane diano una possibilità agli Elitaria, anziché dar corda alle solite e noiose band scandinave. Bravi! (Francesco Scarci)

lunedì 10 febbraio 2014

Zorndyke - On Mayor Altar's Edge

#PER CHI AMA: Death Metal, Crust Punk, Autopsy, Doom
Rimango piacevolmente sorpreso dall'ascolto di questo 'On Mayor Altar's Edge', confesserò che ancora adesso non ne sono attratto e non è in assoluto il mio disco preferito da ascoltare ma riconosco che i Zorndyke sono una di quelle rare band che riescono a trasmettere l'essenza di un genere. Già dall'artwork a matita in bianco e nero, quest'opera emana quella malefica aura che si avverte nei concerti organizzati in venti metri quadrati, di birra stantia e di menefreghismo verso la società; il gruppo padovano riesce a concialiare il death metal di Autopsy e Obituary insieme al crust punk classico di Anticimex e Doom, in un'alchimia sonora che solitamente va a braccetto più con il black. Le prime tracce "Meine Schwarze Flügeln" e "Sledgehammer Murderer" sono un'apertura al fulmicotone per introdurre la proposta del gruppo, che con una produzione lo-fi e pochi tecnicismi, riesce a scatenare l'inferno. In medio stat virtus, e così nel mezzo giacciono le due tracce migliori: "Horde Of Primal Chaos" e "Chamber Of Bones", la prima lenta e potente, presenta i primi accenni di un basso che si muove bene nelle quattro corde, con delle chitarre che accennano ad una velata melodia in fase di chorus; mentre la seconda è in assoluto la traccia più violenta del disco con un'apertura in blast beats che si alterna a momenti decadenti, sfociando poi nel crust delirante con cavalcate d-beat. La chiusura con "Decomposing Alive" vede una sterzata maggiormente primordiale e punk oriented con riff minimali, urlato grindcore e tanta velocità. In definitiva si tratta di un disco più che buono, con un riffing poco accattivante e a tratti opinabile a causa di sonorità maggiori (d'altro canto anche i Morbid Angel hanno scritto "Kingdom Come"), ma decisamente in grado di offrire un'ottima atmosfera per tutti i veterani di sonorità old school non solo del metal ma anche del punk. (Kent)

(Baphomet in Steel - 2012)
Voto: 70

http://www.facebook.com/pages/ZORNDYKE

domenica 9 febbraio 2014

The Infarto – Scheisse

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Hardcore Punk, Post-Hardcore, Screamo
I bergamaschi The Infarto (ora solo Infarto), mi hanno passato ad un live (grandioso per altro) questo loro vecchio lavoro (non datato). L'opera comprendente tutti gli stilemi dell'hardcore made in Italy, ma che va oltre compositivamente, grazie a una forte componente avanguardistica che come struttura trovo vicina a gruppi orientati al versante math metal e maggiormente post-hc. Il cantato in italiano (tranne l'ultima "Nessun Nome #1"), urlato fortissimamente si alterna a parlati sterili e freddi, i testi trattano di tematiche personali, più specificatamente sulla visione asettica dell'esistenza, come si può intuire dai primi secondi di "Nearte Neparte", dalla narrazione di "Oggi Metto Pioggia" e su "Lilla Pallido" la traccia più forte del disco a mio parere, con le sue varie sfumature strumentali e con un testo magnificamente colmo di simbolismo, cosi come gran parte delle liriche. Ad ogni modo la cosa più interessante di questo prodotto sono le varie parti strumentali che si intrecciano perfettamente nella loro particolarità; si possono poi trovare riferimenti al metal in certi bridge o al post-hc in altri frangenti, riuscendo decisamente nell'intento di scuotere l'ascoltatore. Nulla di eclatante nè sorprendente, ma un'alchimia sonora molto personale che incuriosisce ed attrae, tanto per le interessanti liriche quanto per la musica densa di significati. (Kent)

Centinex - Subconscious Lobotomy

BACK IN TIME:

#FOR FANS OF: Swedish Death Metal, Grave, Entombed
One of the earlier purveyors of the classic Swedish-style of Death Metal, not the brand familiar today as a style that evolved into Metalcore but a dirty, raw breed of true Death Metal that has lasted a lot longer and been more impacting on the scene as a whole. Often characterized for the ever-present sound of the guitars that generate more of a buzzsaw-like grind than anything out in the genre, yet overloaded with melodic flurries despite being incredibly fast-paced and vicious in tone, this is quite striking and really gets quite fun at times with the majority of the tracks here just roaring through their paces at breakneck tempos propelled by pounding drumming and blaring bass-lines, all topped off with distinctive vocals that match the fury and vitriol of the music appropriately enough. That said, there’s a decidedly noticeable lack of variation within the album, which is a problem for the majority of bands in this style and really shouldn’t be held too much against them, and even moreso since it’s a debut effort, but the fact remains that this one tends to run into a rather interchangeable pattern throughout where it’s almost impossible to really pick songs apart once you get to the half-way point as it’s all minute variations on the same riff played at differing tempos which causes the songs to run into each other quite easily and effectively kills off the momentum this could’ve gathered. For the most part, all the tricks this one has to display are brought for in the two opening tracks, "Blood on My Skin" and "Shadows are Astray," which run through the ringer of buzzsaw riffing, pounding drumming and voracious growls atop thrashing-paced tracks, which mean numbers like "Bells of Misery," "Inhuman Dissection" and "The Aspiration" to feel like it’s all been done before despite ordinarily being solid, enjoyable tracks. There’s a few nice bonuses here with something like "Dreams of Death" which incorporates a brief acoustic intro before the pace kicks back into normal territory that almost works like a breather due to the overall brevity, and "Orgy in Flesh" is punctuated by both haunting female vocals and a few keyboard dashes to help break up the monotony of the songs. As well, outro "Until Death Tears Us Apart" is a mostly synth-laden instrumental with a few soft growls to set the mood, but it does seem to take a lot of the steam out of the album with another short instrumental track placed here after another one earlier on and really leaving this with only seven proper songs out of nine. Luckily, this reissue contains additional material in the form of the three-track 2000 EP 'Apocalyptic Armageddon' to continue the assault, being three relatively similar tracks in the same general manner and style as before just with better, more modernized production as would be expected on a newer recorded output. It’s not revolutionary like some of their contemporaries and suffers from an identity crises at times, but overall it’s a solid, serviceable slab of Swedeath, and tack on a few extra bonus points if the presence of bonus tracks appeals to you completists. (Don Anelli)

(Underground Records - 1992)
Score: 70

http://www.facebook.com/Centinexofficial

Pryapisme - Rococo Holocaust

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Crossover, Steve Vai, Mr Bungle, Mike Patton, John Zorn, Boredoms
Togliere la voce di Mike Patton da tutti i suoi progetti strampalati, paralleli ai Faith no More, mantenendone le idee musicali, aggiungere un tocco di Bubblegum music, un soffio di techno commerciale, una dose di schizoide noise metal, tanto spirito progressive, uno spesso strato di jazz e fusion, una gogliardia di memoria Zappiana, del buon funk, l'estro dei Naked City e la follia di Zorn. Tutto questo non basta per descrivere il progetto degenerato in follia di questa band transalpina al secondo album autoprodotto. Così ci troviamo di fronte raffiche di metal violentissime che si scaricano su tessuti rubati al Vangelis più spaziali, i Mr. Bungle che fanno il verso all'album 'Torture Garden' in versione acid jazz e Plastic Bertrand che simula i Sigh, i Supertramp che suona alla Die Apokalyptischen Reiter, gli Hatefield and the North che flirtano con gli Hawkind e Pigface, Chick Corea che sta con un piede sugli Alboth! e l'altro sui Boredoms con caroselli da oscuri luna park e follie alla Steve Vai corredati da allucinazioni di casa Soft Machine. Non riuscite a capirne il senso? Noi pensiamo invece che ci sia, ovvero, toccare i confini del crossover più impensabile, quello più imprevedibile ed improbabile! Un altissimo grado di preparazione, un'elevazione astronomica del virtuosismo rivolto all'eccesso, tirato all'inverosimile, drogato di maniacale esasperazione musicale e voglioso di spostare il confine delle proprie capacità sempre più avanti. Un combo di musicisti con l'anima persa nel totally free, assurdi per tecnica ed esecuzione che ci impone una benevola, tortuosa e contorta strada musicale che si snoda in dieci tracce per un'infinità di generi, come se una radio impazzita cambiasse canale e mixasse generi diversi ogni cinque secondi. L'album completamente strumentale non ha una linea coerente, è un viaggio nella mente e nei pensieri di un folle che drammaticamente non riesce più a riordinare le idee. Il disco è estremo sotto ogni punto di vista, non di facile presa, per un pubblico vaccinato e ricercatore di sfide. Buonissima l'attitudine progressiva della band. L'unica pecca del cd è che l'anima d'avanguardia e fusion prevale sulle parti più dure che non incalzano la necessaria violenza del metal più duro... ma non preoccupatevi con una performance così esagerata potrete permettervi di impazzire dimenticando per un momento il lato violento della faccenda! (Bob Stoner)

(Self - 2010)
Voto: 75

http://www.facebook.com/pryapisme

Allochiria - Omonoia

#PER CHI AMA: Post Sludge, Neurosis
Post metal dalla Grecia? Certo che si può, e a pensarlo sono gli Allochiria, band ateniese che giunge al debutto sulla lunga distanza con 'Omonoia', album uscito nei primi giorni di questo 2014 e segue a più di tre anni l'omonimo debut EP. Il lavoro ha colpito la mia attenzione per la sua intrigante cover, con la fotografia di un vecchio uomo dalla barba lunga con impressi sul volto disegni stilizzati di un qualche dispositivo meccanico. Passando ad un livello più profondo di valutazione, diciamo che la band esordisce con “Today Will Die Tomorrow”, una song lisergica, in cui una bombastica produzione ne amplifica esageratamente il risultato finale. La prima parte del brano è completamente strumentale e abbraccia prettamente l'ambito post rock, prima di abbandonarsi ai caustici vocalizzi della brava Irene, che declama nelle liriche 'The Garden of Proserpine' di Algernon Charles Swinburne. Si, avete letto bene, una dolce fanciulla che imprime il suo marcescente marchio vocale, una sorta di Steve Von Till al femminile. “Oppression” è invece un fulgido esempio di suoni post sludge, di quelli che generano tachicardia e lentamente fanno arrancare, fino a piegarsi sulle ginocchia. É breve per nostra fortuna, altrimenti il rischio di soccombere già alla seconda traccia si profilava assai elevato. “Archetypal Attraction to Circular Things” è una lunga traccia liquida, che mi dà l'idea di nuotare nelle viscere marine percependo i suoni dei cetacei che mi circondano. In sottofondo anche il canto delle sirene con un'atmosfera rilassatissima che in realtà solo presagio di una condizione mutevole. Non tarda ad arrivare infatti l'onda anomala ad agitare il mio mare, cosi come il canto angelico di quelle donne mezzo umano mezzo pesce, lascia il posto al growling incattivito della vocalist ellenica. La musica però, sebbene il ritmo si sia nel frattempo inasprito, si mantiene melodica e venata di striature malinconiche, prima di sopirsi nel finale. Notevole. “We Crave What We Lack” è una traccia ben più canonica che segue i classici dettami di Neurosis e compagnia, che vive il suo massimo spunto nella seconda metà, ben più calibrata e che non trascende livelli di ferocia inaudita. Un breve intermezzo ed è il turno di “K.”, song ritmata, quasi marziale con le vocals di Irene in primo piano; il pezzo vive il suo sussulto nella tribale parte centrale che evoca quegli assoli di tamburi che ogni tanto si vedono ai concerti dei gods di Oakland. Niente male. Brano dopo brano rimango sempre più affascinato dalla proposta del combo greco, che pensa di chiudere il platter con i dodici minuti abbondanti di “Humanity is False”. Un incipit notturno dischiude le porte al riffing possente e distorto del duo composto da John K. e Steve K.. Ma è sempre il drumming tribale di Ilias ad avere il ruolo da protagonista indiscusso di questo eccellente album, che lo candida inaspettatamente a porsi tra i miei album preferiti di questo 2014. Granitici. (Francesco Scarci)

(Self – 2014)
Voto: 75

http://allochiria.bandcamp.com/releases

venerdì 7 febbraio 2014

Muschio - Antenauts

#PER CHI AMA: Post-hardcore, Noise, Psichedelia
I Muschio sono un power trio strumentale di Verbania che vede la luce nel 2011 e da allora hanno lavorato caparbiamente per forgiare il loro sound tra post-hardcore, noise e psichedelia. Dopo l'iniziale fase che ha preferito l'esibizione, circa un anno fa hanno rilasciato questo "Antenauts" marchiato Red Sound Records. Otto tracce per circa quaranta minuti di elucubrazioni sonore, riff granitici, phaser e violenza sonora a go go. Tolto il cantato come linea melodica (quando possibile), il lavoro grosso rimane nelle sapienti mani dei musicisti e devo dire che i Muschio se la cavano bene. Le tracce sono diverse tra loro e non vi ritrovate con quaranta minuti di supplizio da dover affrontare con calma e concentrazione, anzi. I pezzi scivolano via facilmente lasciando piacevolmente colpito chi li ascolta. "Black Mamba" è un'ottima apertura da live e funziona benissimo come biglietto da visita della band. Infatti c'è tutto, intro noise, arpeggio rockeggiante e un bel riff di chitarra che accarezza e poi scuote in crescendo. Saltando qualche traccia, vi segnalo "Ariel", pezzo dalle atmosfere iniziali cupe e guidato da una scala in minore che poi cambia verso i due minuti di ascolto e diventa più aggressivo. Basso e batteria duettano sempre in sintonia, forse un pò troppo lineari se si vuole cercare il pelo nell'uovo. Bello anche il riff stoner in stile QOTSA a metà traccia. Altra traccia degna di nota è "Volcano", ritmo cadenzato e riff di chitarra che seguono una struttura ben bilanciata. Quasi sei minuti pompati con un bel break in stile doom a metà traccia che aiuta l'ascoltatore e gli permette di ripendere fiato prima del gran finale. Distorsioni rotonde e tanti bassi, come piacciono a me. Ottimo esordio, ascoltate la versione digitale del cd e poi decidete se vale la pena. (Michele Montanari)

(Red Sound Records - 2013)
Voto: 70

http://facebook.com/muschiocampari

giovedì 6 febbraio 2014

Temple of Baal – Verses of Fire

#PER CHI AMA: Black Death, Deathspell Omega, Celtic Frost
I francesi Temple of Baal sono in attività dal 1998 e ci deliziano con questo lavoro licenziato via Agonia Records sul finire del 2013. Il titolo 'Verses of Fire' appare subito intrigante e ci conduce per mano tra gli occulti meandri di un suono grave, pesantissimo, carico di nichilismo e immagini drammatiche che attinge a piene mani dal death metal più estremo e si forgia del fuoco ardente del black più oltranzista. Forti di una esperienza pluriennale, i nostri si sono avvalsi, come per i due precedenti lavori, della produzione di Andrew Guillotin (già con Glorior Belli e Monolithe), ricercando suoni altamente naturali attraverso l'uso di soli amplificatori valvolari e batteria acustica senza trigger per la registrazione, ottenendo un risultato di altissimo livello, un suono che incarna perfettamente la filosofia satanista evoluta e concepita come massima forma di libertà, cosi come dichiaratamente espresso dalla band in una recente intervista su 'Rock Hard'. Vista in quest'ottica, la band del cantante e chitarrista Amduscias è ottima, si cimenta in un suono originale, caldo e profondo, violentissimo e velocissimo, anche se ci sono molte parentesi dal taglio più lento che mettono in risalto le capacità della band di scrivere brani complicati e interessanti, dall'animo nero e contorto. L'intero lavoro ha una durata di circa un'ora, ben equilibrato nei suoni e nella fluidità d'ascolto, una chitarra solista che spicca decisamente, una voce growl potentissima che quando sceglie il recitato pulito incanta per epicità ("Gnosis of Fire") mostrando un lato d'avanguardia della band che fa molto piacere. Un album impegnativo, molto ricco e durissimo, carico di malsane melodie dissonanti e di una aggressività mai fine a se stessa e clinicamente guidata verso un ricercato fine artistico ("Lord of the Raging Seas"). Uno stupendo ibrido di cui potremmo solo farci un'idea, paragonandoli ai migliori Celtic Frost rivisti e immaginati in chiave black/death avangarde, estremizzandone e potenziandone il suono all'inverosimile, eterni come i Grave, profondi come i Deathspell Omega, introspettivi come i Blut Aus Nord. Decisamente un album di fascia superiore, imperdibile! (Bob Stoner)

(Agonia Records - 2013)
Voto: 75

https://www.facebook.com/pages/Temple-Of-Baal

mercoledì 5 febbraio 2014

Dotzauer - Deep

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Cult of Luna
Come al solito ho bisogno dei miei tempi per recensire un lavoro. Se poi so che di mezzo c'è anche lo spazio per un'intervista, preferisco certamente conoscere i musicisti prima di emettere la mia sentenza. E cosi è stato. Intervista fatta, e un'immagine dei nostri è già abbondantemente chiara nella mia testa. E ora la sentenza. I Dotzauer non sono degli sprovveduti, ma anzi dietro questi visi da bravi ragazzi, si celano dei musicisti con decenni di esperienza alle spalle (all'attivo già un disco con una band di fusion progressive) e un bagaglio tecnico a dir poco invidiabile, addirittura non del tutto palesato all'interno di questo promettente 'Deep'. Ecco 'Deep', l'esordio della band trevigiana, disco maturato e pensato un po' sulla scia dei gusti musicali del bassista, cosi vicino (e chi potrebbe dargli torto) alla emotività che emanano le band post metal, Isis e Cult of Luna, su tutti, veri e propri capisaldi di tutti coloro che si mettono a suonare questo fantastico genere, creduto da tanti come giunto al capolinea. Non sono d'accordo. E le emergenti realtà come i Dotzauer, qui coadiuvati dal vocalist dei Whales and Aurora, sono la prova evidente che c'è ancora tanto da dire in quest'ambito. Sei le tracce a disposizione dei nostri, che attaccano con la classicheggiante (rude e più orientata ad un versante doom) "Organic Silver" (da cui è stato anche estrapolato un video, assolutamente da vedere), per proseguire con "Water Buries the Skyline", che sottolinea la grande capacità dei nostri nel giocare con una serie di arpeggi dal flavour tipicamente post rock, coniugando il tutto con il rifferama marcatamente ribassato del post metal e non solo. I desolanti paesaggi tracciati in 'Somewhere Along the Highway' dai Cult of Luna si coniugano con lo stoner energico dei Mastodon, regalando una sana goduria alle mie orecchie. "Deepster" è un intermezzo drone che apre all'affabile raffinatezza di "Air Hunger": un pezzo che si apre con straordinaria delicatezza, in cui le vocals di Alberto Brunello smettono per un attimo di essere straripanti nei loro vocalizzi growl e si adoperano in una veste decisamente pulita con le linee di chitarra che accompagnano soavi e rilassate. Lecito aspettarsi l'innesco della tempesta: come da copione vengo accontentato e la song si srotola in un riffing minaccioso ma mai efferato, un po' come quel pesce fossile che troneggia sulla copertina del disco. Siamo quasi ai titoli di coda: "Shred of Consciousness" è un'altra perla di suoni post rock, in cui si mischiano addirittura echi di scuola Cynic, ma forse dovrei andare più lontano ancora e ricercare nel blues quei riff di chitarra dell'ottimo Matteo che esplodono nell'arco della traccia, per un risultato finale che come nuovamente si muove tra l'ardore del post e notturne divagazioni ambient, che scomodano oltre che gli Isis anche i gods di Oakland, Neurosis. A chiudere l'ottimo esordio dei Dotzauer, ecco arrivare "When the Soul and the Abyss Wave to Each Other": inizio tiepido, quasi romantico, vocals pulite, per volgere di li a poco, verso un riffing irrequieto e un po' più pesante, ma che non tralascia di riservare splendidi attimi acustici, che confermano la caratura di un terzetto che ora ha il solo compito di trovare un vocalist in pianta stabile. Per ora, ottima prova, da essere confermata con l'album che verrà, magari quello di una maggiore sperimentazione... (Francesco Scarci)


(Red Sound Records - 2013)
Voto: 75

martedì 4 febbraio 2014

Crocell - Come Forth Plague

#FOR FANS OF: Melodic Death, Illdisposed, Amon Amarth
A solid third release from this Danish set, and one that really shows them honing themselves in on where they’re going in the future if the collection of material here is any indication as this is easily their finest release to date. Having honed their songwriting chops, which was a large part of their earlier struggles and more-than-likely responsible for the gap between this and their previous album, that extra time has turned this into a heaping slab of modern Death Metal presided over by a ravenous guitar tone and tight, pounding drumming that accentuates the melodies in the riff-work more than ever, and the result is quite impressive at times. While there’s a multitude of bands attempting to mix the melodic guitar chugging and lead melodies with tight, blasting drumming and pummeling patterns, this is a more than serviceable slice that attempts to slow down the pedestal to those groups and incorporate some Doom elements in the form of their pacing and tempo, not so much in arrangements. This tends to set them up much like countrymen Illdisposed though they opt for more groove rather than the Doom elements here, but the general practice is still the same where it marries melody and brutality in a cohesive package. Despite barely three minutes in length, opener "Perfidious Ceremony" sets the stage to come with barreling drumming, tight guitars and a thick, well-textured sound that offers up far more hints of melody than expected and really sets this off in the right direction. The album’s stand-out track, "The Dark I Will Inhale," tends to encapsulate the majority of what makes this one work with razor-edged riffing, tight leads and a choppy, energetic tempo that never rises up the mid-tempo, yet it works well in displaying what the band is about and how it’s evolved over time with a series of controlled variation switches and tempo changes, making for an overall enjoyable and satisfying track. This tends to crop up in tracks like "Trembling Realms," "Teachings of Terror – Doctrines of Death," "Scars of Red" and the title track, all of which tend to fall into the same overall pattern and presentation that really highlights the main flaw to this in that it does tend to run together with slight variations on the same theme. "My Path of Heresy" contains some rather intriguing acoustic guitar work before dwelling in a thrashing groove that would make Amon Amarth fans happy with its’ technically-proficient rumblings and an extended running time, while "Seven Thrones" sticks out for its overt Doom influence and plodding pace. Overall, though, it doesn’t really do a whole lot to distinguish itself from the hordes out there playing a similar brand of metal who are a lot more accomplished and prolific at accomplishing this feat, so it serves mostly as a turn for the right direction but still not enough to really make a lasting mark. (Don Anelli)

(Metal Hell Records - 2013)
Score: 75

http://www.crocell.dk/

Chaos E.T. Sexual – Ovna

#PER CHI AMA: Post-rock strumentale, Trip hop, Doom
Devo dire che sono affezionato a questi tre parigini, essendo stato il loro album d’esordio, 'Ov', il primo che ho recensito per il Pozzo, un anno fa più o meno esatto. E ora mi avvicino alla loro opera seconda con curiosità e fiducia, che non vengono affatto deluse. Rimangono totalmente fedeli all’originalità della loro proposta, i Chaos E.T. Sexual, ovvero continuare a riproporre ritmiche di stampo hip hop su cui si innestano i riff pesanti della due chitarre, una impegnata nelle linee basse e quasi doom, l’altra libera di inerpicarsi su altezze spesso vertiginose. L’esperienza acquisita sui palchi di mezza Europa ne ha però accelerato la maturazione e sgrezzato il suono, tanto che questa nuova fatica risulta al contempo più raffinata e più potente, più consapevole della direzione da intraprendere. Tutto questo è già evidente nella traccia di apertura – uno dei vertici dell’intero lavoro, “Holy Liars”, che srotola un tappeto di riff assassini su un groove lento, poi doppiato da percussioni tribali e spezzato ad un certo punto da armonie vocali che sembrano giungere dalla California di Crosby Stills & Nash. L’album procede poi su livelli sempre elevati, caratterizzati da una maggior ricchezza di toni e sfumature rispetto all’esordio, soprattutto per via della scelta, azzeccata, di ricorrere anche a percussioni analogiche, e ad una maggiore maturità nell’uso delle chitarre, ora reminiscenti della lezione di Thurstone Moore (come in “Geshar”), ora più ancorate agli stilemi hard doom, o addirittura impegnate in sorprendenti jingle-jangle di sapore orientaleggiante (“Salaam Bombay!”). È evidente anche lo sforzo narrativo di costruire brani più complessi, che si evolvano e, in qualche misura, raccontino una storia anche senza bisogno di parole. Ho lasciato alla fine quella che, in effetti, è la novità più grossa, ovvero il fatto che nel potente brano che da il titolo all’album, i tre si cimentino anche come cantanti, con risultati molto interessanti, soprattutto in ottica futura. In definitiva un disco sorprendente, da consigliare tanto ai metallari più irredenti quanto a chi è avvezzo a sonorità noise e perfino ai fan di Tricky o dei Massive Attack. (Mauro Catena)

Grorr - Anthill

#PER CHI AMA: Death Progressive, Meshuggah, Devin Townsend
Ci ero quasi cascato: una copertina tipica del progressive, una overture meditativa e un approccio vocale pulito quasi Stone Temple Pilots. Insomma ero già pronto ad assegnare questo cd a chi mastica quotidianamente questo genere di suoni. Invece poi il mio sesto senso mi ha imposto di andare oltre ed ascoltare almeno la prima traccia. Ed eccole fragorose le chitarre fare breccia nel mio cervello, deragliare come un treno fuori controllo, e le vocals tradire la loro prima apparizione, con un growling bello incazzato. Ma è il lavoro alle 6-corde che polarizza maggiormente la mia attenzione, con un riffing impetuoso (Sepultura), serrato (Meshuggah) e nevrotico (Devin Townsend), mitigato da suoni orientali di strumenti etnici indiani e giapponesi (sitar, hurdy gurdy e flauto), nonchè da vocalizzi puliti che rievocano il grunge di primi anni '90. Inebriato da cotanta inconsueta bellezza, mi lancio nell'ascolto dei capitoli che costituiscono questo concept cd che narra l'evoluzione vitale di un formicaio, dalla sua fondazione (“Once Upon a Time”), espansione e lotta (nella devastante “We - War”), fino al suo letargo autunnale e rinascita (“Once Upon Again”). Mi immergo in un nuovo mondo cercando di carpire ogni suo piccolo movimento con l'ausilio delle cuffie, capaci di trasmettere ogni piccolo particolare del suono naturale che ritroviamo in 'Anthill'. L'album nella sua interezza cita con grande carisma e personalità, le follie djent dei Ganesh Rao, superando poi di gran lunga gli ultimi prodotti di Tesseract e soci. Signori fermatevi, e ascoltate questo lavoro di una band che se non si perderà, avrà la capacità di farvi toccare il cielo con un dito. Il death metal dei ragazzi di Belo Horizonte (Sepultura) si unisce con un concentrato innovativo folk, il grunge si fonde con il djent attraverso l'utilizzo di partiture progressive; ritmi tribali, echi di una sacralità buddista, un minimalismo marziale, divagazioni celtiche ed il misticismo dell'induismo e del confucianesimo si coniugano inaspettatamente in un lavoro heavy metal. Sono incredulo, non pensavo fosse possibile arrivare a tanto. I francesi Grorr scavalcano e surclassano i loro conterranei Gojira, mettendo in mostra una notevole intelligenza compositiva, una buona dose di muscoli e tante meravigliose insane idee, toccando i punti più imprevedibili della musica, della tradizione e della religione, per un risultano finale più unico che raro, che metterà d'accordo, una volta per tutte, tutti i gusti musicali. Incredibili! (Francesco Scarci)

(Self – 2013)
Voto: 90

https://www.facebook.com/pages/Grorr