Cerca nel blog

domenica 17 luglio 2011

Eternal Tragedy - Forever

#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse, Bloodbath
Gli Eternal Tragedy sono il progetto di Stefania Ponzilacqua, virtuosa chitarrista che con l’aiuto di Enrico Francescato, brutal vocalist dei Soulpit ed Emilio Dattolo, ultratecnico bassista degli Illogistic, ha concepito questo cd nel 2006, rilasciato poi nel 2008 via GEMA. Mettiamo subito in chiaro che il sound proposto non è decisamente di facile approccio: si tratta infatti di un death bello incazzoso, in pieno stile americano, “floridiano” per l’esattezza (sarà un caso ma Stefania vive in Florida), ricco di cambi tempo, stop’n go, killer riffs e meravigliosi assoli. Premesso che amo questo genere di musica, “Forever” si presenta invece difficile da digerire, forse talvolta troppo pretenzioso o in alcuni passaggi troppo prolisso, con una serie di virtuosismi che non fanno altro che annoiare l’ascoltatore. Il cd, nei suoi lunghi otto pezzi, risulta davvero troppo granitico nel suo incedere, grazie alla devastante sezione ritmica e un po’ povero di aperture melodiche, che lo fa quindi di sovente scadere nel già sentito. Ciò che poi più non mi piace di questo cd è il suo suono, molto old style, abbastanza grezzo, che non consente di godere di quei particolari, che solo suoni puri e cristallini, sono in grado di trasmettere in album di questo tipo. La matrice di fondo è troppo impastata, talvolta confusa, la tecnica e l’estro di Emilio e Stefania per quanto ineccepibili, non sono sufficienti a far decollare l’album che si perde spesso in inutili scorribande brutali. Devo poi ammettere di non gradire molto il modo di cantare di Enrico, troppo piatto e convenzionale: per carità stiamo parlando di death metal e non sono richiesti certo vocalizzi raffinati, però se ripenso al buon vecchio Chuck Schuldiner, lui di classe sopraffina ne aveva da vendere. Il lavoro sicuramente potrà piacere agli amanti del techno death, ma sono convinto, conoscendo le potenzialità della sua leader, che gli Eternal Tragedy, siano in grado di fare molto di più, migliorando da subito la produzione (curandola decisamente più nei minimi dettagli) e rendendo il sound meno inquadrato in schemi predefiniti. Della serie “son bravi ma non si applicano a sufficienza”. (Francesco Scarci)

(GEMA)
Voto: 65

Ava Inferi - Onyx

#PER CHI AMA: Gothic Metal, The 3rd and the Mortal, Aenima
A passo lento, attraverso un cammino in salita, scandito dalla pubblicazione di quattro album, gli Ava Inferi, hanno infine raggiunto la vetta. Sin dall’esordio “Burdens” del 2006, il duo composto dalla portoghese Carmen Susana Simões e dal norvegese Rune Eriksen aveva dato prova di possedere un gusto insolito e mai banale per la melodia, eppure nelle prime produzioni in studio stentavano ad emergere slanci creativi che fossero di concreto risalto, tant’è che i primi due lavori risultano tutt’ora un po’ ostici ed appesantiti da un’eccessiva staticità. Se con il terzo album “Blood of Bacchus” le timide intuizioni degli esordi cominciavano finalmente ad aprirsi ad una scrittura più consapevole ed emozionante, è solo con “Onyx” che si può parlare di un vero e proprio rigoglio artistico. “Onyx” ha il profumo di un giglio in piena fioritura, il colore intenso di un frutto maturo, la grazia di forme femminee scolpite nel marmo lucente. Le note attingono sempre dalle suggestioni malinconiche del gothic metal, ma gli Ava Inferi dimostrano di non avere maestri ispiratori e di non cogliere nulla dalla “tradizione”, offrendo invece una variante tutt’altro che canonica del genere. Il contributo di Carmen è fondamentale per la riuscita dell’opera, semplicemente perché possiede un’ugola divina, adatta a confrontarsi con qualsiasi cambiamento d’umore dei brani, mentre l’apporto di Rune si rivela di immenso spessore, soprattutto dopo ripetuti ascolti, confermando che la struttura ed il valore dell’album non si appoggiano solamente sulle doti canore della compagna. E’ curioso poter ammirare la versatilità di Rune come compositore, un tempo abilissimo ad immortalare riff crudi e dissonanti per i Mayhem ed oggi ugualmente a suo agio nel costruire intricati e imponenti passaggi di chitarre che tratteggiano atmosfere continuamente mutevoli, da quelle tetre e solenni della splendida “The Living End” a quelle più vitali ed energiche di “Majesty”. Vanno assolutamente citate anche “The Heathen Island”, che ci regala un assolo di ammirevole fattura, la spettrale traccia d’apertura che dà il titolo all’album e “By Candlelight & Mirrors”, che stupisce per il registro improvvisamente solare e leggiadro, quasi a testimoniare che gli Ava Inferi riescono a muoversi con abilità ed eleganza su qualsiasi terreno. Impeccabili. (Roberto Alba)

(Season of Mist)
Voto: 90

venerdì 15 luglio 2011

*Shels - Plains of the Purple Buffalo

#PER CHI AMA: Post Rock, Progressive, Tool, Isis, Mogway
Li attendevo al varco, non lo nascondo; gli *Shels sono di sicuro una delle più interessanti realtà in ambito post rock mondiale e con questo “Plains of the Purple Buffalo”, giungono brillantemente al traguardo del secondo cd, dopo le eccellenti prove di “Sea of The Dying Dhow” e del fantastico EP “Laurentian's Atoll”, per non parlare dell’introvabile “Wings for their Smiles”. Si insomma, parto un po’ troppo poco imparziale, me ne rendo conto, ma quando sento certe sonorità echeggiare nelle casse del mio stereo, non sto proprio più nella pelle e sento il dovere di dire al mondo intero, che si sta perdendo qualcosa di bello, si bello, parola quanto mai banale, ma qui di sicuro impatto. Il nuovo cd di questi pazzi (anglo)californiani racchiude pura poesia nelle sue note e i 76 minuti contenuti in questa release, vi catapulteranno in un altro pianeta, un mondo celato fin dalla meravigliosa cover del cd, dove un branco di bufali viola, corre su uno sfondo stilizzato; geniali, non trovo altre parole per definire la proposta a tutto tondo della band statunitense. E la musica vi chiederete voi, dal momento che continuo a scrivere di tutto e di più, tralasciando la parte più importante di questo prodotto, com’è? Vibrante fin dalle iniziali note di “Journey to the Plains”, che apre il viaggio nei sogni tinti di viola, di questi ragazzi. E poi, un crescendo di emozioni, una progressione di suoni che partendo dalla tradizione post rock di mostri sacri quali Godspeed You! Black Emperor, snoda la propria proposta attraverso 13 capitoli succulenti, che consacrano gli *Shels, tra le entità musicali di più spiccata personalità e originalità. La musica, come negli altri lavori, fa la parte del leone, con lunghe, talvolta lunghissime cavalcate, in cui la psichedelia si fonde col post rock (di derivazione ‘70s), per esplodere raramente, in una qualche sfuriata più metallica, dove anche la voce più selvaggia riesce a trovare spazio. Ma ben presto, un intermezzo ambient o un pezzo acustico, vi darà modo di riprendere fiato, di riadagiarvi sulla vostra poltrona e tornare a rilassarvi con i suoni tipici del genere, qui costantemente di notevole spessore, tanto da spingermi cosi in alto con il voto. Se le vostre menti sono dotate di una buona flessibilità musicale, dovete accaparrarvi questa perla rara, che rischierebbe altrimenti di confondersi nel marasma delle inutili uscite discografiche che sta distruggendo il pianeta. Rinunciate all’acquisto di un disco thrash o di quello death del mese e per una volta, mettetevi in gioco, mettete in gioco i vostri gusti musicali, le vostre credenze e abbandonatevi alla soggiogante creatività di questo collettivo straordinario di artisti, non ne resterete delusi, che voi ascoltiate black metal, progressive, thrash o gothic. Il contenuto di "Plains of the Purple Buffalo" è qualcosa che va oltre la normale concezione di musica, e solo i grandi artisti sono in grado di concepire. Volendo fare un paragone con la precedente proposta del combo, il sound dei nostri, mantiene la sua solidità di fondo, abbandonando però quelle inutili fughe nel metalcore; qui troverete solo tanta classe cristallina, un quantitativo industriale di parti strumentali, dove la voce è lasciata ai singoli strumenti (e per uno come me che non ama particolarmente l’assenza di voce, vi garantisco che è stata una grande sorpresa), ottime performance vocali. Difficile poi descrivere una canzone piuttosto che un’altra, vorrei dirvi che mi piacciono tutte, dalla folle title track (part 2) alla malinconica “Vision Quest”, il lavoro si presenta super curato nei dettagli, negli arrangiamenti, nella perizia tecnica, nel gusto per le melodie, nelle parti oniriche e per quelle più oscure e arrabbiate. *Shels, la ventata d’aria fresca che stavo aspettando, una scossa per il mondo metal intrappolato nelle sabbie mobili, una spallata a tutti i trend inutili del momento, un viaggio incredibile in un territorio ancora inesplorato della musica rock. Unici e inimitabili! (Francesco Scarci)

(Shels Music)
Voto: 90

Dead End - Stain of Disgrace

#PER CHI AMA: Death/Dark, Dark the Suns, Black Sun Aeon
Eccola l’aria fresca del nord che arriva puntuale a pungere il mio viso e a portare un po’ di sollievo a questa calura estiva. E cosa meglio di una band finlandese ci può portare questo giovamento? (talvolta sono scandaloso, neppure stessi facendo la pubblicità ad una famosa bibita dissentante). Va bene, dopo questa digressione pubblicitaria, torniamo ai nostri finlandesi Dead End, che mi hanno spedito questo “Stain of Grace” che rappresenta il debutto del giovane terzetto di Helsinki. Nonostante l’inesperienza, le origini del combo non si possono smentire, e come detto più volte, quando un lavoro giunge dalla Terra dei Mille Laghi, non può che essere di buona fattura. Non si smentiscono, manco a farlo apposta, neppure i Dead End, che su una base di suoni massivi, ci piazzano il tocco magico della persuasione. Eh si perché, come abili venditori, i nostri ragazzi, combinano elementi che provengono dagli ambiti più disparati, dal punk al pop (bestemmia!!), mantenendo comunque come filo portante il death metal, quello più darkeggiante e melodico, se vogliamo che richiama i Dark the Suns o i Black Sun Aeon. Questo paragone non vuole assolutamente sminuire la prova dell’act della capitale lappone, ma anzi vuole già porre la presente performance al livello delle ottime band sopra menzionate. Apertura affidata a “My Fate”, mid tempo melodico, in cui la voce di Mikko Virtanen, sia in formato growl che in un inusuale stampo clean, conferisce il primo punto a favore dei Dead End. Le sonorità graffianti costantemente sorrette dal riffing corposo in chiave ritmica di Santtu Rosen, accompagnato dalle indispensabili keys, creano song dal forte sapore grooveggiante, con brani che intaccano istantaneamente la nostra memoria uditiva, grazie all’utilizzo di chorus, cavalcate melodiche che possono richiamare un po’ la ruffianeria di Scar Symmetry o Children of Bodom, ma che comunque hanno come effetto finale, quello di indurre ad un costante headbanging. Briosa, “Nothing Left to Bleed”, cosi come pure la title track che conferma lo stile sbarazzino dei nostri. “Fields of Silence” apre con piglio oscuro, con la doppia cassa di Miska Rajasuo a battere come un’indemoniata. Breve intermezzo con “Riot” e poi esplosione con la thrasheggiante “Sinner’s Day” dove il drumming preciso e funambolico di Miska, ci conferma che i tre musicisti non sono proprio dei pivellini. Intro tastieristico e via con “Cry for Innoncence” e ho un leggero deja vu con qualcosa dei Dark Tranquillity che rimbomba nella mia mente; non ho il tempo di andare in cerca di questo eco nel cervello perché poi una certa “sconnessione” di fondo all’interno del brano, mi lascia del tutto disorientato, e alla fine opto per farmi travolgere dalle funamboliche ritmiche, che mi spingono ad eleggere questa come la mia song preferita del cd, forse perché è l’unica che prova a prendere le distanze in modo più drastico dalle influenze della band. L’altro punto a favore dell’ensemble finlandese è quello di proporre brani estremamente diretti e dalle durate che non superano mai i quattro minuti. Dopo l’anonima “Face the Enemy”, ecco l’ultima “Betrayed” in cui Mikko apre con la sua calda voce pulita per poi lasciar posto all’alternanza growling/clean in una song che puzza come una sorta di semi ballad. Di cose da sistemare ce ne sono ancora un po’, ma decisamente siamo sulla buona strada per vedere un altro fenomeno finlandese emergere ben presto. Nel frattempo dategli un ascolto, vi piaceranno… (Francesco Scarci)


giovedì 14 luglio 2011

Sole Remedy - Apopotosis

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth, Porcupine Tree, Katatonia
L'ho sempre detto, per dare una svolta alla mia vita musicale dovrei fare un anno sabbatico in Scandinavia. In questo territorio, la musica ha avuto uno sviluppo unico nel suo genere, isolato dal resto del mondo ma nello stesso momento a passo con i tempi, spesso anticipandoli di brutto, segnando la retta via per il resto dei gruppi. I Sole Remedy sono un quartetto finlandese e non smentiscono affatto le loro origini, infatti con questo secondo cd "Apoptosis", pubblicato dalla Aftermath Music, entrano di prepotenza nel mondo dei grandi. Anticipo solo una cosa: a mio parere è un album geniale, dal sound ricercatissimo e sotto certi aspetti anche innovativo. Ora vediamo in dettaglio cosa i Sole Remedy ci propongono. "Comatose" apre le dieci tracce con dei suoni puliti, un ritmo non convenzionale per il post rock e la voce del frontman che accompagna le note librandosi nell' aria. "Present Remorse" cambia subito faccia all'intro dell'album e ci catapulta in pochi secondi nelle atmosfere del combo finlandese. Chitarre distorte incalzanti, ritmica veloce e il growl di Jukka Salovaara che si alterna non appesantendo troppo il brano. La malinconia riverbera in altri pezzi senza mai essere troppo eccessiva, infatti i Sole Remedy sono molto bravi ad intervallare i riff più duri con stacchi più tecnici, quasi prog. La quarta traccia, "The Burten", è a mio avviso un capolavoro, sia a livello di arrangiamento che di composizione. Le chitarre sono fantastiche, forse perché richiamano il sound dei Katatonia e trovare un gruppo che le reinterpreta così bene, è un orgasmo musicale. Tutti gli altri strumenti fanno il loro sporco lavoro, la tecnica è a livelli molto alti (NdR, il core del gruppo suona insieme dal 1998) e la voce di Jukka è quanto di meglio ci si possa aspettare per interpretare questo stile. "Wolf in Me" è il pezzo più rappresentativo dell’ensemble: infatti in questi otto minuti, la band sfrutta al meglio tutte le proprie doti regalandoci un piccolo capolavoro che richiama le sonorità dei mitici Opeth. E poi le chitarre, scusate ma dopo tanta mediocrità ascoltata nell'ultimo periodo, ecco finalmente una luce in fondo al tunnel. Lo stacco acustico a metà della traccia regala poi un'emozione vera di riscatto e purezza, cosi come le note cristalline della chitarra acustica, che viene poi ad essere incorniciato da un assolo di quelli da lenti ma azzeccati. Il cd si chiude con "Past Decay", che riprende la struttura dei precedenti pezzi, giocando sempre sulle sonorità che si avvicendano ad hoc. Ritorna la ritmica di "Comatose", come fosse una citazione, non una mancanza di estro artistico. Devo dire che è stato fatto un grosso lavoro di composizione e ancora meglio di arrangiamento, sicuramente il supporto dell' etichetta ha permesso poi ai Sole Remedy di raggiungere il loro traguardo ma sotto c'è un gruppo di quelli granitici, che non si lascia impaurire dal mercato musicale molto affollato. Quei gruppi che lavorano duro per anni senza demordere e di cui la scena musicale ha estremamente bisogno. Grazie Sole Remedy, avete regalato a noi mortali una perla da custodire per i tempi duri che verranno. (Michele Montanari)

Crypthex - Violent Affiliation

#PER CHI AMA: Death Thrash Old School
Già lo sapevo: non appena ho ricevuto questo cd, da come si presentava, da quanto era illeggibile il logo della band, dalla qualità della carta usata, avevo percepito che avrebbe corso il serio rischio di essere stroncato. Infilo “Violent Affiliation” nel mio stereo e le mie paure diventano ahimè triste realtà. Una registrazione a dir poco imbarazzante accompagna infatti le note di questo platter e già questo è sufficiente a farmi storcere il naso. La voce fastidiosa di Ivan poi e il song writing totalmente immaturo, completano questo grosso pasticcio. Il genere dei nostri non sarebbe neppure da buttare dopo tutto, in quanto il terzetto ci propone un death thrash old school (un po’ scontato a dire il vero) che, rimischiando quanto già fatto in passato dai soliti mostri sacri, Sepultura (primissimo periodo), Testament e Carcass, ci propinano queste cinque indecifrabili tracce che, sono in grado tuttavia di mettere in mostra anche qualche dote, musicalmente parlando, alquanto interessante (mi riferisco a qualche assolo ben indovinato). È tuttavia il resto, il contorno, la produzione, certe soluzioni da lasciarmi a bocca aperta a indurmi a bocciare i Crypthex. Insomma ragazzi, qui c’e da metter mano a un sacco di cose: partiamo col cambiare vocalist o comunque modo di cantare, miglioriamo drasticamente l’inserzione dei testi sulla musica, puliamo il suono cosi grezzo, cerchiamo di copiare il meno possibile dal passato e forse qualcosa di dignitoso ne potrà venir fuori. Per il momento solo chi ha voglia di ascoltarsi qualcosa di death/thrash, che suoni in formato super demo, si avvicini ai nostri. Gli anni ’80 sono ormai andati, cerchiamo di farcene una ragione e inventarci qualcos’altro per andare avanti… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 50

Hexentanz - Nekrocrafte

#PER CHI AMA: Dark Ambient, The Soil Bleeds Black, Psychonaut 75
Hexentanz (la danza delle streghe) nasce nel 2004 dalla collaborazione tra i membri di due formazioni statunitensi piuttosto conosciute all'interno dei circuiti musicali dediti all'ambient rituale e alle sonorità d'ispirazione medievale. Parlo dei fratelli Riddick, principali responsabili del progetto The Soil Bleeds Black, legati in questo frangente da un sodalizio artistico/magico con tre membri degli Psychonaut 75: Michael Ford, Dana Dark e Davcina. E' sufficiente una rapida lettura delle note biografiche di questo strano collettivo per accorgersi del rispettabile curriculum che ogni membro può vantare riguardo i propri studi in materia occulta. Nondimeno, risulta interessante osservare la serietà e la dovizia di particolari con le quali il gruppo introduce il proprio lavoro concettuale. In sintesi, 'Nekrocrafte' va inteso come un approfondimento del tradizionale "sabba delle streghe" e di alcuni temi di necromanzia medievale. Un percorso volto a riconoscere tali pratiche occulte come una realtà tangibile, attraverso la quale raggiungere l'intensificazione della propria coscienza e l'acquisizione di una prospettiva di realizzazione individuale. Elementi di magia nera, sciamanesimo e stregoneria antica si fondono in un corpus musicale che trae le sue radici nella dark ambient più inquietante, ma che risulta, invero, difficilmente accostabile allo stile di qualche act già conosciuto. La discendenza dal genere, per quanto sia eloquente, non ostacola affatto l'evoluzione spontanea dei brani ma, al contrario, si limita a delinearne i capisaldi, lasciando poi alla creatività degli artisti coinvolti nel progetto il compito di "aggiungere valore" all'ossatura portante dei brani. Ne esce, così, un lavoro discretamente personale che riesce a catturare l'ascoltatore nel modo più semplice, servendosi di strutture ritmiche agili e prorompenti, melodie criptiche, voci ora sinistre, ora evocative e solenni. Il tutto suonato mediante strumenti acustici tradizionali, sintetizzatori e persino ossa umane! La durata veramente breve del cd (35 minuti scarsi) diventa un'abile mossa per rendere ancor più efficace e focalizzato l'intero lavoro e sollevare 'Nekrocrafte' dalla pesantezza soporifera che spesso contraddistingue alcuni "mattoni" dark ambient di maggior fama e prestigio, ma di caratura artistica nettamente inferiore. Gli Hexentanz, per nostra fortuna, riescono invece ad intrattenere molto bene l'ascoltatore e questo nonostante la proposta musicale austera e l'approccio serioso ai temi trattati. L'album, pubblicato inizialmente per Fossil Dungeon e rimasto per lungo tempo fuori stampa, è ora nuovamente disponibile in cd ed lp con una nuova veste grafica, grazie ad un apprezzabile lavoro di riesumazione dell'etichetta polacca Agonia Records. (Roberto Alba)

(Agonia Records)
Voto: 70


http://www.myspace.com/hexentanz1

lunedì 11 luglio 2011

We Made God - It’s Getting Colder

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Neurosis
Eccolo l’album che aspettavo, il classico cd da pelle d’oca, da brividi che percorrono lentamente tutto il corpo, da melodie suadenti che mi spingono all’abbandono onirico più totale; ragazzi vi presento gli islandesi We Made God e il loro “It’s Getting Colder”, prodotto dalla nostrana Avantgarde Music. Inserite l’album nel vostro lettore e non potrete più farne a meno, come è accaduto per il sottoscritto: sarà la cultura estremamente originale dell’Islanda, o forse le nubi vulcaniche che vagano ancora sui cieli dell’isola polare, sarà che da quelle parti provengono Bjork e Sigur Ros, fatto sta che il sound del quartetto nordico, è quanto di più interessante mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi. Il sound è intimistico fin dalla iniziale “The Start is a Finish Line”, grazie a un mix di straziante malinconia dato dal riffing depressive e dal cantato colmo di dolore, del bravo vocalist. Squarci elettrici si scatenano poi nel corso di questo intrigante lavoro, che è certamente figlio della nuova ondata post metal dell’ultimo periodo con alcuni pezzi, oltre alla opening track, che viaggiano sicuramente lungo i binari tracciati dai vari Mogway o Explosions in the Sky, mentre se ne potranno certamente apprezzare altri, dove con le vocals al limite dello screaming, sfociamo in territori più post hardcore o più vicini a band quali Isis o, per l’oscurità delle ritmiche, ai Neurosis. I nostri non si tirano certo indietro quando c’è da pigiare un po’ di più sull’acceleratore, cosi come pure quando c’è da dipingere drammatici, desolanti paesaggi glaciali (ascoltate “Oh Dae-Su”), la band islandese si dimostra davvero brillante e al passo con le sonorità attuali. Bella sorpresa, devo ammetterlo e bel colpo in casa Avantgarde, che si assicura una band dal sicuro avvenire, con le idee ben chiare e che certamente darà del filo da torcere agli ultimi nomi rimasti in sella, dopo la dipartita degli Isis. Se anche voi come me, siete degli amanti sfegatati di distorsioni, atmosfere angosciose, ritmiche cariche di tensione e pregne di emozioni, in cui sonorità stile ultimi Anathema, si fondono con il post (“These Hours, Minutes and Seconds” ne è un esempio), acquistate assolutamente questo disco, e consumatelo fino alla morte. Coinvolgenti! (Francesco Scarci)

(Avantgarde Music)
Voto: 85

Remembrances - Crystal Tears

#PER CHI AMA: Gothic, Rock, Evanescence, Lacuna Coil
Sulla scrivania, accanto al pc, trovo il cd di questa band spagnola, uscita nel 2006. Lo inserisco nel lettore cd, resetto qualsiasi tipo di preconcetto e/o pensiero e lascio che la mente si riempia dei suoni di questa “female fronted band”. Non appena inizia la prima nota, già il mio sesto senso si attiva mettendomi in allerta: ad un primo acchito sembra la brutta copia degli Evanescence e dei Lacuna Coil, ma preferisco non dare troppo peso a questa sensazione e proseguire nell'ascolto. "Silent Night" presenta una base musicale valida, con tanto di tastiere: la voce della cantante è parecchio melensa e adatta per un gruppo di ragazzine finte metal. Tutto il ritmo è talmente leggero e frivolo, da diventare addirittura un po' difficile da digerire. "Wish" tende ad essere un po' più cupa rispetto alla precedente, ma senza mai abbandonare il livello di superficialità dichiarato poche righe sopra. Essendo una band gothic metal, l'ausilio delle keys è massiccio: chitarre elettriche e batteria vanno a braccetto, mentre la voce si fa addirittura lagnosa. Passando a "Crystal Tears", l'unica cosa degna di nota sono degli elementi orchestrali appena accennati, che cercano di dare più profondità a tutto l'album. Di "Blood on the Wall" la cosa che salta più all'orecchio è l'intro di tastiera e la voce deprimente, pesante: il brano in sé è orecchiabile, soprattutto togliendo il cantato. "See the Grief" e "Scars of my Soul" hanno di differente solo la velocità: la prima è più veloce, mentre la seconda tende ad essere molto più malinconica. "Memories" è ancora più tranquilla: per tutta la durata del brano le tastiere e la voce la fanno da padrone; verso la metà si sente anche la batteria, presente fino alla fine (ad un tratto con qualche nota di chitarra elettrica). "Sweet Madness" riprende totalmente le atmosfere di “Scars of my Soul”, come se ne fosse il seguito. "Anguish" all'inizio presenta note più di electro-music, tralasciando il mood gothic: anche l'atmosfera è più viva, scattante, che risveglia dal torpore in cui i brani precedenti avevano creato. Oserei persino dire che è il brano più bello di tutto l'album, con la voce meno lagnosa. "Lagoon" tende più ad avere un'impronta classica: tutto il brano è suonato soltanto dal pianoforte, seguendo un tono allegro andante. Con "Dance of Visions" si arriva alla fine dell'album (e per fortuna!): la cosa più buffa è che questo è uno dei brani con più unghie e che salva il tutto dal prendere un bello 0 (zero) come voto per questo lavoro. Chitarre, batteria e voce diventano tutt'uno, dando un'anima e una spina dorsale all'album. Concludo dicendo che questo è un album solo per ragazzine del tipo pseudo punk/metallare. Augurandomi che la band sforni un album più maturo e decisamente migliore, provvederò a mettere questo cd tra quelli da dimenticatoio. (Samantha Pigozzo)

(Alkemist-Fanatix)
Voto: 40

sabato 9 luglio 2011

Shadowdances - Misery Loves My Company - English

#FOR FANS OF: Gothic, Prog, Dark, Autumnblaze, Riverside
How I love the bands coming from the Baltic countries (Latvia, Lithuania and Estonia), I do not know by what mysterious reason, but their music has always something magical in their notes. The Lithuanians Shadowdances that I am here today to review, are no less than that, with their self-produced work of more than 13 pieces. The music of Joudas (singer and drummer) and his companions, is a mix of dark gothic of fine atmosphere and deep emotions. It is a pity that few people have noticed about this band, that I want to say that it exists since 1994. The Baltic quintet's music can be described by the soft and orange colors of autumn, his mellifluous atmosphere contrasted with those of pacing rocking guitar lines. I like it, I really like the proposal of the Lithuanian combo, because it produces intimate suggestions during its hearing, perhaps because I love to immerse myself in the melancholy music flows and let the power of music to disturb my conscience. And for those who like me who love to indulge in this kind of sound, you will certainly remain a victim of the fascinating sound of the Shadowdances. "The Crawl", "The Girl" and the subsequent “Autumn Haze” are three splendid tracks that recall the early days of the Austrian Autumnblaze, but by adding a touch of poetry, which I repeat only the bands from those places, are able to confer to the music. Elegant, refined music, created and played by excellent musicians: "Misery Loves My Company" is an intense journey into the depths of the human soul, full of despair, anguish and fear. The central part of the CD is even more poignant, with the strong melancholic vocal lines of Judas to dominate the scene and dark environments to make their music sound like rain clouds ready to pour down heavy and endless rain. Desolate, nostalgic and restless, the Shadowdances could represent the perfect combination of Anathema of "Eternity" and the beginning of Riverside. What can I say more for this wonderful album? We only hope that luck will help the brave and here there is a lot of audacity ... (Francesco Scarci - Translation by Sofia Lazani)

(Self) 
Rate: 75

Black Tape for a Blue Girl - Halo Star

#PER CHI AMA: Ambient, Gothic
Un'attività più che ventennale e una discografia comprendente dieci album più un paio di singoli usciti in versione 10" lp e 3" cd (entrambi limitati), un libro accompagnato da un maxi cd e un doppio cd raccolta. Questi, in cifre, i Black Tape for a Blue Girl, creatura di Sam Rosenthal e Lisa Feuer, fondatori anche dell'etichetta Projekt, per la quale hanno pubblicato tutti i loro album. Mentre Sam e Lisa sono rimasti il cardine del progetto lungo tutti questi anni, nel tempo si sono succeduti diversi artisti che hanno partecipato alle registrazioni e hanno fatto parte del gruppo, contribuendo al successo in tutto il mondo di cui oggi godono i Black Tape for a Blue Girl. In questo lavoro Bret Helm ed Elysabeth Grant si alternano alla voce, mentre Michael Laird e Vicki Richards si occupano, rispettivamente, delle percussioni e del violino. Per quanti già conoscono i Black Tape for a Blue Girl, "Halo Star" risulterà molto familiare e musicalmente in linea con la produzione passata, idealmente unita da sonorità eteree molto caratteristiche, che costituiscono quanto di più riconoscibile vi sia nella proposta della band americana, specchio fedele dell'anima di Sam Rosenthal, il quale compone le musiche e scrive tutti i testi; per le liriche di quest'album, ad esempio, sono stati rielaborati alcuni passaggi tratti dal libro di Sam di prossima pubblicazione. Eppure è individuabile qualcosa di diverso rispetto ai lavori precedenti e lo si percepisce immediatamente: mi riferisco ad una maggiore organicità che annulla completamente quel senso di dispersione che talvolta si avvertiva durante l'ascolto delle ultime opere, conseguenza probabilmente di una tendenza a lasciar fluire liberamente il suono dagli strumenti, quasi si trattasse di improvvisazioni. Questo impediva in alcune occasioni alle canzoni di assumere una forma definita che le rendesse memorizzabili. In "Halo Star" si ha l'impressione completamente opposta: il lato "sperimentale" e la vena "estemporanea" sono stati infatti del tutto abbandonati e sostituiti da melodie vocali molto più scorrevoli, da strutture musicali più immediate e leggere, di facile assimilazione; sempre un po' minimali, ma senza perdere il gusto per la melodia e l'introspezione, in maniera più simile a come succedeva nei primi album. Siamo comunque di fronte ad un lavoro molto intimo, che sembra essere inteso per avvicinare l'ascoltatore agli angoli nascosti dell'anima di Sam Rosenthal, ma le riflessioni e le emozioni sono state convogliate in una manciata di brani genuinamente ispirati e sentiti, caratterizzati da una gradevole freschezza creativa. Una raccolta di canzoni che sviluppano in musica pensieri e sentimenti. In particolare trovo molto belli i brani cantati da Elysabeth Grant (come "Your Love is Sweeter than Wine", "Indefinable, Yet", "Damn Swan!" e "Already Forgotten"), estremamente dolci e melodici e dall'atmosfera malinconicamente sognante, che sembrano voler esortare l'ascoltatore alla meditazione, alla riscoperta dei ricordi personali dimenticati, ma sempre con un filo luminoso di speranza che la calda voce di Elysabeth è in grado di infondere. Anche i brani cantati da Bret Helm (quali "Tarnished", "The Gravediggers", "Knock Three Times", "The Fourth Footstep") sono degni di nota: alcuni ricamati su una vellutata tessitura strumentale percussiva che li rende a tratti quasi allegri, altri più ambientali e struggenti, colgono un altro modo di vivere le emozioni. Con i suoi racconti e le sue melodie "Halo Star" ci accompagna delicatamente verso l'autunno. (Laura Dentico)

(Project)
Voto: 80

Deathincarnation - Deny the Lies

#PER CHI AMA: Black (Symph.) Death (Brutal)
Gira e rigira, i paesi dell’ex blocco sovietico, stanno rilasciando un quantitativo industriale di band dalle interessanti prospettive. La band di cui parliamo oggi, nasce in Ucraina, più precisamente a Cherkassy nel 2006, con uno stile che viaggia a cavallo tra il death e il black e, che dopo tre (più o meno) interessanti demo, riesce finalmente nel 2010 ad esordire con il tanto sospirato full lenght. Peccato, che le release russe/ucraine e chissà quant’altre, non possano trovare alcuna forma di diffusione o pubblicizzazione (e aggiungerei fortuna) anche in “Occidente”, se non in circuiti estremamente underground, in quanto sono convinto che ci stiamo perdendo fantastiche realtà, ahimè nascoste nel sottosuolo al di là dell’ex cortina di ferro. Certo, i Deathincarnation non incantano con il loro sound, però “Deny the Lies” è un lavoro onesto, che fa del death metal in primis, la sua arma più pericolosa, con un riffing brutale, talvolta nervoso, condito però da una bella performance a livello solistico dall’ascia e anche vocalist, Slay, e da un mai troppo invasivo lavoro alle tastiere, ad opera della (pare) bella myLady-Victory, il cui ruolo diventa cruciale, in quei frangenti dove c’è da stemperare la brutalità del drumming tonante di Slide; proprio in questi momenti, il sound dei nostri acquisisce qualcosa di interessante che va oltre alla poco originale proposta dei nostri, in quanto l’approccio tipico del death americano fatto di iperveloci blast beat, va a miscelarsi con il black sinfonico dei Dimmu Borgir, come accade palesemente nella sesta “Betrayed by Own God”. Certo poi, i nostri si lasciano andare in sciabordate che massacrano, con il loro incedere rutilante, gli ascoltatori, ma non temete perché là, dietro l’angolo si nasconde la soluzione ai nostri rimedi, il magnifico tocco alle keys di Victoriya, capace in un battibaleno di trasformare una song in pieno Morbid Angel style, in un pezzo che riprende il sound epico dei Nokturnal Mortum, tanto per capirci. È questa loro peculiarità che li solleva dalla massa; pur non essendo mostri in fatto di tecnica, senza proporre nulla di originale, o non godendo di una brillante produzione, la proposta dei Deathincarnation, ha colpito comunque la mia attenzione, portandomi ad interessarmi all’act ucraino. Peccato per la voce, ancora non pienamente decisa se lanciarsi andare in scorribande growl o in uno screaming isterico prettamente black, ma alla fine rischia di essere l'elemento più carente. La traccia omonima, che si apre con maestose tastiere e un riffing non troppo pesante, ma alquanto tagliente, ci consegna un’altra band, quella che ha dimenticato l’approccio ferale iniziale, e ne ha deviato completamente il tiro, verso un black sinfonico intrigante, che sancisce la fine del disco. No, ma che dico. C’è ancora spazio per la traccia dieci, una cover dei Cannibal Corpse, quasi a voler smentire le mie parole di poc’anzi, anche se in realtà si tratta di una inutile song strumentale. A chiudere finalmente il platter ci pensa una vecchissima traccia della band, la blasfema “Jesus is Cunt!”, che vede come guest star alla voce, Alexey Sidorenko e Stanislav Ratnikov, che musicalmente ha ben poco da spartire con quanto ascoltato sin’ora, a causa delle incursioni in campo grind e alle vocals “suine” tipiche del genere; beh ecco io avrei evitato, anche se sul finire della song vengo smentito nuovamente perchè a rivelarci ci sono buone potenzialità e una celata personalità dei nostri; ah, se solo avessero continuato in questo filone. Ci sarà da limare qua e là senza ombra di dubbio, ma i ragazzi sono giovani e di migliorie se ne possono ancora fare parecchie. Vedremo se il tempo gli darà ragione... (Francesco Scarci)

(Nocturnus Records)
Voto: 65

venerdì 8 luglio 2011

Hacride - Deviant Current Signal

#PER CHI AMA: Djent, Techno Death Progressive, Meshuggah, Cynic
Se oggi il djent esiste, non lo si deve solo ai Meshuggah, ma anche ai francesi Hacride, perciò ragazzi fermi tutti, se non avete questo album, tirate fuori i vostri taccuini e annotatevi assolutamente questo titolo. Quelli della Listenable Records, da sempre, vedono lontano e cosi dopo aver scoperto in passato Soilwork, Theory in Practice, Scarve e molti altri, ecco scovare nel proprio paese, anche gli Hacride. Era il 2005 e il combo transalpino, al debutto discografico, poteva essere additato erroneamente, come una clone band dei ben più famosi colleghi svedesi, ma ascoltando “Deviant Current Signal”, rimarrete folgorati anche voi dalla fantasia e della tecnica degli Hacride. Le otto tracce incluse vi coinvolgeranno con soluzioni quanto mai inusuali e innovative per il genere: la base di partenza è chiaramente il thrash/death preso a piene mani dagli insegnamenti dei costantemente citati maestri Meshuggah, con stop’n go, passaggi ipnotici, ritmiche serrate e le urla sempre molto simili al singer della band svedese. Ma poi, quando meno te lo aspetti, ecco uscire il coniglio bianco dal cilindro: in “This place”, la canzone più bella del lotto, troviamo passaggi atmosferici, orientaleggianti e un uso tribale della batteria; un folle sassofono si prende la scena in “Protect”, dove un fantastico basso (ispirato a Steve Di Giorgio) ricama insieme alle chitarre e alla batteria, una ritmica fenomenale. Ottimi assoli, sfuriate death, influenze alternative (alla Strapping Young Lad), ispirazione ai pazzi Mike Patton e Steve Coleman, rendono questo lavoro un ottimo lavoro, da avere assolutamente nella vostra collezione di cd. Un’eccellente produzione completa poi il quadro generale del debut dei francesi Hacride, un nome che presto sarebbe entrato nel firmamento delle grandi band heavy metal con altri 2 fantastici album... Geniali! (Francesco Scarci)

(Listenable Records)
Voto: 85