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sabato 25 giugno 2011

Battle of Britain Memorial - The Aftermath of Your Bright Beings

#PER CHI AMA: Post Rock, Screamo, Mogway
Iniziamo questa recensione con un plauso speciale alla cover cd di "The Aftermath of Your Bright Beings" a dir poco spettacolare, con un contrasto di colori meraviglioso, dovuto anche al digipack cartonato che ne enfatizza il risultato finale. Insomma si capisce fin dal primo impatto, che la band francese è alla ricerca di qualcosa di assai raffinato. Faccio partire il cd e quello che sento, riesce a mettermi subito a mio agio, con suoni tipicamente post, che tanto vanno in voga nell’ultimo periodo. E allora ecco che mi accomodo sulla mia poltrona d’ascolto e mi faccio investire dal vortice sonoro di questo combo transalpino che si è formato solo recentemente, nel 2009 e oggi se ne esce con un prodotto degno di una band veterana. Accennavo alla loro proposta, una miscela di intimistico post metal, unito alla trasgressione dell’hardcore e la rabbia dello screamo. Dopo il benvenuto di “Welcome to Rapture” ecco le urla disumane di “Metaphysics of the Lighthouse” ad aprire il secondo pezzo, che si stagliano su un tappeto decisamente post rock: il sound che giunge alle mie orecchie infatti è assai rilassato, toccante e passionale, dove fanno capolino anche le vocals eteree di una gentil fanciulla che provano a spezzare la sgraziata ma efficace performance del vocalist Ludo. Tocchi di tamburo e piatti accompagnati da una flebile chitarra ci aprono le porte a “Those Who Hide Their Plight”, dove Ludo questa volta, si presenta in versione pulita, anche se avverto una certa forma di disagio su questo genere di tonalità, soprattutto mi sembra faccia molta più fatica quando si spinge verso un registro più alto (lo preferisco nella sua versione screamo); la song si muove in territori costantemente votati al post rock intimistico dei maestri Mogway. Ancora la batteria ad aprire una traccia, con le plettrate malinconiche della sei corde in sottofondo: è la volta di “Cum Tacent Clamant” che palesa in modo evidente la vena inquieta che permea l’intero lavoro del quartetto di Tolosa. La musica non è mai cattiva, mantenendosi costantemente su un registro pacato (nel quale la batteria gioca un ruolo chiave) e pervaso di nostalgia, grazie ad un lavoro egregio alle chitarre; ciò che finisce per incattivire la proposta del combo francese è senza ombra di dubbio la performance al vetriolo del buon Ludo, che tuttavia non infastidisce più di tanto. La creatività della band, il gusto per sonorità ricercate, capaci di scavare nell’intimo umano, le atmosfere soffuse (si ascolti la melliflua “Midnight Blue”), la genialità palesata in alcuni frangenti, ci consegnano una band dalle idee chiare, che merita la vostra attenzione. Amanti di sonorità “post” (rock, metal, hardcore, sludge) fatevi dunque sotto e date un chance ai Battle of Britain Memorial, non ne resterete delusi, parola del vostro Franz: rabbia e dolcezza si sposano alla grande nelle note di questo disco. Ah, dimenticavo la cosa più interessante: il cd è scaricabile gratuitamente al seguente sito: http://battleofbritainmemorial.bandcamp.com/album/the-aftermath-of-your-bright-beings I Battle of Britain Memorial sono assolutamente bisognosi di un vostro ascolto! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

lunedì 20 giugno 2011

Who Dies in Siberian Slush - Bitterness of the Years that are Lost


#PER CHI AMA: Death, Funeral Doom, My Dying Bride, Anathema
Rieccoci alle prese con la Solitude Productions e immagino che ormai anche voi come me, avrete già capito che cosa potrà racchiudere, a livello musicale, questo cd dalle tinte chiaro e oscure, addirittura fin dalla sua minimalista cover completamente in bianco e nero. Avete indovinato? Si esattamente, avete risposto correttamente. I russi Who Dies In Siberian Slush propongono un decadente funeral doom. Sorpresi? Io nemmeno un po’, anzi rimango un po’ deluso perché tanto e bene si era parlato del quintetto di Mosca a proposito dei demo usciti negli ultimi anni, mentre ”Bitterness of the Years that are Lost” si presenta come un canonino album death funeral, che fa del classico riffing desolante, pesante e tipicamente doom il suo marchio di fabbrica, fin dall’iniziale”Leave Me” sino alla conclusiva title track. È chiaro (fortunatamente) che ci siano dei picchi di interesse come l’apertura della prima traccia affidata ad un malinconico pianoforte e un riffing ancora una volta preso in prestito dai primissimi lavori di My Dying Bride e Anathema, quasi ci fosse nell’ultimo periodo, il desiderio dilagante di riprendere sonorità ormai andate e riproporle fino alla disperazione. Cosi come riportato nel nome della band, “Slush” (melmoso), il sound dei nostri si presenta molto statico, monolitico nel suo incedere, anche se per spezzare quella monotonia di fondo, l’ensemble moscovita, si gioca la carta della melodia, provando a rincorrere (con poco piglio però) la proposta degli svedesi Draconian, ma li siamo già su alt(r)i livelli. La band le prova tutte per staccarsi dalla rigidità e dal grigiore della propria proposta, quasi come se si fosse accorta di averla fatta grossa e cerchi rimedio in un intermezzo acustico di un pianoforte o in quello di un arpeggio di chitarra. L’atmosfera permane cupa e tenebrosa, con un senso di disagio interiore che continua a crescere lungo i 45 minuti di questo album di debutto. La lunga title track, aperta dal sospiro del vento, ci apre a gelidi paesaggi invernali, quelli tipici della tundra siberiana, con la sezione ritmica che finalmente si gode qualche inatteso sussulto, e la voce di E.S. che si districa tra un growling animalesco e qualche parte sussurrata. ”Bitterness of the Years That Are Lost” non sarà certo un lavoro che rimarrà negli annali del genere funeral, tuttavia è un cd che gli amanti di sonorità depressive e malinconiche dovrebbero avere nella propria discografia. Infelici. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 65

domenica 19 giugno 2011

Canaan - Contro.Luce

#PER CHI AMA: Cold Wave, Colloquio, Neronoia, Monumentum
E’ un ritorno inaspettato quello dei Canaan, band italiana per la quale il termine “culto” non risulta improprio, in quanto ha coltivato fin dagli esordi del proprio cammino (incominciato nel 1996) una serie di qualità artistiche tese alla ricerca dell’unicità, dell’eleganza e dell’eccellenza compositiva, sempre e tenacemente incurante dei modesti riscontri commerciali che sono tipici della musica di genere come l’ambient e la dark-wave. In passato, con album come “Brand New Babylon” e “A Calling to Weakness”, Mauro Berchi e i suoi fidati compagni di viaggio hanno dato luce a due perle di grigio fulgore, toccando quello che ad oggi può essere riconosciuto come l’apice della loro carriera e solo con l’uscita del penultimo episodio “The Unsaid Words”, risalente al 2006, la band ha probabilmente incontrato la prima flessione creativa, consegnando alle stampe un lavoro leggermente sotto tono che ricalcava in maniera meno ispirata gli stessi umori e le stesse sfumature del suo predecessore. Congelati in un serrato silenzio per quasi cinque anni dalla pubblicazione di “The Unsaid Words”, i Canaan tornano dunque con un album inatteso, che tale può essere definito anche per una nuova linfa espressiva, densa di elementi inediti che manifestano una band rinnovata, rinvigorita da uno slancio stilistico fino ad ora inesplorato. Permane la vena “cantautorale” e poetica che ormai da tempo accompagna le composizioni del gruppo, ma è il timbro e lo stile vocale di Mauro che si avverte come profondamente diverso, forse perché meno greve e sofferto di un tempo o più semplicemente per la conquista di una piena maturità interpretativa per la quale risulta d’obbligo spendere un elogio sincero. Rimangono invece immutati gli intermezzi strumentali che come d’abitudine spezzano i brani cantati e impreziosiscono “Contro.Luce” delle consuete suggestioni etniche ed ambient-industriali. Le nubi che affollano la mente di Mauro non sono ancora del tutto dissolte, mentre il dolore e il rimpianto continuano a riaffiorare dai ricordi del passato, tuttavia si avverte un nuovo modo di affrontare le avversità, con la dignità di chi sa soffrire in silenzio, non escludendo che tenui bagliori di speranza ci portino finalmente a respirare un alito di vita. Un sorriso di una persona cara o il volto ingenuo di un bambino possono allora ridestare emozioni di conforto e tenerezza, arginando anche solo per un istante le afflizioni. Nell’ascolto di “Contro.Luce” si percepisce questa lenta rinascita e la musica si muove all’unisono con le sensazioni trasmesse dalle parole, aprendosi a soluzioni che talvolta stupiscono per la loro sinuosità e “leggerezza”. A testimonianza di questa evoluzione vi sono canzoni come “Noia” e i suoi toccanti interludi di voci femminili mediorientali, gli energici e repentini cambi di ritmo in “Terrore” e i riverberi possenti delle chitarre in “Oblio”. Altri brani ripercorrono i plumbei canoni della produzione passata, ma sempre con quella rinnovata freschezza che dona un valore aggiunto all’intera opera e suscita nell’ascoltatore una commozione autentica. Grazie Mauro, grazie Canaan. (Roberto Alba)

(Eibon Records)
Voto: 75

giovedì 16 giugno 2011

Amber Tears - The Key to December

#PER CHI AMA: Death/Doom, Anathema e My Dying Bride
Vedendo la copertina del cd degli Amber Tears, ho pensato per un attimo di avere tra le mani qualcosa di power/folk, a causa del vecchio col bastone, raffigurato sul booklet, che cammina tra la neve; non so spiegarvi per quale motivo abbia immaginato questo, ma l’immagine della cover ha suscitato in me tale infondato timore. Vedendo poi la casa discografica sul retro della custodia, la BadMoodMan Music, mi sono tranquillizzato e ho pensato che sicuramente la proposta del combo viaggerà all’interno dei confini death/doom. E in effetti non mi sono sbagliato. Dopo una inutile intro, si passa a “Gray Days Eternity” in grado di confermarci immediatamente che il sound partorito dall’act russo è realmente un death doom cadenzato, che ancora una volta si rifà ai classici del passato (Anathema e My Dying Bride su tutti); a volte mi domando dove la Solitude Production vada a scovare tutte queste band e se forse, il fossilizzarsi troppo in un unico genere, non rischi di penalizzare l’etichetta russa. A farmi passare questi brutti pensieri, ci pensa il sound degli Amber Tears, che nelle loro otto tracce, ci presentano la loro proposta che, pur puzzando di già sentito, si lascia piacevolmente ascoltare; vuoi per la presenza di strumenti etnici in alcune tracce (è forse una cornamusa quella che si sente qua e là nel disco?), forse per le intriganti melodie pagane o per gli intermezzi acustici della terza “Away from the Sun”, o ancora per la dinamicità inaspettata di un lavoro che pensavo potesse annoiarmi dopo pochi minuti, mi lascio trasportare dal piacevole (talvolta toccante) feeling che questa release è in grado di emanare. Effettivamente ho sbagliato, giudicando superficialmente. Gli Amber Tears non garantendo nulla di innovativo, ma semplicemente rileggendo, in chiave moderna, i dettami di vent’anni fa dei grandi maestri inglesi, ci offrono un prodotto di sicuro interesse, ben confezionato, e che di certo farà la gioia dei fanatici di questo genere e non solo. Forte nei solchi di "The Key to December" anche l’influenza dei danesi Saturnus, che appaiono assai spesso come fonte di ispirazione, quando ci si trova a parlare di sonorità di questo tipo. Il feeling malinconico che si respira nell’arco dell’intero lavoro è mitigato dal riffing corposo del duo di asce formato da Alexey e Dmitry. La prima metà del cd, scorre via tra echi nostalgici di suoni di metà anni novanta e ispiratissime melodie che richiamano la tradizione scozzese, quasi mi ritrovassi proiettato sulle Highlands scozzesi e attorno a me il solo verde dei prati e delle colline con il vento a sibilare nelle mie orecchie. È un senso di pace che mi godo lassù tra le nuvole che si appoggiano su quelle sinuose alture e la colonna sonora perfetta è proprio quella degli Amber Tears, che muovendosi tra death/doom e strepitosi passaggi acustici (ascoltate “Like a Silent Stream” e ditemi che ne pensate) riescono a donarmi 40 minuti di palpabili emozioni. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

martedì 14 giugno 2011

The Project Hate - Bleeding the New Apocalypse - English

#FOR FANS OF: Cyber Death, Industrial, Progressive
The fact that I have been following The Project Hate for a long time now, can be proved by the review of the old "Armageddon March Eternal" on these very own pages. I find myself here again to write about the band of Lord K. Philipson and his members, and I do it again with extreme pleasure, because it has been ten years now that for me, The Project Hate have been synonymous of high quality. And this "Bleeding the New Apocalypse" is nothing but that, but whose output has passed a bit quietly in the media (and perhaps also to the fans), and so from my part I want to give a little emphasis of this new release; I am here to give my support to one of the bands that I admire the most: I sit at my desk, I turn on the PC, insert the CD and I am off to listen the new "Bleeding the New Apocalypse," their eighth album, including the Deadmarch parentheses. Well, there must have been eleven years since the brilliant debut of the Scandinavian act, but the sound is not at all changed since then, and this is not intended as a criticism of the four member band, in fact I would like to reward their coherence and consistency in the passing of the years. The background sound system is still that of the seminal Swedish death (Grave and Dismember), in which gradually elements of any type are insinuated, from industrial cyber death through progressive, making extensive use of electronics and playing, usually, with the duality between the growling vocals of Jorgen Sandstrom and the angelic vocals of the Portuguese Ruby Roque, who replaced alas, the much better Enckell Jo. As always, guests are not lacking, and this time to help The Project Hate, you will find Leif Edling of Candlemass, the omnipresent Mike Wead (which we saw recently in Kamlath), Jock Widfeldt (Vicious Art) and Christian Ivestam (ex -Scar Symmetry). The result of this marriage? Crazy as ever, to the point of certifying the high quality of the Swedish band, beginning with Season of Mist, amongst others. Always characterized by a few and very long tracks, this release is not far from that, with six pieces for a total of 65 minutes of wild, psychotic music, with very complex structures, yet very melodic, thanks to the constant divine use of the keys and persuasive moments when Ruby delights us with her singing, although less convincing than the previous one, Jo. From a technical standpoint, the band confirms itself at high levels, stronger even by the new drummer, the explosive Tobias Gustafsson (Vomitory) and a rhythmical key work and solos which proves sublime. Difficult to indicate a piece rather than another (although I have chosen "War Summoning Majestic" as my favorite song), because all could play the role of the most successful song from The Project Hate. Well I think that you may have guessed by now, I really liked the "Bleeding the New Apocalypse" , for its ability to fuse the wild death rhythms made in Sweden, with sounds alien to the northern extremes of Europe, such as gothic, progressive and electronic perennially with great evidence. The songwriting is excellent, almost as excellent as is the production with all the instruments well balanced with each other and a sound really very full and effective that will push me to elect this work in the bests of 2011. A delightful confirmation, but I had no doubt over that , The Project Hate, as unjustly snubbed by critics and fans, represent for me one of the most interesting and charismatic bands on the international scene. (Francesco Scarci - Translation by Sofia Lazani)

(Season of Mist)
Rate: 85

Ulver - Wars of the Roses

#PER CHI AMA: Avantgarde, Ambient
Tornano gli Ulver con un prodotto nuovo di zecca, con una casa discografica nuova di zecca, la Kscope music, e l’ennesimo album in grado di stravolgere ogni regola in casa di Kristoffer Rygg (alias Garm) e soci. Si parte con “February”. Le sue ridondanze pulsanti richiamano il sangue dalle vene. Cuori adrenalinici, ipersaguigni, fibrillanti, si scagliano sulle casse dai volumi esagerati per farsi violare i timpani da questo primo brano. È un esordio audace, con un Garm in grande spolvero, non sufficiente però a compensare il trapasso a sonorità vagamente anni ’80, che fanno perdere il potere alla tribalità elettronica dell’inizio. Passo a “Norwegian Gothic” e mi ritrovo catapultata in mezzo agli alberi sul fare della sera. Cammino tra i fuochi che si spengono intorno a case abbandonate. Il senso di inquietudine mi avvolge per amplificarsi in quelle che credo siano urla segregate tra mura di castelli medievali. La voce si conferma di grande spessore, vorticosa e ritmata, mentre vertigini strumentali pregnano l’ascolto di questo secondo pezzo, a cui non si può negare d’essere assai evocativo. È la volta di “Providence” dove accanto alla calda tonalità del vocalist compare l’eterea voce di Siri Stranger, in una cavalcata emotiva in cui trovano posto improbabili violini, un infausto clarinetto e Attila Csihar come guest star nella parte vocale. Parte la musica di “September IV”. L’ascolto. Mi fermo. Controllo che il brano sia del cd che sto ascoltando. Le sonorità sono diverse dalle altre tracce. La voce morbida e penetrante, gli stacchi più sensuali e decisi, con il sound che richiama una danza rituale, una promessa, un grido. Coinvolgente. Ecco “England” e l’atmosfera fattasi più rarefatta, mi spinge alla spasmodica ricerca di ossigeno. L’aria è frustata da onde sonore imperfette. Il cantato di Garm si fa dominante, rabbioso, ripetitivo, quasi robotico, con le parole aggrovigliate su se stesse, imprigionate tra distorsioni e percosse a casse inermi. Il brano si rivela antidoto ideale per pulsante rabbia repressa. Le melodie suadenti e disturbanti emergono forti in “Island”, song che fa riaffiorare il passato ambient della band norvegese, prima della lunga conclusiva “Stone Angel”. L’inizio del brano mi proietta davanti ad uno specchio al buio, mentre attendo che la luce di una candela possa presto illuminare la stanza. Il prologo di suoni, lo specchio, si interseca ad un parlato, quello di Daniel O’Sullivan che interpreta un testo del poeta americano Keith Waldrop. Gli occhi continuano a puntare lo specchio nella tragica inevitabilità di guardare se stessi. Risultante, un ipnotico viaggio al centro delle proprie paure. Finisce qui il nuovo album targato Ulver, ora a voi il compito di ascoltarlo e descriverne le suggestioni che vi affioreranno. Da ascoltare ad occhi chiusi. (Silvia Comencini)

(Kscope)

domenica 12 giugno 2011

Talbot - Eos

#PER CHI AMA: Doom, Psichedelia, Stoner, Cathedral, Electric Wizard
Ho ricevuto il promo di questa stuzzicante release e successivamente sapete cosa ho fatto? Sono andato sul sito dell’etichetta russa Slow Burn Records ed ho acquistato il cd del duo estone, senza alcuna esitazione e questo sarà quello che al termine di questa recensione vorrei suggerirvi di fare. Intro doomish affidata a “Threshold”, il cui riffone di chitarra viene ripreso anche dalla successiva “Cayenne”, che ci spara in faccia un sound che sembra saper coniugare alla grande gli insegnamenti dei primi Cathedral (riffs granitici e ultra slow) con lo stoner degli Electric Wizard, e con la voce di Magnus Andre che si diletta tra il growling più cavernoso e quello pulito (in taluni momenti addirittura cyber, per l’uso dei riverberi), mentre la musica perde ben presto quella sua linearità iniziale per aggrovigliarsi su se stessa in una delirante psichedelia, qui amplificata alla grande, dall’ampio spazio concesso ai sintetizzatori e dall’uso di chitarre dal forte flavour seventies. Con i minuti iniziali di “Observer X” vengo inglobato dalle visioni allucinogene della band di Tallin, come se mi spingessi pericolosamente in un viaggio di esplorazione spirituale, ovviamente solo dopo essermi calato pesanti dosi di acido lisergico. Cosi come accadde a Homer Simpson in una puntata del noto cartone animato americano, in cui il protagonista, dopo essersi mangiato un peperoncino super allucinogeno, ha delle visioni completamente distorte della realtà, e il suo spirito (un coyote) gli suggerisce come affrontare la vita, allo stesso modo, Magnus e Jarmo, ci prendono per mano e ci conducono alla ricerca di noi stessi attraverso la loro proposta musicale estremamente interessante. L’eco dello space rock emerge fortissimo nella breve title track, per poi lasciare il posto alla lunghissima (più di undici minuti) “Combat Zen Speech” che come una danza tribale attorno ad un grande fuoco, con i tamburi che picchiano ripetutamente, ci persuade ad abbandonarci alla sacralità della cerimonia, contraddistinta dal forte odore dell’essenze che saturano l’aria e di conseguenza le nostre menti. Ragazzi che botta, neppure l’uso delle droghe più forti del mondo, credo possa spingerci in un trip del genere, dove il battito del cuore accelera in modo pauroso, seguendo l’intensità sonora di questo “Eos”, il respiro si fa quanto mai affannoso e inaspettatamente ci ritroviamo barcollanti con i sensi totalmente alterati. Pur non essendo un amante di questo genere musicale, mi sono lasciato andare alla proposta dei Talbot, sono stato conquistato dall’impatto forte che ha avuto sui miei sensi, e ne sono rimasto da subito affascinato. Ultima nota da segnalare, oltre all’ottima produzione, è che il cd è stato rilasciato in versione digipack limitata alle prime 500 copie. Deliranti! (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records)
Voto: 85

sabato 11 giugno 2011

The Interbeing - Edge of the Obscure

#PER CHI AMA: Cyber Death, Djent, Meshuggah, Fear Factory
La Danimarca non è famosa solo per aver dato i natali ad Amleto, King Diamond o Lars Ulrich, ma anche per avere una florida scena underground che consta di nomi più o meno famosi, come Mercenary, Raunchy, Mnemic e ora questi ultimi The Interbeing, che in realtà esistono fin dal 2001, ma che solo quest’anno sono giunti al tanto sospirato debutto (non considerando l’EP del 2008 autoprodotto, “Perceptual Confusion”). ”Edge of the Obscure” ha il tipico marchio di fabbrica danese, con le sue chitarre ribassate stracariche di un groove contagiante; è un sound che si rifà ai soliti mostri sacri, Meshuggah e Soilwork in primis, ma che comunque brilla di luce propria, grazie alla vivacità intrinseca del quintetto scandinavo. Uno due e tre, e si parte dopo la consueta intro, con “Pulse Within the Paradox”, in grado fin da subito di mettere in chiaro qual è la proposta del combo: cyber death molto tecnico, grondante di contaminazioni provenienti dall’industrial (Fear Factory docet), ovviamente dal djent, proprio per quelle sue chitarre distorte con accordatura downtuned, ma anche dal progressive, per quel largo uso di ritmi sincopati e poliritmie che rimbombano nei nostri cervelli (ascoltare le scale di “Tongue of the Soiled” per capire di cosa sto parlando), costantemente in compagnia di samples che generano plumbee atmosfere stracariche di un feeling da fine del mondo. Senza dubbio l’elettronica gioca un ruolo da protagonista nelle note di questo brillante lavoro, cosi come non vorrei trascurare la perizia tecnica (assai elevata) dei nostri e il ricercato gusto per la melodia, sempre in primissimo piano e di grande spessore. Le voci corrosive, seguono la scia dei connazionali Raunchy e Mnemic, anche se molto spesso Dara Toibin si lascia andare a clean vocals (fantastiche in “Face Deletion”), sussurrate o robotiche (come in “Shadow Drift” o in “Swallowing White Light”). Trattandosi di cyber death, è lecito non attendersi eteree vocals femminili: cosi quando leggo che “In the Trascendence” c’è come ospite Elin Kristina Segel ho un sussulto, ma tranquilli perché trattasi di una voce cibernetica al femminile, a sancire la definitiva ecletticità di questi danesi. Se il tipico sound scandinavo che rappresenta la matrice di fondo dell’ensemble danese, alle orecchie dei più non rappresenta nulla di nuovo, vi garantisco che l’apporto dei synth nell’economia della release in questione, assume un ruolo fondamentale (meraviglioso il break centrale di “Fields of Grey”). Sono a dir poco entusiasta dal dinamismo di questi sconosciuti The Interbeing, che da oggi seguirò con molta attenzione, per poter capire quali siano le reali potenzialità in vista dei prossimi lavori. Per ora il mio voto si ferma a 80, perché il sound può risultare ancora derivativo, ma sono certo che con le giuste dritte, l’esperienza e le funamboliche idee, i The Interbeing calcheranno il palcoscenico metal per lungo tempo. Una bombastica produzione e un eccellente songwriting completano un lavoro da cui è lecito aspettarsi un successo oltre le attese. In bocca al lupo ragazzi! (Francesco Scarci)

(Mighty Music)
Voto: 80

giovedì 9 giugno 2011

Injury - Unleash the Violence

#PER CHI AMA: Thrash Bay Area, Testament, Exodus
Credo che il thrash metal sia un entità immortale: mai una flessione, mai un momento di crisi, sempre migliaia di band a proporre una genere musicale che difficilmente riesce a produrre qualcosa di nuovo o innovativo, un genere che si evoluto dai demotapes ai vinili, per arrivare fino ai cd o al download digitale (e far di nuovo ritorno ai vinili); eppure a distanza di trent’anni dai primi lavori di Metallica, Slayer e Megadeth, nel lettore del mio stereo gira ancora del sano e incazzatissimo thrash metal. E che dire che già non sia stato detto di un tipo di musica sulla quale sono state già spese milioni di parole? Bah, non saprei; però partiamo col dire che gli Injury sono una band italiana e la cosa mi rende fiero alla luce del buon risultato finale. Ottima la base di partenza, data da una super produzione che esalta alla grande lo sfrenatissimo headbanging che “Unleash the Violence” riesce ad emanare, contribuendo in modo sostanziale allo scarico della adrenalina, dopo l’ennesima pesantissima giornata lavorativa. Volume a manetta, sound tipico della Bay Area (quell’assolo di “Busy Killing” non richiama forse i primi Testament? E quel riffing corposo e nevrotico di “Violence Unleashed” non vi riporta con la mente ai primi Exodus?), ritmiche incalzanti, assoli taglienti ma sempre melodici, look anni ’80 e cosa volete di più dalla vita? C’è chi direbbe un Lucano, ma a me basta questo sound; mi godo il mio tuffo nel passato e trascorro un’armoniosa serata in compagnia della musica degli Injury, che mi fanno sentire di nuovo giovane e mi ricordano quando anche il sottoscritto sfoggiava quel look un po’ trasandato e ribelle, circa vent’anni fa. Bravi ragazzi ad aver sfoderato questa genuina prova con il vostro platter di musica sincera e brava la Punishment 18 Records che continua nella sua ricerca di realtà poco affermate, che qualcosa di interessante, hanno da proporre. Certo, “Unleash the Violence” non sarà il disco dell’anno, però tutti gli amanti del thrash d’annata, quello della costa ovest degli Stati Uniti per intenderci (senza dimenticare tuttavia quei fantastici coretti alla Over Kill di “Under the Influence”), un ascolto attento lo dovrebbero concedere a questa release. Un plauso anche alla copertina, che in realtà mi sembra più orientata verso al death metal, con tutto quel rosso che non fa altro che richiamare il sangue. Morbosi! (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records)
Voto: 70

Blindead - Devouring Weakness

#PER CHI AMA: Sludge, Isis, Neurosis, Cult of Luna
Andiamo a scoprire, quello che fu il debutto discografico di una delle più interessanti realtà polacche nell'ambito sludge doom. Dopo gli ottimi insegnamenti di Neurosis, Isis, Pelican e Cult of Luna, tanto per citarne solo alcuni, il 2006 segna l'esordio, sulla lunga distanza, dei polacchi Blindead. In circolazione già dal 1999 e con tre demo all’attivo, rilasciano per la connazionale Empire Records questo “Devouring Weakness”. Sei lunghi brani per un totale di 44 minuti di suoni angoscianti, pachidermici, asfissianti, in cui è il quel senso di vuoto incolmabile, che caratterizza questo genere, a prevalere inevitabilmente al termine dell’ascolto dell'ascolto. Solo i titoli dei pezzi sono indicativi per ciò che riguarda i contenuti, sia emotivi che lirici, delle sei tracce qui comprese: suicidio, desolazione, senso di sconforto e depressione sono infatti alcuni dei temi trattati all’interno di “Devouring Weakness”. Le tracce, tutte molto simili tra loro, sono contraddistinte da pesanti riffs di chitarra, sui quali si stagliano le vocals gutturali di Nick, molto simile, per alcuni versi, al suo collega ben più famoso dei Cult of Luna, anche nella sua versione più intimista e riflessiva. Anche il sound si può avvicinare a quello della band svedese, la differenza risiede nella classe dei master scandinavi, nel costruire brani più articolati e atmosferici. I Blindead, da questo punto di vista, sono ancora un po’ acerbi e lontani anni luce, dai gruppi succitati. Però, se siete amanti di questo genere di sonorità, così malate, marziali, ripetitive, oscure e suicide, un ascolto è caldamente consigliato, nonostante il mio voto si sia mantenuto così basso. Di sicuro gli album successivi dei Blindead mi hanno dato ragione e mostrato quale caratura tecnica risiede nelle corde di questo eccitante combo polacco. (Francesco Scarci)

(Empire Records)
Voto: 65

Nickelback - All the Right Reason

#PER CHI AMA: Pop Rock
Un paio d'anni di duro lavoro, e i Nickelback se ne vengono fuori con il quarto studio album. "All the Right Reason", è il nome dato a questo capolavoro (definito cosi da molti, ma non dal sottoscritto) che apre le porte ai tanti fan con un mix di suoni che variano dal pop rock molto soft, ad un rock più intenso e duro. Con questo album , Kroeger e soci, hanno cercato di levarsi di torno l'etichetta di band commerciale che molte volte (e non ingiustamente) gli è stata affibiata. Undici canzoni per un album per certi versi strano, infatti ad alcune di queste non si riesce a dare un giudizio ben preciso. In questa release troviamo il singolo "Far Away", che ha giocato un ruolo importante nella carriera dei nostri, perchè entrato nella top ten americana, addirittura alla posizione numero 8. Una lenta ballata made in Nickelback, che ha fatto capolino nelle radio di tutto il mondo, e sopratutto nelle teste dei fan, perchè una delle belle caratteristiche di questa band è di creare dei singoli che riescano a rimanere impressi nelle nostre menti. Il rock duro lo troviamo in "Follow you Home"; un ritmo molto coinvolgente con un testo, che rende altrettanto bella la canzone, in un mix tra un film d'azione in stile "Die Hard" e una piccola aggiunta del loro solito romanticismo che molte volte declassa i loro lavori. Resta una canzone apprezzabile anche se dopo il terzo ascolto stufa. I Nickelback, che in questi anni hanno guadagnato una buona fama e un buon posto tra le migliori band pop rock, una bella mossa se la deve comunque dare se vuole arrivare ancora più in alto. (Alessandro Vanoni)

(Roadrunner Records)
Voto: 65

mercoledì 8 giugno 2011

The Camp Hours - Wise as a Tree

#PER CHI AMA: Alternative, Rock
Ridurre i The Camp Hours (TCH) a gruppo alternative/rock/pop come descritto da loro stessi nel Myspace, mi sembra alquanto semplicistico. Certo, classificare i gruppi oramai è una mania ma se voglio dirvi qualcosa dei TCH, meglio citare qualcuno che calca la scena che possa accendere una luce nella vostra mente. Se dico Pink Floyd, Porcupine Tree, Radiohead, etc., vi state strappando i capelli? Beh, qualche influenza effetivamente c'è ma non aspettatevi una mera copia dei sopracitati perchè i TCH sono molto di più. La qualità del lavoro prodotto è alta, a partire dalla produzione fino agli arrangiamenti, dopo tutto i musicisti non sono degli sprovveduti e qualche capello grigio (per chi ha la fortuna di vederli spuntare) ce l' hanno. Restando in campo tecnico, il digital recording appiattisce fin troppo le sfumature rock/prog e molti pezzi mancano di dinamica. Sarà la mia fissa ma un passaggio nel buon vecchio analogico l'avrei fatto, i pezzi ne avrebbero giovato sicuramente. Comunque la sostanza c'è e posso dire che pezzi come "A Liquid Sky" e "Falling Down" tracciano un profondo solco negli animi rock utilizzando melodie a volte psichedeliche, a volte graffianti e malinconiche come solo pochi sanno produrre senza cadere nel banale o scontato. Il vocalist (nonchè chitarre, synth e molto altro) non dimostra un'estensione vocale degna di nota ma cerca di utilizzare al meglio la sua timbrica per rimarcare i passaggi più eterei e gli incisi classicamente rock. Pecca nella pronuncia anglosassone ma non soffermiamoci a questi dettagli, dopotutto noi italiani ci porteremo questo peso ancora per molto tempo. Il risultato è quello che è, nel senso che rischia di annoiare alla lunga e ci porterebbe a desiderare quanche parte strumentale in più. Tuttavia le doti strumentali sono invidiabili, considerando che tal Carlo Di Buono si occupa di gran parte della sezione strumentale dei TCH. Batterista (Francesco Filardo) e bassista (Francesco Amendola) completano al meglio il trio. L'utilizzo di synth ricercati ed effettistica varia su voce e chitarra, dimostra l' attenzione dei TCH alla cura dei particolari e all' atmosfera che deve scaturire dalle singole tracce."The Road To London" è un pezzo che risulta molto influenzato dalla vena brit pop di qualche anno fa, con sonorità alla U2 e Cold Play. Per quanto riguarda le altre tracce, tutto è al posto giusto, ben equilibrato, basta solo saper apprezzare il genere. Quindi, a chi consiglio i TCH? Dai nostalgici della Pantera Rosa a chi trova i nuovi Radiohead troppo alternativi, oppure solamente per fare da intermezzo ai cd più cattivi del buon Franz. (Michele Montanari)

(Vacation House Records)
Voto: 75

Lingua - All My Rivals are Imaginary Ghosts

#PER CHI AMA: Post Rock/Indie, Tool, Dredg
Recensire questa band è un po’ come ritrovare dei vecchi amici che non vedevi da tempo, eh si perché grande fu la sorpresa quando nel 2006 ascoltai per la prima volta il disco di debutto di questi svedesoni Lingua, poi diversi passaggi in radio, i primi contatti con la band e infine l’aver contribuito, in un qualche modo, alla firma da parte del combo scandinavo con la nostrana Aural Music. Ed ecco poi finalmente arrivare il nuovo lavoro nelle mie mani. Devo ammettere di averci messo un bel po’ di tempo prima di decidere di recensire “All My Rivals are Imaginary Ghosts”, perché fino all’ultimo mi sono chiesto se il mio contributo potesse essere utile alla causa dei Lingua o se forse sarei stato troppo fazioso nei loro confronti. Chi se ne frega mi sono detto, ho rotto gli indugi ed ecco a parlarvi della seconda release dei nostri, nel modo più obiettivo possibile. E vorrei proprio esordire dicendo che il primo album, mi aveva impressionato molto di più del qui presente, a dimostrazione che le mie parole saranno quanto mai sincere. Sebbene le palesi influenze “tooliane”, “The Smell of a Life That Could Have Been” ci aveva consegnato una band dal suono fresco e originale, con un vocalist dotato di una sorprendente tonalità vocale. Nel nuovo corso, la band scandinava sembra aver ammorbidito il proprio sound, mettendo da parte le reminiscenze post metal che emergevano di tanto in tanto nel debutto e proponendoci uno stile pur sempre riconoscibilissimo, ma un po’ più ruffiano, complice anche il fatto di aver prodotto brani più brevi e diretti. La ritmica iniziale di “Leave us Yours” è arrogante, palpitante nel suo pezzo centrale, con il cantato di Thomas sempre assestato ad alti livelli, e pronto ad annunciare la seconda “It’s a Massacre”, prima vera hit (dal ritornello super canticchiabile), che sembra essere stata concepita da una band indie piuttosto che metal, ma a chi importa. Anche la terza song viaggia su un oscuro binario mid-tempo, che fa dell’eccellente estensione vocale di Thomas il suo punto di forza. Pian piano i nostri vengono fuori e il primo pezzo Lingua style, che ricalca quanto sentito nel precedente lavoro, è sicuramente “It’s There, it’s Life”: si tratta di un bel pezzo ritmato, malinconico, efficace, si mi piace parecchio. Si procede e anche con ampio interesse: un altro esempio di come siano diventati semplici ma estremamente incisivi i Lingua di oggi è offerto da “Prodigal Son”, forse il pezzo più tirato delle 14, con quel suo tocco quasi punk, che emergerà anche nella parte centrale e più incazzata di “Centerpiece”. “I’m Not” riprende ancora una volta i Tool, mescolando il sound della band californiana con un certo dark anni ’90 della scena inglese e il risultato è più che buono. La band di Stoccolma continua a sorprenderci con brillanti trovate: è il caso della tribale “Cobalt Sky” che attacca con una litania che pare estrapolata quasi da un cerimoniale voodoo: ne sono profondamente attratto, ipnotizzato dalla litania reiterante del vocalist e dall’oscura melodia di fondo; un brivido percorre il mio corpo quando Thomas inizia a cantare, e quel basso continua a pulsare nelle mie orecchie, e mi spinge ad ondeggiare paurosamente alla ricerca di quel ritmo frenetico che verrà. Eccola, trovata la mia song preferita di questo avvincente cd. Se “All My Rivals are Imaginary Ghosts” fosse finito qui, credo nessuno si sarebbe offeso, anzi. Le ultime song calano un po’ di tono e finiscono per sembrare semplici riempi pista (salvo tuttavia la conclusiva “Disperse!”) per un cd che ci ha regalato diversi frangenti di ottima musica, ci ha confermato che in Svezia non esiste solo il death metal, che i Lingua sono una band di assoluto valore, carisma e personalità, e che voi avete un obbligo da rispettare: non perderli mai di vista! (Francesco Scarci)

(Aural Music)
Voto: 75