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domenica 12 luglio 2015

Interview with Ashtar

Follow this link for an interesting chat with the Swiss Black Doom metal band of Ashtar: 

http://thepitofthedamned.blogspot.it/p/interview-with-ashtar-july-2015.html




Pavillon Rouge - Legio Axis Ka

#PER CHI AMA: Black/EBM/Industrial, Blutengel, Suicide Commando, Aborym
Che la violenza regni sovrana: deve esser stato il motto dei francesi Pavillon Rouge quando hanno concepito questo nuovo, secondo capitolo, della loro discografia, intitolato 'Legio Axis Ka'. Nove sorprendenti tracce che si dimenano nell'ambito di un furente black industriale danzereccio. Certo, stride un po' scritto cosi, ma il quartetto di Grenoble ci attacca con un black efferato che trova nella programmazione del drumming il punto di contatto con la musica techno-industriale. Quel che è certo è che da quando "Prisme Vers l'Odysée" farà il suo ingresso nel vostro stereo sino al termine del disco, non troverete alcuna sosta nell'arrembante proposta dei nostri. Verrete infatti investiti da blast beats sintetici, da vocals ostili, da ipertrofiche velocità ritmiche e da splendide melodie di una band dalla forte attitudine industriale miscelata alla perfezione con l'iconoclastia del black. "L'Enfer Se Souvient, l'Enfer Sait", sebbene l'inizio dotato di una ritmica marziale, esplode nella rabbia distruttiva di un suono che potrebbe richiamare gli Aborym più elettronici, i Plasma Pool e i Mysticum. Un coro che sembra inneggiare al Sole apre "Mars Stella Patria", pezzo più controllato, quasi rock se solo non avesse l'immancabile componente elettronica in sottofondo e se nella sua seconda metà non invadesse nuovamente territori della dance music e dell'EBM. "A l'Univers" è il tipico pezzo che si potrebbe ballare in una discoteca hardcore con i beat che vanno a ritmi infernali, ed enfatizzano la veemenza della proposta di questi pazzi scalmanati. Se avete un'idea del sound di Suicide Commando ed Hocico, traslati in veste black, potrete intuire di che cosa stia parlando. "Aurore et Nemesis" è un pezzo oscuro che mi ha evocato nella mente i Samael della loro svolta elettronica, un brano dotato di un refrain accattivante che ho semplicemente adorato e che lo pone in cima alle mie preferenze di questo 'Legio Axis Ka'. Si torna ai beat discotecari "tuz tuz tuz" con "Droge Macht Frei", anche se poi un ottimo assolo rock distoglie la mia attenzione dalla disco dance incorporata nelle violente partiture industriali. "Kosmos Ethikos" (strumentale) e "Notre Paradis" sono un paio di pezzi interlocutori, accattivanti, ma piuttosto brevi che preparano piuttosto alla conclusiva "Kluz Santur", l'ultima efferatezza sonora di questo interessantissimo 'Legio Axis Ka'. (Francesco Scarci)

(Dooweet Records - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/LuxDiscipline

Ommatidia - Let's Face It

#PER CHI AMA: Dark/Alternative, Katatonia, Charred Walls of the Damned
Strana e affascinante creatura questa band francese che al suo secondo full lenght da indipendente, mostra capacità tecniche al di sopra della media e una professionalità di registrazione impeccabile. Musicisti transalpini provenienti da aree e stili diversi dell'universo metal si riuniscono sotto il nome di Ommatidia nel 2010, dando vita a questo progetto interessante e particolare. Il contenuto del disco è difficile da decifrare, anche se tutti i brani sono ottimi per costruzione ed esecuzione. Il sound della band è un groviglio di stili che pesca tra gli ultimi malinconici Katatonia, gli epici In the Woods, il progressive dei più recenti Queensryche ed il supergruppo Charred Walls of the Damned con una vena post grunge che ne aumenta il tiro. Intermezzi acustici rincarano la capacità melodica dell'album che non si sposta mai in territori troppo rumorosi od estremi, mantenendosi sempre sul confine malinconico/melodico/epico, sacrificando appena la tanto decantata inclinazione gothic metal che la band vorrebbe avere ma che non riesce ad esprime a dovere. In 'Let's Face It' troviamo in realtà un ottimo progressive metal, non incentrato tanto nei virtuosismi, piuttosto suonato benissimo, dalle sonorità pulite, patinate e potenti, che comunque non affondano mai nell'oscurità profonda e buia. Anche le parti più cadenzate risultano troppo prog per definirsi un prodotto gotico, cosa che, al contrario di ogni facile giudizio, risulta essere una menomazione molto positiva in questo singolo caso. La nascita inaspettata di una forma sonora originalissima ed equilibrata che dona una personalità alla band di tutto rispetto. L'atmosfera è incantevole e per tutta la durata del cd, grazie ad una produzione coi fiocchi, si ha la sensazione di ascoltare un prodotto mainstream e non indipendente. Assoli, chiaro scuri, aperture e un cantato molto presente, rendono 'Let's Face It' tanto omogeneo ed apprezzabile sotto ogni punto di vista. La band parigina non ha bisogno di essere inserita in una scena musicale precisa, poiché gode di tanto carattere che può tranquillamente essere semplicemente inserita nel calderone dell'alternative metal, sulla scia di band come Tool o Control Denied, anche se il suono degli Ommatidia è più consono e meno d'avanguardia. Decisamente inaspettato, 'Let's Face It' è un ottimo album contenente due brani splendidi, "Sunspot" e "Dark Swelling". (Bob Stoner)

Mother Engine - Absturz

#PER CHI AMA: Kraut/Stoner/Space Rock strumentale, Color Haze, Can
Sulla pagina Bandcamp dedicata ad 'Absturz' si legge: “Questo album è interamente registrato live dai Mother Engine mentre jammavano nella stessa stanza. Per riprodurre al meglio le dinamiche e il suono, vi consigliamo di suonare il disco […] al massimo volume possibile”. L’inizio è promettente: non molti possono permettersi di rinunciare ad editing digitali, sovramissaggi, aggiunte e rifiniture in post-produzione. In effetti l’attitudine alla jam del trio tedesco era già nota: allo Stoned From The Underground Festival del 2013 non erano in scaletta – ma si sono portati gli strumenti e hanno allestito un set live nel campeggio (geniale!), facendo il pienone e diventando gli idoli del pubblico. Preparatevi ad un viaggio spettacolare: a guidare la nave spaziale c’è il chitarrista Chris Trautenbach. Virtuoso ma senza esagerazioni, sempre in equilibrio costante tra grasse distorsioni fuzz e tonnellate di delay, flanger, wah ed effettistica vecchia scuola. È lui a tracciare le linee e il riffing di ogni pezzo: sempre originale nei suoni e nelle melodie – mai una sbavatura, mai una scelta banale, mai un passaggio noioso o scontato: non sentirete minimamente la mancanza di una voce. A co-pilotare la nave, Cornelius Grünert alla batteria (bravissimo con dinamiche, fantasia e tocco) e Christian Dressel al basso: sono loro a costituire di fatto il motore portante di 'Absturz', su cui la chitarra costruisce poi architetture strumentali sempre nuove. Grazie alla registrazione come jam in presa diretta, il lavoro è estremamente fluido: un vero viaggio tra atmosfere strumentali psichedeliche di delay e riff caleidoscopici e groovy (ascoltate la opening “Nebel”, come esplode dal minuto 4 in avanti; o le ritmiche veloci di “Relief”, soprattutto nel finalone da headbanging), tra arpeggi soffici e distanti, costruzioni prog, immense aperture di crash e distorsioni (“Wüstenwind”), lunghe improvvisazioni e calde sonorità avvolgenti. Indimenticabile il main riff di “Lichtung”, a costruire una connessione naturale tra la tradizione stoner americana (Karma To Burn, Pelican, ma anche certi Kyuss) e il kraut rock di Can e Color Haze. Misuratissimi i due interventi vocali da guest, nel finale di “Relief” e nella coloratissima “Sonne” – con una voce femminile che canta in lingua tedesca tra partenze e ripartenze della musica. Se anche voi rimpiangete una certa naturalità della musica, la capacità di far immaginare scenari solitari e viaggi spaziali, la tecnica finalizzata all’emozione, la dinamica e i lunghi delay, pur senza rinunciare all’aspetto più groovy, rock e ai riff spaccacollo – spolverate i vostri bong e non perdetevi questi 60 minuti di meraviglia tedesca.(Stefano Torregrossa)

(Gebrüllter Schall - 2015)
Voto: 90

https://www.facebook.com/MotherEngineRock

Xaxaxa – Sami Maži i Ženi

#PER CHI AMA: Alternative/Post-hardcore/Punk, Hüsker Du
Altra uscita e altro centro per la Moonlee Records, che continua imperterrita a dare spazio alle voci piú underground dell’ex Jugoslavia, senza distinzioni di sorta, alla faccia del becero nazionalismo (spesso condito da odio razziale) che siamo soliti associare a questi paesi dalla storia tormentata. È questa la volta dei macedoni Xaxaxa, band nata come costola dei Bernays Propaganda e, a quanto pare, sopravvissuta al gruppo madre, che mi risulta essersi sciolto lo scorso anno. Allo scorso anno risale anche questo 'Sami Maži i Ženi”, terzo album per il trio di Skopje, e vero e proprio disco della maturità. Questo lavoro, lo confesso, mi ha conquistato già a partire dall’artwork, che riporta una foto di gruppo di quella che, per la breve parentesi della sua esistenza, è stata la piú forte squadra di calcio che io ricordi, ovvero la Jugoslavia che conquistó la qualificazione agli europei del 1992 ai quali poi non partecipó per i motivi che sappiamo benissimo (qualche nome? Immaginatevi Savicevic, Stojikovic, Boksic, Suker, Prosinecki, Susic tutti assieme e ditemi voi se non era una cosa da perdere la testa). Con questo in testa, sono ben disposto all’ascolto di un lavoro che, rispetto agli esordi totalmente devoti all’hardcore punk dei primi Hüsker Du e dei Rites of Spring, risulta un po’ più curato, riflessivo, leggermente levigato in un suono sempre potente e aggressivo, ma meno ruvido e intransigente. Un suono che risente alresì delle influenze indie-rock e che sta a quello dei primi dischi come gli Sugar stanno agli Hüsker Du. Canzoni più melodiche e malinconiche, pur sempre in un ambito dichiaratamente punk-rock. I testi, ora arrabbiati, ora riflessivi, sono in macedone, ma questo non è un grosso ostacolo alla fruizione di un disco breve (meno di mezz’ora) e intenso, che non stanca davvero mai nel suo mettere in fila otto brani robusti e delicati allo stesso tempo. Chi ama i nomi di riferimento, non potrà rimanere indifferente di fronte a tanta sincerità. Qualche titolo su tutti: “2 Milioni Trkalački Kamenja”, “Radio Motorika", “Vlae Salep”, ma è difficile scegliere. E poi, quella foto... (Mauro Catena)

(Moonlee Records - 2014)
Voto: 70

https://xaxaxa.bandcamp.com/album/sami-ma-i-i-eni

giovedì 9 luglio 2015

Árstíđir Lífsins - Aldafödr Ok Munka Drottinn

#PER CHI AMA: Black/Viking/Folk, Einherjer, Primordial, Enslaved 
Non mi stancherò mai di ribadire come la Ván Records rappresenti un indiscusso sinonimo di eccelsa qualità. L’abbiamo visto recentemente con band del calibro di Macabre Omen, Sulphur Aeon o i nostrani Caronte, lo confermo oggi con il come back discografico degli impronunciabili islandesi Arstidir Lifsins e del loro terzo album, uno splendido doppio lavoro in formato digipack, dal semplicissimo titolo ‘Aldafödr Ok Munka Drottinn’. Il disco, che vanta anche un raffinato booklet interno tra testi in lingua madre e traduzioni in inglese, affronta le consuete tematiche legate alla mitologia nordica, che rappresentano la principale fonte di ispirazione del terzetto islando-germanico. Cinque le tracce comprese nel primo cd di questa eroica saga, che apre con la lunga “Kastar Heljar Brenna Fjarri Ofan Ǫnundarfirðinum” che narra la storia dei fratelli Hoskuldr e Sigfùss, muovendosi tra furibonde cavalcate black e intermezzi di epica narrazione, con le voci che si alternano tra un selvaggio screaming e un parlato narrativo che tornerà anche nei seguenti brani. Proprio all’inizio di “Knǫrr Siglandi Birtisk Á Löngu Bláu Yfirborði” infatti, vi è infatti un racconto introduttivo di Marsél Dreckmann (membro dei tedeschi Helrunar). Poi le spade vengono brandite al cielo, gli eserciti allestiti per la guerra e quello che posso immaginare nella mia fantasia, è il momento che anticipa la battaglia e gli inni che vengono intonati prima di essa, con la musica che si muove tra suggestioni cinematiche, scorribande black e frangenti ambient. Il fragore delle armi irrompe nella malvagia “Þeir Heilags Dóms Hirðar”, song black mid-tempo che ha modo di esibire fantastici intermezzi acustici che ne placano l’incedere violento e funesto, in una lunga evoluzione di quasi 14 minuti. Con “Úlfs Veðrit Er Ið CMXCIX” immagino di contare i morti sul campo di battaglia, complice l’avanzare greve all’insegna di un doom drammatico e solenne che da lì a poco evolverà verso lidi di rabbia furente, interrotta solo dal calar delle tenebre, che si manifestano con un ridondante suono di chitarra acustica e voci narranti in sottofondo che raccontano le gesta di antichi eroi. “Máni, Bróðir Sólar Ok Mundilfara” sembra suonare interlocutoria, quasi come un ponte che colleghi il primo disco al secondo che va a prepararsi. I cadaveri dei caduti vengono bruciati e le loro anime che si dirigono verso il Valhalla, celebrate con i canti folklorici di “Tími Er Kominn At Kveða Fyrir Þér”. Le ostilità riprendono con “Norðsæta Gætis, Herforingja Ormsins Langa”, song che mostra qualche richiamo ai Primordial e sembra dotata di un forte sentimento vichingo. Si continua a mantenere alta la tensione con “Bituls Skokra Benvargs Hreggjar Á Sér Stað”, altro esempio di come si possa combinare black, viking, epiche melodie, folklore e doom, senza rischiare di stancare l’ascoltatore. A chiudere ‘Aldafödr Ok Munka Drottinn’ ci pensa la mesta melodia di “Sem Lengsk Vánar Lopts Ljósgimu Hvarfs Dregr Nærri” che nella mia mente rappresenta il ritorno a casa dei pochi fieri sopravvissuti alla guerra. Arstidir Lifsins, un gradito ritorno. (Francesco Scarci)

(Ván Records - 2014)
Voto: 80

mercoledì 8 luglio 2015

Le_Mol - Kara Oh Kee

#PER CHI AMA: Post Rock, Mogwai, Godspeed You! Black Emperor, Neurosis
Prima di leggere quest’articolo ascoltatevi almeno un brano dei Le_mol e cercate di capire quanti elementi ha questo gruppo. Ora che lo avete fatto (o se gli spoiler non vi scalfiscono), siete pronti per scoprire che quest’incredibile orchestra di puro post-rock in realtà è un duo! Due giovani viennesi che riescono, grazie all’utilizzo di loop ed elettronica, a ricreare sonorità degne dei grandi di questo genere. L’album 'Kara Oh Kee', il cui nome ovviamente ironizza sulla presenza di soli brani strumentali, apre con “Time to Get Pumped, Robert Pattinson” il pezzo più lineare e corto dell’intera opera che fa da intro a “Majorities Finest Moments”, un crescendo di chitarre in loop, quasi cercassero di raggiungere un’opera di Glen Branca, arricchito da un pianoforte e dai sintetizzatori. Arriviamo quindi a “Esarintu”, uno dei pezzi più belli e interessanti del disco, dove pianoforte e chitarre si fondono in continui crescendo e un malinconico sax, ci prepara al consueto finale. “Am I Under Arrest?” e “Yeti Untitled” proseguono anch’essi con lo schema classico del post-rock che caratterizza la produzione del duo. Con “The Mountain Daisuke Inoue Never Sang About” la band ritorna a ironizzare sul titolo dell’album, poiché Daisuke Inoue è l’inventore della macchina del karaoke. L’album termina con “I Despise You, Butterflies”, canzone che si discosta dal resto della produzione, sia per durata (supera gli otto minuti) che per composizione: un lungo tappeto di “rumore” dove pianoforte e chitarra si alternano con malinconia e ci portano ad un’esplosione sludge nel finale. Nel panorama post-rock è difficile trovare delle novità interessanti che riescano a colpire l’ascoltatore ma, questo duo che sembra un’orchestra, o come si autodefiniscono loro una “loop orchestra”, ci ha regalato un disco che vale la pena ascoltare, un'ottima amalgama di post-rock e sludge con delle rifiniture drone. (Stefano Bissoli)

(Self - 2015)
Voto: 75

domenica 5 luglio 2015

Tovarish - This Terrible Burden

#PER CHI AMA: Drone/Noise, Khanate, Alos?, Sunn O)))
I Tovarish sono una band di Providence, Rhode Island, dedita ad un connubio artistico di generi estremi e radicali che non lascia superstiti. Dentro a questo loro terzo devastante cofanetto, vi mescolano dark ambient, noise, drone metal, industrial e avanguardia sperimentale. L'ispirazione è tratta da una certa ammirazione per quella che fu la grande URSS (quella con la falce e il martello), immaginata in una forma post atomica, deforme e contaminata (Tovarish se non erro significa Compagno), come se dovessero scrivere la colonna sonora di una grande madre Russia disintegrata da una guerra nucleare, dove il paesaggio è gelido, sepolcrale e terrificante. L'immagine di macerie e detriti (anche l'artwork di copertina si presenta molto a tema) è alquanto viva e presente nell'espressività sonora di questa band americana, che fa del rumore la sua arma più letale. Sia esso prodotto da feedback di chitarra o synth o loop, non ha importanza. Il drone, le terrificanti presenze vocali e l'ambientazione horror in alta fedeltà, sono alla base di ogni composizione, aiutate da una qualità di registrazione ottima per l'ascolto. Il mio viaggio nell'incubo post atomico avanza violentemente in tutta la sua perversa teatralità. Ottima la quarta traccia, "Order", che ci fa immaginare perfettamente, come potrebbe essere una melodia venuta direttamente dall'inferno, interpretata da un mostro, geneticamente modificato dopo lo scontro post nucleare, amante del bel canto. "Whisper Campaign" vede la partecipazione della musa Yoshiko Ohara (Yoshiko Ohara, Bloody Panda, etc...) che aumenta "l'infernalità" e la disperazione del brano precedente con una grazia eterea e disarmante venuta alla luce dalle viscere più profonde della Terra. Devo ammettere che in questi due brani c'è un affondo musicale che eleva i Tovarish verso l'olimpo degli ibridi tra jazz sperimentale più estremo e funeral drone più radicale. Due brani davvero speciali. Il dramma continua per circa quarantacinque minuti di nebbia fumosa, tra palazzi caduti e bunker desolati, il canto quasi black metal di "Call of the Kurck" e la speranzosa malinconia di "Urca Major" mi spingono verso la successiva travagliata "Dyatlov Pass" ed il suo estremo black metal minimale. Le ultime due tracce si chiudono tra voci provate di una radio che cerca di spiegare l'accaduto ai pochi sopravvissuti, facendosi spazio tra gli ultimi retaggi ambient/industrial/noise che delineano il finire di questo viaggio in un paese morto, senza più vita. Alla fine, tirando le somme, 'This Terrible Burden', uscito per la Argonauta Records in questo torrido 2015, si presenta con tutta la sua potenza e la sua particolarità, adatto ad un pubblico di nicchia e volonterosi ricercatori di novità estreme, amanti di Bloody Panda, gli ultimi lavori di Alos?, Teeth of Lions Rule the Divine, Khanate e gli immancabili Sunn O))). Buon viaggio nell'incubo post atomico dei Tovarish! (Bob Stoner)

(Argonauta Records - 2015)
Voto: 80

https://www.facebook.com/Tovarishband

sabato 4 luglio 2015

3 Days of Silence - Sodium/Sulfur

#PER CHI AMA: Black Industrial Sperimentale
Lo dico da un po’ di tempo che in Svizzera c’è un sottobosco che brulica e non poco, facendo emergere diverse band dai caratteri davvero interessanti. Complice la presenza di due etichette emergenti, la Hummus Records e la Czar of Crickets, ma anche grazie ad una sempre più fiorente scena metal. I 3 Days of Silence si formano nel 2012 nei dintorni di Ginevra, dopo una serie di pregresse esperienze con Xicon e The Nightshade, e solo a fine 2014 escono autoprodotti con questo intrigante ‘Sodium/Sulfur’. La spiegazione del mio “intrigante” la si ritrova immediatamente nei contorni industrial trip-hop della opening track del side A di ‘Sodium’, “Mortality/Normality”, che trova il solo punto di contatto col black, nello screaming ferino di AsCl3, che affianca quello di una soave fanciulla. Per il resto potrebbe essere tranquillamente una qualsiasi delle band della scena di Bristol a suonare, muovendosi tra elettronica e bassi trip-hop, in un ipotetico mix tra Portishead e Massive Attack. Elettronica che torna decisa anche nella successiva “Ask the Dust”, dove anche le vocals maschili vanno ad emulare quelle dei gods inglesi e in cui la definizione metal va quasi totalmente a estinguersi per abbracciare un sound più votato alla sperimentazione. Un pianoforte apre “Consolation”, un’altra traccia che travalica il concetto di metal: suadenti, melodici, visionari, sperimentali sono solo alcune tra le parole da spendere per descrivere il sound dei 3 Days of Silence. Giro lato, e il side B del vinile (‘Sulfur’ che verosimilmente dovrebbe evocarmi l’atmosfera sulfurea dell’inferno) mi presenta uno scenario alquanto inatteso, ossia la furia iconoclasta di “Na-tural S-tate” che prende nettamente le distanze da quanto ascoltato fino ad ora. Sinceramente frastornato da questo cambio di rotta, l’unico punto di contatto col side A è rappresentato dall’utilizzo di qualche sampling e da tastiere atmosferiche. “Verwüstung” è un ferale attacco black, sferrato a velocità disumana, che solo sul finire torna a rinverdire ipnotici fasti trip-hop. Ormai è chiaro, il secondo lato di questo disco si pone in netta contrapposizione alla verve sperimentale di ‘Sodium” e così anche “S.W. MMVII” si muove sul versante estremo, palesando comunque singolari melodie di sottofondo che confluiscono nell’esplosione finale di “White Birds”, song selvaggia ma comunque dai tratti cibernetici. I 3 Days of SIlence alla fine mi convincono appieno, qualunque sia la direzione dove il trio ginevrino si sta dirigendo. Aiutati poi da una folte schiera di amici (Blutmond, Near Death Condition e Code), ‘Sodium/Sulfur’ si presenta come un accattivante album d’esordio che mi obbliga fin d’ora a tenere monitorate le sorti di questo combo elvetico. (Francesco Scarci)

Khaossos - Kuolonkuu

#PER CHI AMA: Black Old School, Burzum
I Khaossos li abbiamo già incontrati sul finire del 2014, quando tra le nostre grinfie finì 'Eksistentialismi', EP dedito a un oscuro black old school che positivamente colpì il nostro Bob. Ora, a distanza di qualche mese, mi ritrovo fra le mani (ma solo virtualmente, vista la natura digitale della release) 'Kuolonkuu', il full length di debutto del combo di Uusimaa. Sei i brani a disposizione per provare a sedurre anche il sottoscritto, di manica decisamente più stretta rispetto al collega che precedentemente recensì la one man band finlandese. Dopo la spettrale overture, l'album si affida all'incedere ossessivo, tagliente e minimalista di "Sokeus", una lunga traccia, che nei suoi oltre nove minuti, mai accenna ad una accelerazione o a una sfuriata che ne modifichi la sua desolante dinamica esistenziale. Spoglio, diceva bene Bob; è difatti la parola che meglio si addice per delineare l'essenza tormentata di questo eremita del black metal. La terza "Harhainen" è un altro lungo brano in cui si scorge una vena folklorica che fino ad ora era rimasta nell'ombra della litanica proposta del factotum finnico. Difficile cogliere però il benchè minimo barlume di speranza dall'ascolto di questo disco, che tra le proprie influenze racchiude senza ombra di dubbio i Burzum più tetri ed essenziali, complice quella monotonia intrinseca racchiusa nelle linee di chitarra. Il registro non cambia poi di molto anche in "Polkuni Vailla Suuntaa", asfissiante e deprimente, il brano prova a cambiare registro ed inoltrarsi, con le sue ancestrali tastiere, nelle maglie di un black più atmosferico. Con la title track, il buon Kval prosegue la sua missione di saturazione di anima e mente, spingendo gli ascoltatori sull'orlo del precipizio del suicidal black, prima di dare la letale spallata finale; del lotto è la song che preferisco, forse anche la più varia, visto il break acustico centrale. 'Kuolonkuu' l'avrete intuito, non è tra gli album più semplici da digerire, quindi servirà tutta la vostra attenzione e ispirazione, per trarre giovamento dalle note informi di questo maledetto artista, che con la breve "Toisella Puolen" chiude definitivamente le porte dell'inferno. (Francesco Scarci)

Dustskill - Closing Circles

#FOR FANS OF: Melodic Death Metal, early In Flames and Dark Tranquillity
The debut EP from these German Melodic Death Metallers tends to go along pretty familiar routes here that can make this band appear pretty much stagnant and derivative. Whereas the majority of the bands of this style tend to play deep, heavy Death Metal bristling with melodic notes and accents, instead this group is more into the modern stance of the scene with plenty of mid-tempo or slower chugging patterns that offer breakdown-style riffing complete with twists between clean and growled vocals that suggest melody throughout but don’t really suggest a lot of actual Death Metal in their roots. This is due to the stripped-down, mechanical approach to the music here without much to really lay into the more aggressive side of their sound, which is without question the early-90s Gothenburg forbearers to this general scene. Those mid-tempo moments here are just too strongly rooted here to let that take hold, for while this does a more admirable job at establishing itself in the deathlier realms that the Metalcore crop that also emerged from said scene utilizing the same formulas, it just can’t get that solemn, melancholy feel to really let loose here which results in enjoyable if not exactly demanding work throughout here. Instrumental intro ‘The Circle Closes’ gets this started with a series of electronic bleeps and building tension that leads into proper first track ‘Here Comes the Fire’ really offers a lot of that great work with choppy drumming grooves, tight chugging and a gorgeous sense of melodic framework with the clean vocals mixed alongside the deep growls for an impressive first offering. ‘Restless Will’ offers a more traditional Death Metal assault here with the pounding kick-drumming, deep chugging and melodic surges that offer the best hints here of their overall future approach with a solid semblance of attack here, and sticks out as the best track accordingly, while ‘Broken Blockade’ features a slightly less up-tempo variation with far more frantic blasting drum-work amid the gorgeous melodic chugging intertwined throughout the final half for the album’s best two tracks. ‘Burning Dust’ goes for a more technical approach to the standard Gothenburg mindset throughout the vast majority here as the pounding drumming and charging riff patterns that are trying to eke out here are awash in melodic rhythms and tight chugging for an enjoyable if not exactly stand-out effort. ‘The Hundredth One’ turns towards mid-tempo chugging with a few scattered blastbeats among it’s more restrained and melodic moments are mixed alongside that slow, mid-tempo melodic chug that makes this another enjoyable if not spectacular offering. Lastly, ‘Rusty Skin’ again keeps the melodic mid-tempo chug at the forefront but not even at that previous one’s speeds which get close with a series of sharp rhythm-work throughout but the melodic keyboards and chug-based patterns keep this from really racing along and tends to end this on a down-note. Overall, this one isn’t all that bad but doesn’t really stand-out in the crowded scene as it is. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 65

https://www.facebook.com/dustskill

The Pit Tips

Kent

Mitochondrion - Archaeaon
Ad Nauseam - Nihil Quam Vacuitas Ordinatum Est
Samothrace - Life's Trade

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Larry Best

Dendera - Pillars of Creation
Luca Turilli's Rhapsody - Prometheus
Helloween - My God-Given Right

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Claudio Catena

Faith no More - Sol Invictus
Testament - Dark Roots of Thrash
Alice in Chains - Facelift

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Francesco Scarci

Dekadent - Veritas
Vola - Inmazes
Naïve - Altra

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Yener Ozturk

Amenra - Mass III
Crowbar - Symmetry in Black
Sodom - In War and Pieces

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Don Anelli

Chaos Synopsis - Seasons of Red
Reanimator - Horns Up
Dustskill - Closing Circles

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Roberto Alba

Amestigon - Thier
Abyssion - Luonnon Harmonia Ja Vihreä Liekki
Urfaust - Apparitions

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Stefano Bissoli

The Troggs - Wild Things
Beastie Boys - Check Your Head
C'mon Tigre - C'mon Tigre

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Stefano Torregrossa

Goatsnake: Black Age Blues
Stoned Jesus: First Communion
Glowsun: The Sundering

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Bob Stoner

It's Not Night: It's Space - Bowing Not Knowing to What
Shrine of the Serpent - Shrine of the Serpent
Paradise Lost - The Plague Within

RTC - So Close So Far

#PER CHI AMA: Hardcore/Metalcore
Gli RTC (acronimo per Ready to Crumble) nascono nel 2011 nella Svizzera italiana, raccogliendo membri da alcune formazioni hardcore ticinesi e debuttano con un EP nel 2013. Dall'EP al disco d'esordio il passo è breve e nel 2014 vede la luce questo 'So Close So Far', 31 minuti di musica divisi in 10 tracce comprendenti anche un “Intermezzo” strumentale (ed è proprio “Intermezzo” il titolo del brano). Come sempre sarò molto sincero, a costo di essere perfino greve nelle mie valutazioni; ho sempre odiato il genere proposto dal quartetto svizzero, ma tant'è...premetto che mi sono accostato all'ascolto senza preconcetti e cercando di ascoltare più volte il disco, anche se non sempre è stato facile arrivare alla fine dei 31 minuti. La band propone un metalcore (chiamamolo cosi', va tanto di moda...) miscelato con elementi che arrivano dritti dritti dall'HC più classico, una voce che a volte si cimenta nel growl di chiara estrazione death, chitarre saturate tipo swedish anni '90 ed una produzione molto grezza, quasi da demo. Le canzoni scorrono, i minuti passano, ma veramente poche cose risultano degne di nota. I ragazzi sono degli ottimi esecutori, suonano bene e picchiano duro, ma le canzoni lasciano a desiderare. Tutte molto simili, senza picchi, abbastanze “piatte” e per quanto riguarda quest'aspetto, la produzione scelta non li ha di certo aiutati: chitarre troppo piene di bassi, che vanno ad “impallare” gli altri strumenti. Una produzione di questo tipo me la aspetto dagli Entombed, dai Dismember...ma questi gruppi hanno scritto la storia dello swedish death e quindi rispetto assoluto. Sono sicuro che nel caso degli RTC, con dei suoni meglio centrati, le composizioni ne avrebbero goduto, anche oltre che le orecchie. Comunque, dopo diversi ascolti, se la situazione non migliora vuol dire che difficilmente questo lavoro uscirà dal guado dei “solo discreti” della mia discografia. Qualche riff in più, un po' di monoliticità in meno (figlia probabilmente del ricercare il “peso” a tutti i costi, porta quasi sempre a rendere monotono il tutto, ammazzando anche le più semplici variazioni melodiche). Essendo io stesso un musicista, so che sicuramente gli RTC ci avranno messo l'anima nel comporre e produrre questo CD, ed infatti qualcosa che mi è piaciuto l'ho trovato sul serio: “Hero” e la conclusiva “Again, Again” sono due bei pezzi, che riescono a strappare la sufficienza in extremis. Una volta venivano chiamati “esami di riparazione”, ecco, aspetterò gli RTC al varco col prossimo lavoro; quando durante l'appello chiamerò il loro nome, mi aspetto di trovarli pronti, impavidi e coscienti delle proprie capacità. Possibilmente con un ottimo CD da presentare. Per ora, purtroppo, un occasione persa. (Claudio Catena)

(Jetglow Recordings - 2015)
Voto: 60

https://www.facebook.com/pages/RTC

venerdì 3 luglio 2015

Ossiyan - Hardrada

#FOR FANS OF: Heavy Doom
Receiving a pile of promo CDs to review is always a messy affair - lots of plastic sleeves strewn with prototype logos and not much else. However, in my most recent bundle, one beautifully packaged CD juts out from the rest. The artwork is utterly stunning, the band's logo is proudly adorned in a noble font, and the track-titles all sound elegant and grandiose. London's Ossiyan mean business, and their debut LP 'Hardrada' is nothing if not grandiose...and heavy as fuck. Describing themselves as 'valiant doom' was a smart move. Bearing this description in mind, and gazing at the truly fantastic cover art, will prepare the atmosphere appropriately for these up-and-coming doomsters to crush your skull. In a nutshell, the music on 'Hardrada' can be described as the Melvins receiving an informative lecture on vikings, led by Crowbar. The menacing whispers and dynamics of the former fuse happily with the down-tuned crushing sludge of the latter. Vocalist A. Wisbey even bears resemblance to King Buzzo at certain points; mainly during the quieter spoken sections - but even more so in the first verse of "Parting of the Seas". The concept behind this album is certainly unique, especially for an English band. Focusing on one particular historical event: the invasion of Stamford bridge by the vikings, led by Hardrada, who were crushed by the English - thus ending the reign of the vikings. The storytelling aspect of the music is well-executed through their use of contrasting dynamics and suitable lyrics. The introductory title-track is the perfect gateway to the rest of the album. Its gradual crescendo is expertly handled. The climax, where it finally explodes into pure doom metal goodness, is so satisfying! "Parting of the Seas" is a masterpiece, plain and simple. A. Wisbey's guttural, yet semi-melodic, growls are truly viking-esque, especially when his screams become desperate and emotive - magic stuff! O. Isaac's guitar tone is fat and meaty, and he certainly has no shortage of riffs! The opening riff to "Parting of the Seas" is grand and regal, and the closing riff of "War Weary" is my riff of the year so far - 'heavy' is too mild a word for it! J. Butler's bass carries some serious weight and is a delight to listen to. Unfortunately, M. Shankey's drums deflate the sound a little - the snare is far too dry and the whole kit is lacking reverb. A shame, considering his performance is more than admirable. Although the album tends to lose a sense of direction at its heart, the whole endeavour is refreshingly brief - letting it tell what it needs to and move on before any stagnation takes hold. The finale of "...And To Valhalla We Ride" is simultaneously melancholic and bombastic. Its closing chords seem to pound away with a sense of triumphant valour and mournful sorrow. I greatly anticipate more material from these newcomers, for if 'Hardrada' is any sign of things to come - it could signal the start of an English doom metal uprising. Much like Winterfylleth and their black metal cohorts. Make it happen, lads! (Larry Best)

(Self - 2015)
Score: 85

Die Like Gentlemen - Five Easy Lies

#PER CHI AMA: Sludge Doom/Stoner
Che stoner e sludge siano generi particolarmente di moda (almeno da quando gli ultimi Queens Of The Stoneage e Mastodon li hanno fatti conoscere al mondo, facendo inorridire i puristi) è un dato di fatto: per questo motivo sono sempre scettico di fronte a nuovi lavori di questo tipo. Scetticismo che però scompare al primo ascolto di questo secondo lavoro del quartetto di Portland dei Die Like Gentlemen, capaci di prendere il meglio del genere e mescolarlo in modo inedito e davvero figo. Poco più di mezz’ora di ascolto per cinque brani: 'Five Easy Lies' è un lavoro veloce ma sempre tirato, potente, denso di idee, riff spaccacollo e un’attitudine per il groove davvero invidiabile. Dentro ci sono tutti i migliori riferimenti del genere: il songwriting dei Black Sabbath, i suoni e le idee folli dei Melvins; ma ci sono anche atmosfere più progressive, sonorità doom e, in generale, quella sensazione da costante pugno-in-faccia a volume esagerato che, ne sono certo, farà dei Die Like Gentlemen una macchina da guerra in sede live. Se la opening “Unstoppable”, tolta la veloce intro iniziale, è giocata in continua tensione tra la violenza tirata delle chitarre e una parte di basso-batteria che ricorda certi Tool, “Ahriss The Wizard” alza il tiro per portarsi su atmosfere più doom rette dall’ottimo lavoro di basso e chitarre, a sfornare un riff portante che difficilmente dimenticherete. In “Animals of Romance” la tensione aumenta: c’è meno rabbia si, ma molta più inquietudine grazie al tempo sincopato e la voce cantilenante, che presto evolvono in un’architettura doom-prog, fino a chiudere con una curatissima ninna-nanna semi-acustica. “Stray Demon” è il capitolo più stoner-rock di 'Five Easy Lies' – se non fate headbanging sul riff di apertura, non avete capito niente di musica: solido, diretto, senza fronzoli, è il brano più corto e immediato del disco. Chiude “Hidden Switch” che, dopo il lento crescendo iniziale, si sposta su coordinate sludge-metal più classiche, con lunghi assoli ed epici passaggi sui timpani della batteria. 'Five Easy Lies' alla fine è un disco che lascia molto spazio agli strumenti, pur potendo contare su una voce di grandissimo spessore e pregio. Adam Alexander fa infatti un lavoro eccellente dietro al microfono: ricorda a tratti il miglior Neil Fellon dei Clutch, ma con una capacità di destreggiarsi tra limpide voci urlate e potenti ruggiti gutturali metal che danno colore e profondità ad ogni brano. Un piccolo capolavoro, supportato da una produzione più che egregia (erano mesi che non sentivo un basso così pesante, presente e distorto), una sola cosa non capisco, ossia perché i Die Like Gentlemen non abbiano già un’etichetta a promuoverli in tutto il mondo. Nell’attesa, però, non fatevi scappare questo ottimo lavoro. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2015)
Voto: 80