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domenica 18 maggio 2014

Solitary Crusade - Future

#PER CHI AMA: Cyber Death/Power, The Kovenat, Scar Symmetry
C'eravamo lasciati con Eric Castiglia e il suo progetto solista nell'aprile 2012, quando recensii 'The End Of Our Days', poi il silenzio. Da allora sono cambiate un po' di cosine: il musicista romagnolo ha lasciato infatti la sua vecchia band, i Sedna, e ha dato un nome al suo progetto, Solitary Crusade. Ha preso quindi forma la sua creatura e con essa anche il primo EP, 'Future'. Il platter si apre con l'intro cibernetico di "A New Beginning", che sembra voler celebrare un nuovo inizio nella carriera musicale di Eric. Poi ecco "Cold Water", in cui la voce robotica di una donna si pone in sottofondo ad un suono moderno, che vedremo esser capace di miscelare un death metal carico di groove, con l'elettronica e l'heavy metal, più altre trovate che sembrano ispirarsi ad act quali Faith No More o Dog Fashion Disco, senza dimenticare l'insuperabile Devin Townsend. Quindi accanto a delle chitarre belle ruspanti, non stupitevi di trovare divertenti scale ritmiche, ritornelli ruffiani o chorus che strizzano l'occhiolino a Mike Patton e soci. Tutto questo non può che farmi piacere, in quanto riuscirà a catalizzare la mia attenzione con una imprevedibilità di fondo pregevole. Le vocals di Eric sono abili nel districarsi tra la modalità pulita e quella growl, evidenziando l'ecletismo vocale del mastermind di Cesena, anche quando si diletta in tonalità più propriamente power (che sinceramente eliminerei). In "Imaginary World" fa la sua apparizione, in veste di ospite, Valeriano De Zordo vocalist dei Fire Lips e qui iniziano i dolori a livello di clean vocals, fastidiose e fuori posto. Il riffing possente conferma invece la passione di Eric per i Meshuggah, ma anche la sua voglia di sperimentare con un cyber sound che sembra rievocare i Fear Factory del periodo centrale ma anche i norvegesi The Kovenant. Niente male gli arrangiamenti, anche se tremendamente artificiali, che aiutano a rendere più pomposa la proposta dei Solitary Crusade, mentre da rivedere forzatamente il suono della batteria, molto spesso completamente slegato dalle chitarre. Con la malinconica "Black Clouds" ci addentriamo in territori più vicini ai Tool, con le voci che si sforzano a trovare un'identità ben più delineata e la voce più darkeggiante sembrebbe quella vincente, mentre da scartare quella power. La seconda metà del brano sembra cedere invece a divagazioni electro industrial, un po' scontate e banali. A concludere l'EP ci pensa la title track, la song più death metal oriented, la più tirata del lotto ma anche quella di certo meno memorabile, che lascia aperti alcuni interrogativi sulla direzione musicale che il buon Eric avrà intenzione di intraprendere. Insomma 'Future' è un discreto inizio da cui ripartire, auspicando nella sgrezzatura di alcune problematiche di fondo che il buon Eric sarà certamente in grado di smussare. (Francesco Scarci)

A Sense of Gravity - Travail

#PER CHI AMA: Death Progressive, Cynic, Meshuggah, Opeth
L'underground pullula sempre più di band fenomenali che riescono a malapena a farsi notare anche in circuiti underground come bandcamp o reverbnation. Non pare essere il caso dei A Sense of Gravity, cervellotica band statunitense, che dopo aver studiato a memoria la lezione di act quali Meshuggah, Cynic e ultimi Opeth, ha riadattato il tutto con personalità, proponendo un sound raffinato dall'inebriante gusto melodico. Ecco nascere 'Travail', meraviglioso debut (già sold out) di questo ensemble di Seattle, di cui sentiremo parlare in futuro, ne sono certo. Dieci tracce che decollano immediatamente con il corale inizio di "Wraith" e i suoi suggestivi arpeggi da cui irromperà il bombastico sound delle tre acrobatiche chitarre di David McDaniel, Brendon Williams e Brandon Morris (anche favoloso tastierista), che tracciano matematici riffs (se pensate anche ai Between the Buried and Me siete sulla strada giusta), irrobustiti dalla performance impeccabile alle pelli di Peter Breene. A completare il quadro, vorrei citare Chance Unterseher al basso e l'eclettico vocalist, C.J. Jenkins. Tracciato l'identikit del combo americano, potrei dilungarmi nel celebrare le qualità tecnico compositive dei nostri, ma mi limiterò solo a darvi qualche dritta e a farvi venire un po' di acquolina in bocca per spingervi a rimediare una copia di questa release, che sia in formato fisico o digitale, come preferite. La prima traccia sintetizza in maniera perfetta il sound delle tre band sopra citate, anche se sarebbe riduttivo limitare le influenze dei A Sense of Gravity a quelle sole. La seconda "Stormborn" si mette in luce per le ottime vocals (scream, growl, power e clean) ma anche per una tempesta ritmica, caratterizzata da gustose melodie su cui si impiantano deliranti riffs e blast beat da urlo; come non citare anche l'intermezzo pianistico e quel fantastico assolo prog conclusivo? Difficile trovare qualcosa che non funzioni in questo lavoro, grazie all'intensità delle sue tracce che potranno piacere agli amanti della musica metal a 360°: linee polifoniche prog suonano seguendo i dettami di scuola Meshuggah, andando addirittura oltre i gods svedesi. Divagazioni progressive, fraseggi jazz, i suoni djent, la perizia del techno death, l'aggressività dello speed, e la storia dell'heavy classico si amalgamano in modo assolutamente perfetto nel flusso dirompente di 'Travail', sfoderando una dopo l'altra, delle piccole perle musicali. Vibrante la malinconica e strumentale "Trichotillomania", vero esercizio di tecnica sopraffina, in cui Dream Theater e Gordian Knot si incontrano per una jam session da panico. "Harbringer" è una bella cavalcata death metal di cui vorrei citare la sezione solistica; mostruosa poi la psichedelica "Ration Reality" (il mio pezzo preferito) che si muove tra sonorità meshugghiane e di matrice Cynic, con le vocals ottime tra il dimenarsi tra forme estreme e altre più heavy oriented. Ultima citazione per "Weaving Memories", dark song di grande spessore ed eleganza, che palesa un'eccellente componente vocale e le sue chitarre sciorinano riffs che potrebbero ritrovarsi in grandi album di un passato glorioso. Che altro dire per convincervi della proposta dei A Sense of Gravity, non indugiate ulteriormente e procuratevi 'Travail'. (Francesco Scarci)

sabato 17 maggio 2014

Whales and Aurora - Whales and Aurora EP

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna
Dopo aver ascoltato questo EP di due pezzi dei vicentini Whales and Aurora, vecchia conoscenza del Pozzo dei Dannati, l'unica cosa che mi viene da chiedermi è come sia possibile una tiratura limitata a 66,6 copie. Mi è andata di culo se fra le mani non mi sono ritrovato un cd storpio, privo di un pezzo; mah, tutta colpa del marketing. Certo, fossero i nostri una band black satanista ci poteva anche stare questa trovata, ma trattandosi di sludge/post metal, e, essendo il contenuto assai interessante, ci si poteva spingere anche a 100 copie. Ma si sa che in tempi di magra ci si deve accontentare, e in questo caso ancor di più, visti i soli due brani che compongono questo EP omonimo. Faccio allora partire "Haunted by Coyotes", song dall'incedere ossessivo, colpa di una sorta di loop doomish contrappuntato da sonorità southern che cresce pian piano in modo vorticoso per esplodere finalmente al minuto 3:30 (un po' troppo tardi considerata la sua durata di poco più di 5 minuti). La proposta del combo veneto torna a solcare i mari del post metal cosi come fatto nella precedente release, seguendo un po' le dinamiche di act quali Cult of Luna o Isis. Solite vocals al vetriolo completano il finale tempestoso. Un altro incipit ipnotico ci introduce "Albatros", song di quasi nove minuti che si dispiega tra oniriche sonorità post rock, che sembrano delineare il nuovo percorso musicale per il 5-piece italico: raffinate atmosfere si alternano ad ambientazioni soffuse, delicate e progressive in cui è soprattutto la componente malinconica, affrescata dalle linee melodiche delle sue chitarre, a rimanere impressa nella mia testa. Dopo una lunga interminabile intro, i nostri riprendono con il loro sound che sembra aver perso parte della primordiale ruvidità a favore di sonorità più psichedeliche, quasi shoegaze. Non ci sono ancora vocals ruffiane in stile Alcest sia chiaro, però la musica dei Whales and Aurora si mostra più accessibile che in passato. L'EP termina qui, al minuto 14:09 e mi rendo conto che l'antipasto è si succulento, ma anche assai scarsino. Auspico pertanto l'uscita quanto prima del nuovo full length e altre due chiacchiere in compagnia dei nostri, nello studio del Pozzo dei Dannati. (Francesco Scarci)

(Red Sound Records - 2014)
Voto: 70

http://whalesandaurora.bandcamp.com/

Ancient Ascendant – Echoes and Cinder

#FOR FANS OF: Black/Death, Bolt Thrower
This band’s name clearly places them toward the earliest positioning in the category of extreme metal: which is either a brilliant marketing move, or serendipitous luck. That having been said, Ancient Ascendant demonstrates some real musical chops: using Pantera-like grooves in the guitar rhythms, they don’t find it necessary to lean on the common technique of using slowly ascending patterns of rapidly double-picked single guitar notes to build tension in the music, nor do they need to rely on the indulgent solos of high-speed neo-classical sweeps along the lines of Yngwie or the finger gymnastics of Petrucci. Rather — where evident— guitar solos and bass runs are simple and melodic, yet soulful. There is a lot of ‘light and shade’ in the songs on this release, as compared to the brief soft break found in Arch Enemy’s “My Apocalypse” around roughly 2:40 into the track, as a point of comparison. I found four of the seven tracks on 'Echoes and Cinder' to be of particular note. The leading track, “Crones to the Flames”, which opens with a standard percussive dark metal a capella vocal growl-shout, caught my attention by its title. More poetic than the hysteric "Burn the Witch", the opening chord is mildly reminiscent of Sekshun 8’s "Black Winged Butterfly". I can’t help but wonder if the title of this track was somehow inspired by the Wiccan trinity of Maiden, Mother, Crone. “Patterns of Bane”, the second track on this release, demonstrates an unusual sense of dynamics for extreme metal: opening with a finger picked diminished chord — as drum accents and bass pedal-like tones shortly join in, followed by power-chord and drum roll accents, which leads us to expect the full-bore heavy part immediately next. But, no — it turns out to be essentially a deceptive cadence, as we are returned to a now-modulated finger picked chord, as a controlled-feedback fade-in leads us into a heavy, groove-oriented rhythm guitar over the top of it, with chord inversions and augmentations reminiscent of George Lynch (Dokken, Lynch Mob). The musicianship evident here far exceeds that provided by seminal bands of the genre such as Venom and Slayer, and partly harkens back to Ozzy-era Black Sabbath, echoing "Don't Start (Too Late)", the instrumental guitar intro to "Symptom of the Universe" from the 'Sabotage' album. Yet it goes a step further — as Tony Iommi would often write and record full song softer instrumentals, such as "Laguna Sunrise" from 'Volume 4' and "Embryo" from 'Master of Reality', or softer works with vocals like "Planet Caravan" from Paranoid, and "Solitude" from 'Master of Reality'. It wasn't until the beginning of the Dio era, where we began to hear these parts becoming more integral to their songs, such as the opening/verse of "Children of the Sea" and the ending of "Heaven and Hell", both from the album 'Heaven and Hell'. In "Patterns of Bane" Ancient Ascendant takes the haunting feel of early Iommi guitar instrumentals, merges it with later post-Ozzy Sabbath guitar interludes, and uses it as a recurring bridge in the song, varying both feel and tempo throughout — making this song essentially a powerhouse of progressive-tech death metal, seamlessly merging the best elements of all in a song that draws its power equally from both the genre elements it utilizes, along with intelligent song construction and superior execution in performance and recording. The third track, “Riders” [of Woe] starts as de rigeur thrash replete with blast beat. In the middle of the bridge/breakdown at about 1:42-1:43 we hear a classic blues rock riff harmonized in fourths ending the part. At approximately 2:56, a soulful, expessive guitar solo comes in (save for the last dissonant note) a refreshing change from the high speed atonal riffery we hear in seminal bands such as Slayer courtesy of Kerry King. In the refrain, the drummer demonstrates his stamina backing up the guitars and vocals with rolling double-kicks — admittedly it's not as overdone here as it is in every song by Dragonforce: but a much more dynamic and effective use of this drum technique is demonstrated by Tommy Aldridge in the opening for Ozzy Osbourne's "Over the Mountain". Double-bass should be used sparingly for accent and dramatic effect. Otherwise, it just becomes background thumpa-thud machine-gun droning, detracting from the song. Lastly, “Embers”, is in this reviewer’s opinion easily the best song found here. It is a beautifully dark instrumental, powerfully evocative of loneliness and struggle. Against a background of gentle sounds like that of a dying fire burning inside a cave, the song begins with a finger-picked nylon-stringed acoustic, as a strumming steel-string shortly joins in. Shortly thereafter also do tambourine and bass guitar. The mix builds as a piano/bass break leads into classical acoustic guitar resounding and haunting with steely ringing strums as accompaniment. Soft mallet percussion joins in slowly like bongos. Diminished chord arpeggios — a blend of soft melodies and bright chording — swell into synth strings and vocals, as drums join in — softly but insistently building up to a swift gallop which alludes to the mysteries of the Far East. A crescendo builds into a profound swirl of sound, as we return to the lonely guitars still singing their song of woe, echoing the earlier sadness of the pianoforte's melody. Picture yourself staring into the softly crackling fire, the only light and heat available. You reflect on your past, present and future — perhaps recklessly immersing yourself fully in all three facets of this never-ending now. You lose your mind and soul to the timelessness of the flame — until it dies and you are finally released back to an uncertain and foreboding present. Even though I only truly connected with about half the songs here, those songs are powerful examples of the craft, power and emotion these musicians are capable of. 'Echoes and Cinder' is highly recommended for newcomers to extreme metal, as well as for current fans of progressive metal, who may tend to like their music just a little bit darker than standard prog-metal fare. (Bob Szekely)

(Candlelight Records - 2014)
Score: 90

https://www.facebook.com/ancientascendant

Destroying Divinity - Dark Future

BACK IN TIME:
#FOR FANS OF: Death Metal, Immolation, Morbid Angel, Sinister
A growing trend in the Czech Republic is to play early Morbid Angel/Immolation style death metal with doses of extreme creativity and uniqueness, which is what’s continued here in the third release from veterans Destroying Divinity. The third album in their decade-long career, delivered after a six-year layoff between releases, carries along their traditional stamp of quality, old-school Death Metal with their exuberant mix of both Morbid Angel and Immolation, namely the way Morbid Angel thrashes away with their technical-based rhythms while invoking the atmosphere and sense of dread in the imagery the way Immolation made a career out of, thusly delivering raging, up-tempo riffs with a slight technical bombast into brutal, tight formations that definitely offer up more of a sense of darkness and intensity than anything either band has done yet. Alongside such tight, intense tracks, the veteran sense of knowing when to throw in a melodic line or lead-work is mixed in, putting this in a rather fine league where it blasts away furiously before injecting a slower tempo or augmenting the intensity with a lighter mood through sparring use of a melodic tempo. Surprisingly, this results in somewhat bouncy and energetic rhythms than what would normally be considered in such a genre as befits such a scene here, as the typical impetus is to just blast away with reckless abandon and scald all those who stand in the way, whereas here those get distracted by the melodic tones before getting scalded into oblivion and, it generates a lot more favorable response when it doesn’t employ this every track through as the sporadic use makes it’s surprise appearance all the more fruitful and the devastating impact of the blistering drumming and raging, brutal guitar riffs seem all the more impactful. As a side bonus, the impact against the brutal, deep gorilla growls that populate this one makes the melody more striking against such straight-laced and intense brutality. Intro "To Live in the Gloom of Beyond" starts off with blisteringly brutal drumming and raging rhythms across bouncy guitar riffs, dynamic tempo variations and that swamp-ridden atmosphere so famous in the early MA catalog, just with those extra-deep gorilla growls courtesy of the Sinister influence and certainly sets things off on the right path. Follow-up "At War with Two Worlds" carries forth through a bigger blasting drum-attack and technical riff-work that remains one of the most ferocious and vicious on the album with its’ scathing intensity and eerie soloing that recalls its forbearers quite nicely as it slows down into a series of softer, melancholy melodies that show a far greater attention to songwriting craft than most really get credit for. "Birth of a Faceless Killer" carries on the melodic intro before turning into a typical intense raging track, while "Putrid Stench of Past" is more in line with the typically-intense work before it shows the melodies along the solo section. Ironically, it’s the straightforward and relentless "Undead in the Darkness" that scores the most here with its barbaric blasting, lack of subtlety in the riffing and reluctance to incorporate those melodic interludes and returns to the straight-up formula they work so well with here. That it leads into the blistering, intense "Cult" with the bouncy rhythms at work among the intensity makes it even more of a stand-out. That it ends with an epic near-seven-minute blast of scathing death metal is the capper on one of the most undervalued, overlooked bands in the scene and really doesn’t do a whole lot wrong beyond recycle a lot of the same riffing patterns and rhythms throughout. (Don Anelli)

(Lavadome Productions - 2010)
Score: 90

https://www.facebook.com/DestroyingDivinity

The Howling Void - Nightfall

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Registrato nell'ottobre 2013 e licenziato dalla Solitude Productions nello stesso anno, questo lavoro infinito della one man band texana The Howling Void, raggiunge per antonomasia il punto più estremo di una musica esageratamente dilatata e maestosa, figlia legittima del più sinfonico e solenne funeral doom. Esasperando le rotte del precedente 'The Womb Beyond the World', la mente di R., l'artefice di tale colosso sonoro, sfata ogni minimo dubbio sul suo intento sonoro fatto di solitudine, suoni rallentatissimi, sospensioni auree e amare melodie funebri ricche di malinconia e infinito. Canzoni lunghissime e proiettate tutte sulla falsariga dei canoni del genere, nessuna deviazione sonora, drone e synth infiniti, chitarre dall'incedere lentissimo, un lungo, infinito viaggio alla ricerca di un destino in cui credere, suoni cristallini e profondi, dalle melodie eterne, intrise di superba magia oscura. Intenso ed enorme è il sound proposto dal nostro mastermind, da cui è difficile estrapolarne le tracce migliori; sicuramente è da consigliare l'ascolto totale del cd in una full immersion ai confini dell'ignoto. Questo lavoro non è di facile presa e di certo non è per un pubblico qualunque. Avvicinarsi ad un lavoro simile ed apprezzarlo, significa aprire i propri orizzonti musicali, tralasciare ogni pregiudizio/giudizio e calarsi nella penombra sonica di questa nebbiosa foresta incantata dal fascino arcano e mistico. L'alta qualità di registrazione rende l'ascolto ancora più interessante e ipnotico. La composizione omogenea delle tracce crea un intreccio perenne di sensazioni che oscillano tra il sacro estatico e il dolore psichico, una sorta di drammatica presa di conoscenza sul crudele destino che ci aspetta. La musica del destino mummificata e resa immortale nel tempo, un salto verso l'interno di un abisso mentale che non ha fine. Partorito a rallentatore dal suono del capolavoro 'Elizium' dei Fields of the Nepnilim, uscito drammaticamente malato dal ventre di 'Serpent Egg' dei Dead Can Dance, misticamente portatore del verbo doom di scuola Evoken... ora chinatevi e mostrate il vostro rispetto a tale opera. (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2013)
Voto: 80

https://www.facebook.com/TheHowlingVoid

Final Words of Sorrow - Reflection of a Shadow

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Paradise Lost, Rotting Christ
Il nostro buon amico Mancan degli Ecnephias deve essere contento: la sua band inizia a far proseliti in giro per il mondo. I Final Words of Sorrow, che oggi mi trovo a recensire, si ispirano infatti al sound del gruppo lucano senza ovviamente tralasciare il misticismo tipico dell'"Hellenic Sound" che si ritrova nelle linee di chitarre del combo ateniese, cosi come pure si ritrovava negli esordi di Mancan e compagni. Quattro buoni pezzi che iniziano con "Cold Womb" che già a livello di linee vocali si avvicina a quanto fatto nei primi lavori degli Ecnephias, con le chitarre invece che esplorano e rivedono il sound primigenio dei vari Rotting Christ, Septic Flesh e Nightfall in Grecia, ma anche dei Paradise Lost di 'Gothic'. Ecco tracciate in pochi ma importanti nomi, le influenze più o meno palesi del quintetto di quest'oggi, che con 'Reflection of a Shadow' segna il debutto. "The Embrace (Her Winter)" è un pezzo death doom mid-tempo che trova nel suo approccio malinconico il suo punto vincente, in cui va sottolineata poi la dualistica componente vocale (le growling vocals e le ormai immancabili voci pulite, qui più in secondo piano) e un bel raddoppio nelle chitarre, soprattutto nella parte finale del pezzo. "Testament of Future Death" è la song che in assoluto prediligo: inizio lineare, lento con vocals profonde; poi un bridge che prepara all'assalto che giungerà da li a pochissimo. Un brivido di piacere, perchè ho rivissuto l'esatto momento in cui mi lasciai stregare più di vent'anni fa da 'Thy Mighty Contract' dei Rotting Christ e da quelle accelerazioni ammantate dall'aura mistica di cui tutte le composizioni di quel giovane act, erano permeate. E qui, il medesimo fremito. Arrivo alla conclusiva title track, che apre con un banalissimo arpeggio che dischiude la song probabilmente più tetra dell'EP. E ancora ossessive ritmiche doom a farla da padrona, poi la traccia si snoda tra break acustici, momenti assai atmosferici, e ritmiche imponenti. Insomma un più che discreto esordio che lascia intravedere ottime possibilità in prospettiva futura. (Francesco Scarci)

mercoledì 14 maggio 2014

Drastisch - Let Your Life Pass You By

#PER CHI AMA: Avantgarde
Sono passati 18 anni da quando incontrai l'unica volta della mia vita, Chris Buchman, mente dei Drastic: accadde ad un concerto degli Amorphis, era il 1996 e io comprai la tape 'Creator of Feelings' direttamente dal mastermind veneziano, lasciandomi ammaliare dalla sua proposta acerba ma già parecchio sperimentale. Dopo allora, con una cadenza sempre più dilatata nel tempo, uscirono 'Thieves of Kisses' nel 1998, 'Pleasureligion' col monicker di Drastique nel 2003 e dopo dieci anni, questo 'Let Your Life Pass You By' nel 2013, che ne vede stravolto ancora il nome, ora Drastisch. Non so se ci sia un concept dietro la decisione del musicista italico di cambiare nome (e genere) ad ogni release, tuttavia la vena avanguardistica della one man band rimane immutata, soprattutto se pensate che quest'ultima fatica è interamente strumentale. Poco male, so già che mi dovrò comunque aspettare delle sorprese. Sorprese che arrivano già dal digipack che ritrae mezzo volto di un inquietante clown. Poi la musica: un malinconico pattern ritmico apre "Self-Healing", song che vede una bella accelerazione black nel suo break centrale, ma il brano soffre però di un qualcosa che avevo già evidenziato in passato, ossia la mancanza di un batterista. Ne soffrirà alla fine l'intera release, ma ormai ci sono abituato e mi adeguo. Quello a cui fatico ad adeguarmi è invece la mancanza di un vocalist in un genere musicale che invece ne necessiterebbe come il pane. Pazienza, cercherò di farmene una ragione. Le song nel frattempo scorrono via veloci (nel vero senso della parola), offrendo belle melodie di fondo (la seconda metà di "My Nightmares" ad esempio), spesso accompagnate da arrangiamenti più che dignitosi, ma in altri frangenti un po' sconclusionate (la voce avrebbe sicuramente alleviato qualche pena). Nel cd poi si incontrano un po' tutte le anime che da sempre contraddistinguono il modo di suonare del factotum Buchman: sporadiche ritmiche black, dettate più dalla rigidità musicale della drum-machine piuttosto che dall'asperità delle sue chitarre; ci sono poi intermezzi ambient ("Future:Present:Past"), sperimentalismo electro e qualche roboante chitarrone simil-industrial come nell'interludio "The Unbearable Truths". Poi il disco prosegue con una cavalcata veloce verso la conclusione, come se il buon Chris avesse quasi fretta di chiudere: "Memento" è totalmente da dimenticare, mentre "When I Kiss, I Kiss Goodbye" sembra voler mostrare il lato death dei nostri prima di un inutile silenzio (già il disco dura poco, inoltre piazzare 3 minuti di nulla credo che faccia incazzare non poco) che prepara ad un'altra inutile la traccia, l'eterea "Voyage Dans la Solitude". Qualche sprazzo di luce, tante ombre, per un lavoro che non rimane certo negli annali della musica avantgarde. Forza Chris! (Francesco Scarci)

(Beyond Productions - 2013)
Voto: 60

martedì 13 maggio 2014

Fake the Face - Everything Happens for a Reason

#PER CHI AMA: Alternative/Metalcore
Oggi cambiamo genere e ci dedichiamo al metalcore/alternative/djent con una band di Macerata, i Fake the Face (FTF). Il gruppo si è formato nel 2009 e questo è il loro debut album, quindi temo già per il prossimo! La completezza del prodotto lascia di stucco: registrazione impeccabile, artwork idem e composizione musicale sopra la media. Devo dire che questi anni di lavoro sono probabilmente serviti ai FTF per affilare le lame e mettere in cantiere del buon materiale per un debutto in grande stile. Tre chitarre che lavorano come una divisione di artiglieria pesante in modo affiatato a creare un muro sonoro veloce e in continua metamorfosi si rivelano una scelta rischiosa, soprattutto se a farne le spese è l'utilizzo delle tastiere (che comunque compaiono a tratti in "Everything Happens for a Reason") che avrebbero aiutato ad aumentare le atmosfere e l'impatto sonoro. "Behind the Glass" è una traccia potente, ricca di arrangiamenti belli pesanti, con un'ottima sezione ritmica di basso/batteria che contribuisce all'eccellente riuscita della canzone.Verso la fine il brano si addolcisce, lasciando intuire la vena melodica della band che cerca di conciliarsi con il suo lato più oscuro, dimostrando la voglia dei nostri di uscire dagli schemi. Passiamo a "Callista" che, sulla scia delle tracce precedenti, introduce una linea di canto pulita ed una screamo, combinando così il nuovo con il classico. Ottimi i riff di chitarra, che si sposano bene anche con una spolverata di elettronica che non guasta mai. "Synthetic Breath" è una traccia totalmente electro, ma che personalmente avrei reso più incisiva, sfruttando maggiormente suoni e arrangiamenti, in modo da non relegarla ad un semplice brano di passaggio tra il precedente e il successivo. Quello dei FTF è un genere che non prediligo, ma è indubbio che siamo di fronte ad un gruppo che merita la vostra attenzione e che mi auspico venga notato presto da una buona label. "Everything Happens for a Reason" è un ottimo Lp frutto di ottimo musicisti con parecchio entusiasmo. Ben fatto raga! Ci sentiamo quando uscirà il prossimo album, con l'augurio che a supporto ci sia un bella etichetta. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/FTF.it

domenica 11 maggio 2014

Civil Protection - Stolen Fire

#PER CHI AMA: Post Rock, If These Trees Could Talk
Dopo varie peripezie postali, 'Stolen Fire', debut album degli inglesi Civil Protection, raggiunge finalmente la mia cassetta delle lettere. Già dai caldi colori autunnali della sua copertina, ancor di più dai suoni che con educazione si fanno largo nel mio stereo, mi abbandono ad un ascolto rilassato del cd. Una breve intro e poi le gentili melodie di "My Memories Will Be Part of the Sky" trovano immediatamente il modo di far breccia nel mio mood malinconico di questa uggiosa giornata di maggio. Si tratta di una lunga song strumentale che si muove tra sonorità ariose a la If These Trees Could Talk e altre più oscure e struggenti in stile Godspeed You! Black Emperor. Bravi, non c'è che dire, solo che il sottoscritto ritiene assolutamente indispensabile anche la presenza di un vocalist a completare un quadro musicale che altrimenti reputerei "orfano" di uno dei più importanti strumenti musicali, la voce. Presto accontentato perché con "Alaska", terza traccia della release, fa la sua comparsa dietro il microfono Adam Fielding, uno dei tre chitarristi dell'act del Yorkshire. Perché tre chitarre poi? Semplice, le stratificazioni melodiche dipinte dalle sei-corde rappresentano uno dei punti di forza del sound dei nostri. La performance di Adam completa poi il quadro alla perfezione, con la sua timbrica che trasmette grande serenità e arriva quasi a toccarmi il cuore, in una song che sembra subire anche un'influenza dei primi Radiohead. Ancora distratto dai suoni di "Alaska", nel lettore sta già girando "Many Moons Ago" e il pizzicare ammiccante delle sue chitarre mi richiama all'attenzione. Il ritmo va intensificandosi, accelera come il battito del cuore dopo una grande corsa mentre le chitarre si fanno un po' più grosse con echi di una voce lontana in sottofondo. Un breve interludio e arriviamo a "From the Parish to the Pavement", che mostra una componente elettronica infiltrarsi nel sound del quintetto inglese, ma pure il pulsare intermittente dello splendido basso di Philip Birch, in una song dinamica che trova il suo punto di rottura in un intermezzo quasi noise, per poi riprendere in un crescendo emozionale da brividi, con le vocals di Adam sempre relegate in sottofondo. Per certi versi vicini agli *Shels, per altri riconducibili ai Mogway o addirittura alle sonorità più morbide dei Tool, i Civil Protection si confermano ottimi musicisti con idee assai valide e in taluni casi molto personali. Con "Redrawn", sono Kenny Skey alle pelli e Philip al basso ad aprire le danze, dando il tempo da seguire ai tre chitarristi, che ben presto entreranno in scena: uno ritmico, l'altro con un giro ipnotico e infine il terzo a tessere una trama melodica contagiosa in una escalation musicale roboante. "Monedula" è una commovente ninna nanna, in cui ho immaginato una madre tenere in braccio e cullare il proprio figlio per la prima volta, mentre lacrime di gioia le rigano il viso. La traccia conclusiva è affidata alla title track, suadente e delicata nel suo incipit, si srotola in un cupo post rock che ancora una volta vive i suoi maggiori sussulti nelle sue accelerazioni al cardiopalma e negli intermezzi in cui i lamenti di Adam fuoriescono. Album da ascoltare tutto di un fiato per lasciarsi trasportare dal flusso catalizzante dei suoi suoni. (Francesco Scarci)

(Bunnysnot Records - 2013)
Voto: 80

http://www.anticitizen.net

Paramnesia - IV-V

#PER CHI AMA: Post Black
Non tutte le ciambelle escono con il buco. Questa breve sentenza per certificare che le uscite Ladlo Productions (che ha appena rilasciato il meraviglioso come back discografico dei The Great Old Ones) non rispecchiano necessariamente standard qualitativi eccelsi. Oggi è il turno dei francesi Paramnesia, che con questo 'IV-V' debuttano ufficialmente su lunga distanza, dopo un EP e uno split con gli Unru. Ebbene, la one man band di Strasburgo, capitanata da Pierre Perichaud (stranamente un batterista), ci offre due lunghe tracce (appunto "IV" e "V" per 40 minuti di musica) di ignorante cascadian black metal. Siamo ahimè lontani dagli standard americani di act quali Wolves in the Throne Room, Panopticon o Deafheaven. La proposta del musicista transalpino infatti si pone come un impasto sonoro che tributa la sua sofferente offerta al caos primordiale, sebbene un tranquillo inizio acustico. Poi è l'inferno a palesarsi con sferzate ritmiche di violenza estrema, flebili urla atroci, blast beat irrefrenabili e un sound cosi rozzo che in taluni casi è addirittura complicato decifrare quello che fuoriesce dalle casse. Il feeling malinconico caratteristico del genere è ben presente nelle linee di chitarra del factotum alsaziano, soprattutto in quei momenti in cui il vento gelido del nord smette di soffiare e oscuri e rarefatti momenti di quiete trovano modo di placare la tempestosa inquietudine di Pierre. Mettiamoci una registrazione non proprio limpidissima e potrete intuire quanto sia poco digeribile l'ascolto di questa release. La seconda "V" apre lenta e disarmonica, con le chitarre che sembrano voler imitare una delle stralunate band norvegesi (a me sono venuti in mente i Ved Buens Ende). Un paio minuti di calma apparente e poi ecco riesplodere un groviglio fatto di allucinate chitarre marcescenti e un martellare intrepido dietro le pelli, con un aura melmosa e nefasta che ne avvolge l'intera composizione. Il sottoscritto è un fan del black metal cascadiano, di quello dalle ritmiche serrate ma corredato da melodie coinvolgenti di sottofondo; qui c'è ben poco di tutto questo se non una infernale matassa di suoni, che si sbrogliano tra galoppate black, atmosfere minimal/suicidal e frangenti al limite del funeral doom. Difficile pertanto affermare che il prodotto che ho tra le mani sia un qualcosa di cui ci ricorderemo a lungo, se non per quel suo meraviglioso digipack, che abbina parti opache ad altre lucide a creare un effetto tridimensionale, davvero affascinante. Poca roba però per un onesto album black. (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions - 2014)
Voto: 60

http://paramnesiaxpa.bandcamp.com/

sabato 10 maggio 2014

Forbidden Shape - The Sleepwalking Psychopath

#PER CHI AMA: Thrash/Death
Il bello di fare recensioni di gruppi emergenti è soprattutto il fatto di non sapere mai cosa aspettarsi al pigiare del tasto play del nostro amatissimo cd player; ci si può fare un gran film guardando le copertine e lo stile dell'artwork, ma fidatevi, poche volte sarete ricompensati con la consapevolezza di averci azzeccato, anzi... Per quello che mi riguarda è il caso di questi Forbidden Shape, combo russo dedito ad una sorta di death metal a tratti brutal, a tratti quasi power metal, a sprazzi molto thrash riff-oriented. Detto in parole povere, un gran casino. Nel senso dei volumi? No, in questo caso, un gran casino di idee, ben poche messe a fuoco e portate fino alla fine. Una stroncatura prima di iniziare? In un certo senso si, in un altro no; ora mi spiego. Vi confesso che ho ascoltato questo cd per almeno 5 volte (con gran fatica) prima di pronunciarmi; vi confesso anche che, per come sono fatto io, ascoltare 5 volte una cosa che non mi entusiasma è già un grande sacrificio. Non a caso, purtroppo, quelle che seguiranno non saranno giudizi estremamente positivi; quello che mi si pone all'ascolto è un calderone di suoni, rumori, frammenti di canzoni, pessime growling vocals, accordi che faticano a trovare un legante, se non quello di far parte di una stessa traccia sul dischetto ottico. Parole incomprensibili se non leggendo il libretto (non mi era capitato nemmeno con i Cannibal Corpse più marci...), canzoni senza capo né coda, nessun riff portante, pochi solos degni di nota e, a quanto sembrerebbe leggendo i testi, anche poco da dire. Con tutta la buona volontà, trovare un pregio alle composizioni del gruppo, almeno per me, è una "mission impossible". Non bastano una manciata di riff quasi indovinati (ma tutti col retrogusto del già sentito) a salvare quella che, sotto il punto di vista meramente compositivo, è una disfatta a tutti gli effetti. Come in quasi tutte le cose, qualcosa da salvare c'è, giusto per non ammazzare con un voto pessimo questa release; prima di tutto i suoni, non sono sicuramente i peggiori sentiti, anzi risultano essere piuttosto curati. L'aspetto tecnico è notevole, meritano di essere citate le prestazioni della sezione ritmica su tutte: bravo Gungrind al basso (per l'esecuzione, la composizione delle songs è da rivedere). Sappiamo tutti che però un disco non puo' reggersi su buoni suoni e ottime prestazioni stile session man (oddio, per quello che riguarda un certo “rock italiano” sembrerebbero bastare anche solo queste due cose), quindi cio' che propone questa release riesce a malapena a rosicchiare una sufficienza che finisce per non accontentare nessuno: prima di tutto i Forbidden Shape, perchè con questi mezzi esecutivi e un po' di concentrazione in piu' in fase di composizione, questo cd assume fortemente il sapore amaro dell'occasione persa; si può e si deve far di più. Non accontenta di certo me, perchè mi aspettavo ovviamente di più (maledette supposizioni “da copertina”). Senza ombra di dubbio la migliore traccia a mio parere rimane la numero 7, “Crude Soil Therapy”, che oggettivamente contiene delle ottime idee che lasciano intravedere capacità indiscusse. Per poco hanno evitato di essere “rimandati a Settembre”, la sufficienza la strappano sulla fiducia. Dai Forbidden Shape mi aspetto molto di più; sarò qua ad attenderli. (Claudio Catena)

(Fono Ltd - 2013)
Voto: 60

http://www.fono.ru/artist/181/

venerdì 9 maggio 2014

Woman is the Earth - Depths

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven
Che sia il fenomeno musicale del momento è sotto gli occhi di tutti; il post-black, che va ormai a braccetto con il cascadian sound, ha raggiunto grandi vette di popolarità grazie ad act quali Deafheaven, Wolves in the Throne Room, Altar of Plagues e recentemente ai, da poco recensiti, The Great Old Ones. Calcando l'onda del successo del genere, ritornano i Woman is the Earth, che già avevamo potuto apprezzare in occasione del loro secondo lavoro, 'This Place that Contains my Spirit', pochi mesi fa. Il come back discografico è affidato ad un nuovo ma breve lp di tre pezzi, 'Depths', che esce per la Init Records e che mette in luce una progressione musicale assai interessante per il combo del South Dakota. Il trittico di song si apre con "Crown & Bone/Dreamer", lungo e malinconico brano di oltre 10 minuti, in cui il trio di Rapid City, torna a graffiare con un muro sonoro lo-fi, in cui a battagliare sono furibonde epiche cavalcate con apocalittiche atmosfere, corredate da mortifere screaming vocals e qualche raro momento acustico. Attenzione però che qualcosa si muove a livello musicale, con una vena progressiva che sembra materializzarsi timidamente a livello solistico. Lo preannunciavo nella precedente recensione che ne avremo sentite delle belle, se solo le idee fossero incanalate in modo migliore e i nostri sembrano essere in effetti sulla strada giusta. Soprattutto quando è la strumentale "Lifted" a materializzarsi nelle mie orecchie, che offre una sezione ritmica, affidata alle sei corde di Andy e Jarrod, alquanto imprevedibile: caldi intrecci di chitarre deliziano infatti i miei timpani in una song elegante e dal piglio post-rock. Una lunga apertura corale ci introduce a "Child of Sky" che poi ci prende per mano con il suo riffing furioso intriso di disperazione, accompagnato dall'incessante martellare di Jon alle pelli e dalle viscerali vocals di Jarrod. Ahimè il cd termina qui, lasciandomi un po' con l'amaro in bocca, perchè sinceramente avrei gradito almeno un altro paio di song a soddisfare la mia sete infinita di suoni cascadiani. Buon passo in avanti per l'ensemble statunitense, ma solo mezzo punto in più rispetto al precedente lavoro, semplicemente per le poche song proposte. Attendo fiducioso per un imminente futuro. (Francesco Scarci)

(Init Records - 2014)
Voto: 70