Cerca nel blog

sabato 26 novembre 2011

Le Maschere di Clara - 23

#PER CHI AMA: Rock, Stoner, Psichedelia
Un'altra interessante realtà veronese arriva tra le mie affamate mani e anche questa volta devo dire che la fattura è pregevole. Questo "23" è l' EP di esordio de Le Maschere di Clara e contiene quattro pezzi che anticipano l' uscita del full lenght "Anamorfosi" (già disponibile). Sentire fratello e sorella che si danno battaglia rispettivamente a colpi di basso e violino, arbitrati da una batteria che ha il compito di portare sulla retta via gli eccessi artistici delle anime in pena quali sono Le Maschere di Clara, genera una fusione intima ed esplosiva di rock-stoner e venature prog. I suoni rozzi del basso distorto duellano con un sinuoso violino che non nasconde affatto la sua rabbia tramite riff che non hanno nulla da invidiare alle migliori chitarre dei 70s. Il fatto stesso di distorcere uno strumento così storicamente elegante è un chiaro messaggio di sperimentazione e disobbedienza. L'utilizzo di strumenti come il clavicembalo (o simile) e testi tra la letteratura e la poesia, mantengono Le Maschere di Clara sul filo di lana, tra gruppo spontaneamente alternativo e banalmente di tendenza. Non voglio addentrarmi a descrivere i singoli pezzi, ma mi appello al vostro buon senso e vi chiedo di sentire con mano questo piccola chicca che anticipa (glielo auguro) la pregiata fattura di "Anamorfosi". (Michele Montanari)

(Jestrai)
Voto: 80
 

Raventale - Bringer of Heartsore

#PER CHI AMA: Black Doom, Shining
Ecco che a cadenza quasi annuale, mi ritrovo fra le mani il nuovo lavoro della one man band ucraina Raventale che, guidata dal suo leader Astaroth, continua quel percorso all’insegna del black doom atmosferico, iniziato nel 2006 con “На Хрустальных Качелях” e passato attraverso le recensioni del Pozzo, degli album “Mortal Aspiration” e “After”. Eccomi quindi qui a recensire il quinto album dell’act di Kiev, che conferma quanto di buono fatto fin’ora e anzi ci sembra ormai pronto a fare il grande salto per una etichetta un po’ più “commerciale” della russa BadMoonMan Music. L’album si apre con “Anything is Void”, che ci dà immediatamente prova della bontà della nuova proposta dei Raventale. Non tradendo comunque il proprio passato, Astaroth ci consegna un sound che viaggia costantemente sulla linea a cavallo tra un black atmosferico, con quella tipica vena doom che si arricchisce di qualche sprazzo avantgarde/progressive. Quello che ne viene fuori sono otto tracce, abbastanza lineari, dirette, ma sempre permeate di quel feeling malinconico autunnale, che da sempre contraddistingue la musica del combo ucraino. “Twilight… the Vernal Dusk” mostra il lato più oscuro di Astaroth Merc, influenzato dal periodo di mezzo degli Shining, ma che al suo interno apre anche a quelle sonorità progressive appena citate, grazie ad un lavoro di chitarre assai entusiasmante, sorretto egregiamente dal supporto atmosferico delle tastiere. Il disco, facendo tesoro degli errori del passato, scivola via più facilmente rispetto al suo predecessore, forse vuoi per la durata mai eccessiva dei brani o anche per un’accresciuta semplicità nelle linee di chitarra. È sempre tuttavia piacevole ascoltare quelle tipiche sfuriate black, come nella terza “These Days of Sorrow”, che ancora una volta richiama le epiche cavalcate del buon vecchio Burzum, grazie a quel suo riffing ridondante e stracolmo del tipico feeling glaciale nordico. A differenza di “After”, sembra mancare la componente tipicamente desolante/angosciante del genere ed avere invece più spazio una parte più ariosa, che sembra rifarsi in questo caso a sonorità più prettamente finlandesi (penso agli ultimi Insomnium, ma anche al prog degli ormai defunti Decoryah, che si fondono insieme). Certo non siamo di fronte a qualcosa di unico ed estremamente originale, ma come detto più volte, quel che conta sono le emozioni che la musica dei Raventale è in grado di sprigionare e come sempre devo ammettere di trovarmi di fronte a qualcosa che realmente riesce nel suo intento, ossia scuotere la percezione dei miei sensi. Ben poco spazio è lasciato al cantato di Astaroth, che continua comunque a dimostrarsi eccellente nella sua prova vocale, con una timbrica a cavallo tra screaming/growling che non va mai fuori dal seminato. Ultima segnalazione relativa alle liriche che includono nei suoi testi, parti della poesia di Alexander Blok, uno tra i più grandi poeti russi insieme a Puskin. Ancora una volta Astaroth non tradisce le mie attese, pertanto sarà in grado di soddisfare anche le vostre. Consigliato! (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music)
Voto: 75
 

Absurd Universe - Habeas Corpus

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Slayer, primi Entombed
Una intro inquietante apre il debut album degli olandesi Absurd Universe, intro che cede il passo a “Freedom Less”, song che dichiara immediatamente (e apertamente) la direzione stilistica dei nostri: un classico death metal che mischia, con una certa abilità, sonorità di scuola “slayeriana” con quelle tipiche più oscure scandinave (primi Entombed). Non male vero? In effetti rimango piacevolmente stupito dalla carica distruttiva del quintetto proveniente dalla terra dei tulipani e mi lancio con loro alla scoperta di questo lavoro. Come sempre, quando ci si imbatte in generi che fanno del rigore “morale” il loro credo, si rivela sempre assai difficile uscire dagli schemi e proporre qualcosa di realmente originale. E cosi molto spesso, la recensione di un disco di death risulta alla fine essere un esercizio di puro scarico di adrenalina. “Habeas Corpus”, non è esente da questa situazione, pur proponendo alcune soluzioni, in grado di spingermi ad un ascolto più attento. Di sicuro, quello che balza all’orecchio sin dall’inizio è la profonda densità ritmica, nonché lo spessore tecnico-stilistico dei nostri. Immaginate le nove cavalcate qui contenute, come un pugile che dà dei pugni ben assestati ai fianchi del suo rivale, con una più che discreta velocità, interrotta solamente dal suono del gong. E in quei rari momenti, i nostri rallentano il proprio dinamismo (come nella parte centrale dell’angosciante “Under Command”), forse per prendersi gioco di noi, prima di riaggredirci con una serie di schiaffoni là, nel punto giusto, senza dimenticare quelle belle rasoiate, che ricordano non poco il duo Hanneman/King (“Red Water” o “Boiled by Dead Water” tanto per citare le mie preferite). Non male davvero; alla fine gli Absurd Universe riescono nell’intento di non risultare sterili nella loro proposta, ma anzi di catturare l’attenzione anche del più distratto degli ascoltatori. Gong, fine del match, i tulipani vincono per ko tecnico! (Francesco Scarci)

(Punshment 18 Records)
Voto: 75
 

Natrium - Elegy for the Flesh

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death
Mmmm, la copertina raccapricciante (ad opera di Pär Olofsson - Deeds of Flesh, Hour of Penance, Immolation, Spawn of Possession, Immortal) non lascia presagire nulla di buono: sono certo infatti che quel macabro scheletro sottoposto a chirurgia aliena, raffigurato nella cover della nuova release degli italiani Natrium, significhi colate laviche di selvaggio brutal death. E non mi sbaglio di sicuro quando, dopo aver premuto il tasto play e ad aprire c’è la title track, vengo immediatamente investito da un carro armato dalla potenza di fuoco smisurata. Complice una pulizia nella produzione spaventosa (ai 16th Cellar studio), una perizia tecnica maestosa e una ritmica invasata, vengo subito messo a tappeto dal sound articolato, quanto mai brutale dei nostri. Se pensavate che solo gli Stati Uniti, potessero vantare band estremamente valide nell’ambito del brutal death (ed i primi a venirmi in mente sono i Decrepit Birth), dovrete immediatamente ricredervi ascoltando questo lavoro. Abbandonati gli esordi thrash metal, il quintetto di Cagliari, sfoggia una prova di mirabolante brutal techno death con questo “Elegy for the Flesh”, che nelle sue otto brevi tracce, ha il pregio di evidenziare, il processo evolutivo della band, le sue enormi capacità tecniche (ottima come sempre la prova del drumming) e la qualità in sede compositiva. È complesso e assai strutturato il lavoro dietro questo album, che palesa oltre alle qualità già espresse sopra, anche un raffinato gusto per le melodie in fase solistica (eccezionale il finale di “Breastfed with Mendacity”, ma in generale di ogni song), una prova magistrale dei singoli, e anche una inaspettata pulizia vocale nel growling cavernoso di Lorenzo Orrù. Ma attenzione perché “Elegy for the Flesh” non è solo ritmiche al fulmicotone: il cd racchiude infatti anche rallentamenti da brivido con chitarre ultra massicce (“Sarin Benison”), stop’n go ubriacanti di scuola “Meshugghiana” e linee di chitarra assai complesse che si intrecciano fra loro con un esito davvero avvincente che farà di certo la gioia di chi adora un genere come questo. Questa seconda release dei Natrium, non sarà di facile assimilazione perché mai scontata: la violenza espressa nelle note di questo lavoro infatti non è fine a se stessa e pertanto un ascolto più approfondito e attento è decisamente d’obbligo. (Francesco Scarci)

(The Spew Records)
Voto:80

domenica 20 novembre 2011

Israthoum - Monument of Brimstone

#PER CHI AMA: Black Metal, Dissection, Gorgoroth, Unanimated
Un amico (ciao Beppe!), una volta mi disse scherzando: “Più un gruppo ha un nome illeggibile sulla copertina del cd, più è estremo”. Ecco, non è che io ci creda più di tanto. Per esempio questi Israthoum: guardando il loro criptico logo (c’è di molto peggio però), dovrebbero essere una specie di esseri demoniaci dalle forme distorte, grottesche parodie dell’anatomia umana dediti a una musica sulfurea priva di qualsiasi grazia o melodia. Almeno questo è quello che immaginerei. Sorpresa: un bel disco black metal alla maniera della così detta “second wave”, quella dei Gorgoroth per capirci, con parti melodiche di piano e folk che nell’insieme funzionano. Gli Israthoum sono portoghesi nascono 1992, cambiano diversi nomi, si trasferiscono in Olanda e sono sotto contratto per un’etichetta finlandese. Del loro passato ho trovato poco: qualche demo e un’altro LP. Sembrerebbe che si siano presi il loro tempo per lavorare sul loro sound. Hanno fatto bene, il monumento di zolfo (libera traduzione del titolo del cd) è venuto carino. Non hanno creato nulla di nuovo, è vero, però 45 minuti mefistofelici, aggressivi e non banali ci sono. Otto tracce equilibrate, che danno l’idea che i nostri siano coscienti della loro direzione creativa, senza farsi legare troppo dal passato. Certo, gli elementi che evocano la “seconda ondata” ci sono: furia, riffoni pieni di odio (tipo in "Wearing You"), l’atmosfera luciferina, la voce gutturale reiterata. Ma non si percepisce quella sensazione di scimmiottamento sesquipedale tipica dei gruppi amorfi.Prendete "Soul Funeral", dove si può sentire una certa presenza Black’n roll, e "Fire, Deliverance", dal particolare intro acustico, per farvi un’idea. Trovo un po’ debole la parte ritmica, troppo anonima e forse la produzione è ancora grezza, anche per questo genere.In conclusione un album che piacerà agli amanti del genere, ma che potrà colpire anche chi non lo è. (Alberto Merlotti)

(Spikefarm records)
Voto 75
 

Progress of Inhumanity - Escalating Decay

#PER CHI AMA: Grind, primi Napalm Death, Terrorizer
Avete fretta di ascoltare un album che vi brutalizzi velocemente ed efficacemente con ritmiche assassine e schizoidi? Eccovi presto accontentati: 21 tracce di ferale grind core per un totale di 27 minuti; 21 schegge impazzite che vi segheranno in due con il loro sound, concentrato di brutalità, efferatezza e semplicità, che di certo non griderà al miracolo, ma che rappresenta di certo la ricetta ideale per chi ha voglia di pogare come un dannato. “Escalating Decay” è il debut cd degli ateniesi Progress of Inhumanity, che forse nostalgici degli esordi di Carcass (“Reek of Putrefaction”) o Napalm Death (era “Harmony Corruption”), ha pensato bene di rilasciare questo lavoro, esclusivamente indicato ai fan del genere. Inutile soffermarsi su una traccia piuttosto che un’altra, data l’esigua durata delle varie composizioni: vi basti sapere che ciò che contraddistingue il sound dei nostri è una ritmica serrata, nervosa, secca, ma mai estremamente pesante, una sorta di punk portato all’ennesima potenza. La linearità dei suoni, le growling vocals che si intrecciano con uno screaming nevrotico, un drumming ultra tecnico con un uso sconsiderato dei blast beat, qualche inatteso rallentamento, completano il quadro della situazione di una release che non ha molte pretese, se non quella di farvi sbattere la testa come dei pazzi scatenati. Devastanti! (Francesco Scarci)

(The Spew Records)
Voto: 65

Carinou - Bound

#PER CHI AMA: Electro Rock
Un "terrorista" come Fredrik Söderlund nei panni del musicista pop-rock? Non ci volevo credere! Mentre leggevo la biografia di Carinou non riuscivo proprio a figurarmi il famigerato mastermind di Puissance e Parnassus alle prese con un genere di musica così distante dai territori insani dell'industrial o del black metal. Lo ammetto, sulle prime qualche perplessità stava prendendo il sopravvento, ma già al primo ascolto "Bound" ha saputo fugare ogni mio dubbio, confermandomi che persino gli artisti più estremi sanno cavarsela con melodie ruffiane e motivetti dall'appiglio facile. Ma andiamo con ordine. Carinou è un progetto che, oltre a Söderlund, vede coinvolta la cantante Sofie Svenson e la compositrice di musica elettronica Maggie Elfving, già nota nell'ambiente pop svedese per i suoi lavori di produzione e per una recente collaborazione con i The Ark alle backing vocals del loro album. Non c'è che dire, un collettivo stravagante e che "funziona" nonostante i differenti background artistici dei tre. La diffidenza covata inizialmente verso il progetto lascia il posto allo stupore quando i primi ritornelli di "Bound" entrano in testa e a destare tanta meraviglia non è certo la stranezza della proposta musicale, ma una sensazione di immediata sintonia con le contrastanti frequenze umorali di cui l'album è pervaso. Passione, odio, rancore, apatia... queste le emozioni che in "Bound" trovano asilo, alimentandosi tra le insanabili conflittualità del nostro inconscio e consumandone lentamente gli istinti vitali, come se una sottile linea di inquietudine scivolasse invisibilmente attraverso ogni brano. Se però rifletto sul termine "negative metal" coniato dalla Code666, è solo e unicamente sull'aggettivo che mi posso trovare d'accordo, perchè Carinou ha davvero poco in comune con il metal e assomiglia piuttosto ad una versione vitaminizzata dei Placebo, con tanto di melodie vellutate, chitarre energiche e arrangiamenti elettronici di ottima fattura. A questo punto tutto sembrerebbe perfetto se non fosse per la prova vocale "impostata" di Fredrik, talvolta insopportabile nel suo tentativo di fare il verso a Brian Molko. A parte questo, un album da ascoltare, anche solo per curiosità. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 70

Sedna - O

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven, Altar of Plagues
Il nome della band romagnola si rifà alla tradizione mitologica presso gli Inuit, popolazione eschimese e alla loro dea del mare, in onore della quale venne dato il nome anche al presunto decimo pianeta (o forse asteroide) del nostro sistema solare anche se in molti credono che Sedna possa essere Nibiru, il "dodicesimo" astro menzionato nelle tavolette cuneiformi dei Sumeri. A prescindere dall’origine del nome, il quartetto romagnolo si rivela una talentuosa band di quello che ormai ho deciso ribattezzare come “post black”. E l’intro angosciante di “Oblio” preannuncia già quanto di malvagio è contenuto nelle note di questo inquietante “O”. Non mi sbagliavo di certo perché “Spiral” in un batter d’occhio spazza via ogni cosa con la sua furia distruttiva, un muro inerpicabile sorretto da una disumana sezione ritmica su cui si eleva lo screaming feroce di Alex, prima che il tutto sia messo in “slow motion” con un sound di derivazione sludge, che riprende ben presto la sua irruenza, con la tempesta annichilente di inizio brano, prima di sciogliersi in un finale drone. Sono annientato e al tempo stesso esaltato dalla performance dei nostri che con il loro umore, a cavallo tra il black di Wolves of the Throne Room, Altar of Plagues e gli ultimi geniali Deafheaven, miscelato con il post metal/sludge soffocante di Neurosis o dei nostrani Ufomammut, sfoderano una prova davvero entusiasmante. L’assalto brutale che contraddistingue anche “Taedium”, viene stemperato dall’utilizzo della chitarra arpeggiata in ambientazioni decadenti, con la voce che passa dal suo profondo e cattivo growling, a momenti in cui fa capolino addirittura un cantato pulito non ancora ben delineato e che appare come il vero punto debole della performance. Per un fanatico come me della pulizia dei suoni, c’è poi da sottolineare che la produzione fatta in casa, non sia proprio delle migliori, ma c’è anche chi apprezza notevolmente questo genere di registrazioni che preservano intatto il feeling malvagio che si cela dietro alla musica del quartetto di Cesena. A chiudere il mini cd, ci pensa “Rain of the Sun”, la song probabilmente che mostra una maggiore varietà di fondo e che palesa nel proprio sound, ulteriori apocalittiche visioni ed influenze, con la voce del buon Alex che, alternandosi tra gorgheggi growl, corrosive urla aliene e cleaning vocals, denota tutto il suo spessore, mostrato anche in sede live. Peccato che il cd si chiuda qui, ne avrei voluto ancora e ancora, per permettere alla mia anima tormentata di abbandonarsi all’oblio e alla disperazione contenute in questo controverso lavoro dal titolo “O”. Maledetti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

sabato 19 novembre 2011

Misery Speaks - Disciples of Doom

#PER CHI AMA: Death/Thrash teutonico
“Disciples of Doom” segna il traguardo del terzo cd per i tedeschi Misery Speaks, che già precedentemente avevano stupito piacevolmente la critica, con il loro “Catalogue of Carnage”, concentrato dinamitardo di musica assai incazzata. Forti dell’entrata nella band di un nuovo vocalist, Przemek Golomb, proveniente dai Seventh Seal Broken, la proposta del five pieces germanico, non si discosta più di tanto dal precedente lavoro, continuando con il loro sound all’insegna di un death/thrash, dalle tinte fortemente catchy. Dopo l’immancabile intro, le danze si aprono con “Burning Path”, song ritmata, carica di sfumature rock’n roll, per nulla scontata devo ammettere. Si prosegue con la più selvaggia “End up in Smoke” brano più contaminato da influenze metalcore e a seguire “A Road Less Travelled” e la title track, brani più cadenzati, contraddistinti da linee di chitarra malinconicamente melodiche. Quello che balza all’orecchio è una certa ricercatezza nei suoni da parte del quintetto di Munster: pur non essendoci infatti, nulla di originale nella proposta dei Misery Speaks, è da apprezzare comunque il continuo tentativo di proporre qualcosa che odora per lo meno di poco sentito. E cosi stupisce sentire i nostri alle prese con brani più lenti, quasi doom, mantenendo comunque una potenza di fondo costante assai apprezzabile. L’ugola di Przemek poi mi piace particolarmente, per quella sua versatilità nel passare da gorgheggi prettamente death ad uno screaming vetriolico (e a qualche accenno clean). “Black Garden” (la mia song preferita), inizia ricalcando il tema rockeggiante della prima traccia, ma poi nei suoi 8 minuti e più, passa in rassegna tutte le influenze che si possono ritrovare in questo cd: metalcore, doom, psichedelica, sludge, si susseguono in una danza tribale al limite dell’ipnotico. Bravi tecnicamente e forti anche di un’eccellente produzione, presso i Black Lounge Studios di Avesta, con il produttore Jonas Kjellgren (Scar Symmetry, Sonic Syndicate, Darzamat), i Misery Speaks colpiscono nel segno, rilasciando un album dalle ottime credenziali.

(Drakkar Records)
Voto: 75

Malevolentia - Ex Oblivion

#PER CHI AMA: Black Symph, Dimmu Borgir
Francia, 2011: oggi mi sono convinto che lo scettro di nazione al mondo con più band valide a livello estremo è quella dei nostri cugini galletti. Dopo i vari Deathspell Omega, Blut Aus Nord, Alcest, Pensees Nocturne e Les Discrets, giusto per menzionare i principali gruppi, ritornano da Belfort, dopo ben sei anni di silenzio, i blacksters sinfonici Malevolentia, a rimpolpare l’orda di band che viene da oltralpe. Classica intro sinfonica e poi ecco liberarsi sui nostri musi “Serpent De La Corde”, dove il five-pieces libera tutta la propria furia distruttiva con un riffing estremamente diretto e secco, che di sinfonico ha ben poco, se non l’utilizzo delle keys, che cercano di stemperare la ritmica martellante dei nostri. Rimango del tutto annichilito da questa apertura mozzafiato, non me l’aspettavo, ritmica che persiste nel lacerare la nostra epidermide anche nella successiva “Martyrs”, dove l’unico momento di respiro è lasciato ad un brevissimo intermezzo di pianoforte, perché dopo esplode il panico, la follia, l’angoscia collettiva, dettata da delle tastiere che sembrano uscite dalla mente di un pazzo serial killer e da un killer riffs che esplode in una tempesta metallica al limite del grind. Mentre vengo investito dalle selvagge melodie di “A l’Est d’Eden”, mi metto a sfogliare l’elegante booklet del digipack e mi accorgo che le strazianti screaming vocals sono ad opera di una donna, Spleen, mentre un plauso nel finale della song va anche al pericoloso basso di Tzeensh. Le orchestrazioni della sinfonica e strumentale “Dies Irae”, riprendono pedissequamente i dettami dei Dimmu Borgir, prima di lasciare il posto a “Dagon”, song relativamente un po’ meno tirata rispetto alle altre (gli iper veloci blast beat sono ahimè ovunque) e con un’atmosfera perversa, ragionata, tenebrosa e disarmonica che decisamente la eleva a mia song preferita, soprattutto per la sua capacità di staccarsi dalle altre song di questo “Ex Oblivion”, anche se devo ammettere che mi disorienta quella sua parte centrale che di punto in bianco, passa da orchestrazioni da brivido ad un break thrash/punk, ma che comunque sa riprendersi nel finale con un chorus da brividi ed un climax ascendente che urla vittoria! Il cd prosegue rispettando i canoni delle prime tracce dell’album, facendo della velocità e della potenza i suoi baluardi, ma degli arrangiamenti orchestrali, delle oscure ambientazioni e delle ferali screaming vocals i suoi punti di forza. Certo, se avessero puntato maggiormente su uno stile più vicino a “Dagon” (o alla title track), carico di personalità ed intraprendenza, probabilmente sarei qui a parlarvi di un capolavoro, da avere assolutamente nella vostra personale collezione di cd; il fatto invece di aver prediletto maggiormente l’efferatezza della furia black a discapito dell’eleganza e dell’originalità che si riscontra in alcuni frangenti del cd, ha un po’ penalizzato la mia valutazione finale di un lavoro che tuttavia considero già maturo ed estremamente interessante. Un solo consiglio per il futuro: provare a rallentare un attimo l’esasperazione che rischi di condurre la band più verso lidi legati al brutal death sinfonico (leggasi i nostrani Fleshgod Apocalypse) piuttosto che verso il puro black sinfonico. C’è ancora molto da lavorare, e auspico che la band ne sia ben conscia, ma la strada intrapresa potrebbe essere quella giusta, ciò che è necessario incrementare ora è di certo l’audacia. Forza! (Francesco Scarci)

(Epictural Production/Season of Mist)
Voto: 75


The Morningside - Treelogia – The Album as is Not

#PER CHI AMA: Death Doom, Agalloch, Saturnus
Quando ho visto recapitare nella mia cassetta postale il nuovo pacchetto promozionale della Solitude Productions, mi sono subito lanciato per verificare se al suo interno era racchiuso il nuovo EP dei moscoviti The Morningside, che ho già recensito su queste pagine e che da sempre mi affascinano per quel loro sound che richiama gli esordi malinconici e ormai andati dei Katatonia. E cosi, trovato il cd, infilato nel mio lettore, mi appresto ad ascoltare questa nuova fatica dell’act russo; tre tracce per quarantasette minuti che si aprono con una triste pioggia autunnale che ben presto viene rimpiazzata dalle pacate chitarre dei nostri e dal growling mai troppo esasperato di Igor. Non cambia di una virgola il sound death doom dei quattro di Mosca e sinceramente per una volta mi viene da pensare “molto meglio cosi”. Ho voglia di questo genere di sonorità, ho bisogno di lasciarmi incupire dai suoni deprimenti dei nostri, ho voglia di annegare in un mare di emozioni strazianti, nostalgiche, uggiose, insomma abbandonarmi in questo paesaggio decadente fatto di alberi con foglie rosse e cadenti, nuvoloni carichi di pioggia, e un vento sferzante i nostri visi. “The Trees Part One”, parte seconda e terza, riescono nell’intento di garantirmi tutto questo, senza dover mai ricorrere a scorribande velenose o ritmiche devastanti, anzi utilizzando in taluni frangenti, parti strumentali che prendono drasticamente le distanze dal death doom originario dei nostri, sfumando in ambientazioni post rock. Che questa sia la nuova frontiera della musica estrema, a me non interessa, fintanto che verrò avvolto da piacevoli sensazioni e il mio cuore tormentato verrà placato da siffatta musica, come se una coperta e un tè caldo mi venissero poste sulle spalle dopo aver preso un bell’acquazzone che ha inzuppato me e i miei abiti, è una bella sensazione no? “Treelogia” per me riproduce tutto ciò di cui ho bisogno e di cui i fan di band quali Agalloch, My Dying Bride o Novembre non dovrebbero lasciarsi sfuggire. Elegiaci. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

Heavy Lord - Balls to All

#PER CHI AMA: Doom, Sludge, Stoner
Verrebbe da dire: “Dall’Olanda con furore…”. Gli Heavy Lord, dopo il (troppo) tradizionalista “Chained to the World” del 2007, propongono sonorità rivisitate e molto più complesse. Ad un primo ascolto “Balls to All” non risulta un album di facile assimilazione. Sembrano troppe le devianze dalla direttrice heavy doom imboccata dalla band sin dal primo esordio, si rischia di abbandonare l’ascolto dopo le prime tre canzoni proprio per una mancanza di coesione e di stile. Stavo per fare anch’io questo errore, ma credetemi quando vi dico che l’energia di questa band è qualcosa di molto potente e comprensibile solo dopo una profonda immersione in questo sound sperimentale. Stilisticamente parlando, gli Heavy Lord si inseriscono nel filone del buon vecchio doom ‘andante’, quello a tonalità rock più veloci tanto per capirci, senza rifiutare qualche uscita in generi limitrofi come sludge e stoner. Più stoner che sludge. Vi sono numerose novità rispetto all’opera precedente. Dunque: la voce in growl si limita a qualche sporadica apparizione qua e là, mentre viene premiata una voce pulita indirizzata alle tonalità sudiste e missisipiane sulla scia (credo imitazione voluta) degli svedesi Devil’s Whorehouse di “Blood & Ashes”. Accenni ai riff maledettamente evocativi del buon vecchio Danzig e una pesantezza delle chitarre che non ha nulla da invidiare a quelle del progetto Down di Phil Anselmo. Nel corso delle otto tracce i pezzi lenti e quelli veloci si amalgamano in un insieme bene equilibrato di potenza e ricercatezza del suono. Onnipresenti sono i piatti della batteria; è un piacere tenere il ritmo. Purtroppo, l’unica nenia che non sono riuscito a sopportare in tutto l’album è proprio la title track, “Balls to All”: l’unica asfissiante melodia continua imperterrita e senza variazioni per tre interminabili minuti e mezzo. Poi però si apre l’eccellenza. “Fear the Beard” e “Drown” sono le preziose gemme verso cui gli Heavy Lord tendono per il futuro. Niente da dire. Sono davvero bravi questi ragazzi. Di sicuro sanno quello che fanno, e lo fanno con serietà. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 75

lunedì 14 novembre 2011

Riul Doamnei - Fatima

#PER CHI AMA: Black Sinfonico, Dimmu Borgir, Cradle of Filth
Se i Cradle of Filth avessero avuto la crescita miracolosa occorsa ai Riul Doamnei nel corso di questi ultimi anni, probabilmente ad oggi avrebbero venduto centinaia di milioni di dischi, forse quanto Michael Jackson addirittura; invece la progressione della band inglese è stata assai graduale, con la fortuna dell’act britannico da sempre strettamente legata a quello del caratteristico screaming di Dani Filth, che ha sin qui condizionato anche la performance vocale di “Cardinal” Federico D.B., vocalist della qui presente band italica che oggi mi appresto a recensire. Tutto questo intricato preambolo per dirvi che nel frattempo, il bravo cantante dell’ensemble veronese è migliorato spaventosamente rispetto ai tempi di “Apocryphal”, prendendo largamente le distanze dal vecchio Dani, e con lui anche la performance globale degli altri membri della band; sicuramente complice è l’esperienza maturata in tour con mostri del calibro di Rotting Christ, Krisiun, Decapitated, Vader e altre straordinarie realtà del metal estremo, ma i Riul Doamnei, con questo nuovo lavoro possono dire la loro in ambito black sinfonico, a fianco della già menzionata band di Suffolk e dei norvegesi Dimmu Borgir, forse la realtà alla quale protende maggiormente il five-pieces di Fede e soci. Lavoro decisamente ambizioso quello dei Riul che ci presenta il nuovo controverso concept album basato sulla figura della Vergine Maria: dodici brani per una durata complessiva che sfiora l’ora, un’ora decisamente densa di emozioni, legate alle feroci scorribande in territori black, alle harsh vocals di Fede, alle maestose orchestrazioni di “Bishop” Giorgio M. e ai chorus sinfonici a la Therion. Partendo dall’enigmatica opening track, “13th Oct. 1917, Miracle and Apocalypse”, che rievoca il Miracolo del Sole presso Fatima, in cui un numero notevole di persone sostenne di aver visto il disco solare cambiare colore, dimensione e posizione per circa dieci minuti, veniamo immediatamente travolti dalla musica estrema dei nostri. La release, che ruota attorno agli accadimenti legati alle apparizioni mariane sforna, una dopo l’altra, delle eccellenti track, in cui emerge la classe dei cinque “ministri del male”. Riprendendo quanto già fatto nel precedente lavoro, i Riul continuano a sviluppare il proprio sound arricchendolo di fenomenali arrangiamenti di esplicita derivazione Dimmu Borgir (periodo “Death Cult Armageddon”), e per tal motivo un grande plauso va al bravissimo Giorgio cosi come pure menzione speciale al defezionario batterista “Friar” Enrico P., che al termine delle registrazioni ha lasciato la band dopo ben undici anni di militanza; sarà dura rimpiazzarlo con un altro drummer di altrettanto valore. Ma torniamo alla musica, che trabocca di eccelse melodie, epiche cavalcate black, screaming di assoluto valore ed eccezionali chorus (splendide “Bestiary of Christ” e “Sodoma Convent”). Un breve intermezzo e arriviamo a “Stigmatized Under Marian Grace”, song che palesa ancora una volta la “pericolosità” distruttiva dei nostri e che evidenzia la bontà del songwriting (assai migliorato rispetto il primo capitolo) e anche una nuova vena in fase solistica (finalmente) del bravo “Deacon” Maurizio S., anche se questo non è l’episodio in cui è maggiormente apprezzabile. L’inizio militaresco di “Of Misery and the Final Hope” (song in cui appare anche il buon Sakis dei Rotting Christ in veste di guest vocalist) mostra quanto i Riul siano migliorati anche quando le velocità non sono cosi sostenute e ci sia lo spazio anche per grandi quantitativi di melodia e inquietanti vocals femminili, con le chitarre in questo caso che sembrano più rifarsi allo swedish death dei Dark Tranquillity. Si, lo sento, la voglia di progredire e non stagnare c’è, è forte e i Riul sono alla costante ricerca della verità come i famosi “Guerrieri della Luce” di Coelho. La ricerca dei Riul prosegue fino alla conclusiva “The Fourth Daughter”, che parla della quarta figlia di Maometto, appunto Fatima, finendo per intrecciare quindi l’iconografia cristiana con quella della religione islamica, in quello che è probabilmente il quarto segreto, in una song dai chiari risvolti arabeggianti, che chiude in modo intrigante, affascinante e che non presagisce a nulla di positivo, quello che potrebbe essere lo scontro tra cristianesimo e islam. Ottimo ritorno! (Francesco Scarci)

(Axiis Music)
Voto: 85