Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Samantha Pigozzo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Samantha Pigozzo. Mostra tutti i post

lunedì 11 luglio 2011

Remembrances - Crystal Tears

#PER CHI AMA: Gothic, Rock, Evanescence, Lacuna Coil
Sulla scrivania, accanto al pc, trovo il cd di questa band spagnola, uscita nel 2006. Lo inserisco nel lettore cd, resetto qualsiasi tipo di preconcetto e/o pensiero e lascio che la mente si riempia dei suoni di questa “female fronted band”. Non appena inizia la prima nota, già il mio sesto senso si attiva mettendomi in allerta: ad un primo acchito sembra la brutta copia degli Evanescence e dei Lacuna Coil, ma preferisco non dare troppo peso a questa sensazione e proseguire nell'ascolto. "Silent Night" presenta una base musicale valida, con tanto di tastiere: la voce della cantante è parecchio melensa e adatta per un gruppo di ragazzine finte metal. Tutto il ritmo è talmente leggero e frivolo, da diventare addirittura un po' difficile da digerire. "Wish" tende ad essere un po' più cupa rispetto alla precedente, ma senza mai abbandonare il livello di superficialità dichiarato poche righe sopra. Essendo una band gothic metal, l'ausilio delle keys è massiccio: chitarre elettriche e batteria vanno a braccetto, mentre la voce si fa addirittura lagnosa. Passando a "Crystal Tears", l'unica cosa degna di nota sono degli elementi orchestrali appena accennati, che cercano di dare più profondità a tutto l'album. Di "Blood on the Wall" la cosa che salta più all'orecchio è l'intro di tastiera e la voce deprimente, pesante: il brano in sé è orecchiabile, soprattutto togliendo il cantato. "See the Grief" e "Scars of my Soul" hanno di differente solo la velocità: la prima è più veloce, mentre la seconda tende ad essere molto più malinconica. "Memories" è ancora più tranquilla: per tutta la durata del brano le tastiere e la voce la fanno da padrone; verso la metà si sente anche la batteria, presente fino alla fine (ad un tratto con qualche nota di chitarra elettrica). "Sweet Madness" riprende totalmente le atmosfere di “Scars of my Soul”, come se ne fosse il seguito. "Anguish" all'inizio presenta note più di electro-music, tralasciando il mood gothic: anche l'atmosfera è più viva, scattante, che risveglia dal torpore in cui i brani precedenti avevano creato. Oserei persino dire che è il brano più bello di tutto l'album, con la voce meno lagnosa. "Lagoon" tende più ad avere un'impronta classica: tutto il brano è suonato soltanto dal pianoforte, seguendo un tono allegro andante. Con "Dance of Visions" si arriva alla fine dell'album (e per fortuna!): la cosa più buffa è che questo è uno dei brani con più unghie e che salva il tutto dal prendere un bello 0 (zero) come voto per questo lavoro. Chitarre, batteria e voce diventano tutt'uno, dando un'anima e una spina dorsale all'album. Concludo dicendo che questo è un album solo per ragazzine del tipo pseudo punk/metallare. Augurandomi che la band sforni un album più maturo e decisamente migliore, provvederò a mettere questo cd tra quelli da dimenticatoio. (Samantha Pigozzo)

(Alkemist-Fanatix)
Voto: 40

giovedì 5 maggio 2011

Mirror of Deception - A Smouldering Fire

#PER CHI AMA: Doom, Solitude Aeternus, Candlemass
Attesissimi da più parti (non di certo dal sottoscritto), tornano i doomsters tedeschi Mirror of Deception, con un album che mi ha lasciato del tutto basito per la pochezza di idee proposte. Conoscevo la band teutonica e sinceramente mi aspettavo qualcosa di più da questo lavoro, considerato anche il fatto che erano passati diversi anni dalla precedente release. “A Smouldering Fire” si presenta subito di difficile impatto con songs che faticano ad entrare nella testa e con un vocalist che di sicuro non rimarrà negli annali. La band prova subito a partire ripescando il sound dei mostri sacri Candlemass, ma ben presto mi rendo conto che è la noia ad avere il sopravvento. Le tracce si rivelano estremamente semplici e prive di quel feeling epico che da sempre contraddistingue invece la band svedese. Non so che dire, che cosa pensare, sono quasi spiazzato da una proposta che mi aspettavo di tutt’altro livello anzichenò. L’acustica “Heroes of the Atom Age” apre a quella che forse è la migliore traccia dell’album, “Bellwethers in Mist”, song che richiama anche qualcosa di “Hammerheart” dei Bathory, forse un po’ più potente ed epica delle precedenti, ma che comunque non porta la band germanica oltre ad una sufficienza striminzita. La successiva “Unforeseen” infatti si rivela uno strazio per le mie orecchie che continuano a considerare i veri alfieri del doom le band provenienti dall’est Europa. Un altro pezzo acustico e si arriva a “Lauernder Schmerz” song peraltro cantata in tedesco e quindi non potete immaginare il mio fastidio. L’album scivola via nell’anonimato più totale, con pezzi abbastanza altalenanti che ben presto, fortunatamente, si dissolveranno del tutto dalla mia mente. Se siete dei fan della band invece sappiate che la prima stampa dell’album vedrà la luce in un doppio cd con rarità e demo tracks. Inutile per chi non ama il genere, già di per sé difficile da digerire, se poi fatto non proprio con tutti i sacri crismi, può diventare un supplizio non indifferente! (Francesco Scarci)

Voto: 60

Curiosando sul loro sito ufficiale, sono rimasta incuriosita dalla definizione che danno alla loro musica: “unorthodox doom metal”. Formatisi in Germania nel 1990, iniziano a lavorare al loro album di debutto verso dicembre 1997 (dopo tre demo), album che vedrà la luce solo nel 2001, con tanto di tour promozionale. Dopo 3 album usciti in 9 anni, e svariati cambi di line-up (di nuovo), mi accingo ad ascoltare il loro quarto album, “A smouldering fire”, uscito nell'ottobre 2010. "Isle of Horror" si apre con un riff di chitarra pesante e grave, che già pregusta alle atmosfere cupe e alla voce tendente al solenne (sembra più una filastrocca che un canto vero e proprio). I riff di chitarra e batteria tendono a ripetersi, mentre la voce tende ad essere un po' lagnosa. "The Riven Tree" ricalca in parte le atmosfere precedenti, modificando la voce: più melodica, che ricorda vagamente Serj Tankian. Il brano si avvicina così più allo stile alternative metal, lasciando in disparte la vena doom. "Heroes of the Atom Age" è strumentale, caratterizzata dalla sola chitarra suonata lentamente, dando una sensazione di malinconia. "Bellwether in Mist" desta da subito, grazie anche alla voce che parte all'inizio accompagnata da batteria e chitarra: riprende il ritmo di “The Riven Tree”, dove la chitarra si amalgama alla voce, creando un brano molto melodico e non troppo invadente: si posso anche udire i cori del batterista nel ritornello. Con "Unforseen" si fa più sul serio, tornando alle atmosfere cupe della opening track e facendo largo uso di note di basso, specialmente nella parte più lenta. La voce rimane sempre sul pulito, accompagnata anche da cori. Solo da metà in poi il ritmo si fa un po' più serrato, la rabbia emerge, per concludersi con un ritmo che nuovamente cambia, fino a rallentare del tutto. "December", prettamente strumentale, posta a metà dell'album, continua sulla stessa linea della precedente mentre "Lauernder Schmerz" è l'unico brano cantato in madrelingua (il titolo si può tradurre come “il dolore che attende con impazienza”). In "Walking Through the Clouds" le cose cambiano: la voce si arricchisce anche di frasi parlate (e non solo cantate), e la musica lascia in disparte la vena malinconica: a mio avviso questo è il brano più bello di tutto l'album. Con "Leguano" abbiamo la terza e ultima traccia strumentale, dove la chitarra si avvale della collaborazione di maracas. "Sojourner" presenta un cantato tendente all'acuto: qui la batteria è picchiata con forza, mentre la chitarra è portata al limite più profondo, fino quasi a fondersi con il basso. Ascoltati i primi secondi di "The Flood and the Horses", mi è saltato alla mente un paragone a dir poco assurdo: i Placebo. C'entrano ben poco, a dir la verità, ma il fatto di cantare con una tonalità medio-alta, i riff che si avvicinano più al rock che al metal, una refrain che porta la testa a ondeggiare avanti e indietro, mi ha colpito non poco. Con la conclusiva "Voyage Obscure" si arriva alla fine di questo viaggio: la band ci lascia una buona impressione, con un lavoro ricco di sonorità (anche se a volte gli accordi si ripetono) che spaziano nelle più varie sfumature dell'alternative metal. Hanno sicuramente sfatato il mito che “Germania = industrial metal”, dimostrando quanto la scena teutonica possa sfornare musiche per ogni palato. (Samantha Pigozzo)

(Cyclone Empire) 
Voto: 75

martedì 22 marzo 2011

Secrecy - Of Love and Sin


Siete in un momento in cui vi sentite contenti o comunque positivi? Avete voglia di ascoltare un po' di metal “leggero”, senza troppo impegno? Allora i Secrecy sono la soluzione che fa per voi. Questa band portoghese, formatasi nel lontano 2001, mescola sonorità rock al love metal tipico degli HIM, rendendo il lavoro di facile e piacevole ascolto. "Last Embrace", la opening track, presenta la voce della tastierista Lisa Amaral aggiunta a quella più greve di Miguel Ribeiro (non credo sia parente del buon Fernando, vocalist dei Moonspell, ma mi informerò), rendendo il tutto meno zuccheroso (dopotutto si parla di love metal, mica altro) e il ritmo ben radicato nella mente (sfido chiunque a non canticchiarla almeno una volta). Le tastiere sono ben presenti, come anche qualche assolo di chitarra: questo mi porta alla mente anche i nuovi Sirenia, ma più leggeri. I temi si incupiscono un po' con "The One that Death Deserves to Find": infatti qui passiamo a trattare la morte (amore e morte d'altro canto vanno a braccetto no?), ma sempre col pensiero fisso all'amata. Il brano si apre con una bel growling accompagnato dalle chitarre (e meno inserti di tastiera). La voce femminile di Lisa è meno accentuata, ma i suoi interventi sostengono egregiamente i toni oscuri di cui si tinge il brano. Con "Don't Leave Me Scarred" si torna ad un sound più rockeggiante e meno gotico, cosi come pure la voce di Ribeiro che torna a farsi pulita (assomigliando a quella di Villie Valo): tutto il brano sembra fatto apposta per accompagnare l'ascoltatore in un viaggio in auto (ammetto di aver pure accelerato durante il suo ritornello), per quanto sia canticchiabile. Nessuna traccia delle female vocals stavolta, ma qualche buon assolo di chitarra si. Con "Shadows Call" ci si muove sempre più in direzione degli HIM (con una somiglianza quasi imbarazzante), parlando ovviamente del fenomeno del momento: vampiri. Niente voci femminili, il cantato maschile si fa più basso ma perfettamente riconoscibile, tocchi di pianoforte per rendere il tutto adatto per il nuovo (o quasi) stile di vita giovanile: gli emo. "The Scarlet Dawn" riprende le medesime atmosfere della precedente senza però scadere nella ripetitività; vocals femminili, suoni campionati che si accompagnano bene alla voce roca. Ancora qualche altra song da canticchiare, qualche ritornello ruffiano e il giochino è fatto. Ultima menzione per "Angel Crimson Tears", a mio avviso progettata per un concerto in quanto sono certa darebbe il meglio di sé sul palco, mentre la folla composta per lo più da ragazzine urlanti inizierebbe a saltellare e strillare. Il ritmo è frenetico, le voci sono urlate, sarei curiosa di vedere quanti rimarrebbero fermi di fronte a questa canzone, senza nemmeno muovere un po' la testa. Solo alla fine dell'album; con "Since You've Gone Away" (ah l'amor perduto...) i nostri lusitani tirano fuori le unghie e dimostrano di poter fare qualcosa che rappresenti il metal vero e proprio! La batteria si fa potente, la ritmica d'accompagnamento e la voce più incazzata... questo brano mi piace proprio, non c'è che dire, cosi come la conclusiva "Another Dimension... with Angels and Demons" che riprendendo il sound della track precedente, presenta toni più mesti e angoscianti, con il ritmo più lento e pesante; persino la voce di Lisa è più triste, il che dà una forte sensazione di smarrimento. Album consigliato agli amanti di questo genere di sonorità, gli altri si tengano alla larga. (Samantha Pigozzo)

(Ethereal Soundworks)
Voto: 65

sabato 5 marzo 2011

Asura - Only Death for my Warriors


In questa mattina grigia, uggiosa e malinconica di fine febbraio, mi appresto ad ascoltare e commentare un mini-cd (ahimè di soli 3 pezzi) autoprodotto, di una band formatasi in quel di Olbia/Sassari nel non troppo lontano 2005. Si tratta degli Asura, act sardo, il cui sound viene definito come “melanchonic black&death metal”. Si può quindi già intuire fin dalla prima traccia “Requiem for My Warriors”, che cosa passa il mio lettore cd: song dall'incedere nostalgico cantata in growling, con ritmi che si alternano tra sferzate veloci (in pieno stile black sinfonico) e frangenti meditativi, grazie all'inserto di struggenti parti orchestrali. Il drumming è veloce e preciso, cosi come il riffing chitarristico (anche se un po' sottotono), quasi a voler equilibrare la calma e pacatezza delle tastiere, vero e proprio elemente predominante di questo lavoro. Giunta alla conclusione di questo brano, sono tornata a riascoltarne l’intro: il “coro” (ma non saprei bene come definirlo) mi ha rievocato i tipici canti popolari sardi, quasi a metter in luce una vena folk dell'ensemble isolano. La seconda traccia “Escape from Death” si apre con un delicato arpeggio, accompagnato da un basso il tutto suonato come se fosse uscito da un album dei vecchi Metallica: semplici lenti accordi che lasciano qualche secondo di silenzio tra una nota e l’altra; il cantato è sempre in growl, mentre le tastiere continuano a caratterizzare con personalità il sound dei nostri, palesando una vena più melodica (e, oserei dire, anche un po’ progressive) di questa giovane band. La conclusiva “Only Hate” si divide in tre parti: la prima è caratterizzata da un ritmo furioso e veloce, la seconda diventa più melodica (vedi brano precedente), mentre la terza riprende il ritmo furioso dell’inizio. E con questa traccia si chiude il demo cd del sestetto sardo: song molto sperimentale ma con una potenzialità nascosta che potrebbe portarli molto lontano, soprattutto se i nostri riescono a dare maggior equilibrio al dualismo chitarra/tastiere (per ora maggiormente spostato verso un utilizzo massiccio ma notevole delle keys di Psycho). Non ci resta che attendere un nuovo lavoro, sperando che sia un po’ più lungo e magari meglio prodotto, in modo da poter dare un giudizio più approfondito. Siamo comunque sulla strada giusta. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 70

This Weary Hour - No Hand to Comfort You


Debut album per questa band irlandese, in puro stile doom metal che ci riporta ai fasti dei “vecchi” Paradise Lost ("Gothic" e "Draconian Times", tanto per capirci), ricchi di quel pizzico di cattiveria e angoscia che aiuta a rilassare i sensi. L’album si apre con “Algor Mortis”, un brano strumentale che farebbe la sua bella figura come sottofondo per i telefilm in stile “crime” o “medical drama” (ma anche sul fermo immagine di Laura Palmer avvolta nel nylon o sul lettino dell'obitorio). Il brano infatti è composto praticamente da batteria e basso seguenti un ritmo lento e inesorabile, nonché inquietante: in una parola, algido. Lo stesso ritmo si prolunga fino alla seconda traccia, “Frozen”: in cui il cantato è si presenta come un growling comprensibile, roco e disperato; il ritmo continua ad esser lento e greve, il che accompagna perfettamente le tematiche cupe conferendoci quel senso di pesantezza interiore. Sebbene il ritmo permanga indolente, la voce si alterna tra situazioni di pura rabbia a quelle (più pulite) di tristezza: un connubio che rende il tutto ancora più emozionante e cattivo. Con “Harvest” la miscela tristezza/malinconia si fa più accentuata, grazie anche alle tematiche di distruzione di tutto ciò che si ha creato: quasi un inno all'abbandono di ogni speranza. Questo è uno dei brani più duri di tutto l'album (ed il più lungo in assoluto, ben 8.36 minuti di cattiveria!), una sorta di valvola di sfogo per il combo irlandese (ed è anche uno dei miei preferiti, soprattutto in giornate all'insegna del nervosismo). "The Lure of Prominence" è il secondo brano strumentale, incentrato particolarmente sul gioco di chitarra e basso, concentrando poi il proprio sound verso un ambito “dark” (parola di cui ormai si sta abusando, ma che calza a pennello in questo caso), che ci prepara all'ultimo brano dell'album: "The Wordsmith". La lunga traccia conclusiva si snoda in tre parti: la prima (nominata “Master of the Craft”) tratta l'illusione di ricevere dei frutti da ciò che si intende creare, vedendo coi propri occhi che qualcosa c'è; la seconda parte, “Threads Begin to Fray”) è più che altro strumentale, e l'illusione diviene reale e lo sconforto inizia ad impadronirsi di noi. La terza e ultima parte, “The Veil Descends” è il post rovina, dove tutte le buone speranze sono state spazzate via e rimane solo la disperazione, con la tarda consapevolezza che è tardi per qualsiasi altra cosa da poter fare. Cosi come le parole, la musica segue perfettamente i sentimenti, le emozioni e frustrazioni, diventando furiosa nel suo epilogo, accompagnata da un eccellente Eamonn O' Neill che dà sfoggio delle sue eccellenti doti canore. Si conclude così "No Hand to Confort You", senza alcuno strascico o nota dolce, come se tutte le forze ci avessero abbandonato. In conclusione oso dire che, nonostante l'album si componga di sole 5 tracce, ha una potenziale esplosivo dirompente. Da notare che la band, subito dopo l'uscita dell'album, ha cambiato nome in People of the Monolith, quindi se voleste cercare l'album (e vi suggerisco di farlo), è molto più probabile che lo troviate sotto questo nome, piuttosto che This Weary Hour. Tenebrosi! (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 80

sabato 26 febbraio 2011

Ruthless Order - Awakened Witnesses of Nascence


Ammetto di averci messo un po' prima di capire il nome della band: il logo è talmente fatto bene che subito pensavo fosse un disegno astratto nella magnifica copertina della compagine russa. Stiamo parlando ddei Ruthless Order, autori di un melodic/death metal, contraddistinto da fastidiosi inserti di voce acuta (quasi power talvolta): sembra quasi di sentire Axel Rose in versione metal. Questa è la prima volta che mi capita di ascoltare un album e recensirlo senza prestare troppa attenzione ai singoli brani: tutti sono accomunati dai suoni che emergono da una batteria suonata con tutta la furia possibile, chitarre distorte e tastiere utilizzate al limite umano di sopportazione. Ci pensa poi la voce, che passa dal growling (accettabile) all'acuto (insopportabile), a creare un enorme mal di testa all'ascoltatore. Non so esattamente cosa mi stia spingendo ad ascoltare tutto l'album (forse la vana speranza di trovare qualche brano veramente valido oppure di non stroncare brutalmente l’ennesima band mediocre), ma una cosa buona, in mezzo a tutto questo caos, c'è: l'intensità con cui tutta l’act sovietico suona, probabilmente dovuto alla necessità di farsi notare e magari sfondare nel mercato europeo (quel che è sicuro è che sfonderanno il vetro della finestra quando lancerò il cd). L'unico brano che si distacca dagli altri (almeno all'inizio) è la quarta traccia “Lonely Ness to See”: più melodica e un po' meno urlata, si avvale della chitarra ritmica nei primi due minuti, dove finalmente il cantato è “normale”; questo sentiero viene però abbandonato subito dopo, per tornare a manifestarsi con i soliti lamenti emicranici. Il penultimo brano “Silent Night” è perfettamente l'opposto degli altri brani: più progressive rock, con un assolo pulito di chitarra, il cantato melodico, quasi la pace per le mie orecchie, almeno per i primi ¾ del brano (visto che poi si torna al filone musicale di tutto l'album, con la stessa voce urlata stridula). L'unico brano che salva l'album da ottenere un 2 in pagella, è proprio questo. Tutti gli altri sono la fotocopia del primo, diventando così difficili da ascoltare (e da sopportare). Ancora adesso non so cosa mi abbia stimolato a recensire questa ciofeca (lasciatemelo dire), ma mi auguro che i prossimi lavori di questa band (se ce ne saranno) possano essere decisamente migliori. (Samantha Pigozzo)

(Grailight Productions)
Voto: 40

giovedì 27 gennaio 2011

Devar - Alternate Endings


Chi sono i Devar? Sono una band di Bergen, a sud-ovest della Norvegia, formatisi recentemente con un sound “originale e non tradizionale” (come descritto nel loro sito ufficiale), composta da Devar (voce), Ottoegil (basso), Obdsaija (batteria), Aadland (chitarra) e Odland (chitarra), e giunti nel 2009 al loro debutto discografico per la nostrana Code 666. L'album si apre con la (quasi) strumentale “The Siren”, song che si caratterizza per il canto suadente di una sirena tentatrice. L'inizio potente e la voce roca contraddistinguono “H.M.N.”, che ricorda molto il black metal di primi anni '90 per quel suo uso di blast beats: i ritmi si alternano, passando dal più veloce al più lento, con inaspettate influenze rock. Le cose cambiano in “Cold Slither”: qui il ritmo si fa veloce e serrato, a tratti folle, con la voce, nelle parti più rallentate, talmente strascicata che può ricordare vagamente Kurt Cobain nei suoi deliri. Lo stesso ritmo verrà poi ripreso in “...Of My Dead Skull”, invitando la testa a muoversi avanti e indietro, in un headbanging sfrenato. In “Shadow Feline” si può sentire un gioco di chitarre come nella tradizione rock "settantiana", con la litanica voce di Devar che ricorda quella di Marilyn Manson (non me ne vogliano i fan), le atmosfere si fanno più cupe, i ritornelli sono da cantare a squarciagola, i ritmi rallentati, insomma il tutto a rendere questo uno dei brani più adatti per i live. “Scourger” si presenta invece con un inizio di chitarra acustica e un sound che si avvicina più al progressive rock sempre degli anni '70 rispetto al dark metal. Dalla metà in poi dell'album, i suoni si fanno più gravi e la situazione si capovolge, con un inasprimento della ritmica, anche se non può mancare una nota orchestrale, che si può trovare in “Black 6”: solenne, colpisce nel profondo (è la mia song preferita), dal ritmo pacato e con semplici accordi, ma di grande impatto sul pubblico e di grande energia. Non poteva certo mancare anche una certa vena più sperimentale, cosa che caratterizza “The Dirge”: la voce si alterna tra campionamenti vari e urla strazianti, mentre tutto il brano si basa largamente su un tappeto di tastiere che contribuiscono a rendere più oscure le atmosfere, e con qualche sprazzo di batteria e chitarra portate ai massimi livelli. Ricordate il brano “Scourgerer”? Bene, “Watch Them Fly” ne riprende appieno il ritmo e il sound, ma con con un'enfasi maggiore, tanto da sentire il fiatone del cantante alla fine del brano. Senza neppure accorgermene, sono arrivata alla fine dell'album con “In Sanity”, song ideale per un sottofondo in un film thriller, cattiva e dura al tempo stesso. Le chitarre sono lasciate libere di fluttuare e dipingere astratti panorami psichedelici che, con l’apporto appena percettibile delle tastiere, chiudono al meglio questo primo album dell’act scandinavo. Band giovane, ma che promette grandi cose per il futuro: se mai verranno in Italia in concerto sarà sicuramente un'esperienza indimenticabile. Promosso a pieni voti e stra-consigliato! (Samantha Pigozzo)

(Code 666)
Voto: 85

sabato 15 gennaio 2011

Agael - Hybris


Innanzitutto diciamo che Agael non è una band, ma una “one-man band”, proveniente dalle lande teutoniche, con il primo album uscito nel 2009: misterioso, come la sua musica. Inserisco il cd nel lettore. Sento le prime note, e già mi sovviene la sensazione di dovermi imbarcare per un viaggio via mare. “Black Human Snow” si caratterizza da suoni orchestrali e trombe dal suono profondo, che ricordano vagamente i suoni di una nave; seguite poi da una vena più spleen, con pianoforte e drum machine, che ci destano dalla nostra fantasia. “Legend”, la traccia seguente, si affida più alla ruvidezza delle chitarre (in parte distorte e in parte pulite) e alla voce quasi incomprensibile e gracchiante: la vedrei bene come voce di Freddy Krueger per un nuovo capitolo della saga... tutta la traccia segue lo stesso riff di chitarra, accompagnato da suoni bui in sottofondo, pregni di una vena malvagia, che questo misterioso personaggio vuole mostrare ai più. Per quante volte la si ascolti, non riesco nemmeno a capire se Mr. Agael canti in inglese o in tedesco: la voce è talmente distorta da risultare di difficile interpretazione. Viene poi il turno di “Inanity”, con la pura drum machine in primo piano, che accompagna stridenti vocals, in questo frangente più chiare nella loro comprensione: ora si riesce infatti a capire il linguaggio utilizzato è l’inglese con alcuni intermezzi in tedesco e un’alternanza di clean vocals e screams. Dopo la parentesi più “umana”, il sound rallenta fino a mettere in risalto la timbrica dei piatti della batteria e dei suoni campionati (mi ricorda un non so che dei primi Nine Inch Nails), per poi riprendere nuovamente la precedente cadenza. Con “Lambs of the Rain” si placa la rabbia del nostro eroe, lasciando più spazio ai suoni di un temporale accompagnati dalle note di un pianoforte: un perfetto connubio per sottolineare la tristezza e la malinconia che la vita può portare. Se ascoltato mentre ci si riposa sul divano o sul letto, rilassa a meraviglia. Con “Cathartic” ci si ridesta dal torpore creato dalla precedente song, ma in maniera meno traumatica: mi azzardo a dire che assomiglia al progressive rock dei Porcupine Tree, anche se decisamente in salsa più metal e distorta. Tutta la traccia è strumentale e riesce addirittura a mettere di buon umore, con qualche strillo di gabbiano qua e là: più il cd avanza e più resto stupita di quest'idea di associare l'ambient al black metal (che, a parer mio, è qualcosa di spettacolare). Che dire di “My guilt”? Violino e suoni pomposi,che ci accompagnano ancora lungo il nostro cammino iniziale, in un'altra epoca ove la nostalgia finisce tuttavia per prendere il sopravvento. Con “Have you Seen the Others” torniamo al sound di “Legend”, ma con una certa differenza nello stile: la batteria viene intervallata dai momenti cantanti e dai soliti suoni orchestrali (su questo si è particolarmente fissato). Siamo quasi in dirittura d’arrivo mentre “Garden of Detritus” scorre in sottofondo con le sue ambientazioni, pacate, rilassate e a tratti inquietanti (mi aspettavo che prima o poi uscisse un urlo da farmi saltare sulla sedia). Si arriva così alla sorprendente “Die Gestohlenen Flüsse”. Perché sorprendente penserete voi? Perché, semplicemente, racchiude ben due tracce fantasma al suo interno. Se la traccia “ufficiale” è caratterizzata dal campionatore e qualche violino, con il suol ritmo quasi funebre, dopo una pausa di 2 minuti e mezzo deflagra semplicemente un riff campionato, mentre la seconda ghost track è l'associazione di pianoforte, batteria e flauto, un connubio che lascia senza parole per la stranezza di questa scelta, ma che la rende valida ascolto dopo ascolto. Posso concludere dicendo che ho dovuto ascoltare “Hybris” moltissime volte per riuscirne a captare tutte le sfumature in quanto si tratta di una release talmente ricca e varia di suoni, idee e sperimentazioni che necessita molti ascolti e molta attenzione. (Samantha Pigozzo)

(Naturmacht Productions)
Voto: 75

Nauthisuruz - Visions


Ed eccomi a riprendere in mano il capitolo Nauthisuruz, questo duo russo sperimentale e fantasioso: mi accingo a dedicare il mio udito a “Visions”, dopo aver ascoltato da poco il capitolo “State of Mind”. Si inizia con la pacata intro “Voice from the Dephts”: gli archi lasciano spazio al piano, contornato da una delicata chitarra elettrica, che aiuta a dare un senso di pace e di preparazione mentalmente ad un lungo viaggio, nei meandri della mente libera dai pensieri. “Invisible is Obvious” è un inno al silenzio e alla mente lontana dalle sensazioni negative: è caratterizzata dalla voce roca e profonda, con la chitarra elettrica che, veloce e sbrigativa, aumenta un senso di inquietudine, con l’aggiunta di qualche inserto elettronico che contribuisce a rendere il tutto più industrial che black metal. “Apathy”, altro brano orche-strumentale, si avvale molto dell’aiuto della drum machine nella prima parte, mentre nella seconda l’aria si fa più pesante e il pianoforte contribuisce a dare man forte. “Life in Magic”, vero tripudio di suoni contorti, riprende l’argomento silenzio e il rumore che esso fa, il tutto sottolineato da una voce roca e disperata, il tutto tremendamente permeato da un’aurea malinconica. “Dreaming”, seguendo la scaletta del brano cantato seguito dal brano strumentale, presenta suoni elettronici, con la drum machine ridotta al minimo accompagnata da soavi note di flauto, che portano la mente a ancora più lontano. Si incontra poi “Ode for a Man”, in cui il tema di fondo è la vita terrena perduta, e la strada per diventare divinità: mentre il corpo si disintegra, l’unica cosa che rimane è la coscienza. Tutto questo è caratterizzato da un’aria solenne, grandiosa, elettronica, dove le chitarre sono magnificamente accoppiate a suoni elettronici, e fanno da sfondo per vocals forti e cattive. “Lost Feelings” riprende le atmosfere di “Apathy”, creando un ambiente freddo e insensibile, ma molto profondo. “My Apocalypse” apre con un’intro prettamente orchestrale, che ha il ruolo di aumentarne la tensione: tutto il brano lascia trasparire angoscianti sensazioni di malinconia e rassegnazione: l’utilizzo di toccanti note di pianoforte enfatizza molto queste sensazioni, grazie anche al tono di voce profondo. Con l’outro “With no Thoughts”, la spirale di tristezza fortunatamente termina, lasciando la mente in balìa dei pensieri ma con un piccolo spiraglio di luce, che infonde più fiducia e quiete, rasserenando l’animo. “Internal Fight”, la prima delle due bonus track, riprende lo stile della seconda traccia, con un ritmo veloce ed accattivante, e con un solo di chitarra, delizia per le mie orecchie. Con “Innominatus” si arriva alla fine di questo viaggio: l’atmosfera si fa più orchestrale, differenziandosi totalmente dalla precedente song, grazie anche al parlato e al ritmo serrato, veloce, oserei dire geniale. Come perla, vi è anche un coro di voci femminili. Per concludere, quest’opera si rivela più varia rispetto a “State of Mind”: moderatamente “heavy”, come annunciato anche sul loro sito ufficiale, “Visions” ha bisogno di un ascolto attento, non troppo impegnativo e soprattutto ne consiglio l’ascolto ad occhi chiusi, comodi, dove più aggrada, in modo tale da assaporare ogni singola venatura e particolarità. Magico! (Samantha Pigozzo)

(Haarbn Prod.)
Voto: 85

lunedì 3 gennaio 2011

Dol Ammad - Winds of the Sun


Domenica pomeriggio: mentre il sole tramonta e le tenebre invernali si impossessano del cielo, mi arriva la richiesta di recensire il nuovo EP di una band greca (composta da ben 19 elementi, 5 facenti parte della band e 14 come chorus), la cui musica viene definita da Encyclopaedia Metallum “Progressive/Symphonic/Operatic Metal with Electronic music influences” (meno parole per definirla non credo ce ne siano/Ndr). Si tratta dei Dol Ammad, act ellenico proveniente da Thessaloniki, formatosi ben 11 anni fa e con all'attivo due full lenght. La title track, prima traccia dell'album, è dedicata all'astrochimico Carl Sagan, uno dei fondatori del progetto per la ricerca delle intelligenze extraterrestri (come spiegato nel loro sito ufficiale); qui la band, come vocalist, si avvale della partecipazione di DC Cooper (Silent Force ed ex Royal Hunt). Tutta la canzone è orchestrale, con la voce in primo piano, epica e portata ai limiti possibili: la song sarebbe perfetta come colonna sonora per un viaggio interspaziale verso le costellazioni più remote, cosi come descritto nel testo. La seconda traccia è la cover di “Black Winter Day” degli Amorphis, in versione decisamente più elettronica e ritmata, ma di bell'effetto, anche se è un po' strano, devo ammetterlo, sentire inizialmente un chorus (stile Therion) e poi una voce femminile cantarla, così soave se paragonata con la profonda tonalità di Tomi Koivusaari, tuttavia risulta una piacevole sorpresa. La terza song, “Theeta Dominion”, pesca dall'electro rock anni '80, quasi si trattasse di una versione rockettara dei Depeche Mode: il risultato è un pezzo ricco di sperimentazioni che ben si accompagnano alla voce dell'Europa Choir, che conferiscono più solennità alla componente elettronica. La prima parte della canzone è strumentale, con synth, chitarre e cornamusa; si aggiunge poi una voce femminile che contribuisce a rendere ancora più armonioso il brano, in un crescendo di emozioni. Velocemente filiamo alla quarta, “Aquatic Majesty (choral remix)”: si tratta del remix di una vecchia canzone della band, contenuta nel precedente “Ocean Dynamics”, dove è più enfatizzata la parte corale (e qui i 14 elementi, 7 uomini e 7 donne, danno il meglio di sé), e dove la parte strumentale appare posta in secondo piano. Per quanto particolare, il pezzo risulta piacevole e magico, intenso e maestoso. Con “Birth of a Dream” si arriva ahimè alla fine dell'EP: brano quasi interamente strumentale (c’è qualche sussurro qua e là di una eterea voce femminile), ipnotico e destabilizzante, in cui il combo greco si è avvalso principalmente del solo sintetizzatore mentre da metà brano fa la sua comparsa un'ululante chitarra elettrica. Con "La Nascita di un Sogno", i nostri hanno voluto verosimilmente enfatizzare al massimo il rumore dell'universo (un consiglio: usare l'album per qualche speciale sull'universo? Qualcuno avvisi l'ISS per favore) e allo stesso tempo rilassare le nostre menti, in un lungo viaggio nello spazio sconfinato attorno a noi. Per concludere, oltre a dire che questo EP mi ha stupito e piacevolmente sorpreso (la mente ha girovagato realmente per spazi intergalattici), ne consiglio l’acquisto a tutti: grazie a Thanasis, leader della band che ne ha permesso la diffusione digitale e grazie alla “Terra degli Dei” che ci ha portato questa eccitante perla di sperimentazione musicale. (Samantha Pigozzo)

(Electronicartmetal Records)
Voto: 85

domenica 3 ottobre 2010

Helevorn - Forthcoming Displeasures

 
Formatisi nel lontano 1999, a Palma de Mallorca, gli Helevorn se ne escono con il loro secondo album (dopo il loro promo cd “Prelude”, uscito nell'inverno 2000 e il primo immaturo lavoro datato ormai 2005 “Fragments”), che li ha definitivamente consacrati come una delle “migliori band doom metal della Spagna” [a detta di alcune delle più famose riviste musicali]. Dopo un periodo di stop durato 5 anni, il sestetto spagnolo rilascia questa nuova release, per la sempre attenta etichetta russa BadMoodMan Music: sonorità doom/gothic, accompagnate anche da qualche exploit con pianoforte (degne di nota sono le tracce “Two Voices Surrounding” e “Revelations”), marcate atmosfere cupe e lugubri degne dei migliori Katatonia degli esordi (bisogna ammettere che la registrazione di quest'album in Svezia ai Fascination Street Recording Studios, sotto l’egida di Jens Bogren e Johan Ornborg, ha lasciato un'impronta indelebile sul sound: mentre il precedente “Fragments” ha visto la luce in Finlandia, negli Finnvox Studios), un growling ben riuscito, che ricorda molto gli Swallow The Sun, coi quali gli ispanici Helevorn hanno girato la Spagna e il Portogallo nel 2007, caratterizzano questo esaltante lavoro, che di originale avrà ben poco ma che comunque si lascia piacevolmente ascoltare. I riff di chitarra sono sempre ben presenti e andanti di pari passo con l'aggressività vocale di Josep Brunet, come a voler marcare profondamente la malinconia che i tempi passati accrescono, vero tema ricorrente di questo cd. In alcune parti Josep ci delizia anche con la sua voce pulita (“To Bleed Not to Suffer”, “Descent” o “Hopeless Truth” tanto per citarne alcune), sebbene il suo uso risulti abbastanza limitato. Registrato nel 2009, ma uscito agli inizi del 2010, "Forthcoming Displeasures" ha tutte le carte in regola per brillare di luce propria, grazie anche alla voglia di sperimentare sonorità che un poco si distaccano dal loro filone degli inizi: ragazzi, questo disco merita davvero di essere consumato a furia di sentirlo e risentirlo, perché un rapido e superficiale ascolto non gli rende affatto giustizia. Provare per credere! (Samantha Pigozzo) 

(BadMoodMan Music)
voto: 75

Fairyland - Score to a New Beginning


Ricevo questo album da recensire. La copertina, con una nave sullo stile vichingo e cavalieri in armatura con la spada sfoderata, mi fa subito pensare ad una delle tante band scandinave, magari female fronted, piene di canzoni un po' mielose e speranzose... Invece scopro che la band è al maschile, è italo-francese (ci sono un paio di elementi italiani, per la precisione il bassista Fabio D'Amore e il cantante Marco Sandron, entrambi di Pordenone o zone limitrofe) e assomiglia in modo pauroso sia ai Dragonforce che ai Rhapsody; oltre a suoni sinfonici sono anche presenti parti strumentali che ricordano molto le atmosfere di Danny Elfman: ne è un esempio la prima traccia, che ricorda ampiamente il villaggio di “Nightmare Before Christmas”. “Across the Endless Sea” fa un ampio uso di synth e batteria, mettendo in secondo piano le chitarre e avvalendosi di cori stile orchestra. Il ritmo spazia dal pacato al power, sostenuto anche da assoli di nota modulata (ovvero la tastiera che fa le veci della chitarra) e voce con finali acuti. “Assault on the Shore” si caratterizza di tastiera per il 70%, con la voce che alterna un quasi growl agli acuti che tanto riescono, mentre tutto il ritmo segue perfettamente le orme dei Dragonforce: tutto il brano è incentrato sulla fine del viaggio, un viaggio in barca che ricorda gli attracchi vichinghi alle terre inesplorate ed aride. “Master of the Waves”, più orchestrale delle prime due, rimembra le epiche avventure per mare, verso una destinazione sconosciuta, in balia delle onde e delle speranze: qui il cantante si avvale dell'aiuto vocale femminile di Elisa Martin, female vocalist che in questo album fa solo delle comparse. Accanto alla sua voce, Philippe Giordana decide di tralasciare gli acuti e preoccuparsi di tenere un tono più basso e roco, con un buon risultato. “A Soldier's Letter”, malinconica come non mai, presenta un testo che verte sul difficile addio alla persona amata, soprattutto quando si è distanti e non vi è alcun modo per rivedersi. Tutto il brano riprende il ritmo di “Across the Endless Sea”, riportando di nuovo l'apporto vocale di Elisa Martin e i cori che accompagnano gli acuti, fino a sfumare verso la chiusura. “Godsent”, con violini ed altri elementi orchestrali ed in puro stile Therion, ci ricorda la nostra effimera esistenza verso la grandiosità ed eternità degli Dei, impersonati da una voce grave e profonda. Ascoltando “At the Gates of the Morken”, mi vengono in mente le scure montagne di Mordor, mentre la guerra in fine menzionata nel testo, mi ricorda tanto le vicissitudini di Frodo e Gollum contro l'armata di Sauron (probabilmente si saranno ispirati a questa saga per stendere il testo). “Rise of the Giants”, strumentale, fa un largo uso delle note messe in successione in modo tale da far immaginare qualcosa di grandioso, di immenso, di epico: insomma, l'apertura di un film fantasy con mondi in un'altra dimensione e altri costumi. “Score to a New Beginning”, la penultima traccia, ha un mood più ottimista pieno di speranza come si evince dal testo: persino i cori sono più enfatici ed entusiasti, trasportati dal testo e dall'immagine che crea. Tra attracchi a lande desolate, viaggi per mare verso l'infinito e oltre, tra lacrime e tristezza e nuove speranze, si arriva così all'ultima traccia, “End Credits”, ancora una volta song al femminile, che chiude in dolcezza l'album e per decantare la nuova vita ricreata nelle lande desolate: un bel happy ending e tanti saluti. In sé l'album non è affatto male, anzi: per gli appassionati di questo filone, direi che un ascolto lo merita. Il timbro di Giordana non mi convince granché, forse perché sono più abituata ad ascoltare i Sonata Arctica o i Dragonforce, ma ripeto, un ascolto (e anche più di uno) l’album se lo merita. (Samantha Pigozzo)

(Napalm Records)
voto: 70

The Way of Purity - Crosscore


Premesso che la band che mi accingo a recensire usa dei nicknames ed è solita coprire il volto per cui mi risulta assai difficile conoscere i nomi reali e le facce dei nostri. Sfogliando il booklet, si trovano poi immagini di braccia tagliate, croci insanguinate e persino un Cristo in croce bruciacchiato: si parla di religione e natura, in questo strano connubio che rappresentano uno il male e l'altra il bene, con la voce pulita femminile in netta contrapposizione con il growling che occupa con forza la scena. Ad un primo ascolto, l'album ricalca fedelmente le sonorità americane del crossover/nu metal: già dalla prima traccia, “The 23rd Circle Breeds Pestilence”, la batteria e il growling ci danno dentro terribilmente, tirando fuori il meglio in fatto di rabbia e cattiveria. “Lycanthropy”, seconda track, prosegue perfettamente il ritmo e il sound della precedente, cosi come pure in “Anchored to Suffocation”, sebbene il ritmo sia meno incalzante e più cupo. Il cantato è sempre sull'urlato, anche se è comprensibile (a fatica, lo ammetto). Per quanto possa sembrare troppo sintetica, le canzoni lasciano poco spazio ai pensieri, ma ti colpiscono così a fondo che viene spontaneo aggregarsi alle sensazioni che la band esprime. Con “The Rise of Noah” il sound dei nostri prende un'altra piega: la voce pulita di una fanciulla prende il sopravvento (vedi Lacuna Coil), accompagnata sempre da un sound nu metal più - oso dire - commerciale, con qualche nota qua e là del bel urlato furioso di cui fecevo menzione in precedenza. Chiusa la parentesi femminile, arriva “Loyal Breakdown of Souls”, in cui tutto l'astio viene messo in luce e gli strumenti straziati, sebbene ancora qualche particella in pieno stile nu sopravviva. Arrivati a metà disco, con “Sinner” si ha il totale ritorno al crossover: ritmo incalzante, niente respiro, headbanging sfrenato e la sensazione di essere invincibili! “Egoist” non cambia direzione, se non forse il piccolo mal di collo che sta uscendo dal movimento della testa e per qualche incursione della female vocal. Da segnalare che in questo album c'è una cover, “Deathwish”, uscita dalla mente malata dei Christian Death nel lontano 1982, e rifatta degnamente anche dai nostri svedesoni: nel loro stile ovviamente, esattamente agli antipodi dal goth rock dei suddetti Christian Death. “Burst”, la penultima canzone, riprende lo stesso motivo di “Egoist”, senza cambiarne nemmeno una virgola. Si arriva così a fine album, con la bella “Pure” che chiude questa sequela di rabbia furiosa senza limiti: normalmente si pensa che con l'ultima traccia, ci si senta un po' stanchi e si voglia rallentare il ritmo ma non in questo caso, visto che i nostri rimangono “crudi e puri” fino alla fine, magari aiutati qualche volta dalla suadente voce femminile che tende ad ammorbidire il sound. L'album si chiude di punto in bianco, senza alcuno strascico od eco, punto di cessazione dell’energia dei nostri. Da risentire… (Samantha Pigozzo)

(WormHoleDeath)
voto: 70

Nauthisuruz - State of Mind


Correva l'anno 2008, Mosca. Un duo, formato da Casuru e Sequoror, sfornava un album totalmente sperimentale: 8 tracce una diversa dall'altra, che presentano delle atmosfere che passano dall'incubo, all'elettronica più pura (che rimanda anche a sonorità fine anni ‘80) e alle atmosfere funebri. Iniziando l'ascolto dell'album, troviamo “Cosmos”: il nome di suo la dice tutta, infatti le atmosfere ivi contenute sarebbero più che perfette per un viaggio nello spazio: chitarra e tastiere sono al loro apice, mentre la mente vaga tra i gruppi di costellazioni e di ammassi globulari; difficile tenere la mente concentrata, visto che la musica ti entra nei meandri della mente e accompagna i pensieri ben oltre la realtà. Arriva poi il turno di “Whisper of a Soul”, più adatta ad una processione funebre, con la voce sussurrata e appena percettibile, mentre la tastiera e la chitarra sembrano avere vita propria: non vi è traccia di malinconia o tristezza, ma più un senso di ipnosi che ti svuota la mente, quasi eliminando ogni pensiero e disperdendo lo sguardo. “Lust”, invece, è più rancorosa e cattiva: caratterizzata da cori tipicamente eighties (probabilmente anche Casuru si è prestato alla voce, assieme a Sequoror), la song sciorina riff solisti e una batteria abbastanza tranquilla. Il cantato in puro growl alternato allo screaming, espelle tutta la frustrazione e la rabbia: da metà in poi anche la tastiera fa il suo solenne ingresso, presentando anche una parte di cantato “pulito”. “Dream, Mesmerize and Think” è a dir poco psichedelica. Con questo termine intendo che sembra non seguire affatto un filo logico, in quanto la chitarra va per la sua strada, la voce è grave e flemmatica e la mente ritorna a vagare sperduta, senza nemmeno rendersi conto del tempo che passa: è in questo modo che mi accorgo di stare già ascoltando la quinta traccia, “My New Way”, la traccia più industrial del lotto (e anche la mia preferita) con una chitarra distorta che mi fa destare ed illuminare: persino la tastiera fa la parte della chitarra (la cosiddetta nota modulata), il che porta questa traccia ad entusiasmarmi, piacevolmente sorpresa. Ascoltando il resto della traccia in religioso silenzio, seguendo attentamente i cambi di ritmo e di strumenti, arrivo a “Requiem to the Darkness”; qui il vento soffia forte e freddo, le atmosfere sono cupe, mentre una voce pare arrivare da molto lontano, portando con sé urla di paura e di dolore indistinguibili: sembra di essere in un film horror, più che in un album... ma, essendo totalmente sperimentale, è anche normale sentire questo lato “terrorifero”, demoniaco e infernale. Sarò visionaria, ma questo brano lo vedrei bene nel “Dracula” del 1931, con Bela Lugosi: magari si sono ispirati a lui nella stesura del brano, chissà. Pian piano si arriva alla fine dell'album: la prossima tappa la si trova in “Nostalgia (Disco in Hell 2008)”: come dice il titolo, lo stampo ricalca un po' la musica disco, ma senza mai abbandonare il filone di appartenenza metal sperimentale. Si ha così come risultato un “disco inferno” (non la canzone, ma proprio l'idea di una discoteca demoniaca), una cosa che le mie orecchie non avevano mai sentito prima, ma che sono una bella sorpresa. Chissà come sarà dal vivo, di sicuro smuoverà le masse. “Back to the Cold Reality”, chiude il platter: se l'inizio si mostra pacato, il resto del brano ce la mette tutta per riportare la mente alla realtà e per caricarci in modo da poter affrontare la dura vita. Elementi orchestrali si mescolano al growling e la calma si alterna alla furia, esattamente come le onde del mare. La nota nuova di questo brano è il violino, portatore di malinconia, che sembra quasi prepararci ad uscire dalla porta di casa. Ed è così che il viaggio nel lavoro dei russi Nauthisuruz arriva al capolinea, con la consapevolezza di essersi in qualche modo perduti e ritrovati. Concludo con una parola: spettacolare! (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 80

Moloken - Our Astral Circle


Lo ammetto: ho appena iniziato ad ascoltare l’album di questi svedesi Moloken, che seguono l'EP di debutto “We All Face the Dark Alone”, e la mia faccia si è dipinta di un’espressione indecifrabile, misto tra curiosità, senso di cattiveria e anche stupore: questo perché l’album presenta un’alternanza di suoni, che passano dalla furia accompagnata da un growling cavernicolo alla pacatezza e alla lentezza delle note, rendendo il tutto a tratti pesante e a tratti rilassante. L’opera d’arte (perché anche la capacità di mescolare tonalità contrapposte è un’arte) si apre con le atmosfere lugubri di “Molten Pantheon”, ben sottolineate da una voce cattiva e cavernicola, alternata da chitarre e batteria ben equilibrate tra loro: il sound risulta degno del death che più death non si può, rendendo l’animo ben oscuro e pesante. Se si provasse a chiudere gli occhi mentre scorre il cd, si verrebbe attanagliati dai incubi paurosi che scaturiscono dalla menti di questi oscuri individui Svedesi, immagini che riportano alla mente le distese infinite di boschi durante il lungo inverno, che sembra non avere mai fine. Qualche barlume di speranza lo si ha con “Untitled I”, grazie ad un riffing di chitarra molto malinconico e pacato, ma che viene sconvolto quasi subito dal growling del singer. Tutto il brano, comunque, alterna la furia del trio chitarra-batteria-basso con le note della sola chitarra, come a voler risanare le orecchie prese d’assalto. “Die Fear Will” sembra voglia strapparci di dosso l’anima, grazie ad una voce disumana e agli strumenti che la seguono fedelmente, come in un turbine senza fine. È poi la volta di “Followers”, che riprende le atmosfere ferine e il sound della precedente, anche se si rivelerà un po’ più melodica. “Untitled II”, strumentale all'inizio, genera sensazioni più malinconiche e tristi ma man mano che la traccia avanza, e il ritmo si fa più serrato è un senso di oppressione a schiacciarci il petto. Arrivati a metà album, il sound rimane sempre lo stesso, anche se inizia a far tiepidamente capolino una certa vena progressive rock anni '70: ne è l'esempio “Ebeorietement”, con molti inserti di chitarra, ad opera di Patrik Ylmefors, che rallentano la traccia, giusto per lasciare un po’ di respiro alla mente (e alle orecchie). Questa pace, però si conclude ben presto con “My Enemy”: una vera e propria dichiarazione di guerra con la batteria di Jakob Burstedt e la chitarra a picchiare veramente duro, ma condito da un mood a volte rallentato e subdolamente perfido. Sembra che la band scandinava pecchi un po’ di fantasia visto che arriva anche “Untitled III” più tranquilla rispetto alle precedenti songs con quella sua verve più progressive, per la mia gioia (finalmente posso chiudere gli occhi e immaginare le distese di boschi… ma stavolta di giorno!), anche se per pochi minuti… infatti a metà brano la cattiveria non può mancare, facendo ripiombare la mente nell’oscurità più profonda di un bosco a mezzanotte (e senza luna piena). Si arriva così all'ultimo brano, “11”12”: l'inizio di chitarra non fa presagire nulla di buono, come lo dimostra perfettamente la voce lacerante poi... le vertigini che questo brano crea sono a dir poco inquietanti, quasi non si riesce a scrollarsi di dosso l'angoscia che i riffs di chitarra ripetono continuamente, asfissianti nel loro incedere e a rendere questo brano quasi eterno! Ti martella così tanto che ti viene l'istinto di togliere il cd dal lettore... ma vi consiglio di resistere, perché dovete assolutamente ascoltarla fino in fondo. Traendo le conclusioni, non nascondo che ho faticato non poco ad arrivare alla fine del disco per il forte peso che mi ha messo sul costato! C’è sicuramente da ammirare la capacità dell’act scandinavo, di associare il death metal al progressive rock, rendendo questo album veramente degno di nota e di ascolto. Può piacere e non piacere, ma merita davvero un ascolto attento, anche da chi, come me, preferisce altri tipi di metal ma che comunque vuole comunque spaziare sin nell’oscurità più profonda di questa musica, incontrando l’anima più caotico malvagia del metal. (Samantha Pigozzo)

(Discouraged Records)
voto: 70

Sad Dolls - About Darkness


Formatasi nel 2007, questa band proveniente dalla Grecia (con un’età media molto bassa), dà alle stampe il loro album di debutto (dopo il demo “Dead in the Dollhouse”), mescolando le sonorità più cupe del gothic metal con l'elettronica più industrial: ne esce così un lavoro che può essere definito “electro gothic metal”. Il tema ricorrente sono le tenebre e la sensazione che esse portano (oltre, anche, a tutte le sue caratteristiche come il sangue, lacrime e l'abbandono). L'intro cattura da subito l'ascoltatore in un mondo oscuro, con parole sussurrate e accompagnate prima dalle tastiere e poi dal pianoforte, per poi lasciare spazio ad una chitarra malinconica, in grado di sottolineare con le sue note, i temi dell'oltretomba e della solitudine, oltre al sentimento di smarrimento e d'inquietudine. “Bleed All I Can” è già meno cupa, ma ricorda immediatamente il sound degli Him, con la voce alterata ed accompagnata dal connubio tastiere-chitarra, lasciando in secondo piano la batteria: si direbbe quasi che il sound sia perfetto per il tipico brano da cantare a squarciagola. Seguendo il filone dell'electro-metal, “Misery” lascia più spazio alla batteria, denotando un sound più industrial (leggasi Deathstars) rispetto al gothic della prima traccia. La voce è meno alterata, le chitarre sono messe in primo piano assieme alla batteria e le tastiere si limitano nella creazione dell'atmosfera. “Life Equals Zero” invece si distacca dal sound verso cui l'album stava virando e torna sul percorso gothic iniziale, con l’elettronica elemento costante di fondo e con la voce del singer tendente al grave/cupo: alta è la concentrazione di suoni elettronici e graditissimo l’assolo di chitarra nel mezzo del brano. “Watch Me Crawl Behind” prosegue con le sue atmosfere tetre, sottolineate anche dalle liriche incentrate su angeli, tenebre, sangue e amore finito: colonna sonora perfetta per film come “Twilight” e affini. “In Your Lies” si prosegue sulla stessa linea d’onda della precedente, se non per l'inserto di una voce femminile che sottolinea le tematiche meste e desolate: tastiere e chitarra sono all'ordine del giorno, come anche gli archi e la voce pulita e tenue. Con “Hopes” ci si desta dallo stato catatonico in cui si è caduti e si è più spronati a risorgere, cercando di lasciarsi alle spalle tutti i pensieri negativi: finalmente una song che dopo tanta negatività ci dona un barlume di speranza, come il titolo dice. “Death is Your Name” e “Dawn of Love” si avvicinano più a sonorità doom, una vera sorpresa dopo tanta elettronica: un momento di totale relax per la mente, dove da padrone sono le chitarre pure e semplici, con la voce che pare provenire dalle viscere della terra, quasi demoniaca per quel suo estremo growling, dopo averla sempre sentita pulita. “Evil One” è la copia sputata di “Misery”, più electro-industrial sulla scia dei già citati Deathstars, mentre “Mistress, Goodnight” recupera le sonorità di “Life Equals Zero”. L'album si chiude con “Don't Say Goodbye”, caratterizzata da pianoforte e violoncello, oltre alla voce sussurrata e dolce: scelta azzeccata, volendo restare sempre in tema gotico e lugubre. Non può però mancare la parte di chitarra, chiara espressione della tristezza e della disperazione più profonda. Nonostante i Sad Dolls siano una band giovane e influenzata dal sound dei finnici Him, saranno di sicuro in grado di sorprendere e di creare lavori sempre migliori. Quindi sarà meglio tenerla d'occhio, in quanto hanno ancora ampio margine di miglioramento. (Samantha Pigozzo)

(Emotion Art Music)
voto: 70