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sabato 27 novembre 2010

Heinrichreich - Druid


Non mi sento di salvare proprio nulla di questo “disco” anzi, questa parola: nulladefinisce la vera essenza ovvero l’inesistente sostanza di queste tracce, buttate lì, in qualche maniera. Non a caso ho usato la parola tracce perché le canzoni, quelle vere, sono basate sull’armonia, fattore di cui “Druid” è ahimè del tutto privo. L’intro di apertura “Cill and Disirt”, pezzo strumentale, non erige quell’atmosfera in cui un intro dovrebbe saperci calare e non riesce a condurci per mano tra le successive canzoni. Come ho detto prima, però, di canzoni non ve ne sono ed infatti eccoci or ora trascinati, ma che dico, stuprati con “The Legend of the Banshee”: è questo il modo di violentare una batteria? Non era più semplice e “melodico” campionare una raffica di mitra? Il risultato sarebbe stato certo migliore. Con “Blood and Soil”lecosesembrano apparentementemigliorareanche se qua e là qualche sbavatura vocale si fa notare. Quella del sangue comunque era solo un’illusione, infatti eccoci ancora una volta maltrattati con “Castles in Neslusa Forest” che scorre via, senza troppo farsi notare non aggiungendo nulla al disco. A questo punto cosa dire di “Samhain”? Un altro fiasco, ovvio. Quanto banale e fuori luogo sono quelle tastiere. Con “Slavic Feast” si tocca veramente il fondo ma non solo: si cerca addirittura di raschiare! Ancora una volta non ci siamo: qui sono le corde a prostrarsi chiedendo pietà. Analogamente con la successiva “Immortal March” mi sento di richiamare un’altra volta all’ordine Jorg, il factotum dellaband e fautore di questo tremendo supplizio. Altro che immortale, questo è il colpo tanto lesivo quanto letale per il druido. La sua magia non basta a salvarlo. Mi chiedo invece: di magia ne ha mai posseduta? Non sono sufficienti pause ad effetto o raddoppi e dimezzi del tempo per definire “tecnica” una canzone; i tempi dispari lasciamoli pure ai Dream Theater! La canzone strumentale “An Gorta Mor”, song che nella concezione del disco doveva forse solo fare da contorno a tutto il resto, risulta invece essere un sostanzioso primo piatto, assai semplice ma in grado di trasmettere emozioni, ideale come ottimo intro o outro per un buon disco. L’inizio di “Dying Emotions” sarebbe il proseguio perfetto della precedente song, ma ben presto tradisce la sua vera essenza: banale, scontata, pesante ma non nel senso “metallaro” del termine. L’ultima traccia “Green Fields of Hibernia”, lascia finire il disco con l’amaro in bocca anziché deliziare il palato come un dessert dovrebbe fare. In definitiva, quindi, il nome di un gruppo abbastanza noto mi sovviene per battezzare liturgicamente questo “lavoraccio”: quello degli Zero Assoluto. Lasciatemi riposare in pace, riavvito il coperchio della mia bara e non azzardatevi mai più a disturbare la mia anima irrequieta ivi prigioniera che si rigira, con simili e sterili litanie. (Rudi Remelli) 

(Self)
Voto: 45

domenica 21 novembre 2010

Soulsteal - Mirror is a Lonely Place


Nicosia, capitale dell’Isola di Cipro, Anno Domini 2001: nascono i Soulsteal. Socrates, Markos, Soteris, Doros: pregate per noi. No, non siamo di fronte ad una satanica litania, sono semplicemente questi i nomi dal retrogusto “alchemico” dei nostri paladini. Curiosi questi Soulsteal, non c’è che dire. I venti minuti in cinque pezzi di “Mirror is a Lonely Place”, primo e breve demoCd della formazione, si sviluppano come solo una polaroid saprebbe fare: piano, senza fretta, ci vengono svelati particolari sempre più definiti fino a rivelare l’istantanea finale, uno scatto metaforico e depressivo che descrive appieno l’essenza del gruppo. I sussurri, le lunghe pause, l’andamento lento, la voce growl profonda e cavernosa: sono questi i magici ingredienti di cui è intrisa questa release, colonna sonora degna per una “sacra scrittura” come “A Descent Into the Maelstrom” di Lovecraft. Poche parole, dunque, bastano a definire questo disco: breve ma piacevole da ascoltare, semplice e da bere tutto d’un fiato. (Rudi Remelli)

(Self)
voto: 70

sabato 30 ottobre 2010

Silent Path - Mourner Portraits


53 minuti e 45 secondi: 44, 43, 42… Ecco come “sento” questo disco: una caduta lenta, micidiale, inesorabile ma soprattutto inarrestabile, un conto alla rovescia che porta dritto dritto… alla bara. Un’immagine inquietante certo, che fa rimembrare quel periodico oscillare della falce di “The Pit and the Pendulum” del maestro E. A. Poe. Pace all’anima sua. Per la mia c’è ancora tempo. “Empty Earth”, “Broken Trees”, “Epic Suicide” sono solo tre delle nove tracce del disco. Titoli e contenuti tali da spingermi a definire questo lavoro un vero e proprio concept album. Una sorta di bambola assassina governata dalle fila della tristezza, della depressione e dalla peggiore di tutte, la solitudine. Musiche che non esitano, bensì godono nel rovistare tra le viscere dell’animo umano, viscere come quelle del “De Humani Corporis Fabrica” del Vesalio per intendersi. Musiche che si insinuano dentro, con forza; musiche e parole che erigono un vero e proprio “Malleus Maleficarum” per torturare, si, per torturare e con dovizia di particolari, l’incauto ascoltatore.. Ma quali le caratteristiche di queste musiche? Ecco alcuni dei comandamenti che vengono qui rispettati: lentezza in certi punti tale da mettere in difficoltà chi si trova tra piatti e tamburi, dissonanza e distorsione per la chitarra che non ha praticamente mai un suono pulito, voce growl, testi cantati abbastanza lentamente da dare il tempo, a chi canta, per una sorsata di rum tra una parola e l’altra. Una parola non sprecata per “Forgotten Sounds”: solitamente in un disco una traccia strumentale viene “sciacquata” via dalle altre, cantate (non a caso ho usato questo verbo, ascoltare per credere), io invece voglio, per una volta, sottolineare proprio una di queste canzoni, forse anche per gli ottimi campionamenti che creano il giusto pathos per un disco di questo genere. Ah si, quasi dimenticavo: dietro al nome “Silent Path” si cela un unico artista, di origine iraniana, il cui pseudonimo è “Count De Efrit” ma ahinoi non ci sarà nota la sua vera identità. Chiudo questa mia epistola con un avvertimento: assicuratevi di avere il morale alle stelle prima di lanciarvi all’ascolto di questo disco, toglietevi ogni tipo di prurito, già perché sarà l’ultima cosa che farete! Si, sono un bastardo, ve l’ho detto solo alla fine, quando ormai è troppo tardi per fare qualcosa: 3, adesso vi è ormai venuta già 2, voglia di 1, farla finita. Ben vi sta! Dannate siano le vostre anime… (Rudi Remelli) 

(Evil Distribution)
voto: 75

sabato 23 ottobre 2010

Nature's Elements - Beyond the Dunes


C’era una volta il “Lemegeton Clavicula Salomonis”, antico grimorio anonimo del seicento, uno dei più famosi testi di demonologia. La bella notizia è che c’è ancora. Qualcosa però mi dice che se andrete in biblioteca a chiedere di leggerlo, il signor Koreander non vi sorriderà come se gli aveste chiesto “La Storia Infinita”. Vi guarderà invece di sbieco e dopo avervi consegnato il volume, riguardandovi da sopra gli occhiali, gli sentirete dire: “ricordati che sulla copertina non c’è un aurim che esaudisce i desideri e soprattutto non esiste una principessa bambina da salvare. Sarà la tua anima che bisognerà salvare dopo che leggerai da questo libro.” E… “Dolori cocenti intrisi nel sangue e morte spetteranno a coloro che si impossesseranno di questa mappa”… ah no, quest’ultima non centra niente, erano i Goonies. Tornando invece al signor Koreander, non appena vi sarete girati per immergervi nella lettura del vostro bel libro sbarluccicante, lui non esiterà nel gettarsi una manciata di sale alle spalle. Per chi fosse a digiuno in questa materia (E chi non lo è?) i grimori sono testi contenenti le descrizioni degli spiriti, la ritualistica necessaria per evocarli e costringerli ad eseguire gli ordini del mago. Vengono date istruzioni dettagliate circa i simboli, le procedure rituali da eseguire, le azioni necessarie per impedire che gli spiriti prendano il sopravvento, i preparativi che devono precedere l'evocazione ed il modo in cui costruire gli strumenti necessari per l'esecuzione di tali rituali. Ma qual è quel curioso collegamento che mi ha portato a disquisire del “Lemegeton” nel bel mezzo di questa recensione? Niente di più semplice: i nomi scelti dai membri dei Nature’s Elements. Abbiamo a disposizione un’orda di cinque demoni, proprio come (che sia un caso? Non credo) le punte del pentacolo. Vediamo quali sono: Ipos voce e tastiere, Sitri e Vual alle chitarre, Phenex alla batteria e Botis al basso. Questi nomi sono tutti appunto tratti dal “Lemegeton”, sul libro ognuno è rappresentato dal sigillo corrispondente. I cinque sigilli sono stampati in bella mostra sul CD stesso e mi è quindi sembrato doveroso parlarne. La storia dei Nature’s Elements, per niente antica, inizia nel 2001 dal progetto solista del frontman, Ipos, di origine uzbeka. Pur avendo sede in Israele, locus insolito per un quintetto di questo genere, gli altri “Elements” provengono dal blocco sovietico. Vuel e Botis sono infatti Ucraini, Phenex è bielorusso e Sitri russo. E’ giusto ricordare anche un triste cameo nella storia di questa band: la drammatica e prematura scomparsa, per suicidio, di IPOS passato a miglior vita nel 2005. I suoi compagni dedicarono a lui il loro live a Thorheim (5.01.05). Con questo loro lavoro, “Beyond the Dunes”, registrato nel giugno 2005, ma pubblicato nel 2008, i nostri “cherubini che hanno perso le ali” ci presentano “Beyond the Dunes”, EP del 2005 e “Uprising of the Elements” demo del 2003 rimasterizzato. Fin dalla prima traccia “Put V Samost” ci scontriamo con chitarre distorte dal riff violento, feroce, una batteria dominata da rullate velocissime e cascate di tom accompagnate da doppia cassa a go go. Quello che stupisce è la voce, che cambia in continuazione a dare una cacofonia di suoni a tratti pulita ma predominata sempre dal growl che la gioca da padrone. Profondo, sanguigno tanto che chiudendo gli occhi mi sovviene l’idea che a cantare sia un cadavere incazzato ed impazzito che con la potenza delle sue urla ha divelto le saldature a stagno della sua bara facendo schizzare schegge di mogano dappertutto. Se mi concentro, riesco ad avvertire persino l’odore di putrefazione. E non si può non citare “Alfheim”: cosa sta facendo Ipos? Rutta o vomita? Non lo so dire, forse rumita, ma diavolo se ci sa fare. L’intro strumentale di “Uprising of the Elements”, “First Spell of the Desert”, è tristissimo ed accompagna gatton gattoni con la sua malinconica foggia alla successiva “Stihii Gryaput”, otto minuti di perversa follia, belle le chitarre anche se qualche passaggio è di troppo e a mio parere si potrebbe sforbiciare. Bella anche l’idea della pioggia messa lì forse per dilavare il sangue che sino ad ora è scrosciato. Ascoltando “Werewolf”, invece, una domanda mi sorge spontanea: all’inizio, a parlare, è forse Regan protagonista de “L’esorcista”? Adesso che i nostri cinque demoni con le loro prelibatezze sonore mi hanno deliziato e così ben accarezzato a livello di incudine staffa e martelletto, finisco facendomi cullare dalle tanto suadenti quanto tristi note di “Rivers of Time, Forgotten” ottimo outro strumentale che ricorda l’intro. Si finisce quindi con sapori di tristezza, malinconia e a mio parere la peggiore di tutte le sensazioni: la solitudine. (Rudi Remelli)

(Self)
Voto: 70

Amphitryon - Drama

#PER CHI AMA: Death Orchestrale
Chiudo gli occhi e con "Archéia" eccomi calato nella massonica atmosfera di questo "Drama", vero e proprio cammino iniziatico in quindici gradi proposto dagli Amphitryon. Entro solo nel mio gabinetto di riflessione e perseguo, privo di ogni affidamento dogmatico, la mia rinascita. Avverto, nell’aria, l’odore dello zolfo, del sale. Melodie oscure e misteriche che riescono a solleticare, incuriosire e perché no, sorprendere l’ascoltatore. Avremo ben sei guide o, per tenerci al passo coi tempi, sei avatar ad accompagnarci in questo nostro onirico viaggio sonoro: gli Amphitryon, appunto, band francese di Boulogne-sur-Mer attiva dal non troppo lontano ’96. Anfitrione è il nome del mitologico personaggio greco col quale i nostri amici hanno deciso di battezzarsi. La leggenda lo vuole figlio di Alceo, re di Trezene e nipote di Perseo, eroe che sfidò Medusa. Ma di che sostanza stiamo parlando? Di cosa sono fatte queste canzoni? Dal punto di vista canoro assistiamo ad un Galileiano dialogo dei massimi sistemi: voce growl maschile da una parte a contrapporsi con due voci femminili, pulite, a volte sussurrate, dall’altra. Personalmente interpreto queste ultime come un tentativo di riportare in vita l’ormai dimenticato mito delle vestali, vergini che sanno ben gestire quel fuoco sacro sprigionato da canzoni come “Pantheon”, ad esempio, dal retrogusto “Carmino Buranico”: concedetemi questa licenza poetica. La traccia successiva, “Paths of Dementia” è a mio parere il pezzo forte del disco, mette in luce le perfette armonie tra chitarre dal riff distorto tanto amato dai metaller e controtempi di batteria. Il disco si chiude con Samsara, pezzo dalle curiose sperimentazioni canore che prevedono anche una seppur breve incursione in stile “tibetano”. Ascoltare per credere. “Drama” comprende, oltre al CD, anche un DVD che ripropone le stesse tracce presenti sul CD. Da notare, però, che in questo caso la durata del video è di circa cinque minuti più lunga rispetto la versione audio. Questi minuti aggiuntivi sono stati utilizzati per prolungare (a mio parere appesantendoli) l’intro e l’outro del concerto. Sul DVD sono inoltre presenti interessanti contenuti tra cui le biografie di tutti i componenti del gruppo. L’impressione finale che questo disco mi ha lasciato è quindi quella di un lavoro ben congegnato, sicuramente originale, che merita di essere ascoltato. (Rudi Remelli)

(Manitou Music)
Voto: 75
 

domenica 3 ottobre 2010

Achernar - Spectral Universe

#PER CHI AMA: Black/Death
Immaginate la liscia superficie di un lago assolutamente priva di qualsivoglia increspatura. Ora osservate al suo centro quella nitida, ferma e perfetta falce di luna: crescente, abbagliante. Qualcun altro con voi la sta guardando: la vedete, là, sulla sponda, quella figura incappucciata e oscura? Pronuncia arcane parole. Ecco d’improvviso innalzarsi verso il cielo una violenta e fluorescente colonna d’acqua proprio là dove un attimo prima vi si specchiava la luna. L’acqua ricade impetuosa e repentina, si plasma a formare la creatura. Ascoltatela parlare, emette un growl profondo, catarroso. Quale magico filtro ti sei trangugiato Okram? Bravo davvero. Se mi concentro odo or ora persino il profondo e ritmico pulsare del suo cuore: ottimo lavoro con quella cassa Reshaim. Ecco come “vedo” o meglio “avverto” “Sky’s Suicide”, prima track dell’album. Spero, con queste mie parole, che l’abbiate vista anche voi: che spettacolo. E se vi dicessi che questo era solo l’inizio? Si era solo l’inizio, l’estasi procede cavalcando le note di “The Sign of the Moon”. Una luna che un segno lo lascia davvero. Ancora una volta è la voce che voglio premiare, anzi: le voci, ne distinguo infatti due. E cosa dire della magia di “Into the Depth”: ma quale profondità??? Il fondo lasciatelo toccare agli altri, voi volate lassù, sempre più in alto, voglio vedervi un giorno dare una bella grattatina all’Empireo. Davvero bravo Reshain in “Morning Star”: la scelta di soluzioni relativamente semplici premia un pezzo che sicuramente molti altri non avrebbero esitato a violentare con talvolta inutili estremismi tecnici. Non vi ho ancora parlato di Misa e Antonio, chitarra e basso di questa quaternaria costellazione. Cosa dire: molto buona la mai esagerata distorsione che sempre si sposa con tutti gli altri strumenti senza coprirli. Le plettrate proprio bene quelle corde. Se usassi l’aggettivo estremo per definire questa release, più di qualcuno potrebbe non essere d’accordo al riguardo: sotto sotto non lo sono nemmeno io con me stesso, diciamo che nella scala Mohs lo collocherei al sesto grado, quello dell’ortoclasio. Ne sono certo: la vostra lucente stella del mattino continuerà a brillare lassù in alto, in alto Achernar. Washington sarebbe di certo fiero di voi e del vostro “geomantico” “Spectral Universe”. Pochi capiranno il profondo significato di queste mie ultime, criptiche parole, ma sinceramente non importa… (Rudi Remelli)

(Self)
Voto: 75

Adimiron - When Reality Wakes Up


Pochi istanti d’ascolto ed eccomi violentemente catapultato nell’ipnotico trip degli Adimiron. Subito mi identifico in uno di quei caduchi angeli ribelli di Pieter Paul Rubens, al seguito dei quali precipitano a catena uomini e donne trascinati sulla via del male. Gli Adimiron sono cinque, sono italiani, sono vincenti. Con “When Reality Wakes Up” giocano la loro partita e la vincono. Nulla da spartire con quegli undici perdenti d’azzurro vestiti. Le vorticose note di “Desperates”, prima track della release e la successiva “Wrong Side of the Town” dal sound potente, tecnico ed aggressivo, mi travolgono, ghermiscono o forse abbracciano. Mi sento sempre più vicino, sempre più solo, sconfitto e perduto, al fondo degli inferi. Si, proprio là dove sta il drago, a cibarsi dei dannati ma senza alcun San Giorgio a dissuaderlo. “Mindoll”, al contrario di una droga, stimola nel mio encefalo la formazione di nuove lisergiche reti neurali cablate dalla successiva “Das Experiment” e cauterizzate definitivamente poi con “Spitfire” (cover dei Prodigy): ormai sempre più vicino al drago, avverto l’odore del suo mefitico fiato. Non convince invece, a mio parere, la scelta della strumentale title track come titolo di questo lavoro: non che sia brutta ma nemmeno da premiare. Una parentesi, a questo punto, se la merita sicuramente anche il packaging: davvero ben curato, esteticamente perfetto, grafica riuscita ed un libretto davvero moderno. Chiusa la parentesi, tornando alle musiche, a chiudere per sempre(?), di sicuro in bellezza, le fauci del drago ci pensa “Flag of Sinners”. Ancora una volta, quindi, vince Giorgio ma stavolta, non con una lancia ma con l’asta di una bandiera. D’altronde questo è un anno di mondiali ed al posto delle trombe ad annunciarci l’apocalisse ci tocca, purtroppo, una schifosissima vuvuzela. (Rudi Remelli)

(Alkemist Fanatix)
voto: 75