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sabato 27 giugno 2020

Before the Common Era - Anthropologic

#PER CHI AMA: Prog Death/Groove
I Before the Common Era sono un quintetto originario di Londra che con questo 'Anthropologic' varano il loro debut assoluto nel mondo metallico. La proposta offerta dai cinque British in questo EP è all'insegna del death progressive. Questo si evince dal bombardamento ritmico di "Sol", il piccolo gioiellino posto in apertura che indica la via seguita dal quintetto, che si muove tra influenze di meshuggana memoria e rimandi a Devin Townsend e Tesseract, motivo questo per cui i nostri hanno avuto una immediata presa sul sottoscritto. Le melodie sono interessanti, la classica poliritmia di matrice svedese fa il resto con le vocals del frontman che si muovono tra il growl e il pitch pulito, stile ampiamente sfruttato soprattutto nella seconda "Hadeharia". Certo non siamo al cospetto di nessuna novità stilistica, però mi piace poter segnalare nuove band che approcciano da poco il mondo musicale, sperando un domani di aver avuto ragione nel sottolinearne le qualità. La band continua a macinare riff carichi di quel groove che gronda da tutti i pori e "Repudiation" è il manifesto di buoni propositi in termini di belligeranza, esposto dal rifferama caustico e serrato della band. A chiudere questo primo capitolo, ecco "The Tenth Dimension" un brano che miscela in modo bilanciato melodia e violenza in questo primo EP targato Before the Common Era, che meritano di una chance più lunga e strutturata per un giudizio finale meglio delineato. (Francesco Scarci)

lunedì 1 giugno 2020

Stoned God - Incorporeal

#PER CHI AMA: Prog Death, Cattle Decapitation, Devin Townsend
Più volte mi sono chiesto se l'originalità sia tutto nell'ascolto di un disco o se magari altri fattori contribuiscano alla positiva valutazione di una release. Ecco, prendiamo ad esempio la band di oggi, i tedeschi Stoned God: la compagine di Göttingen propone un sound che di originale non ha granchè, dovrei forse bocciarli? Ecco, di primo acchito non partirei proprio positivamente nella valutazione del loro secondo lavoro, 'Incorporeal', eppure quest'album ha quel quid che mi induce a molteplici valutazioni. La band infatti ci spara in faccia con l'opener "Celestial Deicide", un death robusto, che trova in un primo assolo davvero ispirato, il mio primo crocevia valutativo, facendomi immediatamente porre maggiore attenzione alla proposta del'ensemble della Bassa Sassonia. Tra fustigate sonore e stridule linee di chitarra, la band equilibra una proposta musicale che rischia talvolta di sfociare dalle parti di un extreme death alla Cattle Decapitation, comunque corredato da una buona dose di melodia e groove, anche a livello vocale, ma vedremo in seguito. Con "Dethrone the Traitors", il combo teutonico deflagra ancora roboanti linee di chitarra e basso, senza dimenticarci di una sassaiola batteristica da paura (ottimo Maté Balogh a tal proposito), con il vocalist che si muove tra un growling furioso nelle parti più tempestose, e vocalizzi puliti (e urlati) stile Devin Townsend, nelle parti più melodiche, permeate peraltro di una certa vena progressive. È forse con la title track però che trovo il sound della band ancor più accattivante, a fronte di una continua alternanza ritmica tra stop'n go di scuola Gojira, lead guitars da urlo ed una ricerca melodica che va migliorando istante dopo istante, soprattutto in un finale in super discesa che ha ancora da mostrare quanto i nostri possano essere pirotecnici con i loro strumenti. Top song per quanto mi riguarda. Più tradizionale invece l'impatto di "The Creator", decisamente più interessante nelle parti atmosferiche di matrice Fallujahiana. "Illusion" ci crivella di colpi nonostante un inizio in sordina, ma nei suoi tre minuti e mezzo, si dimostra dotata di una furia colossale con un assolo che sembra uscito da 'Clandestine' degli Entombed (ottima l'ospitata di Manu Moreno), con le vocals che giocano ancora a ping-pong tra il growling e il cleaning. Il riffing corposo prosegue con l'abrasiva "Alive", dove il merito di rendere speciale una traccia forse banale, spetta ancora una volta al lavoro mostruoso alle chitarre del factotum Steffen Hustert (anche basso e voce). "Artificial Sun" è un altro pezzo più ritmato e meditabondo, che magari si discosta dalla furia ascoltata sin qui, alla pari di "The Decadent Blind", che con quel suo riffing mastodontico di meshuggahana memoria, è poi corredato da ottimi arrangiamenti, parti rallentate di grande atmosfera, ed un apparato vocale davvero eccellente che la ergono a mio secondo brano preferito del lotto. A chiudere 'Incorporeal' ecco la mia terza top song, "Glowworms", e strano per una volta identificare nelle ultime posizioni della scaletta, le migliori tracce di un disco, chissà se è stato voluto intenzionalmente. Comunque, il pezzo ha un mood malinconico, con velocità più calibrate (ove il mastermind tedesco sembra trovarsi più a proprio agio) e sempre un uso ben bilanciato tra potenza, carico grooveggiante e melodia. Alla fine il death progressivo degli Stoned God, pur non eccellendo in personalità, si rivela gradevole e di facile presa, merito anche degli ottimi musicistiche hanno preso parte a questa release. Ora sono davvero curioso di ascoltare dove le future release dei nostri ci potranno condurre. (Francesco Scarci)

venerdì 22 maggio 2020

Daven - Frontiers

#PER CHI AMA: Prog Death
Premesso che è meglio sorvolare sulla banalità di un artwork di questo tipo, vi confermo che è molto meglio concentrarsi sulla musica della one-man-band statunitense. 'Frontiers' è il titolo dell'ultimo arrivato in casa Daven, un'artista che può vantare nella sua discografia ben sette EP, tra cui quello di oggi. Il genere proposto dal mastermind di Columbia in Missouri, è un colorito e particolare black death che si apre sulle note soffuse dei synth di "Hostile Life" che fungono un po' da intro apripista ad una traccia ben più complessa e strutturata, che ha il merito di svelarsi in modo sinistro. Dopo i synth d'apertura, ecco infatti un riff compatto e marziale, sul cui sfondo si alternano differenti spoken words che sembrano preparare il terreno all'arrivo di un sound che si rivelerà ben calibrato e ritmato, ove il cantato mostri finalmente la sua anima growl. Il pezzo si muove poi su un mid-tempo costruito da un rifferama di scuola meshuggahiana con in background leggiadre keys che costruiscono interessanti trame atmosferiche. Il risultato è alla fine piacevole, ma non ne dubitavo da uno che suonare in band (tra ex e attuali, ne vanta ben 12) ne fa verosimilmente lo scopo di vita. La seconda "Ship of Destiny"si muove invece tra un viking black e il death, non mostrando chissà quale grande inventiva ma suonando in realtà in modo semplice e pulito, con una buona vena melodica che dal break acustico di metà brano in poi, e pur mettendo in luce i punti deboli del musicista americano, ne evidenzia anche i punti di forza. "RD/RN" sembra un brano uscito da una qualche band prog rock anni '70, il che mi lascia alquanto spiazzato visto che sembra completamente scollegato da quanto ascoltato sin qui. Anche a livello vocale si assiste ad una vera trasmutazione del vocalist che qui canta un po' stile Alice Cooper. E arriviamo alla title track, una song che esibisce le influenze folk rock dello stato da cui proviene Mr. Daven, e in cui il duetto chitarra acustica e pianoforte, hanno un forte impatto strumentale. Poi il chitarrone elettrico, scuola Devin Townsend, viene in supporto, tessendo una buona trama chitarristica progressive, il tutto rigorosamente in chiave strumentale che non mi svela alla fine granchè di questo artista nord americano, avendomi mostrato in quattro tracce, quattro anime quasi del tutto differenti. Da tenere comunque monitorato, per capire dove Daven andrà a parare nell'immediato futuro. (Francesco Scarci)

venerdì 24 aprile 2020

Despondent Chants - The Eyes of Winter

#PER CHI AMA: Death/Doom, Katatonia, Insomnium
L'abbiamo snobbata per anni, devo ammetterlo, ma la scena sudamericana ha rilasciato una miriade di release senza che l'Europa lo venisse fondamentalmente a sapere. Ora, l'etichetta dei Despondent Chants, death band peruviana, mi ha inviato il loro debut album seppur datato 2018, e quindi francamente mi sento in obbligo di raccontarvi di questo 'The Eyes of Winter'. Un disco che si apre sulle note melodiche di "Unprotected Hearts" che mai e poi mai, mi farebbero pensare che sia una realtà sudamericana a rilasciare un sound come questo. Si perchè il pensiero mi porterebbe immediatamente in Scandinavia, nelle zone battute dagli Insomnium ad esempio o da altre band quali Enshine, October Tide, Draconian, tanto per citarvi qualche nome. Questo per dire che i Despondent Chants, originatisi a Cuzco nel lontano 2003, non sono certo degli sprovveduti e potranno farvi ricredere sulle qualità non indifferenti della scena locale peruviana. "An Olden Sea of Prayers" non fa che confermare le mie parole, con il quartetto a offrirci la loro visione (non troppo personale ahimè) del death doom melodico e decadente, venato di una forte componente malinconica. Quindi cosa mettere in conto nell'ascolto di questo disco? Sicuramente un riffing corposo e cadenzato, un growling profondo ma gradevole che ben si amalgama con la musica e delle buone linee di chitarra che ammiccano inevitabilmente ai gods europei. Ben vengano quindi release di questo tipo anche da quella parte di mondo dove si suppone solo di andarci a fare le vacanze, e dove non si ha la benchè minima percezione di quale possa essere invece la brulicante scena musicale. Posso affermare però con buona certezza che se le origini dei Despondent Chants avessero condotto a Finlandia o Svezia, la band avrebbe strappato un buon contratto da qualche fantomatica etichetta europea major del metal, ma laggiù in mezzo alle Ande, la visibilità è certamente ridotta a zero. Un pezzo come "Tide of Sufferings" avrebbe fatto certamente gridare al miracolo con quel suo assolo prog rock posto in apertura e comunque una palesata solidità ritmica che ha valso ai nostri l'opportunità di condividere il palco con band del calibro di Unleashed e Carach Angren, questo a certificare le qualità di un combo che vede sparare una serie di cartucce, certamente non a salve. Proprio partendo da questa malinconica traccia (la mia preferita del cd) che evoca un che dei primi Katatonia, i quattro musicisti mettono in linea una serie di episodi davvero convincenti: la goticheggiante "Atonement", in cui si sperimentano anche le clean vocals - come gli ultimi Katatonia insegnano - e poi "Sancta Sanctorum" che coniuga l'indottrinamento degli Opeth con ancora fortissimi richiami alla band di Jonas Renske e soci. Per concludere, mi sento di consigliarvi fortemente di ascoltare questo disco, mettendo da parte la diffidenza che sia una band di Cuzco a farlo, questo per dire che da quelle parti non ci sarà solo la maestosità di Machu Picchu da apprezzare d'ora in poi. (Francesco Scarci)

domenica 19 aprile 2020

King SVK - New Æon

#PER CHI AMA: Experimental Death Metal, The Project Hate, Carnival in Coal
Dall'incipit mediorientaleggiante di "Ozymandias", mi sarei aspettato origini più esotiche per la band di quest'oggi, in realtà i King SVK sono un duo proveniente dalla Slovacchia (da qui deduco l'acronimo SVK nel moniker). 'New Æon' è il terzo album dal 2000 quando Ivan Kráľ (tastiere e synth) e Norbert Ferencz (chitarre), fondarono questa stravagante compagine. Il duo propone infatti un death metal moderno, melodico con tematiche incentrate sulla mitologia dell'antico Egitto, fuse con la filosofia di Friedrich Nietzsche. Da un punto di vista musicale, aspettatevi invece tonnellate di cyber death metal fatto di ritmiche belle pesanti ma comunque grondanti groove da tutti i pori, vocals che si dipanano tra il growl ed un cantato pulito un po' meno convincente (e da rivedere), ottimi cambi di tempo e quintalate di synth. "Hymnus Aton" è la seconda traccia che apre ancora con riferimenti arabeschi, per lasciare presto il campo ad un riffing a cavallo tra Meshuggah e Fear Factory e un incedere comunque sempre parecchio orecchiabile che forse travalica qui nel viking grazie all'utilizzo di alcuni cori epici. "Chant Of Praise Of Nimaatre" sembra invece provenire da qualche disco circense dei Pensées Nocturnes, ma la sensazione dura solo per pochi secondi, visto che la vigorosa band slovacca torna a sfoderare un rifferama bello compatto sul cui sottofondo sembrano collocarsi delle strane trombette. Lo spettro circense però torna a riaffacciarsi in più casi nell'irruenza fragorosa del brano. Con "Seeking of Being", song strumentale, ci lasciamo ammaliare dai suoni di un organo che fa da apripista al saliscendi chitarristico che trova anche in un break acustico, l'attimo ristoratore utile a darci la carica e ripartire di slancio con la musica dei King SVK, qui più che mai sperimentale, quando ampio spazio viene concesso al suono di quella che parrebbe una spinetta, e prima che i nostri si lancino in una rincorsa prog rock. E bravi i due musicisti, che devono avere un pedigree di tutto rispetto viste le qualità tecniche. Ciò è confermato a lettere cubitali anche dai successivi pezzi: "Homeless" in primis, dove sottolineerei una schitarrata iniziale in stile "death metal from Stockolm", a cui segue l'imprevedibile e abbondante utilizzo delle clean vocals che qui doppiano il growling maligno del frontman, in un esperimento riuscito ahimé solo a metà, colpa esclusivamente della voce pulita davvero fuori posto. Che peccato maledizione, perchè la cosa avrebbe avuto risvolti decisamente interessanti, ma potrebbe anche essere che le vostre aspettative non siano cosi alte quanto le mie e possiate anche passarci sopra. Io francamente faccio un po' fatica e me ne dispiaccio particolarmente perchè in queste note percepisco la forte volontà da parte dei due musicisti slovacchi di mettersi in gioco, rischiare il tutto per tutto con la carta della creatività e andando assai vicino a compiere il miracolo. Niente paura, ci riprovano anche nella ancor più stralunata "Venetian Night" dove è una (o più?) voci femminili a provare a sostenere il riffing brutale dei nostri in un esperimento affine a quello degli svedesi The Project Hate; tuttavia anche qui la componente vocale non si rivela all'altezza. I nostri comunque non si perdono mai d'animo, vanno avanti nella loro strada pur ricascandoci in "Sea in the Soul" (da rivedere quindi il casting per la voce), visto che le dolci donzelle mal si adattano ad un sound robusto che prova qui anche la strada delle orchestrazioni. Bene da un punto di vista musicale, c'è ancora da sistemare qualcosa in quello vocale. "After Swimming", con un bel po' di immaginazione, potrebbe somigliare col suo coro fanciullesco ad "Another Brick in the Wall" dei Pink Floyd, con la song che comunque ha un forte piglio prog fatta esclusione per le ritmiche possenti. Ma la ricercatezza in trame elaborate fa parte del duo slovacco, anche nella più schizofrenica "With Horus in the Sky", quando i nostri ritornano sulla strada maestra dei primi pezzi e si lanciano in rincorse chitarristiche qui ancor più complicate che in apertura, ma con un occhio puntato sempre alla tradizione egizia. Il viaggio con i King SVK si completa con "The Age of Aquarius", una song che mi ha richiamato alla memoria un che dei Carnival Coal, sia a livello vocale che musicale. Ora, dopo aver speso tre quarti d'ora in compagnia dei King SVK, senza ascoltarne la musica, potrete solo lontanamente immaginare quali siano i margini di follia di questi due personaggi. Dategli un ascolto, fatevi un favore. (Francesco Scarci)

sabato 14 marzo 2020

Karmatik - Unlimited Energy

#PER CHI AMA: Prog Death, Cynic
Nel mio costante scandagliare l'underground metallico, questa volta mi sono fermato in Canada, nello stato del Quebec, per dare un ascolto alla seconda prova di questi melo deathsters che rispondono al nome di Karmatik. La loro ultima release, 'Unlimited Energy', è uscita nel 2019 a distanza di sei anni dal loro debut album, 'Humani-T'. Perchè soffermarmi sulla proposta di questo quartetto di canadese? Perchè sono interessanti interpreti di un sound che coniuga il melo death con prog e techno death. Lo dimostrano subito con i fatti e l'opener "Universal Life", una traccia che mette in luce la caratura tecnica del combo, una certa ricerca per il gusto, e questo loro combinare riffoni death, sempre pregni di melodia sia chiaro, con rallentamenti più sofisticati che mi hanno evocato i Cynic. E la band di Paul Masvidal e soci torna anche nell'incipit di "Tsunami Sanguinaire", con quei rallentamenti acustici da brividi, prima che la band ingrani la marcia e riparta con un rifferama compato, carico di groove, ma pur sempre bello incazzato, ove la voce di Carol Gagné trova modo di sfogare tutta la propria rabbia grazie al suo possente growl. Poi è solo tanto piacere grazie a quei break sopraffini di chitarra e basso, per non parlare dell'eccellente apparato solistico che ci delizia con ottimi giri di chitarra. Diamine, 'Unlimited Energy' è un signor album allora? Si, per certi versi rischia di essere un masterpiece, per altri mi viene da dire che l'album è ancora fortemente ancorato a vecchi stilemi di un death metal di cui si potrebbe anche fare a meno. Perchè dico questo? Semplicemente perchè quando i nostri si adoperano nel classico sporco lavoro death old school, finiscono nel calderone del già sentito. Questo capita con "Black Sheep... Be Yourself", una song che ha il suo primo sussulto solo sul finire del brano. E allora l'invito è cercare di essere un po' più fuori dagli schemi anche in quei frangenti più classiconi, altrimenti la possibilità di non farsi notare si acuisce ulteriormente. Il disco è comunque una prova di tutto rispetto che evidenzia luci ed ombre di una band che potrebbe dare molto di più. Vi segnalerei un paio di pezzi ancora che mi hanno entusiasmato più di altri: in assoluto "Transmigration of Souls" che, nonostante la sua natura strumentale, suona come un mix esplosivamente melodico tra i Death e i Cynic. E ancora, vi citerei i giochi di chitarra di "Defeat or Victory" in un contesto comunque deflagrante e la più sperimentale "As Cells of the Universe" per l'utilizzo di vocals meno convenzionali su un tappeto ritmico fortemente influenzato dalla scuola di Chuck Schuldiner. Ben fatto, ottima la prova dei singoli (basso in testa) ma ora mi aspetto il definitivo salto di qualità. (Francesco Scarci)

domenica 8 marzo 2020

Nawabs of Destruction - Rising Vengeance

#PER CHI AMA: Prog Death
Mi piaceva l'idea di recensire una band proveniente dal Bangladesh e cosi non ho resistito a prendere in mano l'EP di debutto uscito nel 2019 e a darci un ascolto attento, in attesa che venga rilasciato il prossimo aprile il loro album su lunga distanza. I Nawabs of Destruction arrivano da Dhaka, la capitale del paese e propongono in questo trittico di song, un concentrato di death progressive davvero entusiasmante. Se non avessi letto l'origine della band su Metal Archive, avrei pensato sicuramente alla Scandinavia, non solo per la freschezza a livello di suoni, ma anche per una perizia tecnica da parte del duo asiatico, davvero ineccepibile. E allora, fatevi investire anche voi dai suoni potenti e melodici di questo 'Rising Vengeance' e dalla spettacolare title track che apre le danze in modo coinvolgente tra cambi di tempo, epiche cavalcate e fantastiche melodie, il tutto in un'alternanza vocale assai interessante, tra il classico growl e un cantato tipicamente prog. Come quello che compare all'inizio della più tiepida "Beginning of the End", un mid tempo che non tarderà a crescere di intensità e a tenervi con le orecchie incollate ai funambolici giochi di chitarra del duo bengalese, davvero incazzato sul finire della song. Ultimo pezzo affidato a "In the Verge of Death", tre minuti di death metal grooveggiante bello tirato e con un assolo stile band thrash anni '80. Ora la curiosità per il full length in uscita per la Pathologically Explicit Recordings si fa davvero forte. (Francesco Scarci)

sabato 8 febbraio 2020

Monolithe - Okta Khora

#PER CHI AMA: Death/Doom/Prog, primi Opeth
Da sempre i Monolithe amano giocare con i numeri, abbinando per ciascun album un determinato numero di pezzi dalla durata ben definita. Se i primi quattro lavori erano in realtà opere monolitiche costituite da un solo brano, con 'Epsilon Aurigae' e 'Zeta Reticuli' si è iniziato a sperimentare con tre pezzi da 15 minuti. 'Nebula Septem' include invece sette brani di sette minuti ciascuno. Infine, in quest'ultimo e ottavo lavoro intitolato 'Okta Khora', ecco che la scelta di Sylvain Bégot e soci, è caduta su otto brani della durata di 04.04 e 08.08 minuti (con in mezzo anche uno 04.08 ed uno 08.04) per un tempo complessivo di 48 minuti e 48 secondi. Evviva la simbologia esoterica e il significato dei Numeri, laddove il Numero Quattro è il più perfetto tra i numeri, essendo la radice degli altri numeri e di tutte le cose, mentre l’Otto è il simbolo dell’infinito, il riflesso dello spirito nel mondo creato, dell’incommensurabile e dell’indefinibile. Otto brani quindi, per chi non l'avesse ancora capito, che si aprono con "Okta Khora (Part 1)", una malinconica traccia strumentale che prende definitivamente le distanze dagli esordi funerei e funesti dei nostri. A seguire "Onset of the Eighth Cycle" (riecco l'otto), un brano che si affida ad un doom/death per raccontarci lo stato di forma dell'ensemble francese, che in questa release narra di una civiltà aliena e dell'intento di cancellare tutte le altre specie presenti nell'Universo. Allegria, in un periodo come questo di pericolose pandemie virali, la visione dei Monolithe suonava già (un paio di mesi orsono quando è uscita la release digitale) come un oscuro presagio di estinzione della razza umana. Tornando alla musica, la band si conferma maestra nel confezionare pezzi di notevole caratura tecnico compositiva, contraddistinti da ritmiche cadenzate, lunghe parti atmosferiche, eccellenti arrangiamenti ed un quanto mai inatteso utilizzo di strumenti non del tutto convenzionali per la band transalpina (flauto, sax e archi), con i vocioni growl di Sebastién Pierre e Rémi Brochard a confermarsi ad alti livelli. "Dissonant Occurence", parafrasando un po' il titolo, dà sfoggio di melodie dissonanti, cambi di tempo notevoli, ma soprattutto uno strepitoso break centrale, tra fusion, psych rock, melodie celestiali e clean vocals che ci dicono quanto sia peculiare e notevole questo comeback discografico dei nostri. "Ignite the Heavens (Part 1 e 2)" sono due pezzi strumentali che affondano le proprie radici in rituali esoterici, mentre la musica (nella prima parte almeno) ricorda quello di uno storico brano prog rock degli anni '70, "Baker Street" di Gerry Rafferty, con tanto di sax e trovate varie che sfociano anche nelle colonne sonore cinematografiche. Notevoli, non c'è che dire, ma non avevo alcun dubbio sul fatto che i Monolithe non ci avrebbero tradito. E il viaggio intergalattico prosegue con "The Great Debacle", un pezzo che sembra suggerire influenze provenienti da 'Spheres' dei Pestilence, ma soprattutto dagli Opeth dei primi album, con una rinnovata capacità di abbinare death doom e progressive con stile ed una classe davvero sopraffina. Ascoltatevi l'assolo di questo brano e godete estasiati l'eccellente release della band parigina targata ancora una volta Les Acteurs de l'Ombre Productions. Mancano ancora "Disrupted Firmament" e "Okta Khora (Part 2)" a rapporto, due brani che somigliano più alla passerella finale di un album che si conferma già oggi tra i candidati a collocarsi sul podio alla fine di quello che sarà un lungo ed estenuante tour 2020. (Francesco Scarci)

giovedì 23 gennaio 2020

Mithras - Behind The Shadows Lie Madness

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Atmospheric Brutal Death, Akercoke, Morbid Angel
Nel 2007, dopo quattro anni di silenzio in cui avevo temuto il peggio pensando che la band si fosse sciolta, sono tornati sulle scene gli inglesi Mithras e il loro brutal death chiaramente influenzato da Morbid Angel e Nile, ma personalizzato da inusuali clean vocals e stralunate soluzioni chitarristiche. La base di partenza dell'allora duo di Rugby è sempre il brutal death “made in USA” ma arricchito, come di consueto - e questo rappresenta la loro forza - da eclettici e complessi arrangiamenti ed evocative parti atmosferico-spaziali, che da sempre mi fanno apprezzare la band. Le dodici tracce di 'Behind the Shadows Lie Madness' vi fanno sussultare dalla sedia, per la violenza e l’intensità profusa dagli strumenti di questi due impavidi musicisti. Mastodontici suoni di chitarra massacreranno di certo i vostri timpani, mentre velocità disumane, dettate dalle furiose ritmiche e dai veloci blast-beat, segneranno il tempo per un frenetico headbanging. Growling vocals, magnifici e tecnici assoli, ammalianti inserti tastieristici, completeranno un lavoro maturo e complesso, per cui valse la pena attendere così tanto tempo. La divinità solare è ha colpito ancora col proprio atmosferico brutal extreme metal. (Francesco Scarci)

giovedì 28 novembre 2019

Decem Maleficivm - La Fin De Satán

#PER CHI AMA: Death Avantgarde, Arcturus, Insomnium
Album di debutto per i cileni Decem Maleficivm, per cui la Les Acteurs de l'Ombre Productions ha voluto fare uno strappo alla regola alla propria policy legata alla promozione di sole band francesi (un'eccezione che avevamo già ravvisato con i baschi Numen e che d'ora in poi smetterò di sottolineare). Evidentemente la band di Santiago deve avere le carte in regola per aver solleticato l'interesse della label transalpina. Il genere proposto è essenzialmente in linea con i dettami dell'etichetta, ossia un black melodico, peraltro con alcune venature avanguardistiche che scomodano grandi nomi della scena norvegese, in primis Arcturus e Borknagar. L'opener di questo 'La Fin De Satán' infatti, nel suo veemente black fatto di ritmiche (un pochino obsolete) e grim vocals, sfodera una seconda voce che richiama proprio i vocalizzi in pulito delle band appena nominate, e per fortuna aggiungerei io. La musica del sestetto sud americano infatti non è che mi esalti granchè; nei primi cinque minuti di "The Ceremony", la proposta mi è sembrata alquanto scontata, ma le voci pulite di Daniel Araya tengono in un qualche modo a galla la band, almeno fino a quando non si sviluppa una splendida coda solistica che innalza sopra la media la performance dell'act cileno. E le cose tendono a migliorare con "Instinct" anche se francamente, devo ammettere di non aver amato particolarmente il suono stile barile (pensate ai Metallica del periodo 'St. Anger') del drumming e quel coacervo di suoni che si sviluppa nelle parti più serrate dei brani. Di contro, quando la sezione solista prende la scena, beh mi dimentico di tutte le imperfezioni sin qui descritte e mi lascio sedurre dalle splendide melodie delle sei corde. Gli accostamenti che mi sovvengono in questi frangenti, decisamente più prog death oriented, pongono i Decem Maleficivm al fianco di realtà quali Insomnium o Throes of Dawn. Certo poi bisogna anche sapersi preparare al peggio, al caos sonoro ad esempio della title track e ad un sound in alcuni passaggi un po' impreciso, legato mi pare, più al desiderio di voler strafare che ad altro. Poi signori, quando i due chitarristi decidono che è ora di regalare i loro famigerati solismi, beh non ce n'è per nessuno, si cali il sipario e chapeau per l'ottimo gusto melodico. Tuttavia, non posso far finta di niente e lasciare che le chitarre siano una sorta di tangente per farmi dire che 'La Fin De Satán' sia un album eccezionale, giammai. Vorrei dire piuttosto che c'è molto da lavorare per dare più personalità a brani come "After the Chaos" o alle vampiresche "The Birth of the Cursed Book" e "Denial Tragedy", che se non godessero di un eccellente lavoro nella porzione chitarristica, probabilmente finirebbero nel dimenticatoio alla velocità della luce, bollate per il loro tentativo di imitazione di band quali Dissection o Emperor. Un plauso finale alla più sperimentale "Before the Chaos", l'ultimo atto di un disco che ci dà molte indicazioni su dove questi Decem Maleficivm vogliano andare a parare. Questo è un momento cruciale per la carriera della band per capire se voler rimanere ad uno stato di profondo underground o fare pulizia nei suoni ed emergere dalle viscere degli inferi. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 68

https://ladlo.bandcamp.com/album/la-fin-de-satan

venerdì 11 ottobre 2019

Maïeutiste - Veritas

#PER CHI AMA: Prog Death/Black, primi Opeth
Non sono passati otto anni dal precedente lavoro, ma quattro, eppure ho rischiato fortemente di dimenticarmi di questo ensemble transalpino che avevo positivamente recensito nel 2015. I Maïeutiste tornano col loro secondo album, 'Veritas', mantenendosi fedeli alla label Les Acteurs de L’Ombre Productions ma non troppo al sound claustrofobico che ne aveva caratterizzato il debut omonimo. Quando "Veritas I" emerge infatti dal mio stereo, rimango piacevolmente stupito dalla freschezza e da una maggior ariosità nel sound dei nostri, con un black/death pur sempre violento ma con una dose di epica e solenne melodia di fondo ben più importante ed una ecletticità, la solita direi, con cui il collettivo (otto strumentisti, tra cui sax, violino, viola e violoncello) sembra sentirsi molto più a proprio agio. E noi, come sempre, non possiamo che goderne appieno, respirando a pieni polmoni e ad orecchie completamente stappate, la nuova brillante creatura della compagine di Saint-Étienne. Accanto alle atmosfere ariose dell'opener (con tanto di break acustico centrale), si ritrovano quelle più oscure, ma viranti completamente ad un prog rock di scuola Opeth, della seconda strabiliante "Infinitus", un pezzo da leccarsi i baffi, per quella sua aurea oscura contrappuntata ancora da intermezzi acustici, per il dualismo vocale tra black/growl e clean vocals del frontman, ma in generale, per un approccio votato ad un death progressive assai ricercato che vede i suoi riferimenti nel periodo centrale della band di Mikael Åkerfeldt e soci. State a vedere che abbiamo trovato veramente gli eredi morali dei gods svedesi? Non ne sarei tanto cosi sicuro a dire il vero, conoscendo questi folli francesi, sono quasi certo che nel corso dell'ascolto di 'Veritas' ne sentiremo ancora di tutti i colori. Fatto sta che le prime due tracce sono delle vere bombe che rischiano di veder salire vertiginosamente i Maïeutiste in cima alle mie preferenze di questo 2019. Un breve intermezzo sinfonico, "Suspiramus", ed è la volta di "Universum", un brano ben più ritmato e nervoso nel suo minaccioso incedere, complicato e contorto, ostico quel che basta per spingerci ad una maggiore attenzione nell'ascolto, prima che i nostri decidano di rilassarsi, mollare gli ormeggi e lasciarsi andare in splendide fughe chitarristiche. Rimangono soli due pezzi, "Vocat" e "Veritas II", per una maratona ancora lunga trenta minuti, fatta di suoni intricati, deliranti, obliqui ma intriganti, che vedono la band spingersi in territori più estremi ma dalle atmosfere decisamente più plumbee, in cui le clean vocals riescono a mitigare la durezza di un impianto ritmico dalle tinte fosche, soprattutto nella lunga e lenta seconda parte di "Vocat", quasi del tutto strumentale, prima di un esplosivo epilogo finale. L'inizio di "Veritas II" richiama alla memoria ancora una volta gli Opeth, con i classici arpeggi iniziali di album quali 'Still Life' o 'Blackwater Park'; poi è una furente aggressione black che si stoppa improvvisamente al quarto minuto per lasciare la parola al vento e ad un silenzio che si protrae per oltre otto minuti (di cui avrei fatto a meno perchè interrompe quell'inebriante percorso emotivo intrapreso) fino all'assurdo finale onirico. Gran bell'album, non c'è che dire, che si candida alla mia personale top 3 dell'anno. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de L’Ombre Productions - 2019)
Voto: 84

https://maieutiste.bandcamp.com/releases

martedì 24 settembre 2019

Relinquished - Addictivities (Pt. 1)

#PER CHI AMA: Death/Black/Doom Progressive, Daylight Dies
Come un ecoscandaglio, prosegue l'opera di perlustrazione del sottosuolo da parte del Pozzo dei Dannati. Quest'oggi facciamo tappa in Austria, per conoscere i Relinquished, un quintetto formatosi nel 2004, ma al sottoscritto rimasti totalmente sconosciuti per tre lustri, un peccato. La proposta dei cinque tirolesi di Ebbs tocca un po' tutti gli ambiti del metal estremo, ammorbiditi però da una spiccata vena dark progressive. 'Addictivities (Pt. 1)' è il terzo album per la band uscito in digitale nel 2018 (ed in formato fisico solo quest'anno) a seguito di una lunga pausa presa dopo il rilascio delle release datate 2010 e 2012. Il disco si apre con il sussurrato di "Expectations", che mostra la pasta di cui è costituito quest'ensemble. Buona la prova infatti a tutti i livelli, dalla prestazione tecnica, alla capacità di emozionare con delle ottime melodie all'insegna del melo death o ancora di ringhiare grazie alle growling vocals del frontman Sebastian "Vast" Bramböck. Più marziale ed oscura l'intro della seconda "Bundle of Nerves", una song che vede aspre accelerazioni death spezzate da parti decisamente più atmosferiche, in cui il cantante si concede anche a vocalizzi puliti ed in cui gli accostamenti che mi viene da fare in tema di influenze, sono per lo più con Daylight Dies e Opeth. La prova è convincente, anche se ci sono alcune parti di chitarra che suonano, come dire, un po' vecchiotte, old school se vogliamo essere raffinati. Questo è confermato anche dalla terza traccia "Avalanche of Impressions", aperta da un lungo sibilo di chitarra che costituirà l'elemento trainante di un pezzo che guarda al death doom come fonte di ispirazione, in un alternarsi tra ritmiche roboanti e frangenti più calibrati che richiamano la vecchia scuola dark capitanata dai The Fields of the Nephilim, ma che strizza l'occhiolino anche ai Crematory, in un pezzo che sul finire si lancia in accelerazioni assai vicine al black, senza rinunciare a fantastici assoli o partiture eleganti. Forse qui sta il punto di forza della band austriaca, che altrimenti rischierebbe di sprofondare nell'anonimato di un genere che ormai ha già ampiamente dato. I nostri non si danno per vinti, piazzano un intermezzo elettronico, "Pulse", e poi giù di nuovo lungo il dirupo del dark doom melodico con le malinconiche melodie di "Damaged for Good", in un pezzo dal piglio molto classico, che vede in qualche trovata tecnologica, il punto di connessione della band con i giorni nostri. L'inizio di "Syringe" sembra non promettere nulla di buono e il mio intuito non sbaglia, almeno nel suo primo minuto che poi lascia il posto a suoni ancora una volta più compassati, forti peraltro di ariose aperture alla sei corde che concedono un po' di respiro. Questo per dire che l'ascolto di 'Addictivities (Pt. 1)' non è proprio di cosi facile presa, forse anche per delle tematiche alquanto pesanti che narrano la storia di un tossicodipendente lungo gli alti e bassi della propria dipendenza. Nel frattempo "Zero" suona nel mio stereo e capisco immediatamente che è la mia traccia favorita (confermata poi da molteplici ascolti) per quel suo costante ondeggiare tra death, sfuriate black e partiture melodiche che torneranno anche nella seguente "Into the Black", un tuffo nei più oscuri anfratti della mente umana, tra parti dark segnate da un'angosciante linea di basso e chitarra (ottimi peraltro gli assoli), ed un cantato quasi costantemente sussurrato che individuano la traccia come la mia seconda preferita del disco. A chiudere 'Addictivities (Pt. 1)', ecco il doom ipnotico e morboso di "Void of My Ashen Soul", una song interessante e malata (con fortissimi echi a "Time", colonna sonora di 'Inception') che apre a potenziali sviluppi futuri, sperando solo di non dover aspettare più di un lustro prima di sentir ancora parlare dei Relinquished. (Francesco Scarci)

(NRI Records/Soul Food - 2019)
Voto: 74

http://relinquished.at/ 

domenica 21 luglio 2019

Desire of Pain - Immensity

#PER CHI AMA: Death Progressive, Ne Obliviscaris
L'Australis Records è un'etichetta cilena che ci sta permettendo di aprire una finestra sulla loro scena locale. Dopo aver da poco recensito i paurosi techno death metallers Target, ecco che facciamo la conoscenza dei Desire of Pain, altra band di Santiago, questa volta focalizzata ad un death più melodico e ricco in sfumature grooveggianti ma anche prog. 'Immensity' è il secondo lp in otto anni per il terzetto, che vede tra le proprie fila, l'ex vocalist dei Clair de Lune Morte, una band doom che alcuni di voi ricorderanno di certo. Ma passiamo ai contenuti di questo disco che si muovono dall'intro melodica di "Everything" al groove ritmato e melodico di "Ascension", una song che ci dice un paio di cose rilevanti dei Desire of Pain: la prima è che i nostri sono degli ottimi musicisti, essendo dotati di un eccellente bagaglio tecnico; la seconda che la band ha una discreta vena creativa che permette loro di suonare ciò che vogliono e con risultati di un certo livello. Quello che di contro mi fa storcere immediatamente il naso è la prova dietro al microfono di Sebastián Silva, probabilmente più a proprio agio nella versione growl che in quella, meno convincente, clean. La musica invece vive di strappi: accelerazioni, stop & go, parti più atmosferiche accanto ad altre più ritmate, giusto per accontentare un po' tutti i palati, anche quelli più sopraffini. "Vertigo" è un pezzo devastante di oltre undici minuti di apocalittico e death metal old school, riletto in chiave moderna. Guizzi ficcanti, ritmiche tritaossa, oscure growls e urlacci più incazzati senza dimenticarsi le voci più pulite, ovviamente il tutto inondato di una bella dose di melodie e di un break ove fa la sua comparsa una tromba che viene utilizzata dai nostri alla stregua di quel violino indiavolato dei Ne Obliviscaris che raddoppia la prova strepitosa di Marcelo Fuenzalida alla chitarra solista. Bravi, non c'è che dire, anche se qualcosina ancora non suona perfettamente fluido, soprattutto nella componente più death doom oriented dei nostri che pare stonare dal resto del contesto musicale. "Eternal" è un pezzo semi acustico che ci introduce a "Trascendence", una traccia che sembra uscita da un qualche disco new wave di metà anni '80 e qui la voce, pulita, gotica e carica del giusto pathos, è perfettamente inserita nel contesto del brano. A chiudere il disco ecco arrivare "Aeon" e i suoi dieci minuti di prog rock fatto di lunghi assoli, atmosfere tiepide e rilassate, ma anche di feroci scorribande death metal che esaltano le eclettiche doti dei nostri. Ben fatto. (Francesco Scarci)

martedì 16 luglio 2019

Pervy Perkin - Comedia: Inferno

#PER CHI AMA: Experimental Extreme Prog Metal, Devin Townsend, Opeth
"Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant'è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte". Cosi apre il nuovo lavoro degli spagnoli Pervy Perkin, tornati da poco con un nuovo capitolo discografico, 'Comedia: Inferno', che giustifica l'incipit dell'album. Un disco che si apre con "Abandon All Hope", una song che prosegue quel percorso iniziato nel 2016 con lo sperimentale e progressivo '.ToTeM.' e prima ancora da 'Ink'. Le coordinate sulle quali si muove questo terzo lavoro della band di Madrid sono sempre quelle del prog metal, venato da mille altre influenze che passano dalle scorribande death/black/speed/prog dell'opener, al brutal iniziale della seconda "The Tempest" che evolverà in un thrash metal di memoria "sanctuaryana" e successivamente prog rock sulla scia di Riverside e Porcupine Tree, sfoggiando lungo gli iniziali 13 minuti una miriade di atmosfere, influenze e vocals (sia in chiave growl che clean - complice anche la presenza di due guest al microfono, Kheryon degli Eternal Storm e Blue dei Bones of Minerva), da far impallidire. Considerate poi il fatto che più si ascolta il brano e più emergono nuovi dettagli, che ci portano anche all'alternative, al cyber metal e all'avantgarde, in un rincorrersi sonico davvero peculiare. Con "Three Throats" si cambia ancora registro visto che qui le voci sembrano provenire da un ambito blues hard rock, cosi come la musica, qui forse troppo morbida per i miei gusti. Passo oltre, sebbene il pattern musicale negli ultimi 120 secondi subisca un appesantimento importante a livello ritmico e un nuovo cambio di registro, questa volta verso l'elettronica negli ultimi istanti del brano. Eterogeneità, questo è il verbo che dimora nelle corde dei Pervy Perkin. Lo dimostra "All For Gold", un pezzo strano, oscuro, complicato, dove i vocalizzi somigliano a quelli più rochi di Dave Mustaine nei suoi Megadeth, mentre la musica viaggia in un mondo e in un modo davvero tutto suo, dove tutto sembra lasciato all'improvvisazione. Difficile anche star dietro a questi molteplici cambiamenti che confondono non poco l'ascoltatore, ma forse proprio qui risiede il punto di forza, ma qualcuno potrebbe obiettare di debolezza, della band originaria di Murcia. Io trovo che ci sia sicuramente un buon campionario di insana follia e grande creatività, sulla falsariga di Devin Townsend, ma che forse qui talvolta si vada oltre l'umana comprensione con dei cambi di stile davvero spaventosi. Ascoltare un pezzo come "All For Gold", tanto per citarne uno a caso, diventa veramente complicato e faticoso, nonostante i "soli" sette minuti di durata, perché necessita di un'attenzione non indifferente, visti i molteplici cambi di stile. "Row" fortunatamente dura meno e sembra - almeno in apparenza - anche più stabile caratterialmente, visto che da metà brano in poi emergono suoni stralunati e schizoidi, con il tutto che si conclude in un modo del tutto inatteso, quasi doom. "Open Casket" ci rimanda nuovamente al prog rock, ma è lecito attendere l'evolversi delle cose per non essere contraddetti un'altra scarrettata di volte, e faccio bene pure stavolta, visto che il quintetto madrileno parte per la tangente ancora una volta, con dei suoni debitori al free-jazz (ascoltate anche l'apertura di "Cult of Blood" per meglio comprendere, o forse non comprendere ls proposta dei nostri, considerata la vicinanza della band in questa traccia ai Testament). Insomma complicato affrontare sti ragazzi, soprattutto quando poi c'è da affrontare un pezzo di un quarto d'ora ("Malebolge"): quali contromisure adottare, cosa aspettarsi, come combattere il delirio di onnipotenza che sembra avvolgere la band? E i nostri ci rispondono rispolverando un techno death, voci schizoidi, frammenti rock, scorribande black folk, funk, musica classica, prog, campionamenti elettronici, industrial, cyber metal, thrash, che evocano mostri sacri quali Opeth, Leprous, Nine Inch Nails, Megadeth, Primus, Finntroll, Pink Floyd, Hawkwind, Meshuggah, King Crimson, Queensrÿche, Judas Priest, Nevermore, il tutto mischiato in uno spaventoso magico calderone. Sono arrivato al termine di questi settanta minuti di 'Comedia: Inferno' con "Worm Angel" e sapete una cosa? Non c'ho capito davvero nulla, meglio ricominciare daccapo e sperare di carpirne davvero l'essenza al secondo, terzo, milionesimo ascolto di questo delirante lavoro. (Francesco Scarci) 

(Self - 2019)

lunedì 8 luglio 2019

Dekadent - The Nemean Ordeal

#PER CHI AMA: Black/Death/Doom/Prog
Era il 2015 quando approcciai per la prima volta gli sloveni Dekadent, con il loro brillante lavoro intitolato 'Veritas', uscito peraltro autoprodotto. Come al solito, di acqua sotto i ponti ne passa parecchia in quattro anni, la band si è fatta conoscere anche al di fuori dei loro confini nazionali e da li al finire sotto osservazione da parte di un'etichetta discografica di un certo rilievo, il passo non è stato poi cosi lungo. La nostrana Dusktone Records infatti ha notato il quartetto di Ljubljana e credo non ci abbia impiegato poi molto a capire le potenzialità dei nostri e io non posso che esserne felice dato che avevo parlato benissimo della compagine a quei tempi (comprando peraltro l'intera discografia della band). Ed ora, in occasione del loro comeback discografico, torno ad esaltare le doti dei quattro musicisti guidati da Artur Felicijan. 'The Nemean Ordeal' è infatti un signor album, il quinto per i Dekadent, che confermano il pedigree della precedente release, andando quasi a fare meglio. Dopo la consueta intro, ecco accendersi le sinfonie magnetiche dei nostri con "Shepherd of Stars", un brano che, dalla robustezza della ritmica, al clangore delle chitarre soliste, passando attraverso le sue splendide melodie malinconiche affrescate dalle tastiere ed i vocalizzi del buon Artur, se non è perfetto poco ci manca, anche laddove accelera spaventosamente con un riffone di scuola Morbid Angel. Pelle d'oca, non aggiungo altro e sono passati solo cinque minuti scarsi. Ora li voglio alla prova del fuoco, con gli undici maestosi minuti di "Solar Covenant", un pezzo che parte in modo delicato, e persiste nel generare soffici emozioni di struggente godimento lungo i binari di un death doom emozionale sporcato di influenze più propriamente post-metal che arricchiscono il patrimonio musicale di questa esaltante realtà che spero quanto prima, possa raggiungere i risultati che merita. A me, parliamoci chiaro, i Dekadent piacciono parecchio e non lo scopro certo oggi. Sta invece a voi avvicinarvi senza remore alla band e farvi abbracciare dal suono avanguardista, progressivo, sinfonico, atmosferico, doomish, death, black e qualsiasi altra cosa ci vogliate sentire; non esitate, immergetevi nel sound sofisticato dei nostri che sembra avere cosi tante cose da dire, da lasciarmi quasi senza parole. "Wanax Eternal" è gioia per le mie orecchie: a parte la produzione spettacolare, è il gioco combinato di chitarre, keys e voci, a catturare definitivamente la mia attenzione in un lento incedere tra chiaroscuri temporaleschi e al contempo gioiosi che mi fanno sorridere, un attimo di gioia a pensare che ci sono ancora album in grado di solleticare amabilmente i miei sensi. I Dekadent ci riescono appieno anche con il trittico conclusivo formato dalle song "The Lavantine Betrayal", una traccia la cui essenza è vicina ad un caleidoscopio di profumi, colori ed aromi, con i nostri ad infrangere ogni regola, qualora ne esistessero, in ambito musicale. Vicini ad un che degli Akercocke, i Dekadent proseguono lungo la loro strada con esplosioni astrali e divagazioni prog. "Escaping the Flesh So Adamant" è il furioso pezzo black metal che non ti aspetti, dopo aver ascoltato cotanta meraviglia; sapete una cosa però, è la furia che non ti aspetti rivisto nella sua sprezzante originalità che assembla e disintegra suoni, percezioni e certezze, il tutto in pochi minuti. Si arriva cosi alla fine del sogno con l'intrigante title track, gli ultimi otto minuti che mettono insieme questa volta la roboante pesantezza dei Morbid Angel, la creatività dei primi Nocturnus, la follia degli Akercocke con la freschezza del post-metal, la vena sinfonica dei Dimmu Borgir, l'epicità il tutto riletto dall'immensa personalità di questi quattro musicisti sloveni. Per me 'The Nemean Ordeal' è già entrato nella top 3 dell'anno e se non ci saranno altri contendenti a rubargli uno dei tre gradini del podio, rischiano seriamente di stare in quello più alto. (Francesco Scarci)

venerdì 14 giugno 2019

Target - Deep Water Flames

#PER CHI AMA: Techno Death/Progressive, Meshuggah, Cynic
I Target me li ricordo bene: band cilena uscita con il debut nel 2011, 'Knot of Centipedes', un disco che sottolineava le eccellenti doti tecniche dell'ensemble di Santiago. Poi un gran silenzio, interrotto fortunatamente da un EP nel 2017, che mi faceva ben sperare per il proseguio della band che pensavo ormai desaparecida. Ed eccoli finalmente tornare con il secondo lavoro, questo 'Deep Water Flames' che ha permesso al quartetto di strappare un contratto con la Australis Records e strappare a me un sorriso per la loro proposta musicale. Quanto contenuto in questo disco infatti ha un che di miracoloso, dato che i nostri hanno pensato bene di combinare il techno death dei Meshuggah con il post metal dei The Ocean. Non capite quanto io abbia goduto e stia godendo tuttora all'ascolto di un pezzo come "Inverted Gloaming", che pone l'accento sulle capacità tecnico-esecutive, ma incredibilmente anche sulla creatività compositiva dei nostri. E allora preparatevi al classico muro di riffoni poliritmici, come i gods svedesi insegnano, ma anche a larghi tratti atmosferici, catchy quanto basta per far gridare al miracolo. Aggiungete a tutto questo un ottimo dualismo vocale, tra il growl e il suadente pulito dello stesso Andrés Piña e capirete il perchè del mio entusiasmo. "No Solace Arises" è più ritmata, ma altrettanto efficace nella sua portata emozionale, grazie a delle melodie di fondo assai gradevoli e ad una serie di cambi di tempo e break strumentali da URLO e lo scrivo in maiuscolo proprio per sottolinearlo a gran voce. Bravi, bravi e poi bravi. Non è una proposta semplice, ci vuole coraggio, perchè il rischio di essere etichettati come cloni è proprio dietro l'angolo, soprattutto quando pezzi come "Oceangrave" o la successiva "Surge Drift Motion", sembrano essere stati pensati da Jens Kidman e soci. Spaventosi a livello percussivo, paranoiche a livello chitarristico, orrorifiche per l'utilizzo dei synth, signori, 'Deep Water Flames' si candida ad essere uno dei top album sul versante techno death di questo 2019. Mamma mia che mazzate ci rifilano tra faccia e pancia, un uno due, diretto e montante, da knockout. E poi che dire quando in "Surge Drift Motion", la band smorza i toni, anzi spegne la luce completamente e regala un assolo (di scuola Cynic) da brividi. Un intermezzo ombroso per scrollarci di dosso l'incredulità che si è nel frattempo posata sulla mia faccia di fronte a tali sonorità ed è tempo di farci investire ancora dalla sublime ed ingannatoria atmosfera di "Drowned in an Everlasting Mantra", tranquilla all'inzio ma poi dirompente al massimo. Ancora tanta carne al fuoco, perchè mancano all'appello "Blackwaters", song assai mutevole nel suo incedere baldanzoso, e la lunga "Random Waves", oltre nove minuti di rabbiose e ubriacanti ritmiche, dove i Target saranno in grado di intrappolarci nella loro matrice sonora, merito delle tele intessute da questi incredibili musicisti e dell'ottima verve di cui è dotata la compagine sudamericana. Ah dimenticavo, l'ascolto di 'Deep Water Flames' è altamente consigliato da consumarsi in cuffia per assaporare al meglio la debordante miscela sonora (quasi noisy sul finire del penultimo pezzo) esplosa dalla strumentazione di questi artisti. Una bomba ad orologeria pronta ad esplodervi addosso. (Francesco Scarci)

Feradur - Legion

#PER CHI AMA: Melo Death/Thrash, Amon Amarth
In uscita questi giorni il comeback discografico dei lussemburgo-teutonici Feradur. 'Legion' rappresenta infatti il secondo lavoro per il quintetto originario della capitale del piccolo stato mittle europeo, con qualche membro poi dislocatosi ad Amburgo e Colonia, in Germania. 'Epimetheus', il debut del 2015 era arrivato solamente nove anni dopo la nascita della band, ora abbiamo atteso quattro anni per gustarci il secondo album dei nostri, con questo ritmo non è detto che il prossimo lavoro possa uscire fra un paio di anni. Comunque, parlando dei contenuti musicali delle undici tracce qui incluse, posso dire che in mano ci ritroviamo un Lp dedito a sonorità melodeath, dalle influenze più disparate. Si va dal sound degli Amon Amarth di "A Hadean Task" agli Iron Maiden di "Fake Creator", ma andiamo con ordine. I nostri sono sicuramente diligenti nello svolgimento del loro compito, affidandosi sin dall'opener "Deus (Finis Saeculorum)" a ritmiche robuste, ben dosate, una produzione bella piena, e ritmi incandescenti. Ascoltatevi a tal proposito la roboante "Kolossus", una bella cavalcata death thrash, che vi riporterà ai fasti degli anni '90, pronti per lanciarvi in un infuocato headbanging, anche se poi il finale sembra virare verso territori più moderni, ad un black death dotato di ottime melodie al servizio di una buona tecnica. Sia ben chiaro che nessuno ha scoperto l'acqua calda, un nuovo continente o inventato un nuovo genere musicale, i Feradur suonano quello che più amano e più ha plasmato la loro crescita musicale, un death metal venato di qualche influenza progressive, che trova addirittura il modo di sfociare in influenze folkloriche. Si perchè l'inizio acustico di "Omen of Incompleteness" ci proietta al Kantele finlandese di Amorphis memoria, in un brano che evolve successivamente in un sound macinaossa stile Arch Enemy. Ben più ruffiana "Fake Creator", vuoi per le melodie che si stampano immediatamente in testa, ma anche per l'uso delle keys, che lasciano poi il posto ad un bel rullo compressore fatto di ritmiche tirate e un growling omicida, merito dell'ultimo arrivato, in seno alla formazione, l'unico vero tedesco della compagnia, Mario Hann, che suona nei Reapers Sake e ha peraltro collaborato con altre band, sia dietro la consolle che come guest, vedi Firtan o nel nuovo EP dei Luzidity. Intanto, qui si continua a viaggiare su tempi sparatissimi con un bel tremolo picking in sottofondo, mentre le chitarre sembrano invece richiamare il NWOBHM con le linee melodiche in stile Iron Maiden. C'è tempo ancora di farci sparare in faccia altre granitiche tracce, il disco dura infatti oltre 50 minuti: "Of Greater Deeds" è una bella mazzata in pieno volto con una serie di cambi di tempo da urlo ed una prova alla batteria di "D-" Mich Weber davvero notevole, senza mai perdere di vista il lavoro dei due axemen, che ne combinano di tutti i colori alle sei corde. Più oscura "The Night They Were Taken", dura, quasi spettrale nella sua componente solistica, che mi ha evocato per certi versi i primi Testament, poi altro sublime cambio di tempo e sembra di ascoltare un altro brano, compresso, caustico, serrato, feroce. Si cambia ancora registro con il mid-tempo di "Amplification Monolith", un brano che s'ispira nuovamente agli Amon Amarth e che vede nel ricamo chitarristico delle due asce, il punto di forza della compagine lussemburghese. Poi il finale, affidato alla marziale "Maelstrom" e a quel prepotente gorgo che crea un ambiente denso ma atmosferico prima dell'uscita sparata a mille, con chitarre di Overkilliana memoria. Si arriva intanto alla conclusiva e strumentale "Into Stygian Depths", un breve outro che chiude questo secondo episodio della saga Feradur. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(Self - 2019)
Voto: 75

https://feradur.bandcamp.com/

sabato 30 marzo 2019

Devcord - Dysthymia

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth
Del fenomeno delle one-man-band abbiamo già discusso ampiamente e ormai si è allargato a macchia d'olio in tutto il mondo. La new sensation al singolare di quest'oggi ci porta questa volta a Spillern, non troppo lontano da Vienna, con i Devcord. La band austriaca è l'entusiastica creatura di Peter Royburger, uno che deve essere cresciuto nel mito degli Opeth e che dopo accurato studio di pregi e difetti dei gods svedesi, ha pensato di dire la propria nell'ambito del prog death. Ecco come si presenta 'Dysthymia', l'album di debutto del bravo Peter, che già nell'iniziale "The Mortician" rivela il proprio piano diabolico che vede l'esplosione di chitarre e growling vocals di chiara matrice "opethiana". I punti di congiunzione con il sound di Mikael Åkerfeldt e soci, emerge più forte che mai quando le vocals pulite prendono il sopravvento e le chitarre del polistrumentista austriaco iniziano ad ammiccare più pesantemente con quelle delle asce svedesi in una cavalcata dalle forti tinte progressive, ove si colloca anche una portentosa linea di basso, che diventerà ancor più preponderante nella seconda "Agonal Breathing", una traccia estremamente varia in cui le growling vocals vanno a braccetto con linee di chitarra veementi mentre le voci pulite occupano lo spazio più etereo del sound del mastermind austriaco. Poi il canovaccio è in linea con quanto fatto dagli Opeth nel loro periodo di mezzo, a sottolineare che le similitudini fra le due band sono assai importanti. Detto questo, bisogna prendere una decisione, stroncare clamorosamente il disco per le grandi affinità con i godz scandinavi o godersi appieno la proposta del musicista austriaco. Io francamente propendo per la seconda, soprattutto alla luce della strada imboccata dai new progsters svedesi. Finalmente abbiamo una più che valida alternativa agli Opeth, Peter suona bene, ha un buon range vocale e tanta voglia di proporre la propria reinterpretazione dei dettami imposti dal genere. La title track ha un piglio più tranquillo, mantenendo pur intatta la ricerca per parti raffinate: arpeggi, parti orchestrali, tocchi di pianoforte, voci pulitissime creano insieme una splendida suggestione atmosferica che va a scomodare altri mostri sacri della scena prog, penso ad esempio ai Porcupine Tree. Di sicuro Peter è dotato di grande inventiva, perizia tecnica e ottimo gusto per le melodia e di questo gliene dobbiamo dare atto per quanto talvolta possa sembra un emulo dei big. Però lasciatemi dire che quando si lancia nelle sue fughe chitarristiche, un po' di godimento lo si prova eccome. Ed è proprio per questo che preferisco far finta di niente, tralasciare paragoni e confronti vari, focalizzandomi esclusivamente sulla proposta del frontman di Spillern, che evidenzia comunque una certa ricercatezza e una classe non indifferente. Un breve intermezzo malinconico-rilassante ("Melancholia" giustappunto) per ricominciare con il riffing di "Raw Meat" che sembra provenire da un disco dei System of a Down, prima di incanalarsi prima in meandri death, e poi cambiare subitamente registro e tornare a fare quello che Peter sembra far meglio. Ma il brano è cosi altalenante che torna a proporre uno strano ibrido alternative death che devo ammettere non aver avuto grossa presa sul sottoscritto, nemmeno nella sua conclusiva parte tribale. Molto meglio "Omega" che torna a collocarsi nei binari del progressive con una traccia interamente acustica che prepara il terreno per la lunghissima "Reaper's Helpers", un brano di oltre 10 minuti, ma i cui due minuti iniziali di suoni e urla varie avrei probabilmente fatto a meno. Poi ecco palesarsi nella prima metà un impetuoso death thrash metal, che a livello vocale sembra richiamare Chuck Billy dei Testament, ma anche King Diamond in una traccia che fa dell'imprevedibilità il suo punto di forza, provare per credere. La seconda parte rallenta paurosamente, gli Opeth dei primi brani sembrano solamente un lontano ricordo, qui c'è dell'altro: oltre al prog, techno death, ci sono fughe jazz, momenti horror e chissà quali altri sfumature che io magari mi sono perso. Sono all'ottavo brano, abbiamo scavallato i 50 minuti di ascolto e ne rimangono altri 16 in cui il factotum austriaco ha ancora modo di combinarne di tutti i colori. Se con "Fade" assistiamo increduli ad un pezzo dal tipico flavour anni '70 con tanto di voci femminili e virtuosismi dal gusto retrò, con la conclusiva "Jerk Pitch Rape" si torna a strizzare l'occhiolino agli Opeth, regalandoci gli ultimi vibranti attimi di un disco davvero interessante, assolutamente da non bollare come mera copia dei master svedesi. Meglio ascoltarlo più volte per non arrivare ad una conclusione troppo affrettata. Fidatevi. (Francesco Scarci)

(Lonelyroom Records - 2018)
Voto: 78

https://devcord.bandcamp.com/releases