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mercoledì 13 giugno 2018

Monophona - Girls on Bikes Boys Who Sing

#PER CHI AMA: Instrumental Post Rock/Trip Hop, Portishead
Il quarto album dei Massive Attack lussemburghesi propone una indietronica concettuale, politica e sensibilmente consapevole ("Here After") a tratti indissolubilmente folkeggiante ("The Benefit of the Doubt"), o rocchettara ("Folsom Prison Blues") o ancora cheerleader-parecchio-carina-ma-altrettanto-strafatta-like alla Warpaint ("Lada"), altrimenti collocabile tra il terzo e il quarto album di Björk (non tutto l'album, eh, ma almeno l'opener "Courage" e "Hospitals for Freedom"). Interessanti gli episodi più off, vale a dire l'angrr-triphop di "Tick of a Clock" e la funktoplasmatica "We'll Be Alright" in chiusura, fervida di vocine ultraterrene. Ma a voi, però, sarà per la intensa valenza iconica, sarà che ormai siete diventati un manipolo di vecchi coglioni pseudometallari delle mie ghiandole rinsecchite, a voi, dicevo, vi salta soprattutto all'orecchio la profusione bristoliana di rumorettini off stage: il mescolio di un cocktail in "The Benefit of the Doubt", una lattina stappata in "Courage", il fruscio di vinili nella portishosissima "I Will Be Wrong". Roba che avete già sentito un migliaio di milioni di volte, brontolerete infine. Ma sottovoce. (Alberto Calorosi)

martedì 12 giugno 2018

Paragon Collapse - The Dawning

#PER CHI AMA: Doom/Gothic, The 3rd and the Mortal
La Romania ormai ha un sottobosco che pullula di molteplici creature. L'ultima che mi è capitata tra le mani, grazie al supporto della Loud Rage Music, è questa dei Paragon Collapse, quintetto di Iași al debutto con il cui presente 'The Dawning'. Il genere proposto? Presto detto, un doom carico di groove per un ascolto abbastanza agevole, reso ancor più semplice dalla performance di Veronica Lefter alla voce (e violino), per un risultato che scomoda facilissimi paragoni con i The 3rd and the Mortal. La performance della cantante rumena infatti è accostabile a quella della bravissima collega Kari Rueslatten, quando si lanciava nei magnifici e soavi gorgheggi in 'Tears Laid in Earth', primo stratosferico album dell'act norvegese. Quindi, non mi stupirei se anche voi come il sottoscritto, vi lasciaste sedurre dalla musica di questi musicisti, che sin da "The Endless Dream" (il pezzo più bello del disco), tra porzioni acustiche, riffoni doom, parti di violino e vocals eteree, mi acchiappa non poco. Chiaro che l'accostamento con l'ensemble norvegese è talvolta fin troppo palese, tuttavia non mi dispiace immergermi in quelle atmosfere, in taluni casi assai assai lugubri, e godere di cotanta musicalità decadente. D'altro canto, una lunghezza talvolta abbastanza impegnativa dei pezzi, rende francamente meno fruibile il cd. Dopo gli 11 minuti della opening track ce ne sono altri nove li ad attenderci in "The Stream" e, se non siete proprio degli amanti delle sonorità gothic doom, accompagnate da vocals soavi, ecco che il tutto rischia di pesare non poco. Per fortuna, a concedere qualche variazione al tema, ci pensa il violino della brava Veronica, e qualche brano di minor durata che, seppur si riveli più ostico da digerire, offre un sound che rischia addirittura di sconfinare nel prog, come nel caso della strumentale "A Whisper of Destiny". La proposta dei nostri soffre però anche di qualche calo tensivo: "Nirvana" è un po' piattina e per certi versi mi ha evocato gli Ashes You Leave più immaturi. La qualità del disco sembra assestarsi su un discreto livello qualitativo, complici linee di chitarra che talvolta suonano un po' troppo anacronistiche, sebbene possano richiamare anche i Paradise Lost degli inizi. Ci sarebbe bisogno di ben altro per rendere molto più appetibile il disco, anche se la lunghissima "Climbing the Abyss" sembra offrire parecchie variazioni al tema, tra chiaroscuri sonici, intermezzi folklorici e l'oscurità di un suono che sembra divenire via via più buio, abbagliato solamente dagli interventi azzeccatissimi della violinista. Alla sesta song, "A Winter Life", la figura di Veronica dietro al microfono diventa sempre più ingombrante e alla fine rischia di annoiarmi eccessivamente. Avrei dato maggiore spazio agli strumenti, alle fughe atmosferiche, anche alla presenza di un vocalist maschile che potesse porsi da contraltare cantante soprana, e in ultimo avrei dato una maggiore vivacità alle linee di chitarra, come invece accade nella conclusiva, robusta e più ondulatoria "Deliverance". C'è sicuramente ancora molto da lavorare, ma i presupposti per fare bene ci sono sicuramente tutti. (Francesco Scarci)

lunedì 11 giugno 2018

Neuraxis - Trilateral Progression

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Grind, Cryptopsy, Despised Icon, Cephalic Carnage
Non mi sono ancora ripreso dalla batosta dei Berzerker, che già mi trovo costretto a recensire e farmi maciullare le orecchie da un altro combo dedito al death/grind, ossia i canadesi Neuraxis, band di Montreal attiva oramai dal 1994 e con parecchi album sulle spalle (questo è il quarto di sei). Dopo una breve intro, la rabbia distruttiva del quintetto nord americano si scatena in ogni sua forma: il sound proposto dalla band è un death violento, ma iper-tecnico che sfocia spesso in sfuriate grind, contrapposte ad inserti melodici dal vago sapore scandinavo. Rispetto al passato però, nonostante l’eccelsa tecnica della band e probabilmente al caparbio desiderio di strafare per andare oltre al precedente ed eccellente 'Truth Beyond', ho la sensazione che il combo canadese abbia perso un po’ di smalto e di idee. Non intendo affermare che 'Trilateral Progression' sia un brutto album anzi; però, data la sua estrema compattezza e monoliticità, il combo del Quebec ha perso un po’ di verve e originalità che ne contraddistingueva i passati lavori. Il platter è sicuramente interessante con tutte le sue peculiarità: chitarre tritabudella, voci growl contrapposte a demoniache scream vocals, schegge grind, accenni melodici, inserti techno death che richiamano il sound degli ultimi Death. Quello che alla fine mi lascia un po’ perplesso è quella sensazione, troppo spesso vissuta, di “già sentito” che ammanta l’intero disco. Ad ogni modo, 'Trilateral Progression' riuscirà sicuramente a soddisfare i fan della band canadese perchè, oltre a godere di una splendida produzione, comunque racchiude tutte le caratteristiche di una delle più valide e sorprendenti realtà nell’ambito della musica più estrema accanto ad altri mostri sacri quali sono i Cephalic Carnage... Annichilenti!!! (Francesco Scarci)

The Berzerker - World of Lies

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Industrial Grind, Cephalic Carnage, Napalm Death
Il terzo album degli australiani Berzerker è un malatissimo lavoro, che ci spara addosso un concentrato di furia estrema terrificante ad alta intensità, in grado di farmi implorare “pietà”!!! 99 schegge impazzite (che costituiscono i 14 brani del cd), 58 minuti di musica feroce, carica di rabbia che polverizzerà in brevissimo tempo le nostre inermi orecchie. Il combo di Melbourne non aggiunge nulla di nuovo a quanto fatto (e quanto farà) nelle precedenti (e successive) release, quindi se amate la musica dei nostri, fatta di ritmiche disumane con blast beats furenti, scream vocals che si alternano a gorgheggi inumani, inserti industrial-elettronici e chitarre più taglienti dei rasoi, beh direi che 'World of Lies' fa certamente al caso vostro. Le 14 songs dell’album si susseguono incalzanti (come sempre sono presenti degli inquietanti dialoghi tra un pezzo e l’altro), lasciandomi tramortito e senza fiato nel buio della mia stanza, con la faccia tumida, come se fossi stato preso a pugni da Mike Tyson in persona e completamente stordito dalla pesantezza schiacciasassi di questo lavoro. Il terrorismo sonoro dei Berzerker termina alla dodicesima traccia: seguono poi quattro minuti e mezzo di silenzio e l’ultima “Farewell”, una lunghissima e oscura song strumentale vicina, stranamente, al sound dei My Dying Bride, che chiude sorprendentemente e degnamente 'World of Lies', la colonna sonora ideale per il mio Armageddon. (Francesco Scarci)

Los Campesinos! - Sick Scenes

#PER CHI AMA: Indie/Alternative/Punk
La poetica sbronzaiol-esistenzial-hooligana (al Renato Dall'Ara, nel 1990 l'Inghilterra acciuffò i quarti di finale di Italia '90 al 119-esimo aggrappandosi al ciuffo di David Platt e, due anni più tardi, pigliò un goal al primo minuto nientemeno che da San Marino: si tratterebbe, secondo Gareth medesimo, di una vivace metafora della natura ondulatoria e beffarda del destino) diventa, complice l'inevitabile contingenza anagrafica dei bandmembers, una frizzante disamina sul ruolo della band medesima all'interno di un contesto musicale fortemente e inevitabilente (e fortunatamente) mutato. Non è così per i suoni, assertivi e conservativi: coretti ooo/ooo britpop alla, uh, The Vines ("Renato Dall'Ara (2008)" (Nessun match, semplicemente l'anno di esplosione/implosione della beautful/doomed supernova Los Campesinos!), batteria punk ("Sad Suppers"), chitarre fuzz, vocina stridula da insetticida e ("The Fall of Home") quello stupido xilofono tedesco chiamato glockenspiel presente in ogni fottutissima sedicente indie-ballad che abbia inquinato l'etere mondiale dal novantadue a oggi compreso. Quello che può succedervi, se vi capitasse di appartenere alla band più modaiola del pianeta, è di ritrovarvi, improvvisamente e senza neanche capire il perché, nella band più fuorimodaiola del pianeta. Non crucciatevi. Bene così. Ascolto distratto e passate oltre. (Alberto Calorosi)

venerdì 8 giugno 2018

The Canyon Observer - Nøll

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge/Doom
Tornano gli sloveni The Canyon Observer con un album nuovo di zecca, edito sempre dalla Kapa Records, in collaborazione questa volta con la francese Vox Project. Le coordinate stilistiche del quintetto rimangono fedeli alle origini, un post metal miscelato con sludge e doom, ove le ultime due componenti sono maggiormente enfatizzate e dove il tutto è infarcito di qualche altra trovata, anche di sapore elettronico. "Mirrors", l'opening track è un pezzo che suona più come una lunga intro piuttosto che un brano vero e proprio, sebbene trapeli evidentemente lo stile muscolare dei nostri. La faccenda s'ingrossa con la title track, "Nøll", 150 secondi di sonorità immonde fatte di un drammatico e putrescente sludge, corroborato da un cantato selvaggio. Un bel basso apre "Entities", a cui si accodano chitarre e batteria, in una progressione sonora che si preannuncia ipnotica ed edificante. Una montagna invalicabile creata da una stratificazione ritmica paurosa su cui poggia il cantato di Matic Babič e delle urla disumane collocate in sottofondo (opera probabilmente delle due asce) che evolve in un caos sonoro caustico e delirante. "Lacerations" ha invece un approccio più votato al crust/post-hardcore, con cambi di tempo vertiginosi che sanciscono il quasi definitivo allontamento dalle sonorità che caratterizzavano questi musicisti agli esordi. Tuttavia, nella seconda metà del brano, la band ritorna sui binari della civiltà, offrendo il proprio lato più intimista e meno veemente, che va lentamente rallentando fino all'arrivo di "Abstract", una delle due canzoni più lunghe del lavoro, insieme a "Circulation". Due brani che superano ampiamente gli otto minuti, più sperimentale il primo, con le sue lunghe fughe strumentali figlie di un post rock progressivo di settantiana memoria che si alternano ad un sound più abrasivo che arriva a sfiorare addirittura il black metal. Il secondo invece ha un lungo incipit dal sapore ambient/dronico che a metà brano si lancia in una trance psichedelica. Nel frattempo ci siamo persi per strada la furia rumoristica della scheggia impazzita "Fracture", un po' grind, un po' mathcore ma anche decisamente noisy. L'ultima traccia a mancare nella rassegna è "Neon Ooze", un altro pezzo lanciato da linee di basso tonante suonate però a rallentatore, grida lancinanti e altri elementi disturbanti che hanno il solo effetto di condurci nel nuovo incubo firmato The Canyon Observer. (Francesco Scarci)

(Kapa Records/Vox Project - 2018)
Voto: 75

https://kaparecords.bandcamp.com/album/n-ll

giovedì 7 giugno 2018

Euphoreon - Ends of the Earth

#PER CHI AMA: Melo Death, Wintersun
Gli Euphoreon sono il progetto di Eugen Dodenhoeft, mente dei teutonici Far Beyond, e di Matt Summerville, cantante e chitarrista neo zelandese. Il duo, che vive a distanza siderale l'uno dall'altro, nasce addirittura nel 2009 e in quasi una decade di vita, ha partorito una demo, un album di debutto omonimo nel 2011 e finalmente dopo 7 anni, un nuovo comeback discografico, questo 'Ends of the Earth'. Forti di un artwork mirabolante, i nostri rilasciano sette brani (più gli stessi in versione strumentale) all'insegna di un melo death di stampo finlandese, Wintersun su tutti. Il cd si apre con "Euphoria" che spiega la pasta di cui è fatta la band, ossia un death melodico corredato da una ritmica serrata, coadiuvata da bombastiche tastiere che forgiano l'ambientazione di fondo dell'intero album e dalle grim vocals del cantante, per un esito alla fine davvero entusiasmante, anche e soprattutto nella sua porzione solistica. Quello che più mi ha colpito sono comunque gli arrangiamenti con l'accompagnamento delle keys che mi hanno rievocato la colonna sonora di 'Inception'. La title track, che occupa la seconda posizione nel disco (peraltro uscito in due formati differenti, cd blu o rosso), si lancia in un'arrembante cavalcata melodica, in cui la voce del frontman s'intreccia con le chitarre e le tastiere e dove ancora una volta ad emergere dal frastuono melodico generato, è un intrigante assolo. E ancora tastiere quasi ad emulare il suono di un'arpa, come incipit di "Zero Below the Sun", per poi lanciarsi in un brano dal forte sapore sinfonico e dalla linea melodia (quasi black) davvero trascinante, munita peraltro di una certa vena malinconica. La song si colloca in cima alla mia personale classifica tra quelle contenute nell'album, per la sua duplice natura, ossia le sue fresche melodie ma anche la capacità di divenire più sommessa nella sua parte centrale grazie ad un break di violino e strumenti vari, interrotti da un assolo da urlo che ci conduce nuovamente verso momenti più ariosi. La song alla fine è un alternarsi di emozioni a metà strada tra death e black sinfonico (retaggio del buon Eugen nei suoi Far Beyond), epic e power metal, il tutto imbevuto di una velata dose di tristezza. "Mirrors" irrompe in modo inusuale con un chorus antemico già in apertura, in un brano che segue poi il canovaccio proposto sin qui dalla band e che vedrà nel suo svolgimento, altri interventi corali in stile Therion, mentre le sei corde sciorinano grande tecnica e spettacolari melodie. Si arriva cosi a "Craveness", song dal feeling più oscuro ma dalla linea melodica più forzatamente barocca, per quello che è invece il brano che meno ho apprezzato all'interno del disco. Decisamente meglio "Oblivion", forse anche per quella sua vena malinconica che riemerge forte, soprattutto nel fantastico break centrale, vibrazioni maestose per un'altra notevole traccia di questo 'Ends of the Earth', che trova modo di chiudere con "The Grand Becoming", e gli ultimi otto minuti di un lavoro sin qui importante. La traccia si apre con i tocchi di pianoforte punteggiati dal lavoro di chitarra, batteria e keys, in una song più ritmata che alla fine rappresenta la summa di tutto ciò che è contenuto in questo secondo lavoro targato Euphoreon. Per gli amanti del karaoke, beh perchè non godersi poi i brani in versione strumentale, io ne avrei fatto francamente a meno. Buona prova comunque, rimangono da affinare ancora un po' di cosine (un cantato troppo invasivo, una produzione che sembra mancare di potenza e un canovaccio che rischia di essere troppo scontato), ma i nostri sono sulla strada giusta. (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 75

https://euphoreon.bandcamp.com/

mercoledì 6 giugno 2018

Tusmørke - Fjernsyn I Farver

#PER CHI AMA: Psych/Space Rock, Yes, King Crimson
Il traguardo del sesto album non è cosa da poco. Ci sono riusciti i norvegesi Tusmørke con questo 'Fjernsyn I Farver' (che starebbe per "Televisione a colori") e il carico di musica folk psych prog rock che esso si porta. Sei i brani a disposizione dei nostri per cercare di stupirci con le loro melodie funamboliche che sembrano provenire direttamente da fine anni '60. Lo dimostra immediatamente la title track posta in apertura al disco, in cui flauto, percussioni varie e un cantato stravagante (in lingua madre) irrompono e dichiarano apertamente l'amore della band per i signori del calibro di King Crimson, Yes o Jethro Tull (ma più per un'assonanza legata all'utilizzo dei flauti), giusto per citare alcuni degli act più famosi ai quali i Tusmørke si ispirano. Notevoli i giochi di luce che l'ensemble riesce a creare, tra rallentamenti e accelerazioni psych rock, in cui il pallino del gioco è tenuto costantemente dai synth e da una voce non poi cosi facile da digerire. "Kniven I Kurven" conferma l'importanza del flauto nell'economia della band: esso apre infatti la song, mostrando un'ampia sinergia con le percussioni e un sound in generale che mi proietta indietro nel tempo di almeno una cinquantina d'anni, ove le chitarre sembrano invece relegate in secondo, anzi terzo piano. La traccia ha un incedere che potrei definire banalmente allegro, tuttavia manca di una spinta che la riesca realmente a rendere cooinvolgente. Il quintetto di Oslo prosegue con la propria proposta in "Borgerlig Tussmørke", un brano che appare come l'ideale colonna sonora di una fiaba, anche se il coro a metà brano sembra preso in prestito da "Hey Jude" dei Beatles. Che i nostri non siano degli sprovveduti lo si evince anche dalla debordante e sabbatiana "3001", una canzone che prende le distanze dalle altre song, sebbene l'intro risuoni come un videogames anni '80. La traccia si snocciola come un classico dei Black Sabbath, con addirittura la voce del frontman a voler emulare quella del buon vecchio Ozzy e un break a poco più di metà brano, che fa sprofondare il sound dell'act scandinavo in una porzione psych doom. Molto in stile Carlos Santana invece l'inizio di "Death Czar", cosi caraibica nei suoi suoni fragili e psichedelici, soprattutto a livello percussivo, con un finale più rock oriented che ne rigenera le sorti. "Tøyens Hemmelighet" è l'ultimo pezzo di questo disco, che vuole raccogliere una mistura di suoni funk e folk, evocandomi un che dei Carnival in Coal nel loro album 'French Cancan' ed in particolare nella cover di "Fucking Hostile" dei Pantera. Ascoltare per credere. (Francesco Scarci)

martedì 5 giugno 2018

Watchmaker - Erased From the Memory of Man

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Grind
Cos’è per voi il caos? Dopo aver ascoltato questo disco sicuramente ne avrete una vaga idea, perchè i 26 minuti di questo cd, rispondono alla perfezione alla mia iniziale domanda. 'Erased From the Memory of Man' racchiude diciotto tracce, tutte collegate fra loro da un unico comune denominatore: la caoticità della proposta musicale di questa seminale band statunitense di Boston. La musica dei Watchmaker è un vero assalto sonoro, fatto di rancidi e violenti suoni thrash metal miscelati rozzamente a schegge grind, ad urla disumane, il tutto spruzzato di suoni cacofonici provenienti da altri ambiti musicali: black, punk-hardcore e death. Fortunatamente il disco non dura molto, altrimenti un volo dal terzo piano, nessuno glielo avrebbe negato. Cos’è il caos per me? Alla fine pura noia... (Francesco Scarci)