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domenica 19 febbraio 2012

Emil Bulls - The Black Path

#PER CHI AMA: Metalcore, Killswitch Engage

Dalla Germania ecco arrivare la new sensation in ambito metalcore. Si tratta questa volta di una giovane band alle prime armi che comunque, in questo “The Black Path”, mostra già tutte le proprie buone potenzialità. La musica dicevamo, fortemente influenzata dalle sonorità americane, imbocca una propria strada, cercando di prendere le distanze dal metalcore statunitense dei vari Shadows Fall, Killswitch Engage o dalle creature più hardcore Hatebreed e Unheart. Non male, non male davvero la proposta del combo teutonico, questo perchè i nostri sono abili nel miscelare partiture tipicamente “core” ad altre più rock oriented, grazie sicuramente alle vocals di Christoph von Freydorf, abile nel passare dal classico scream vetriolico a clean vocals che potrebbero ricordare quelle dei Radiohead. La musica, proprio adattandosi a questo alternarsi bivalente del vocalist, passa da momenti tempestosi tipici del metalcore a passaggi molto più interessanti, in cui è un sound più rallentato, oscuro e ritmato a dettare i tempi. 14 songs che presentano come minimo comun denominatore dei riff di chitarra possenti, ma al di là di alcune sfuriate hardcore, sono le “ruffiane” melodie emo a tener banco e a conquistare l'ascoltatore. Per concludere, pur non trattandosi di un capolavoro, “The Black Path” ha il coraggio di andare oltre alle solite cose uscite in ambito metalcore. Promossi a pienissimi voti! (Francesco Scarci)

(Drakkar Records)
Voto: 70
 

Hekate - Goddess

#PER CHI AMA: Folk, Medieval
Dopo la pubblicazione del 2003 della raccolta “Ten Years of Endurance” e dopo un silenzio durato tre anni dall'uscita del precedente album (“Sonnentanz”), torna la formazione tedesca degli Hekate con “Goddess”, contenente undici brani che si ispirano ai miti e alle leggende d'Europa. Devo ammettere che, prima di ascoltare l'album, conoscevo gli Hekate solo di nome e "di presenza", avendo avuto l'occasione di vederli suonare dal vivo per Allerseelen, ma ora li annovero fra quelle piacevoli scoperte che da un po' di tempo a questa parte caratterizzano i miei ascolti e che comprendono, in ambito folk, anche Derniere Volonte e Tenhi, con i quali, tuttavia, condividono solo l'appartenenza al genere, avendo infatti gli Hekate un sound molto diverso da quello delle due band citate. Dicevo che i pezzi traggono ispirazione da mitologie legate al vecchio continente e, infatti, troviamo la leggenda della Fata Morgana tratta dalla mitologia celtica nel brano d'apertura “Morgan le Fay”, la leggenda di Grail che coinvolge i Catari del Castello di Montségur in Francia in “Montségur”, il mito germanico di Barbarossa e del Kyffhaeuser in “Barbarossa”, la leggenda dell'Europa basata sulle tradizioni Cretese e Miceana in “Europa”, la danza del toro tratta dalla cultura Minoica in “Dance of Taurus”, la storia di Spagna e influenze culturali dei Mori in “Maure”. Inoltre, vi sono richiami alla lotta per l'amore che unisce tutti i popoli in “Flammenlied” e “Ocean Blue”. Da un punto di vista prettamente musicale, “Goddess” può essere descritto come l'unione di sonorità folk con melodie medievali, accompagnate da una massiccia base di percussioni che infondono nei brani una forte energia dal sapore ritualistico e atmosfere magiche di impronta pagana. Bastano le prime note del brano di apertura, “Morgan le Fay”, per essere proiettati in un altro tempo e iniziare così un viaggio attraverso le culture e le tradizioni descritte superbamente dagli Hekate con la loro musica. I due elementi più caratteristici di questo progetto, ovvero le instancabili percussioni che accompagnano ogni brano e la voce di Susanne Grosche (a volte sostituita da quella di Axel Menz), sono anche quelli che più si apprezzano e che emozionano maggiormente durante l'ascolto dell'album. L'aura romantica e nostalgica di alcuni pezzi (“Morgan le Fay”, “Montségur”, “Barbarossa”) unita ad arrangiamenti moderni, a volte elettronici (“Flammenlied”, “Break the Silence”), a volte pop (“Dance of Taurus”, “Maure”), o ad atmosfere epiche (“Morituri te Salutant”, “Lord of Heaven”, “Europa”) rendono “Goddess” ancor più caratteristico e dalle sfumature sonore ed emotive variegate. Per i collezionisti e gli appassionati, il cd è uscito anche in una versione in digipack contenente un secondo disco che riporta tracce degli Hekate remixate da Arcana, Ordo Rosarius Equilibrio, Flatline, Sieben, Chorea Minor e Gae Bolg and the Church of Fand. Consiglio a tutti di non perdere questo lavoro, qualsiasi sia la versione che vorrete fare vostra. (Laura Dentico)

(Auerbach Tonträger)
Voto: 75

Gardenjia - Ievads

#PER CHI AMA: Djent, Meshuggah, Vildjartha
Finalmente anche l’Italia mostra i primi segni di contaminazione djent e ne abbiamo la prova con i brindisini Gardenjia, che hanno rilasciato da poco questo EP di quattro pezzi, tra i quali vi è contenuta anche la cover degli Heroes del Silencio, “Entre dos Tierras”. Il cd si apre con la traccia omonima e i nostri baldi giovani mostrano da subito i muscoli attaccando con una intricatissima ritmica da paura, in pieno stile “Meshugghiano”: tempi dispari, chitarre polifoniche super distorte, stop’n go palpitanti, atmosfere claustrofobiche e la voce al vetriolo (ma anche pulita) di Raffaele Galasso; pazzesche linee di chitarra e assoli schizofrenici completano il quadro, da fine del mondo della prima monumentale traccia. Signori, cha band esplosiva ho tra le me mani. Attacca “A Beast Called Man” e accanto alle influenze di scuola scandinava, costantemente corredate da un’ottima tecnica individuale, di cui voglio esaltare l’eccellente prova fantasiosa del drummer Antonio Martire, trovano spazio anche divagazioni in territori un po’ più progressivi, pur mantenendo comunque un lacerante e al contempo malinconico substrato musicale. “Stones as Dry Leaves” apre ancora con la delicata irruenza di matrice djent; mi vengono in mente i Vildjartha più rilassati e gli Uneven Structures più ipnotici, due band che lo scorso anno mi hanno fatto venire le vertigini, e se posso essere sincero, i Gardenjia non sono poi cosi tanto lontani dalle performance dei colleghi nord-europei, anzi vorrei sottolineare la capacità del trio pugliese di spingersi oltre, con schegge contaminate dal crossoverizzato sound degli ultimi Cynic, spaziali. A chiudere il cd ci pensa l’inopportuna cover degli Heroes del Silencio, che mi lascia un po’ cosi, perplesso: sicuramente l’ho fischiettata piacevolmente poiché erano anni che non la sentivo, ma sinceramente non capisco il motivo di includere questa song all’interno dell'EP. A parte questo, ora mi aspetto il rilascio di un full lenght vero e proprio in modo tale che quel 75 là sotto, possa schizzare un po’ più in alto… (Francesco Scarci)

sabato 18 febbraio 2012

Handful of Hate - Vicecrown

#PER CHI AMA: Swedish Black Metal, Marduk, Dark Funeral
Dopo dieci anni di vita e dieci anni di onesta militanza tra le frange più estreme dell'underground metal, con “Vicecrown” gli Handful of Hate raggiunsero il traguardo del terzo full-length e sotto l'ala protettrice della Code666 pubblicarono quello che secondo il mio parere è il loro disco migliore. Durante gli anni Nicola Bianchi ha mantenuto in vita in maniera caparbia e coraggiosa un progetto che fin dagli inizi ha affondato le proprie radici nell'intransigenza sonora del black metal, mantenendo nel contempo una fiera autonomia di pensiero che all'interno della scena estrema lo ha reso estraneo sia alle tentazioni verso la blasfemia grossolana, sia alle arie altezzose e fintamente erudite di tanti improvvisati opinionisti dell'occulto. Ad accompagnare la musica degli Handful of Hate è invece un substrato culturale credibile e serio, un punto di forza che ha sempre coinciso con altre due qualità fondamentali che vanno attribuite al gruppo toscano: una grande coerenza ed un'umiltà comune a pochissimi altri nomi italiani. Riguardo al lato strettamente musicale va detto che la band si è sempre dichiarata in qualche modo debitrice del black metal di matrice svedese, ma con “Vicecrown” è evidente come il suono di Dark Funeral e Marduk sia stato assimilato talmente bene da ottenerne una piena padronanza, tanto da riuscire a creare qualcosa di nettamente più coinvolgente di quanto stiano proponendo oggi le due navigate formazioni scandinave. Rispetto ai primi due album, “Qliphotic Supremacy” e “Hierarchy”, il salto qualitativo compiuto è dunque notevole, non solo per il superbo lavoro di produzione che finalmente rende giustizia alle capacità tecniche dei musicisti, ma soprattutto per la validità dei nove brani, che stavolta riescono a fare male sul serio! Quello dell'opener “I Hate” è un assalto frontale senza compromessi, una spietata affermazione di supremazia e di cieca determinazione che apre il varco alla furia di “Beating Violence” e “Risen into Abuse”, le quali si susseguono in un'incessante manifestazione di violenza che a tratti potrà risultare difficile da sostenere per chi non possiede orecchie ben allenate. Urla laceranti e paurosamente glaciali sono accompagnate da una sezione ritmica precisa e devastante che nei rari momenti di tregua concessi non perde nulla della sua intensità e contribuisce, anzi, a rendere ancor più equilibrato il suono, aiutando a sottolineare la monolitica pesantezza dei riff di chitarra più lenti (come in “Boldly Erected” e “Hierarch in Lust”). Persino nei momenti più tirati, quando gli strumenti vengono spinti a folle velocità, la band mantiene un invidiabile controllo sull'esecuzione, dando vita ad un magma sonoro compatto e distruttivo che vede costantemente in primo piano l'enorme lavoro di chitarre, le assolute protagoniste dell'intero lavoro. Per chi non è avvezzo a certe sonorità è indubbio che la pesante omogeneità dei brani potrà rendere “Vicecrown” un'opera ostica da digerire e questo è l'unico neo che penso si possa individuare in un album comunque ottimo, che resta destinato principalmente a chi ricerca nella violenza e nella velocità - non certo nell'intrattenimento - il pane per i propri denti. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 75
 

Mercenary - Architect of Lies

# PER CHI AMA: Death/Heavy, In Flames, Nevermore, Gardenian
A me i danesi Mercenary, sinceramente sono sempre piaciuti, per quella loro capacità di essere incazzati e melodici al tempo stesso. “Architect of Lies”, che segue di un paio d'anni il forse fin troppo melodico “The Hours that Remain” (vincitore del Danish Metal Award come miglior album dell'anno), conferma il buono stato di salute del sestetto scandinavo, che dopo un lungo tour europeo, si è chiuso in studio per diversi mesi, per partorire questo valido come back, il quinto per i nostri. Dieci tracce per più di cinquanta minuti di musica brillante, ben suonata, che riprende l'ardore più selvaggio delle prime release, ben bilanciandolo con la spiccata melodia e gli elementi catcy del precedente lavoro. Forte è l'influenza dello swedish death più melodico e grooveggiante (gli ultimi In Flames e Soilwork), ma pure il thrash made in USA (a la Nevermore) trova spazio nel sound dei nostri. Il six-piece danese, si dimostra comunque assai maturo: ottimo il song writing, buone le sonorità che miscelano un death ben strutturato, al tempo stesso assai melodico e accattivante con partiture quasi rock'n roll, frutto del dualismo creato dai due vocalist, René in versione growl e Mikkel dall'impostazione squisitamente rock. Credo proprio che questa apertura, che già era stata apprezzata in passato, apra ulteriormente i confini della musica dei Mercenary anche a chi non ha le orecchie abituate al death metal. “Architect of Lies” si conferma lavoro solido e interessante, destinato ad una fetta di pubblico assai vasta. (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 75
 

venerdì 17 febbraio 2012

Warbringer - War Without End

#PER CHI AMA: Thrash Old School, Exodus, Testament, Over Kill
La musica estrema segue dei cicli ben precisi: iniziò il thrash, poi il death, il black e ora dopo quasi vent'anni si è ripreso a fare nuovamente thrash metal come negli anni '80. Sinceramente non so se questo sia un fatto positivo, più che altro perchè secondo me è indice di totale mancanza di idee, in un genere per cui è già stato detto tutto. E così i californiani Warbringer con il debut “Guerra Senza Fine”, mi domando che bella figura avrebbe fatto sugli scaffali vent'anni fa, al fianco di “The Legacy” dei Testament, “Under the Influence” degli Over Kill o “Bonded by Blood” degli Exodus, tanto per citarne alcuni. La musica infatti del quintetto di Los Angeles è un concentrato di quelle sonorità che andavano di moda in quei tempi: chitarrone pesanti (stile Over Kill), vocals urlate, coretti alla Anthrax, vetriolici e anacronistici (e questo lo giudico un pregio per questo album) assoli alla Slayer e il gioco è fatto: l'album è praticamente confezionato per quei giovani che, purtroppo per loro, non hanno vissuto i favolosi anni '80. Da segnalare alla fine la classica ghost track da un paio di minuti...(Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 60

giovedì 16 febbraio 2012

Fading Waves - The Sense of Space

#PER CHI AMA: Post Metal
Ormai dovremo diventare reviewer ufficiali della Slow Burn Records vista la mole di materiale che ci spediscono ogni mese. Ma diciamo grazie invece che esistono ancora etichette coraggiose che cercano nelle cantine marce e buie dell' underground... Questa volta è il turno dei Fading Waves, o meglio, di Fading Waves, visto che è un progetto post-metal solista dalla madre Russia. "The Sense Of Space" è un EP di cinque pezzi che ripercorre il classicismo del post-rock, così com'è nato qualche hanno fa e che qui viene ripreso sia nella struttura che nelle scelte sonore. Elemento che tesse la trama di tutti i pezzi è la chitarra, anche se viene fatto un buon uso di basso e la batteria assolve con merito il suo ruolo ritmico. Dopo la breve intro, passiamo al secondo pezzo "Flashes" dalla struttura scontata negli arpeggi che diventano distorti verso la fine, mantenendo l'armonia costante per tutti i nove minuti. L'utilizzo di delay e reverb è d'obbligo per soddisfare i requisiti post. Per questa traccia è stata chiamata una vocalist dalla voce eterea che si sposa perfettamente con l' atmosfera sfuggente iniziale. "Perforate the Sky" viene invece interpretata dal one man band che sta dietro a questo progetto, dotato di un growl di tutto rispetto, dosato al punto giusto e all'unisono con le esplosioni strumentali. Le classiche pause e i ritorni alle ritmiche lente iniziali completano il quadro "classico", la vera grande pecca di questo album. Se arrivi primo crei un nuovo genere, se arrivi secondo ti sei ispirato, se arrivi terzo hai copiato spudoratamente. Mettiamola così, questo "The Sense Of Space" era una prova generale per mostrare le potenzialità, ora attendiamo il prossimo lavoro. NB: Fading Waves sta cercando vocalist per la prossima sessione in studio di registrazione, quindi se vi avvicinate ai Katatonia e Tesseract come stile e timbro, fatevi avanti! (Michele Montanari)

(Slow Burn Records)
Voto: 65

Acheode - Anxiety

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death
Ognuno di noi, per quanto gli sia possibile, si sforza giorno dopo giorno di essere tranquillo, educato e gentile. Prima o poi però, è inevitabile, bisogna fare i conti con qualche momento di pura incazzatura. Tali momenti possono certo dipendere da noi, ma anche no. In un caso o nell'altro c’è da farsela passare, giusto? E' necessario venirne fuori. Ma come? Fermi lì, tranquilli, non state ad lambiccarvi troppo le meningi, qualcun'altro ci ha già pensato per voi! Non dovrete far altro che ascoltare. Si as-col-ta-re. Si tratta di un modo sicuro, veloce, senza effetti collaterali(?) Da assaporare in qualsivoglia quantità. Una magica valvola di sfogo che potrete aprire in ogni momento, al bisogno. Sto parlando degli Acheode, affiliati del sempre più nutrito esercito Kreative Klan e precisamente del loro full lenght, "Anxiety". Energia allo stato puro, un botto nucleare più potente dello spread che vi scardinerà piacevolmente le membra fino a ribaltarvele tutte ma senza alcun fall-out radioattivo. Fin dal primo istante, credetemi, vi entusiasmerà oppure no, lo capirete oppure no, in un caso o nell'altro, non avrete dubbi. Io ne sono uscito indenne e sicuramente entusiasta, di certo arricchito e pure annichilito. La cover, rivelatrice del concept di questo full lenght, ci propone un vecchio che viene strangolato dal cordone ombelicale di un feto: una sorta di rivalsa della vita sulla morte, quindi. Il sound che le nostre cinque colonne d'Ercole tutte italiane ci propongono è così incazzato che non esiste un adeguato aggettivo per definirne l'aggressività. La cattiveria ci è subito servita a piene mani, senza paura d'imbrattarsene, ma anzi con gioia di farlo, con "Parasitic Gangrene", prima track, e non si cheta se non sul finire dell'ultima song "Anxiety". Colonna vertebrale che sostiene tutto il disco e non lo fa mai cadere nella banalità, è l'estrema velocità con la quale ogni singola traccia viene eseguita. Einstein, che di velocità ne sapeva, nella sua teoria della relatività aveva posto un limite preciso a questo parametro: quella della luce. C'è però da dire, a suo favore, che al tempo, gli Acheode non esistevano. Loro infatti, infrangono questo limite, sfruttano una sorta di NOS relativistico che gli permette di spingersi in una sorta di al di là. La batteria sembra suonata da più di due braccia. Ne servirebbero, a mio parere, almeno quattro: che il batterista sia la reincarnazione di qualche antica divinità induista? Di certo è un Dio, le sue pelli devono derivare dalle pergamene del "Codex gigas" la "Bibbia del diavolo", per non uscire distrutte dopo ogni singolo passaggio. Mi sa che se andassimo a controllare, presso la biblioteca reale di Stoccolma, dove il Codex è gelosamente custodito, scopriremmo dove siano finite le pagine mancanti: nei toms e rullante di Filippo Vanoni. Per le chitarre vale la stessa regola: mi sa che anche stando lì vicino, concentrati, a guardare, non riusciremmo a distinguere colore e forma del plettro dalla velocità alla quale si muove. Resteremmo invece di sicuro imbrattati dal sangue dei polpastrelli che scivolano sui tasti restandone corrosi. Forse siamo di fronte ad un estremo quanto raro caso di polidattilia? Direi che con tre dita in più per mano forse (e dico forse) la cosa è fattibile. Spero infine nella clemenza di Marco De Martino, abilissimo e valido cantante del gruppo. Quando diventerà padre o se magari lo è già, non mi è dato saperlo, che stia bene attento a non usarla per canticchiare ninne nanne per i suoi bambini. L’effetto sarebbe devastante: comincerebbero a scendere le scale come la bambina de "l'Esorcista" e sicuramente parlerebbero l’aramaico. Promotori della fine del mondo, bravi! (Rudi Remelli)

(Kreative Klan Records)
Voto: 80

domenica 12 febbraio 2012

Corporation 187 - Newcomers of Sin

#PER CHI ASCOLTA: Detah/Thrash, At the Gates, Unanimated
La scena svedese non vive solo delle band provenienti da Gotheborg e Stoccolma, ma dalla piccola cittadina di Linköping, ecco riemergere dalle ceneri, gli ormai (dati per dispersi da un po' di tempo) Corporation 187, quintetto dedito ad un classico death/thrash senza compromessi, caratterizzato dalle classiche venature swedish death di At the Gates ed Unanimated. Undici cavalcate abbastanza tirate, all'insegna dell'headbanging sfrenato, con le tipiche ruvide chitarre svedesi a disegnare ritmiche incazzate, ma sempre comunque melodiche e le vocals corrosive del vocalist a ricercare di riprodurre il selvaggio latrato di Mr. Tompa Lindberg; graffianti assoli completano il quadro di “Newcomers of Sin”, che si rivela alla fine un discreto lavoro. Il solo difetto di questa nuova release dell'act scandinavo, è ahimé di essere uscito quasi tredici anni dopo “Slaughter of the Soul” e ciò ne penalizza enormemente la sua valutazione. Per chi è malinconico nei confronti di queste sonorità, un ascolto è per lo meno dovuto, gli altri si vadano a ripescare gli originali. (Francesco Scarci)

(Anticulture)
Voto: 65