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domenica 9 gennaio 2022

Kosmodome - Kosmodome

#PER CHI AMA: Psych/Prog Rock
Il giovane duo dei fratelli Sandvik si mette in mostra con questo interessante primo album dal titolo omonimo e dai toni caldi e curati. Un'attitudine space rock nella grafica di copertina, nel moniker e nell'atmosfera generale del disco, che abbonda di effetti cosmici, aiutati dai vari rhodes, organo, piano e mellotron, suonati dal bravo Jonas Saersten, unico ospite nel progetto. Il sound dei Kosmodome è sofisticato e riconduce, come affermato nelle note della pagina bandcamp, alle sonorità prog rock degli anni '60, a cui aggiugerei anche primi anni '70, rinnovati alla maniera degli Anekdoten, anche se meno cupi e più solari. Ottimo l'impatto strumentale, dove Sturle Sandvik suona chitarra, basso e canta, mentre il fratello Severin siede dietro ai tamburi. Entrambi si comportano assai bene sfoderando ottime prestazioni, sia in fase esecutiva che compositiva, arricchendo e colorando tutti i brani in maniera intelligente. Questi nipotini degli osannati Camel di inizio carriera, hanno imparato perfettamente come esprimersi in ambito rock, acquisendo una formula sonora navigata, vintage e classica, ridisegnata degnamente con verve attuale e accorgimenti moderni di scuola post rock e space rock, sia nel canto che nella scelta delle sonorità. "Deadbeat" né è un manifesto con una coda in stile folk etnico che fa un certo effetto scenico. Tra i brani si manifestano esplosioni in stile stoner come in "Waver I" e "Waver II", ma il parallelo con i Mastodon rivendicato dalla band, mi sembra eccessivo. In effetti, il suono caldo ed elaborato è di buona fattura ma non raggiunge mai la potenza del combo americano. Comunque, la vena prog nello stile dei Kosmodome prevale sempre, anche quando schiacciano sul pedale dell'acceleratore, ecco perchè li avvicinerei più ai mitici Anekdoten e agli allucinati Oh Sees come attitudine, mentre se parliamo di stoner li avvicinerei piuttosto agli Apollo 80 o ai precursori olandesi Beaver. I paragoni lasciano il tempo che trovano e devo ammettere che il disco è assai bello, piacevole, ricercato e si consuma tutto d'un fiato, cosa che permette all'ascoltatore di entrare in un'atmosfera astratta e cosmica intrigante, capitanata peraltro da una voce pulita e sicura che a volte inspiegabilmente mi ricorda certa new wave psichedelica degli anni '80. Ascoltate il brano "The 1%" e godetevi l'estasi, oppure "Retrograde" per farvi sovrastare da un' ottima psichedelia progressiva. Gran bella prova per questo giovane duo norvegese di Bergen, che fa parter del rooster di una splendida etichetta discografica, la Karisma & Dark Essence Records. Album da non perdere! (Bob Stoner)

(Karisma & Dark Essence Records - 2021)
Voto: 78

https://kosmodome.bandcamp.com/album/kosmodome

sabato 8 gennaio 2022

The Spacelords - Unknown Species

#PER CHI AMA: Psych Rock Strumentale
Devono averlo per vizio i tedeschi The Spacelords di pubblicare tre brani per volta. L'avevano fatto in occasione di quello 'Spaceflowers' che ricordo aver recensito durante il primo lockdown, lo rifanno oggi con questo nuovo capitolo intitolato 'Unknown Species'. Tre brani dicevo che si aprono con le psichedeliche melodie di "F.K.B.D.F" (chissà poi per cosa sta quest'acronimo), un pezzo nemmeno cosi lungo ("solo" otto minuti) che in tutta franchezza, non sento nemmeno cosi originale e catalizzante. Si rimane in territori strumentali votati ad un psych rock magnetico, a tratti lisergico, ma che in questa traccia d'apertura, non mi rapisce sguardo e mente. Ci riprovano con la successiva song, la title track, che ci trastullerà per poco meno di un quarto d'ora: partenza tiepida in cui a calamitare l'attenzione c'è un bel basso di pink floydiana memoria in sottofondo, mentre una chitarra dal sapore kraut rock, danza in prima fila come una ballerina indiana. L'effetto è sicuramente di grande impatto emotivo, un viaggio a luci spente in cui è sufficiente chiudere gli occhi e immaginare, un viaggio, un paesaggio, una persona, una scena, quello che volete, quello che la musica vi induce sotto pelle, fino a penetrarvi nel torrente circolatorio e da lì raggiungere il cervello come una sostanza psicotropa pronta ad alienare i vostri sensi, quasi quanto i colori sgargianti che contraddistinguono la cover artwork del disco. E iniziato questo trip mentale, non vi è nemmeno permesso scendere dal treno, che prosegue dritto con la terza e ultima "Time Tunnel" che vi porterà al mare nelle sue note iniziale. Si perchè i suoni che si sentono nei primi secondi, quando la chitarra acustica apre il pezzo, sono quelli delle onde del mare che sfiora la battigia. Ma l'immaginazione corre lontano, a falò sulla spiaggia, spinelli scambiati, pensieri sfuocati e tanta leggerezza, come giusto ci servirebbe in questi giorni di schizofrenia. Il sound monta piano tra echi orientaleggianti e fughe tra psichedelia, hard rock e stoner, ma intanto sale, sale ingrossandosi e crescendo di intensità attraverso ciclici e roboanti giri di chitarra in una sorta di infinita scala a chiocciola dove non riuscire a raggiungere la cima, tanto meno poi a scendere. Non so se realmente se sono riuscito a spiegarvi che diavolo ho sentito durante l'ascolto di questo disco, rileggendomi non ci ho capito granchè nemmeno io, ma queste sono le immagini un po' sbiadite che si sono autogenerate nella mia mente mentre il sound cosmico degli Spacelords mi assorbiva tra le sue spire. E le vostre, quali sono state? Godetevi 'Unknown Species' e fatemi sapere. (Francesco Scarci)

Sleepmakeswaves - Live at the Metro

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Non amo particolarmente gli album dal vivo, figurarsi poi di un lavoro interamente strumentale. Tuttavia, riflettendoci bene sopra, quella live potrebbe essere la sede che meglio si adatta a proposte di questo tipo, per gustare in modo più diretto il feeling che la band vuole emanare direttamente ai suoi fan. E la band di oggi, gli australiani Sleepmakeswaves, non sono proprio gli ultimi sprovveduti, essendo tra le realtà più interessanti della scena post rock mondiale. 'Live at the Metro' poi cattura un concerto tenutosi a casa loro, a Sydney, al Metro Theatre nel 2015 e prova con la sola musica, a farci immaginare le vibrazioni, l'atmosfera e l'energia di quella che deve essere stata una magica notte. Nove i pezzi proposti dai nostri, che già un paio di volte abbiamo recensito su queste stesse pagine. Largo alla quindi musica di "In Limbs and Joints" ad aprire questo lavoro che rientra tra i dischi da riscoprire per l'etichetta Bird's Robe Records. L'interazione col pubblico aiuta immediatamente a calarsi nella dimensione live, il resto lo fa una musica cangiante che si muove tra il post rock intimista e malinconico dell'opening track, con i suoi riverberi chitarristici, le sue mutevoli percussioni e la successiva e deflagrante, almeno inizialmente, "Traced in Constellations". Poi spazio a frangenti shoegaze, progressive, chiaroscuri mai stucchevoli ma anzi di grande impatto emotivo, splendide melodie che ci accompagneranno fino alla conclusiva "A Gaze Blank and Pitiless as the Sun". In mezzo grandi pezzi, dai singoli "Great Northern" e "Something Like Avalanches" che quasi non meritano nemmeno menzione (eppure andatevi ad ascoltare il pianoforte introduttivo della prima con quei suoi ritmi quasi esotici), o il cinematico sound della robusta "How We Built the Ocean", un trip fatto di suoni catartici, post rock o semplicemente rock (mi sembra addirittura di scorgere un riffing che richiama gli U2 ad un certo punto), che alla fine esibiscono tutte le qualità, emotive e tecnico-strumentali, di un ensemble costituito da ottimi musicisti, che possono anche fare a meno di un vocalist per piacermi. E allora fidatevi del sottoscritto, ma soprattutto fidatevi degli Sleepmakeswaves e del loro sound vibrante ed eclettico che avrà ancora modo di stupirvi con l'imprevedibilità di "Perfect Detonator" o la forza di "Emergent". (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2015/2021)
Voto: 76

https://sleepmakeswaves.bandcamp.com/album/live-at-the-metro

Bryan Eckermann - Plague Bringers

#PER CHI AMA: Black/Death/Heavy
Della serie one man band come se piovessero, ecco arrivare dal Texas Bryan Eckermann, uno che con questo 'Plague Bringers' ha tagliato l'onorevole traguardo dell'ottavo album in sette anni, quindi non proprio l'ultimo degli sprovveduti. Bryan ha infatti accumulato un bel po' di esperienza e affinato la propria proposta anche con altre band (Scars of the Flesh e Wings of Abaddon, tra le altre), fatto sta che 'Plague Bringers' (sequel peraltro di quel 'Winters Plague (The Final Eclipse)' uscito nel 2018) contiene nuove 12 tracce devote ad un mix tra black, death ed heavy metal, palese quest'ultimo soprattutto nelle eccellenti parti soliste che il polistrumentista statunitense sciorina a profusione in questo disco. L'album si apre comunque con le dirompenti ritmiche di "Ice Queen" e lo screaming efferato del mastermind che ci mostra quanto la proposta della band sia bella dritta e violenta, pur trovando grandi spunti di interesse, come accennavo, nelle parti soliste, quasi il buon Bryan si trasformasse qui in un guitar hero. Analogo l'incipit della successiva "Sands of the Hourglass", un pezzo di certo più oscuro, malinconico e compassato dell'opener, che oltre ad ospitare alle pelli Clint Williamson dei Darker by Design, trova modo di dar sfogo alla propria irruenza con un sound che percepisco ammiccare per certi versi, ad un che degli Old Man's Child, per quella sua vena melo-sinfonica abbinata a brutalità death/black. Il comparto solistico si conferma anche qui ad alti livelli e questo sicuramente rappresenta uno dei punti di forza dell'artista nord americano. Intro tastieristico scuola King Diamond per "The Devouring Sun" e spazio poi ad un death/thrash venato di sofisticazioni sinfoniche e vocals gracchianti, ancora a confermare la propria ispiratissima proposta, in un brano peraltro dal finale davvero avvincente. Ottime le keys in apertura a "Reflections in a Dirty Mirror", brano tosto e compatto, che vive di un'alternanza tra parti atmosferiche e altre decisamente più tirate, mantenendo comunque inalterata l'elevata dose di melodia. Un orrorifico tastierone apre "Moonlight and Frostbite", song che vede il featuring dell'esplosiva ugola di Stu Block, ex Iced Earth e attuale voce degli Into Eternity, ad impreziosire ulteriormente una proposta costantemente accattivante, che qui si muove tra le maglie musicali del Re Diamante, a cavallo tra black, thrash ed heavy metal (da urlo a proposito l'assolo, peccato sia cosi breve). Convince, convince il sound del buon Bryan, e sembra funzionare piuttosto bene anche laddove l'artista non fa la classica scoperta dell'acqua calda (leggasi il sound grooveggiante della title track o la più piattina "An Oath of Scrying Souls"), dove tuttavia basta un tocco pregiato di chitarra per ribaltare un risultato inizialmente scontato. Prologo atmosferico per "Astral Realms", un brano che francamente non mi ha, come si suol dire, scaldato il cuore, troppo insipido rispetto agli standard del disco. Si torna a far male con l'approcco temibile di "Skinwalker", un pezzo dai mille volti, dalla devastante parte introduttiva al break sinfonico nella parte centrale, fino al mid-tempo conclusivo, in cui a mettersi in mostra sono tutte le facce di Bryan. Ma c'è ancora spazio per i brani più lunghi (oltre sette minuti) della release, la spettrale e dirompente "Of Death and Decay" e la struggente melodia di "Tomorrow's Lie", quest'ultima da ricordare anche per il ritorno di Clint Williamson, non solo a prendersi cura della batteria ma anche della voce. L'acustica tiepida di "Oblivion" chiude un album intrigante (peccato solo per quell'orribile artwork di copertina), di un artista che in tutta sincerità non conoscevo, e che oggi mi invoglia ad andarne a sapere molto di più dei suoi precedenti lavori. Ben fatto Bryan! (Francesco Scarci)

mercoledì 5 gennaio 2022

Death - Leprosy

#FOR FANS OF: Death Metal
Heavy AS FUCK! This is the beginning to Death's musical evolution in music. Pretty much a new lineup every recording (with exceptions). I had this album on cassette and later bought the CD to capture it on my stereo. Most people don't operate out of a stereo anymore, but not me! It gives 'Leprosy' better audio (to me). This album is heavy like I said but catchy. 'Scream Bloody Gore' was the beginning of death metal, better (in my opinion) than Possessed's 'Seven Churches'. And 'Leprosy' is another evolution to Death's music. Safe to say here this is the band that began death metal itself, arguably though.

This album the whole way through has great songs filled with Chuck's songwriting and lyrical concepts. The music fit the lyrics perfectly. But you see that he's getting away from the "gore" in his songs and putting more effort into the words. Rick Rozz adds a different element to the lead department, a lot of whammy bar solos that complement the music, ABSOLUTELY. Even though I like all Death releases, the earlier stuff namely this one is creative and innovative. But as time went on and lineups/musical direction changed Death turned from death metal to more progressive metal. Hence, moving forward to Control Denied and Death's main man Chuck died in 2001.

The vocals on this album go perfect with the songs (music). Rick brought a new element to Death, but not good enough for what Chuck's direction was going towards. Obviously, Rick was probably disappointed with his removal from the band going towards Massacre (his formed band). I don't think that this album really had many flaws, hence the perfect score. The music, leads, vocals, production and mixing all went through really well. I couldn't ask for a better Death release. They did better than fine here. I'm surprised it took me so long to write about this one, maybe it's bringing it out of the archives and revisiting the sounds.

I say, BUY THE ALBUM. If you're into CD's or Vinyl, better yet. This is Chuck playing raw but not so much as on 'Scream Bloody Gore'. It's in my opinion, better than their debut. Definitely, so this is the beginning of movement all across the board with Carcass, Obituary, Deicide, et al. This big move into the real heavy stuff thanks to Chuck. Even if people say Possessed is responsible for this rise in death metal I say no Chuck's band was responsible for the early rise in this genre. But what later happens, is the musical direction towards a more melodic sound. 'Leprosy' is vintage death metal galore! Check it out! (Death8699)


(Combat Records - 1988)
Score: 90

https://death.bandcamp.com/album/leprosy-reissue

Closure in Moscow – First Temple

#PER CHI AMA: Indie/Prog Rock
Poco tempo fa avevamo presentato la ristampa, ad opera della Bird's Robe Records, dello splendido primo disco di questa band australiana, amatissima in patria e capace con questo secondo album intitolato 'First Temple', di arrivare al primo posto in classifica, come miglior album nella categoria hard rock/punk indipendente, agli AIR awards del 2009. La band alla fine del 2008, si sposta in blocco negli Stati Uniti per continuare la fruttuosa collaborazione con il produttore Kris Crummett, che già nel precedente, 'The Penance and the Patience', aveva dato alla luce un ottimo debutto per la giovane band di Melbourne, che in questo modo rinvigorisce il proprio sound, aumentando il cast degli strumenti usati e la qualità di produzione, per un lavoro che risulterà più elaborato, levigato al meglio, meno spigoloso e più accessibile, coloratissimo come la sua splendida copertina, variegato e di moderna visione, un mix perfetto per non passare inosservati e creare una sorta di marchio di fabbrica definitivo per i Closure in Moscow. Un modo di vedere il prog rock contaminato da visioni psych, hard rock, indie punk, con suoni caldi e profondi, voci che incantano e una timbrica sempre pulsante. L'intensità della musica, che in tutte le sue diversità di stile, viene proposta e sviluppata ovunque nel modo migliore, mostra una capacità di esecuzione e di composizione al di sopra della media (ascoltatevi "Afterbirth" e ditemi cosa ne pensate!). Una proposta musicale che non mostra lacune, che si fa ascoltare a tutto tondo senza perdere mai lo smalto, brano dopo brano, ed anche se il suo aspetto risulta essere evidentemente volto al mainstream, niente lo rende banale o derivativo, anche oggi che ha superato il decennio di vita dalla sua prima uscita, via Equal Vision Records e Taperjean Records nel 2009. I richiami sono al solito rivolti ai The Mars Volta, ai Coheed and Cambria e ai Pain of Salvation, avvolti da un'aurea di indie intelligente e fresco alla Byffy Clyro (stile 'Infinity Land'), ma tutto filtrato dall'amore per il prog rock dei seventies ed il virtuosismo acrobatico spalmato all'interno delle coloratissime composizioni, in perfetta sintonia con la classe della band di Claudio Sanchez e soci. Fa scuola il brano "Arecibo Message", una canzone dalle potenzialità enormi. Un disco che all'ascolto risulta accessibile ma assai complicato, divertente e sofisticato allo stesso modo, un album pretenzioso, anche a livello stilistico (non tutti si possono permettere un brano in acustico come "Couldn't Let You Love Me"), ma studiato con un sound fresco ed evoluto, per essere ascoltato con facilità e valutato come un piccolo gioiello, anche dopo numerosi ascolti, un album che supera a pieni voti le aspettative degli amanti del genere. Album da non perdere assolutamente. (Bob Stoner)

lunedì 3 gennaio 2022

Tangled Thoughts of Leaving - Deaden the Fields

#PER CHI AMA: Experimental/Avantgarde/Prog
Siamo nel 2022 e io sono ancora qui con una tonnellata di dischi della Bird's Robe Records sulla scrivania. Non sono ancora riuscito a smaltire il carico di vecchie release riproposte dalla label australiana. Oggi è il turno dei Tangled Thoughts of Leaving e di 'Deaden the Fields', album d'esordio uscito nel 2011 e ristampato nel 2021 in occasione del più volte celebrato, compleanno dell'etichetta di Sydney. Tuttavia i Tangled Thoughts of Leaving li conosciamo già avendoli, peraltro proprio il sottoscritto, recensiti in occasione della terza release 'No Tether' e quella loro esplorazione del post metal, venato di sonorità doom/jazz e progressive, il tutto proposto rigorosamente in forma strumentale. Diamo comunque un ascolto attento anche agli esordi del quartetto di Perth che apre il disco con l'ambiziosa e ubriacante "Landmarks" che vi stupirà con i suoi 17 minuti di saliscendi emozionali tra puro avanguardismo sonoro, post rock e progressive che cedono a derive jazzistiche, forti peraltro di una perizia tecnica di altissimo livello e grande gusto. Lasciatevi ipnotizzare quindi dal pianoforte delirante della band, dalle trombe e da qualunque altra trovata inclusa in questi lunghi minuti introduttivi. Il resto del disco credo non necessiti di ulteriori specifiche, perchè quello che avevo sentito e apprezzato in 'No Tether', trova sostanzialmente riscontro anche alle origini di una band dotata di grande creatività ed enorme personalità che si concretizzano nelle psichedeliche e ubriacanti note di "Throw Us to the Wind" dove nulla è lasciato al caso, sebbene la sensazione forte sia quella di una grande jam session tra musicisti di grande calibro. Il risultato ancora una volte è di grande spessore, nonostante l'assenza di un cantore che piloti al meglio l'ascolto. Ma qui sono convinto non sia strettamente necessario, tanta la qualità e la quantità dei suoni che convergono verso un punto univoco nell'Universo dei Tangled. Il gioco di luci e ombre prosegue anche nella più breve e riflessiva "...And Sever Us From the Present", dove è ancora il pianoforte a guidare il flusso musical-emozionale dei nostri. "Deep Rivers Run Quiet" ha un incipit ancora delicato che va via via gonfiandosi attraverso il dualismo tra un meraviglioso e malinconico piano ed un più marcato riffing di chitarra che attraverso passaggi di pink floydiana memoria, ci condurrà alla successiva title track, che riassume in poco più di sei minuti l'architettura pensante dei Tangled Thoughts of Leaving, attraverso onirici e fascinosi paesaggi sonori. La chiusura del disco è affidata poi alla lunga (altri 14 minuti) e sperimentale (tra elettronica, ambient, prog e noise) "They Found My Skull in the Nest of a Bird", che fuga ogni dubbio sulla genialità di questi mostruosi musicisti australiani che dal 2011 ad oggi, hanno rilasciato solo piccoli gioielli musicali, che dovrete a tutti i costi, fare vostri. Portentosi. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2011/2021)
Voto: 78

https://ttol.bandcamp.com/album/deaden-the-fields

domenica 2 gennaio 2022

Prehistoric Pigs - The Fourth Moon

#PER CHI AMA: Stoner Rock Strumentale
Go Down Records sempre attivissima, quest'oggi con i friulani Prehistoric Pigs e il loro concentrato di psych stoner doom. Di fronte a queste premesse, di certo non mi sarei aspettato una proposta interamente strumentale, insomma il pericolo di annoiarsi potrebbe celarsi dietro l'angolo, ma il trio deve aver evidentemente ponderato il rischio. Purtroppo per loro non avevano valutato il fatto che 'The Fourth Moon', quarta uscita per la band, cadesse tra le grinfie del recensore sbagliato, quello che non ama particolarmente i dischi senza una voce a guidarne l'ascolto. E allora vediamo se i nostri sapranno soppiantare questa carenza con altre armi efficaci. Che dire, il disco si apre con il roboante rifferama di "C35", puro stoner distorto quanto basta, che ad un certo punto cederà il passo ad atmosfere doomish su cui vanno ad incastonarsi schegge impazzite di chitarra, utilissime quanto l'ossigeno per un individuo la cui ipossiemia inizia a farsi sentire. L'heavy stoner del terzetto prosegue con il suo classico canovaccio nella successiva "Old Rats", e la mancanza di una voce in grado di modificare la monoliticità del suono diviene più evidente. Fortunatamente, i tre musicisti ci piazzano un orrorifico break atmosferico in cui, accanto a chitarre dal sapore noise, in sottofondo si percepisce anche un ipnotico giro di basso, prima di una sporca ridondanza ritmica che chiude il brano. Gradirei un urlaccio, devo ammetterlo, messo qua e là, giusto per farmi sentire un pizzico di umanità in più nel susseguirsi delle tracce. E invece la traccia si chiude con un poderoso riffing e si riapre con una porzione ritmica che sembrerebbe la medesima della precedente, proprio perchè manca un vocalist a fornire una differenziazione musicale con la sua timbrica vocale. E cosi sono alla terza "Crototon", ma potrei benissimo essere già alla conclusiva (decisamente più esplosiva) "Meteor 700", che manco me ne sono accorto. Mi spiace, perchè i nostri non sono degli sprovveduti a livello strumentale anzi, i deliziosi giochetti di chitarra a servizio della gagliarda ritmica, dimostrano una certa perizia tecnica eppure, arrivato alla title track decido di prendermi una pausa, un po' tediato dalla fin troppo lineare proposta musicale dei Prehistoric Pigs. Come mi aspettavo, i nostri non sono riusciti a toccarmi l'anima, nonostante i continui tentativi di cambi di tempo, la veemente proposta musicale, che non trovo tuttavia adeguatamente supportata a 360°. Per chi ama lo stoner strumentale, qui troverà pane per i suoi denti, per gli altri, non mi sento in tutta onestà di suggerire un album forse troppo settoriale. (Francesco Scarci)

No God Only Teeth - Placenta

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Post Metal
Mamma, quanta tensione nelle note introduttive di questo 'Placenta', opera prima dei teutonici No God Only Teeth. La band originaria di Amburgo, che lo scorso anno si era fatta notare col demo omonimo, trova nella Narshardaa Records il partner perfetto per rilasciare questo lavoro. Sette pezzi per poco più di 48 minuti di musica a metà strada tra hardcore, post metal e sludge. Al primo, probabilmente, l'avvicinerei per quel cantato acidissimo ad opera di una sprezzante cantante (tal F.). Al post metal l'accosterei invece per quel riffing di scuola Neurosis/Cult of Luna, mentre per quel che concerne lo sludge, beh sentitevi le asfissianti atmosfere di "Raffer" per capirne qualcosa di più. Il disco apre tuttavia in modo granitico con la lunga "Gegenlicht", un percorso emozionalmente ondivago tra richiami post hardcore, dilatazioni post metal e un oscurissimo finale al limite del doom. Fantastica l'apertura atmosferica di "Safer", peccato poi mi convinca meno l'attacco di batteria e voce, graffiante ma un filino sgraziata, manco fosse un gatto a cui gli si è pestata la coda. Meglio i nostri nei frangenti più compassati, in cui la band evidenzia anche una certa vena malinconica, pur mantenendo una solidità a livello ritmico. Più ancorata al passato e pertanto più piattina "Stockholm", che oltre ad offrire un interessante break chitarristico, ha ben poco altro di esaltante. E intanto la voce della frontwoman inizia a stancare per una certa staticità a livello canoro. Inquietante l'incipit vocale di "15.37.12", una song di somma violenza (quasi black) alternata a più riprese ad un riffing più ponderato in cui, il suono costantemente pastoso, fatica a mettere in luce la performance strumentale. Un peccato perchè il marasma sonora penalizza la riuscita del brano. Ancora furore e devastazione con la successiva "Bethune", dove mi rendo conto che inizio a non sopportare più la performance vocale della cantante e la tentazione è quella di spingermi quanto prima verso la fine del disco. Rimangono infatti un altro paio di pezzi a rapporto: la già citata "Raffer", che si muove tra bordate hardcore e mortiferi rallentamenti sludge, e la bonus track, "Matters", con un riffing a tratti malinconico alternato ad un più sconclusionato rifferama quasi di scuola Pantera, da rivedere. Insomma, le basi ci sono, dovrebbero essere convogliate un pochino meglio. (Francesco Scarci)