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sabato 5 marzo 2016

Downlouders – Arca

#PER CHI AMA: Psichedelia/Kraut Rock/Post Rock
Vede finalmente la luce il nuovo lavoro del collettivo varesino, nato nel 2009 come “laboratorio di ricerca basato sull’improvvisazione e la sperimentazione”, ed è, tanto vale dirlo subito, un disco bellissimo. I Downlouders sono un gruppo piú o meno aperto, che ha visto negli anni avvicendarsi diversi elementi accanto ad un nucleo stabile di musicisti provenienti da alcune delle migliori realtà della scena indipendente di Varese (tra gli altri Encode, Mr. Henry, Belize) e si sono fatti conoscere negli anni grazie ai loro “istant concerts”, session estemporanee e mai uguali a loro stesse, oltre che una serie di album tematici davvero interessanti. 'Arca' nasce e si compie in una settimana di registrazioni libere effettuate dai musicisti (per quest’occasione ben nove!) in un casolare sulle colline piemontesi, per poi essere mixato e masterizzato dalle sapienti mani di Andrea Cajelli ed Enrico Mangione (rispettivamente batterista e chitarrista, nonchè un sacco di altre cose, del gruppo) presso lo studio La Sauna, già menzionato su queste pagine per l’ottimo 'Magnifier' dei Giöbia. Il concept che sta dietro al disco e che ha ispirato le registrazioni, gira attorno ad uno dei più classici temi della psichedelia space rock, ovvero la fuga dalla terra a bordo di una nave spaziale alla ricerca di nuovi mondi da abitare. Solo che qui l’astronave, l’arca del titolo, è il capodoglio biomeccanico che fa bella mostra di sè nelle splendide illustrazioni dell’artwork curato da Andrea Tomassini (in arte Tsuna, anche valente cantautore). Il viaggio musicale che accompagna la spedizione trova la sua ispirazione tanto nella psichedelia dei Pink Floyd (quelli a cavallo fra 'A Saucerful of Secrets' e 'Meddle'), quanto nel kraut rock più spaziale degli Amon Düül II, filtrandoli peró attraverso le lenti della contamporaneità di un certo post rock, con una sensibilità simile (seppur meno sovversiva) a quella con cui i Flaming Lips hanno rivisitato 'The Dark Side of the Moon'. I 50 minuti che separano la partenza drammatica e grave di “Bake Kujira” dall’estasi finale di “Spermaceti”, meraviglioso crescendo in cui un piano elettrico arriva a sfiorare territori Jarrettiani, raccontano di un’avventura di cui non vorrete perdervi nemmeno un passaggio. Si passa attraverso la splendida “Moto Perpetuo”, in cui i Pink Floyd vanno a bagnarsi nel Bosforo e incontrano i Mogwai in viaggio sulla via della seta, alle chitarre twang da deserto spaziale di “Uno”, dai synth di “FTL” che ricordano i primi Tangerine Dream alle visioni apocalittiche in chiave Godspeed You! Black Emperor di 'Deriva'. Quando poi la chitarra acustica sul finale di “Velocità di Crociera” ti provoca un brivido lungo la schiena, capisci che ormai il viaggio non ha piú ostacoli e che il posto che hai raggiunto lo puoi chiamare casa. La cura maniacale rivolta alla timbrica degli strumenti, il trasporto con cui la musica nasce e si modella come materia viva tra le mani, le menti e le anime dei musicisti, sembra quasi stabilire un contatto con l’enorme nave-capodoglio, di cui giurereste di sentire il canto in sottofondo e vederne, con la coda dell’occhio, l’ombra fluttuare inafferrabile e leggera dietro di voi. Se 'S.P.A.C.E.' dei Calibro 35 è la colonna sonora di un western di Sergio Leone ambientato su un altro pianeta, allora 'Arca' è quella del viaggio leggendario della carovana che quel pianeta l’ha raggiunto per primo. (Mauro Catena)

(Lizard Records - 2015)
Voto: 85

https://www.facebook.com/downlouders

Dalkhu – Descend… Into Nothingness

#PER CHI AMA: Black/Death, Watain, Absu, Sarpanitum, Behemoth
Ragazzi, che botta! Oggi come oggi si va in cerca oltreoceano dei vari Nile, Morbid Angel o Suffocation, quando dietro l'angolo (nella vicina Slovenia) c'è un duo che è in grado di triturare le ossa anche a quei sprovveduti americani. Sto parlando di J.G. e P.Ž., i due musicisti di Slovenj Gradec che si celano dietro il moniker Dalkhu. I brani contenuti nel loro secondo album, 'Descend… Into Nothingness', sono come sassate sparate contro i vetri, capaci di polverizzare ogni cosa che gli si frapponga avanti. Inutile perdersi in inutili giri di parole, i Dalkhu sono dei killer seriali che iniziano a mietere vittime sin dall'iniziale "Pitch Black Cave", un brano che scorre sui binari di un perverso death metal (a livello ritimico e vocale) che poi, in taluni bridge, estrae dal cilindro un rifferama che pesca direttamente dal black svedese dei Watain. Capito che cosa hanno creato questi due personaggi? Un brutal death ipertecnico, fatto di psicotici cambi di tempo, che strizza palesemente l'occhiolino allo swedish black. Ecco, se siete dei puristi di entrambi i generi, sicuramente il rischio di storcere il naso c'è, ma se siete amanti dell'estremo in tutte le sue sfaccettature, beh qui avrete da che divertirvi, e per un pezzo. Parte "The Fireborn" e mi trovo davanti una band dedita a un death massiccio ma abbastanza classico; tempo 40 secondi e già le cose sono cambiate e maturate, tra brevi assoli, robusti sprazzi atmosferici, tonnellate di riff ubriacanti, growling vocals, e un lavoro mostruoso dietro alle pelli che da solo vale il prezzo del cd. È il turno di "In the Woods" e sono dei melodicissimi riff Swedish death a darmi il benvenuto, inducendomi addirittura a rilassarmi. Mai abbassare la guardia con i Dalkhu però, perchè le ripartenze ultracompresse di death metal sono quanto mai improvvise e rabbiose e quindi non stupitevi se il riffing divenga ben presto una carneficina partorita da una mitragliatrice impazzita. Il ritmo però continua a muoversi su chiaroscuri di melodia svedese controllata frammista a schegge di brutalità. Con "Distant Cry" la matrice death sembra quasi fondersi con il black in un pezzo ovviamente tirato, ma dove non è più possibile discernere tra i due generi e dove il maelstrom creato da questi due funamboli sembra rievocare anche i primi Absu. “Accepting The Buried Signs” prosegue con questo vortice ritmico e repentini cambi di tempo che hanno il puro effetto di disorientare l'ignaro ascoltatore. Mostruosi sotto un profilo tecnico, abbastanza navigati da un punto di vista di songwriting, i Dalkhu si confermano ottimi musicisti anche nella sinistra e orrorifica "Soulkeepers", una song in cui si alternano riff melodici con bordate ritmiche funeste e qualche improvviso rallentamento che contribuiscono a incrementare la dinamicità di un brano davvero complesso, quanto interessante, soprattutto per un break acustico inserito nel nulla. Non è finita perchè rimane ancora “E.N.N.F.”, l'ultimo orripilante mostro dei Dalkhu, nelle cui linee di chitarra percepisco anche il delirante feeling dei Deathspell Omega, anche se francamente stare dietro a questi due personaggi per dieci minuti di brano non è assolutamente compito facile, dato il turbinio ritmico a cui si è sottoposti dall'inizio alla fine di questo incredibile 'Descend… Into Nothingness', che ha ancora modo di riservare uno spiazzante e splendido assolo conclusivo che vi allieterà nell'ultimo minuto di questa bomba ad orologeria. Mostruosi! (Francesco Scarci)

(Darzamadicus Records - 2015)
Voto: 90

https://dalkhuofficial.bandcamp.com/

venerdì 4 marzo 2016

Ottone Pesante - S/t

#PER CHI AMA: Heavy Brass Metal
Ok, provate a immaginare la banda del vostro paese, quella che apre le celebrazioni del 25 Aprile in piazza, a suonare death metal, e avrete un’idea di quello che è racchiuso in questo EP. Del resto sta già tutto nel gioco di parole del nome: l’ottone è la lega metallica di cui sono fatti gli strumenti suonati dai tre musicisti: tromba, trombone e (in parte) batteria, ed è quindi solo una precisazione di quale tipo di metallo pesante stiamo parlando. Simone Cavina (batteria) si era già visto all’opera con Iosonouncane, mentre Paolo Raineri (tromba) e Francesco Bucci (trombone) sono la sezione fiati già sentita nei dischi dei Calibro 35, per cui il trio aprirà i concerti per il tour di S.p.a.c.e. Anche alla luce di questo, nulla lasciava presagire che i tre fossero in realtà degli appassionati ascoltatori di musica metal, per dirla con loro parole, “dagli Slayer ai Meshuggah”. Perchè questo fanno, in pratica, gli Ottone Pesante: metal, con due ottoni e una batteria. Niente chitarre, niente basso, nemmeno un sax, strumento già usato in precendeza in operazioni in qualche modo assimilabili da John Zorn nei Naked City o dagli Zu, tanto per fare un paio di nomi. Dopo un attimo di straniamento iniziale, questi 5 brani (poco piú di un quarto d’ora di musica) si insinuano sotto pelle, cominciano a suonare meno bislacchi e nelle orecchie rimane un concentrato di potenza primordiale, ottenuta senza l’aiuto di artifici tecnologici, nemmeno un po’ di corrente elettrica. Quà e là rimane l’effetto di una versione ipercinetica della colonna sonora di qualche film di Kusturica, ma è un inevitabile effetto collaterale, quasi un difetto strutturale insito in una formazione del tutto peculiare. Al netto di tutte queste considerazioni, rimangono 5 tracce di “brass death metal”, strumentale veloce e tonante (menzione speciale per la prestazione tentacolare di Simone Cavina), che ci si ritrova a voler ascoltare piú spesso e con piú piacere di quanto non si pensasse all'inizio. Se il progetto avrà un futuro o si limiterà ad essere un divertente e riuscito esperimento, lo vedremo nei prossimi mesi. Per il momento, bravi! (Mauro Catena)

(Solo Macello - 2015)
Voto: 75

giovedì 3 marzo 2016

Bedowyn - Blood of the Fall

#FOR FANS OF: Heavy/Stoner/Doom Metal, Mastodon, Hellyeah
The debut full-length from North Carolina metallers Bedowyn offers a rather decent mixing of an eclectic style here mixing together a series of traditional metal, doom and stoner rock into a progressive mixture found in here. The basic component here is still far more traditional in base with swirling heavy rhythms and plenty of tight drumming that gives this one quite a fine base for sturdy, tough-sounding rhythms that are balanced alongside the extended, psychedelic noodling that tends to give this the kind of sprawling musical sections that recall more Stoner Rock/Metal with the type of swirling rhythms over elongated passages. This is all done quite nicely throughout here into a pleasing and overall enjoyable ride that makes for a rather promising and enjoyable new band with a lot of potential. While some of the simpler arrangements showcase the fact that the band is still new and haven’t gotten a true handle on their style yet this is a more-than-worthy start here with some enjoyable tracks. Opening instrumental ‘The Horde’ brings a deep distorted guitar riff droning over the reverb-laden background leading into proper first track ‘Rite to Kill’ slowly brings the thumping drumming along with the strong series of swirling stoner-influenced riffing filled with a strong series of dynamic drumming that keeps this changing through a high-impact velocity of tempos throughout the final half which makes for a good opening impression. The title track features a fine swirling riff with droning along through a series of mid-tempo rhythms all taking the thumping rhythms and dexterous drumming through the extended droning style of riff-work into the stoner-style solo section into the finale for a somewhat enjoyable effort. ‘Cotard's Blade’ offers light, melodic droning riff-work with heavy, droning rhythms carrying along the stylish mid-tempo paces as the dramatic switch-over into a rousing, thumping solo section brings along plenty of fine energy into the final half for another enjoyable effort. The mostly bland ‘Leave the Living...for Dead’ uses swirling, droning riff-work and plodding rhythms that take the dull paces along through the tight and explosive riffing and thumping drumming that picks up considerable energy and intensity into the finale for a fine if overall unimpressive feature. The useless mid-album instrumental breather ‘For a Fleeting Moment’ uses sampled rain-fall and thunder-strikes alongside a melancholy acoustic guitar lilting away that ends on an extended fade-out ‘Where Wings Will Burn’ uses an extended, moody atmospheric riff with light drumming that slowly grows into thumping, heavy mid-tempo riffing with swirling rhythms throughout the steady pacing that continues throughout the final half for another overall unappealing effort. ‘I Am the Flood’ features a slow-building series of swirling riff-work and gradual drumming to a mid-tempo series of rhythms that bring the simple rhythms down into a rather frantic second half with plenty of dynamic drumming and extended soloing throughout the finale for a much more enjoyable track. ‘Halfhand’ features a light, melancholy acoustic guitar with plodding paces and sprawling swirling rhythms that make for a wholly dragging and lethargic tempo with the tighter patterns coming from the final half for a quite overlong and somewhat troubling effort. ‘Lord of the Suffering’ features a long, swirling intro with bland riffing and heavy, thumping drumming slowly taking a series of swirling, mid-tempo riffs into an extended series of sprawling, atmospheric noodling with ambient celestial patterns throughout the extended finale for a slightly better if another overlong effort. Lastly, ‘The Horde (Exodus)’ takes a stoner-style swirling riff through extended sprawling atmospheres in an enjoyable lasting impression. It doesn’t really offer up a whole lot of flaws here, but there’s still enough here to make for an enjoyable if somewhat troubled first effort. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 70

Phobonoid - S/t

#PER CHI AMA: Experimental Black, Blut Aus Nord, Darkspace
Esattamente due anni fa scrissi dell'EP di debutto della one man band trentina, 'Orbita', un concept album che riguardava la fine della civiltà su Marte. Ora Phobos torna con il suo full length d'esordio che, stando ai titoli, continua ad affrontare tematiche spaziali con suoni, che come un'onda gravitazionale, si propagano minacciosi nello spazio profondo. Dodici i capitoli a disposizione del musicista italico, tra cui tre tracce strumentali. "Fiamme distanti si accavallano nella nube del tempo, la polvere soffia attraverso la luce riflessa, trema lo spazio invaso dalla paura del passato, si muovono le forme colpite dal passo di crono": cosi apre il disco con i toni apprensivi di "Crono". Segue "Alpha Centauri" e come potete intuire, i riferimenti intergalattici non si sprecano. Da un punto di vista musicale poi, la proposta dei Phobonoid si muove su sonorità black sperimentali, chiamando in causa per qualche affinità mal celata, Darkspace e Blut Aus Nord, come già avevo avuto modo di evidenziare nel precedente lavoro. Anche qualche punto di contatto con i Progenie Terrestre Pura sarà riscontrabile nell'arco degli oltre 40 minuti del disco, ma non solo. "La Sonda di Phobos" ha infatti da offrire suoni glaciali che ammiccano al doom più desolante, mentre "Fuga nel Vuoto" crea un forte senso di disagio per quell'aura iniziale che poteva fare tranquillamente da colonna sonora a 'Gravity', nel momento in cui la tempesta di asteroidi si abbatte sulla navetta spaziale dei protagonisti. L'effetto infatti è il medesimo, con quel senso di angoscia legato alla catastrofe incombente. "Eris" (cosi come pure la title track conclusiva) è una traccia di black mid-tempo dai toni marziali che annichilisce esclusivamente per la fredda asetticità che emana. Si sprofonda nuovamente negli abissi della rarefazione galattica con il flemmatico incedere de "La Risonanza della Sonda", in cui la demoniaca voce del frontman è quanto di più vicino al genere umano che questo disco ha da offrire. Se in "Kairos" c'è un tocco di velata malinconia nelle sue melodie, è forse con "Frammenti di Luce" che il cd tocca il suo apice artistico, un pezzo che miscela egregiamente il black cibernetico e avanguardistico con lo sconforto del doom più oscuro. "Tachyon", la terza song strumentale, è invece quanto di più si avvicini a sonorità aliene, con suoni distorti, sghembi e disarmonici che per certi versi si spingono in territori quasi trip hop, quello dei Massive Attack più tenebrosi. Il mio viaggio l'ho compiuto e voi vi sentite pronti per un altro viaggio interplanetario in compagnia dei Phobonoid? (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2015)
Voto: 70

mercoledì 2 marzo 2016

Wildernessking - Mystical Future

#PER CHI AMA: Post Black/Progressive, Enslaved
L'etichetta francese Les Acteurs de l'Ombre Productions ha stranamente allungato i suoi tentacoli anche al di fuori dei confini del proprio paese, andando a pescare i sudafricani Wildernessking, con un disco che è uscito anche in vinile e cassetta. Noi, il quartetto di Cape Town lo conosciamo già, in quanto nel 2013 parlammo piuttosto bene del loro debut cd, come un black metal venato di influenze post metal e suoni progressivi. Ebbene, a distanza di quasi tre anni da quel lavoro, mi ritrovo in mano il nuovo digipack 'Mystical Future', un disco che sorprende immediatamente per un approccio diverso rispetto a 'The Writing of Gods in the Sand', qui assai più malinconico e spirituale. È "White Horses" ad avere l'incombenza di darci il benvenuto con un lungo bridge chitarristico su cui poi si staglieranno le voci caustiche, ancora non del tutto convincenti, di Keenan Nathan Oakes. La musica dei nostri si muove poi su di un tappeto di suoni eterei che si rifanno palesemente al post rock e hanno il merito di deliziare i nostri timpani, senza ricorrere a sfuriate di stampo post black, come era lecito aspettarsi. Nella seconda "I Will Go to Your Tomb", riesco addirittura a captare un che dell'epicità pagana dei Primordial, sia a livello ritmico che di atmosfere, ma dopo svariati ascolti, mi rendo conto che la band a cui i nostri sembrano essere più debitori in questo momento, siano in assoluto gli Enslaved, andando a tessere lunghe e psichedeliche fughe lisergiche dal forte sapore prog. "To Transcend" la potrei addirittura associare ad una ballad black metal, una bestemmia per carità, ma il calore che emana, ha suscitato in me inespresse emozioni. In "White Arms Like Wands" ecco esplodere il classico rifferama post black, con ritmiche serrate e blast beat a manetta, su cui le voci di Keenan meglio si adattano. Lungo gli oltre otto minuti del pezzo, i nostri si riassestano poi su suoni mid-tempo, aumentando però l'intensità della propria proposta grazie all'utilizzo di chitarre in tremolo picking, che donano quell'inevitabile aura malinconica alla composizione. Gli ultimi 12 minuti di 'Mystical Future' sono affidati a 'If You Leave', brano oscuro in cui trovano addirittura spazio i vocalizzi di un'angelica donzella, Alexandra Morte, un nome un programma. La song è la più spirituale dell'intero disco, merito di Miss Morte, che con il suo intervento a controbilanciare l'arcigna voce di Keenan, impreziosisce la qualità di questa interessantissima release, mentre la musica disegna spettacolari e strazianti melodie, tra break acustici e momenti di delicata sofferenza, in un pezzo che strappa tanti applausi dal sottoscritto e impenna anche la mia valutazione conclusiva. Calibrando qui e là alcune cose, il prossimo album dei Wildernessking non potrà che essere un capolavoro. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(LADLO Prod - 2016)
Voto: 80

domenica 28 febbraio 2016

Sahona - S/t

#PER CHI AMA: Rock Progressive
I Sahona sono una formazione francese di matrice indie rock con richiami progressive e attitudine shred metal, in attività dal 2014. Siamo di fronte ad una classica rock band di quattro elementi e questa di cui parleremo, è la prima ed omonima pubblicazione autoprodotta. La copertina rappresenta, per assurdo, quello che le orecchie andranno a percepire, cioè un paesaggio poco definito e surreale in cui una piccola ombra antropomorfa osserva la strada che sta percorrendo, indecisa se proseguire o virare sul sentiero che si stende alla sua sinistra. Il nome della band deriva dal cognome del cantate chitarrista Charly Sahona, il principale autore e mente dell’opera. Charly è un gran musicista senza dubbio, ha perfetta padronanza della sua voce, della sua chitarra e dei suoni in generale, ma purtroppo qualcosa non torna. Sembra infatti che Charly stia guidando una Ferrari ma non abbia idea di dove stia andando. Gli altri componenti della band sono altrettanto validi tecnicamente ma ciò che manca ai Sahona non è sicuramente il saper suonare ma è la ricerca di significato, di qualcosa da trasmettere. Ma ora basta parole, inseriamo 'Sahona' nel lettore e vediamo cosa esce. All’inizio la sensazione è piacevole, c’è un forte gusto per la melodia e i suoni sono curati in maniera quasi maniacale. L'opener “Light of Day, Sense of Life” per qualche attimo mi culla e mi soddisfa, grazie a uno scenario pacifico, psichedelico ed etereo dal sapore molto Muse; anche la voce mi ricorda molto quella di Bellamy, le note sono suadenti e cantate con forte carica emotiva. Tuttavia questo paesaggio non riesce a trovare una sua giusta forma nella mente di chi ascolta perché interrotto da parti che musicalmente sembrano non avere molta attinenza con le precedenti, ogni parte ha una sua linea vocale differente e una diversa sequenza di note. L’effetto è quello di non riuscire a seguire il pezzo per le troppe informazioni proposte, l’orecchio è continuamente sorpreso da nuove idee ma allo stesso tempo spaesato in quanto non riesce a trovare il filo conduttore che guidi le sensazioni attraverso il brano. Il livello tecnico però rimane altissimo, non c’è una sbavatura e tutti i musicisti sono perfettamente amalgamati. Il disco prosegue senza troppe sorprese, tutte le tracce presentano caratteristiche simili, cioè una strofa psichedelica stile Muse, un ritornello distorto e l’immancabile assolo shred, con mille note eseguite a velocità supersonica, peraltro sempre in modo impeccabile. A parere mio questo tipo di assoli risultano fuori luogo con il sentimento delle canzoni, e purtroppo molto spesso ne rovinano l’atmosfera. Vale la pena ascoltare questo disco per imbattersi in “I’m Alive”, forse il pezzo più interessante del cd. Si tratta di una ballata con un caldo suono di pianoforte elettrico come sottofondo, la voce è sognante e malinconica e l’intreccio di strumenti crea un paesaggio onirico senza tempo. Questa song sarebbe andata in loop per un bel po’ nel mio stereo, se non fosse presente l’elemento di disturbo degli assoli; in questo disco sembra che ogni brano debba per forza contenerne uno. Da notare la gran prestazione di batteria di Stephane Cavanez che negli ultimi brani del lavoro trova la sua maggiore espressione; in generale in tutta l’opera, la precisione della ritmica è senza dubbio un punto di pregio. Alla fine, 'Sahona' è un lampante esempio di come la capacità tecnica non sempre riesca a produrre della musica che parli all’anima. Dalle note si percepisce un ego molto presente e una forte tendenza all’autocelebrazione; ma la musica deve fare bene a tutti, non solo a se stessi. In conclusione una cosa bella: sicuramente quando l’ombra in copertina si renderà conto di quale via è destinata a percorrere, la musica dei Sahona ci regalerà momenti memorabili. (Matteo Baldi)

(Self - 2016)
Voto: 55

Heads - S/t

#PER CHI AMA: Noise Rock, Jesus Lizard
Quanto è grande e profondo il retaggio lasciato dai Jesus Lizard? Sarebbe uno spunto interessante per un saggio critico su quello che il gruppo di David Yow e Duane Denison ha significato per tutto il rock cosiddetto “noise” che, dopo di loro, non è piú stato lo stesso. Di certo, dischi come 'Goat' o 'Dirt' hanno significato qualcosa di molto, molto importante, per i tre membri degli Heads, due berlinesi e un australiano trapiantato nella capitale tedesca, che hanno dato alle stampe il loro esordio nel 2015, ma nessuno avrebbe sospettato nulla se la data impressa sul disco fosse stata di vent’anni precedente. La sezione ritmica teutonica (Chris Breuer al basso e Peter Voigtmann alla batteria) è una macchina dalla coesione impressionante (prendere nota alla voce “come ottenere il suono di basso perfetto”) su cui impeversano la chitarra spigolosa e la voce profonda di Ed Fraser, per un album rapido (meno di mezz’ora) che è una vera e propria boccata d’aria fresca. Se i riferimenti paiono quanto mai precisi (“A Mural is Worth a Thousand Words” sembra presa di peso da un disco dei Jesus Lizard di mezzo), il modo in cui gli Heads fanno loro il linguaggio noise rock è molto personale e consapevole, come già avevano fatto gli altri magnifici esordienti Ha Det Bra nel loro splendido 'Societea for Two'. Solo che qui Fraser e soci rallentano e puntano all’essenzialità del suono laddove i croati lo saturavano e infettavano al massimo. Un album che sembra registrato da Steve Albini, questo, asciutto e dritto, che punta tutto su una manciata di pezzi di assoluto spessore. Ed Fraser ha una voce profonda e un modo di cantare sornione che qualcuno ha accostato a Scott McCloud dei grandi Girls Against Boys e che a me ricorda anche Hugo Race, e il modo in cui questo riesce a sposarsi con la ritmica granitica e una chitarra deviata di stampo chiaramente denisoniano, risulta essere l’aspetto vincente di questo lavoro, soprattutto alla luce del fatto che questo conferisce alle sei tracce in scaletta un fascino sinistro e decadente davvero particolare. Se a questo uniamo il tono beffardo espicitato da titoli quali “Chewing on Kittens” e il fatto che “Black River” è, con quell’accelerazione finale che rimanda ai migliori Pile, semplicemente una delle migliori canzoni dell’anno, allora è chiaro che ci troviamo di fronte ad un esordio magnifico, autentico gioiello nel panorama noise rock, che lascia l’amaro in bocca soltanto per l’esiguità del programma e la breve durata, perchè di musica cosí ne vorremmo sempre un po’ di piú. (Mauro Catena)

(This Charming Man - 2015)
Voto: 80

https://headsnoise.bandcamp.com/album/s-t