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giovedì 22 dicembre 2011

Panic Room - Equilibrium

#PER CHI AMA: Nu Metal, Korn, Limp Bizkit, Incubus.
Mmmm... Non sapevo nulla di questi parmensi Panic Room e mi sono approcciato al platter in maniera un po’ guardinga ma fiduciosa. I Panic Room, precedentemente Redrum, sono un gruppo di sei ragazzi nato nel 2002 e questo è il loro primo 33 giri. Possiamo ricondurre le undici tracce nel genere new-metal: il suono, gli accordi, il basso, gli innesti elettronici... tutto nella linea del genere. Anche troppo. Dopo un minuto della open track “Dark Angel”, ho pensato: “Oddio, ma questi sono gli Incubus?!”. Non si offenda Francesco Liuzzi, ma davvero il cantato è molto simile. Allo stesso modo mi appaiono lampanti le ispirazioni prese dai grandi del genere. A fronte di una produzione molto buona, di un album ben suonato, mi è sorta una sensazione non del tutto positiva. Mi è parso di avere a che fare con un mosaico di suoni di altre band (Korn, Limp Bizkit, Incubus), di riuscire a vederne solo le tessere singole e perderne la visione d’insieme. Aggiungo di trovare lo stile compositivo prevedibile e le tracce troppo somiglianti; risultato: un filo di noia. È vero che non manca l’energia, è anche vero che l’omogeneità, spesso punto di forza, qui non funziona. Il “già sentito” prevale sulla passione che si può avere per il genere musicale, lasciando un sentimento di troppo sazio. Come dite? Tutto negativo? Be’ no, avete ragione. Sebbene abbia indicato solo difetti, il mio giudizio è positivo. I nostri sanno suonare e direi bene: non è poco. Come detto, il cantante mi ricorda molto Brandon Boyd, anche questo non è male. Mi hanno molto colpito i testi articolati sul tentativo di fuga dalla paranoia, sono curati e non banalotti. Si sente di aver ascoltato gente in gamba, che però pecca troppo di originalità. Una buona dose di creatività per il prossimo album sarebbe salutare e illuminante.(Alberto Merlotti)

(UK Division)
Voto: 65

Mr. Death - Descending Through Ashes

#PER CHI AMA: Swedish Death, primi Entombed
Solo, avvolto tra le spire della più fitta ed umida delle nebbie, lungo la più ripida e tortuosa delle mulattiere transilvaniche, avverto impotente quegli ultimi borbottii. Provengono dal cofano dell'auto su cui mi trovo. Decretano l'irreversibile quanto flebile ultimo respiro di questo diabolico congegno meccanico fatto di bielle, valvole e pistoni. Ci vedo una sorta di artificiale forma di vita nei motori e come tali, destinati, ahimè, prima o poi, in questo caso adesso, a spegnersi. Per sempre. E lì mi trovo. Solo. Come sempre. In mezzo al nulla. Incazzato nero, scendo. Mi consolo con l'unica compagna che non ti tradisce mai, ti dà tanto senza pretendere nulla, fatta di note, pause ed accenti, quell'orgasmica espressione del talento umano denominata musica. Con gli auricolari indosso, decido di spararmene un'overdose letale, di quella giusta, quella dei Mr. Death, pentacolare formazione svedese. M'incammino quindi, e sulle note di "To Armageddon" mi accorgo che la via più breve per il più vicino centro abitato consiste nell'attraversare un vecchio cimitero. Il cancello che ancora mi separa dal camposanto, da quella che sarà la mia final destination, è semiscardinato: quasi un invito ad entrare. Mi faccio quindi strada senza ben sapere a cosa vado incontro... non appena ne calpesto il suolo, percepisco fin da subito, aldilà di ogni ragionevole dubbio, la malvagità di cui è intriso. Dalla suola della mia scarpa sento risalire questa gelida sensazione che mi pervade, mi possiede, mi entra dentro, avvinghiandomi. E' un sound rugginoso, grattugiante. Ti si sferza pian piano nel costato e ci si fa strada, ti rigira le membra, è come se le corde di quelle chitarre fossero arpeggiate da uno dei corpi semidecomposti ivi sepolto, con un plettro ricavato da una scheggia del suo stesso cranio. Sfondato. Ebbene proseguo nel mio cammino, passo dopo passo, con circospezione, addentrandomi sempre più in questo territorio infestato, in questa dantesca selva oscura che ancora non ho del tutto ben identificato. Per condurre un'accurato esame autoptico di questa release, mi lancio nell'ascolto della successiva track "The Plague and the World It Made" concentrandomi stavolta sulla voce. Vediamo se riesco a farvela "sentire" anche se in questo momento non la state ascoltando. Proviamoci, via. Tanto non c'è per me cosa più divertente da farsi: ecco, vi trovate in un cimitero, ricordate? E state passeggiando, ve lo ricordate, vero? D'un tratto, si d'un tratto, notate un rivolo di condensa risalire dalla base di una sgangherata lapide 'si vecchia e logora che non se ne legge più nemmeno l'epitaffio. D'improvviso, un braccio, o meglio quel che ne rimane, si fa strada in quella terra dimenticata da Dio e ne emerge, seguito dall'intero cadavere mezzo decomposto. Intriso di larve. Voi restate lì. Impietriti da quella visione. Spaventati da quella mandibola, con il residuo di quei pochi denti rimasti e con l'orbita sfondata. Impalliditi, vi sentite raggelare il sangue nelle vene, ne sentite la densità aumentare, avvertite le vostre pulsazioni. Vorreste ahimè urlare ma è come se questo comando vi fosse d'improvviso vietato e non riuscisse a raggiungere la vostra mente: dalla bocca non vi esce un fiato. Ve ne restate lì, succubi, ad ascoltarla emettere quello screaming cupo, cavernoso, truce come l'aria asfittica insufflata da logori mantici nelle vetuste canne del più antico degli organi sacri. Una voce che perfettamente si sposa nel contesto di quelle melodie. Ci fa sesso. Un incastro perfetto, dal disegno Escheriano, ingannevole, che non è davvero come appare. Una voce che non ricorda certo l'Ave Maria di Schubert ma che trasuda nella mia mente una lisergica versione del Dies Irae. No, non quella famosa di Mozart. Quella intonata da Satana stesso ogni qual volta, nel suo piccolo, s'incazza. Ebbene, vi ho già raccontato parecchio ma aspettate un momento, concedetemi ancora un istante. Si perchè mica finisce qui. Ancora non vi ho condotti, mano nella mano, nella mia terra promessa. Si ormai la conoscete, l'abbiamo calcata altre volte assieme, è il mio personale Eden fatto di piatti e tamburi. Ve lo faccio ancora una volta, via, proviamoci, "sentire" anche se come prima non lo state ascoltando. Chiudete gli occhi ed immaginate il dio Vulcano, quello impresso sulle vecchie 50 lire, per intendersi, ve lo ricordate? Lo vedete il metallo ardente forgiato colpo su colpo dal suo martello? Osservatene le copiose scintille, percepite le vibrazioni del contraccolpo del martello trasferirsi e risalire lungo il vostro braccio. Ecco, è esattamente questo quello che io stesso provo nel momento in cui per primo, percuoto i miei di piatti ed è la stessa medesima sensazione, che vivo, in questo momento, ascoltando "Descending Through Ashes". Immaginate adesso da voi i tamburi: non posso mica dirvi sempre tutto io. Ancora una volta, adesso, tutti vi starete chiedendo: si ma sta cavolo di storia come andrà a finire? Ebbene, nella verità, la macchina non si era fermata. Si era invece fracassata contro quel cancello. E' il motore della vostra vita, ad essersi spento. E si è portato via la vostra anima, sempre che ne abbiate mai avuta una. Si, se l'è portata via, ma solo per 34 minuti e 14 secondi: l'esatta durata, per intero, di questi dieci comandamenti incisi su lapidi denominati "Descending Through Ashes". Alla fine dell'ascolto sarete ancora vivi e vegeti, non temete. O forse... (Rudi Remelli)

(Agonia Records)
Voto: 75
 

sabato 17 dicembre 2011

Blut Aus Nord - 777 The Desanctification

#PER CHI AMA: Ritualistic Black Avantgarde, Ambient
Devo recensirlo, sento il suo richiamo, è come una droga che si insinua nel cervello, spazzando via ogni brandello di materia cerebrale che popola quanto contenuto all’interno della scatola cranica. I Blut Aus Nord sono dei maestri del male, dei prestigiatori, degli illusionisti, dei pazzi furiosi, abili nell’arte dell’ipnosi con quel loro sound malato, oscuro e magnetico. E “The Desanctification”, come il suo predecessore, in questa psicotica trilogia non è da meno. È un album cervellotico, cerebrale, se volete anche glaciale, che manderà in confusione i vostri centri nervosi, i vostri sensi e tutta un tratto vi troverete catapultati nel peggiore degli incubi. Si perché proprio partendo dalla iniziale “Epitome VII”, che riprende là dove “777 Sect(s)” aveva terminato in modo incompleto, appunto come se lasciasse presagire che qualcosa d’altro sarebbe arrivato, a distanza di sette mesi ecco giungere a sconquassarmi la vita un altro imprevedibile lavoro di black metal d’avanguardia, atmosferico, straniante, tormentato, controverso, alchemico, sperimentale, schizofrenico, onirico, stralunato, dissonante, melodico, e ancora tutto e il contrario di tutto. Un lavoro che ancora una volta mostra tutto il valore di una band che da quasi vent’anni ci stupisce di release in release con lavori disorientanti, bizzarri, strampalati, privi di una logica ben precisa, che spinge anche il sottoscritto ad esprimersi in modo decisamente caotico nella recensione dei loro dischi, il cui unico obbligo alla fine è semplicemente quello di farlo vostro e custodirlo gelosamente nella vostra collezione di cd. Se amate i Blut Aus Nord fidatevi ciecamente delle mie parole, anche se rispetto al passato “The Desanctification” si rivela meno selvaggio e ancora più votato alle sperimentazioni cyber industriali. Chi non li conoscesse, beh vi suggerisco di partire da questo lavoro e andare lentamente in modo retrogrado a scoprire le precedenti uscite di una delle band più entusiasmanti dell’ultimo decennio. Ora attendo il terzo capitolo di questa sorprendente trilogia. Caldamente glaciali! (Francesco Scarci)

(Debemur Morti Prod.)
Voto: 90

The Sullen Route - Apocalyclinic

#PER CHI AMA: Death/Doom/Post Metal
Devo ammettere che non mi avevano fatto impazzire in occasione della loro prima release anche se un 65 se l’erano portato a casa, colpa di un sound un po’ troppo ridondante, fin troppo asfissiante e privo di una certa personalità. Il quartetto russo (orfano della bella bassista che aveva popolato i miei sogni in occasione della prima release) ci riprova e devo confessare che un bel balzo in avanti i nostri l’hanno fatto, forse seguendo anche le indicazioni che da più parti erano arrivate dagli addetti ai lavori, e che quanto contestavo nel precedente “Madness of my Own Design”, in questo nuovo capitolo è stato definitivamente limato e sistemato. Partendo comunque da una base death doom, ecco che la band di Volgograd ha seguito qualche piccolo accorgimento: migliorato sensibilmente il songwriting e lo si evince fin dall’iniziale “Hysteria”; abbandonate le divagazioni pachidermiche, conferendo una maggiore ariosità e dinamicità alla proposta anche nelle parti più strettamente doom come nella seconda “Selfish I”; migliorata decisamente la performance vocale, con Elijah molto più sicuro nella sua veste non growl (non posso parlare di clean perché non sarebbe corretto). Ciò che di buono c’era nel debut è rimasto invariato e sto parlando di quelle atmosfere malinconiche/autunnali che qui sono state riprese e curate maggiormente nei dettagli (splendida “Burial Ground”) dove addirittura il doom sembra voler lasciare posto a delle divagazioni post rock, con parti arpeggiate che contribuiscono nel permeare il tutto di una velata vena nostalgica. L’album trasuda di calde emozioni: “Cynoptic” è una song dal mood quasi trip hop spezzata solo dal growling profondo di Elijah e da un riffing a tratti possente. L’apice lo si raggiunge però con “Dune”, song che miscela un southern metal con il death, questo a dimostrare che i The Sullen Route questa volta devono essere presi decisamente sul serio, perché le idee ci sono e sono anche estremamente interessanti, come dimostrato dal finale goticheggiante affidato a “Tonight’s Avenue” e alla roboante “All in October” (che mi ha ricordato qualcosa dei Rapture). Bel disco, ne sono lieto. Ora mi aspetto il capolavoro con la prossima release. Avanti tutta! (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music)
Voto: 75

Laetitia in Holocaust - Rotten Light

#PER CHI AMA: Black/Avantgarde, Blut Aus Nord
Molto più facile recensire una band dopo che l’hai intervistata e ne hai capito le intenzioni malvagie o misantropiche, tuttavia per i Laetitia in Holocaust non è stato decisamente il caso. La band di Modena che ho avuto modo di conoscere e con cui ho avuto modo di approfondire le tematiche contenute in questo disco, “Rotten Light”, mi ha immediatamente colpito per il suo essere fuori dal comune, anticonformisti al massimo e la cosa si riflette anche nella loro musica, che ha l’immenso pregio di non essere accostabile a nessun’altra band in circolazione. E come ben sapete, quando mi ritrovo al cospetto di tale originalità, la mia attenzione ne è catalizzata al massimo. Ma partiamo con la recensione e lo facciamo da un fermo caposaldo: “Rotten Light” non è un album semplice, anzi: bisogna avere una grande apertura mentale per affrontarlo anche a livello di liriche, costantemente relegate nel filosofico, ma il fatto di essere scritte in italiano all’interno del booklet, agevola non poco la possibilità di entrare nelle menti deviate di questi ragazzi. Il cd si apre con la cerebrale “Dialogue with the Sun”, canzone assai ipnotica, che nei testi riprende il tema della cover cd, ossia delle locuste che divorano il sole, ma non voglio entrare in maggior dettaglio nei testi, in quanto rischierei di dare una errata interpretazione del significato che l’act di S. e soci vuole trasmettere. Ciò che conta è la musica, ma per una volta nella vita, mi trovo veramente in difficoltà nel dovere affibbiare un’etichetta ad una band; mi limiterò col dire che sperimentale o d’avanguardia, sia la soluzione più semplice per definire il sound dei nostri. Abbandonati infatti gli estremismi sonori del precedente lavoro, “The Tortoise Boat”, “Rotten Light” si presenta come un viaggio angosciante nei meandri più reconditi della psiche umana e lo fa attraverso dei brani che sembrano collegati fra loro, partendo dalla già menzionata “Dialogue with the Sun”, passando attraverso la furente (solo per il drumming incessante che si interseca a delle splendide chitarre acustiche) “Black Ashen Aurora” (dove non riesco a capire se i colpi dati sulle pelli siano umani – ma in tal caso sarebbero disumani - o creati da una drum machine); la straniante, allucinante e malinconica “Le Perdu de Novembre”, dove il cervello va completamente in pappa per dei suoni allucinanti che si incuneano nelle nostre reti neuronali, disorientandoci completamente. Non c’è uno schema ben preciso nelle note dei nostri, è improvvisazione allo stato puro; la band si diletta a mettere in musica ciò che più gli piace senza rispettare un ordine naturale delle cose. Ancora suoni inquietanti aprono “Ascension to Cursed Waters” e se volete nei nostri si può ritrovare un’attitudine disarmonica/avanguardistica simile a quella dei francesi Blut Aus Nord, anche se poi ben poco la musica ha a che fare con quella dei blacksters francesi. La cosa incredibile che contraddistingue il trademark dei nostri è creare il chaos con delle semplici parti arpeggiate, bellissime vocals (la cui fonte di ispirazione potrebbe essere Attila Csihar) e ambientazioni orrorifiche, come nel caso di “Sulla Soglia dell’Eternità”, una sorta di mini suite per un film dell’horror, con spettrali giri di chitarra e vocals sussurrate… mortale e affascinante. Questi signori, sono i tormentati Laetitia in Holocaust, una delle realtà più interessanti che mi sia capitato di ascoltare in questo noioso e tormentato 2011. Creatività e morbosità allo stato puro! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90

venerdì 16 dicembre 2011

Rust Requiem - Migrationis Obscura Aetas

#PER CHI AMA: Black rituale, Burzum, primi Bathory
Beh, la prima cosa che di sicuro balzerà all’occhio, anzi all’orecchio di chi si avvicinerà a questo cd, è la scelta di aver cantato l’intero album tutto in latino, questo con l’intenzione di voler mantenere intatto il passato a noi familiare, quello portatore del nostro bagaglio culturale che trae origine dagli antenati romani che furono padre dell’antico splendore delle civiltà europee. Fatta chiarezza su questo aspetto, passiamo alla musica, esempio di funereo depressive black metal, portatore di angosce e orripilanti paure. L’idea di Ianvs, mente e unico membro dei Rust Requiem, è quella di presentare un’opera concettuale sulla spiritualità umana, sulla sua forza e sulla sua fragilità. Progetto ambizioso, estremamente interessante, ma dall’esito non del tutto sofddisfacente. La musica stenta infatti a decollare, catalizzando l’attenzione dell’ascoltatore, per il primo quarto d’ora (e nella quarta traccia soprattutto), su cerimoniali liturgici decisamente noiosi. Poi si scatena la furia black, con i suoni che risultano sempre troppo gelidi, colpa probabilmente di una produzione non proprio all’altezza e le soffuse vocals di Ianvs che fanno fatica a risollevare un cd che ha ben poco di vincente da offrire. Il genere proposto, quello del filone depressive black, trova anche qui i suoi momenti strazianti, oscuri, opprimenti in cui l’unico pensiero a prevalere è quello dell’autodistruzione, però ormai è diventato troppo “commerciale” e di aria fresca in queste scarne note ce n’è ben poca. Laceranti esplosioni elettriche interrompono poi i catatonici momenti di ansia, creati dalle oscure sinfonie di organi sinistri: cavalcate black sullo stile dei primi Burzum e primi Bathory, contraddistinguono infatti le rare parti più movimentate di questo cupo lavoro, portatore di morte e disperazione! Inquietante. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 55

Dark End - Damned Woman and a Carcass

#PER CHI AMA: Black/Death/Gothic, Cradle of Filth
Gli emiliani Dark End a tre anni dalla loro fondazione, giungono al traguardo della prima release ufficiale. “Damned Woman and a Carcass”, fin dalla sua intro, rievoca i vampireschi intermezzi dei Cradle of Filth; poi, via si parte con la musica, un mix di black death melodico arricchito da aperture sinfoniche, che comunque mantengono come punto di riferimento la band di Dani “Filth” e soci. Sicuramente le vocals (ad opera di Pierangelo Oliva, voce dei Confusion Gods) non sono urlate come quelle del buon vecchio Dani, assestandosi infatti in gorgheggi squisitamente death; la musica apre ad atmosfere gotico-decadenti, probabilmente influenzate dalle poesie di Baudelaire estrapolate dallo “Spleen” e da “Les Fleurs du Mal” che costituiscono le liriche di questo lavoro, disegnando poi articolati giri chitarristici non propri del genere. Il risultato, pur non evidenziando nulla di originale, si lascia piacevolmente ascoltare grazie a quel suo alternarsi di momenti di furia selvaggia, tipica del black, con le parti più orchestrali dovute al sapiente utilizzo delle keys, ad opera di Simone Giorgini, eccellente pianista e compositore; sicuramente l’inserimento di ritmiche più orientate verso stilemi tipici del death progressive, frequenti cambi di tempo e parti acustiche, contribuiscono a migliorare la qualità di “Damned Woman and a Carcass”. Da segnalare infine, la chiusura affidata a “Love Will Tears us Apart”, interessante cover dei Joy Division. Siamo comunque di fronte ad una band dalle idee ancora non del tutto chiare ma sono certo che con un pizzico di esperienza in più, qualche buon suggerimento e brillante idea, l’act italico, avrà tutte le potenzialità per sfondare! (Francesco Scarci)

(Necrotorture)
Voto: 65

Infinity - The Arcane Wisdom of Shadows

#PER CHI AMA: Black svedese, Dissection
Una mistica intro apre le danze di questo capitolo, il quarto, per gli olandesi Infinity. “The Arcane Wisdom of Shadows” ci regala più di 50 minuti di black metal che fin dalle sue prime battute non può che rievocare nella nostra memoria le note di “Storm of the Light’s Bane” dei compianti Dissection. Rispetto alla band di John Nodtveidt e soci, al combo olandese manca però quella malvagia melodia che ha invece caratterizzato il sound dell’act svedese; per il resto direi, che gli Infinity potrebbero (ma ne dubito perché manca la classe dei Dissection) diventare gli eredi della grande band scandinava, in attesa tuttavia di capire se i riformati Unanimated hanno le palle per prendere in mano il testimone dei Dissection. Il feeling maligno emanato dal suono del duo olandese, è quello tipico di marca svedese: ritmiche veloci, riff taglienti come rasoi, qualche mid tempos a rallentare qua e là la furia black, un paio di frangenti acustici, qualche leggero sprazzo melodico e l’ugola vetriolica di Baldragon Xul a decretare la fine dei giochi. I nostri, con un leggero ritardo di 13 anni, cercano di ripetere quanto fu proposto nel 1995 dai miei idoli, con risultati non del tutto soddisfacenti. Questo, se volete, può essere il limite di “The Arcane Wisdom of Shadows”, che comunque potrà piacere a chi soffre ancora di nostalgia per quei tempi: la nuova release degli Infinity potrà dunque fare al caso vostro. Da segnalare che le prime mille copie sono state rilasciate in un lussuoso formato digipack. Che altro dire: disco onesto ma non fondamentale. (Francesco Scarci)

(Bloodred Horizon Records)
Voto: 60