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mercoledì 5 luglio 2017

A Total Wall - Delivery

#PER CHI AMA: Djent/Math, Meshuggah
Dopo tre EP all'attivo, era giusto che arrivasse anche il debutto sulla lunga distanza dei milanesi A Total Wall. È uscito cosi 'Delivery', lavoro che assegna l'ostico compito ai nostri di rispondere ai gods mondiali nell'ambito del djent, con quel suono caratterizzato dall'ampio uso delle poliritmie, per intenderci in stile Meshuggah e chitarre downtuned. Fatta una breve cronistoria di un genere che ha avuto la sua esplosione nel biennio 2010-2012 e che poi si è un po' ridimensionato, veniamo alla band di oggi, gli A Total Wall appunto, un muro totale come quello innalzato dalle chitarre a nove corde dell'axe man Umberto Chiroli. Per capirci ulteriormente su cosa aspettarsi sparato nei nostri timpani, immaginante il rifferama pesante e sincopato dei Meshuggah, contrappuntato da un dualismo vocale fra un growling schizofrenico e un pulito a tratti poco convincente. Le linee di chitarra della opener "Reproaching Methodologies" non solo risentono dell'influenza dei master svedesi, ma mi pare di scorgere anche palesi influenze math, in un sound decisamente nevrotico e claustrofobico. Attenzione a non aspettarvi una musicalità comparabile a quella dei Tesseract, molto più accessibili e melodici, gli A Total Wall in "Evolve" sapranno come farvi sbiellare il cervello con il loro rifferama contorto e nervoso, ma pur sempre carico di groove. Non male la sezione solistica anche se troppo ermetica e breve nei suoi lisergici stacchi visionari che ne rendono ostico l'approccio. I toni si fanno più scuri nella terza "Sudden", ma è prettamente una questione legata all'atmosfera che si respira durante il suo ascolto, curata dai synth di Davide Bertolini, anche se la ritmica qui è decisamente più controllata e i nostri cercano qualche effetto addizionale per cercare di non risultare troppo didattici nel loro assalto sonoro; utile a tal proposito un paio di break ambientali nel corso del brano. Il riffing magmatico, ossessivo e tipicamente meshugghiano torna in "Maintenance" che verrà ricordata dai posteri più che altro per la stonatura del vocalist nella sua versione pulita. Passo avanti e mi faccio investire dalla feroce "Lossy", che mantiene intatta l'architettura sonica dei nostri (attenzione ad abusarne eccessivamente), cercando di mitigarne la prolissità ritmica nuovamente con l'utilizzo dei synth, rallentamenti vari ed un break davvero indovinato a metà brano (questa si che è la strada giusta). Ottima sicuramente la performance dei singoli, per cui sottolineerei il lavoro al basso di Riccardo Maffioli. Nel frattempo si giunge a "The Right Question" e a delle ambientazioni nuovamente oscure e rarefatte che preludono ad una ripartenza schizoide cosi come era stato per la opening track. Il vocalist qui sperimenta un cantato cibernetico che i Cynic proposero nel lontano 1991 nel loro inarrivabile 'Focus'. La title track si muove su saliscendi ritmici, in un'alternanza tra repentini cambi di tempo e di voce, qui proposta in una nuova veste. Brillante il break jazzato che ci porta per qualche secondo (troppo poco) in un jazz club di New Orleans. Il disco si chiude con "Pure Brand", ultima traccia di un disco decisamente non facile da affrontare, a causa di una monoliticità di fondo di un genere non propriamente adatto a tutti i palati. Buon inizio comunque, ora è necessario trovare variazioni adeguate al tema, per non scadere nella riproposizione di quanto fatto dai maestri. (Francesco Scarci)

martedì 4 luglio 2017

Antigone Project – Stellar Machine

#PER CHI AMA: Electro/Space Rock, New Order, Depeche Mode, The Mars Volta
La Dooweet Agency ci presenta il nuovo lavoro degli Antigone Project, uscito a maggio di questo caldo 2017. La band parigina, contraddistinta da una spiccata personalità e da idee variegate, giunge al secondo full length dopo una prima prova che si era rivelata già convincente e coinvolgente. Il mix di elettronica e rock presentato dalla band, rappresenta una formula vincente nonostante le evidenti influenze, echi compositivi che sfiorano i confini sonori di band blasonate come New Order, Depeche Mode, The Music, IQ, Antimatter e parte della musica elettronica/industriale alternativa di casa Project Pitchfork e Skinny Puppy. Devo ammettere con gioia che, nonostante la marcata venerazione per queste band, il cd risulta veramente efficace e comunque suona originale e fruibile all'ascolto. "Poison" apre le danze e mi sembra di rivivere il mito del primo album dei The Music, con una superba voce dalle doti eccelse. "Schizopolis" trasuda EBM da tutti i pori e proietta la band in un atmosfera sintetica alla Gary Numan. "III" è una ballata sulfurea giocata tra synth wave ed etereo dream pop. In realtà, l'album è assai vario, caratterizzato com'è da un suono assai compresso e sintetico, anche quando si parla di rock, o di indie trafitto dalla tecnologia, di un pop lacerato dall'elettronica più trasversale, rumorosa e shoegaze come si sente in "Mantra Nebulae". I puristi del suono castigheranno quest'album per la sua sonorità inusuale (che resta comunque una caratteristica fondamentale della band) centrifugata in un low-fi sotterraneo ed astratto. Cosa che al contrario, affascinerà gli ascoltatori più aperti che gioiranno sulle note di "Raphe Nuclei", così immensa nel suo ricordare i giorni più malinconici dei migliori Radiohead. Robotici, glamour, violenti, acidi e danzerecci, gli Antigone Project rivendicano un posto al sole in una fascia di mercato dove pochi osano confrontarsi, proponendo la loro formula originale di musica controcorrente, appassionata e trasversale. Una band geniale che coniuga rock ed elettronica con la stessa affinità progressiva che ha contraddistinto band come i The Mars Volta, grazie a composizioni sonore che meritano grande rispetto, una voce da brivido (eccezionale a tal proposito Frédéric Benmussa) che cavalca tutti i brani dell'album con una maestria tale da far impallidire chiunque, una rivelazione assoluta che con una produzione mainstream rischierebbe di svettare sopra ogni tipo di classifica alternativa mondiale. Perla assoluta. (Bob Stoner)

lunedì 3 luglio 2017

Dirt – Daysleeper

#PER CHI AMA: Crust/Mathcore
Un digipack piuttosto essenziale e “materico” accompagna il cd di questi Dirt, band canadese che di primo acchito non fornisce indizi di sorta sul proprio messaggio musicale. Copertina essenziale, font discreto e nessun rimando grafico a qualsivoglia genere / ambito musicale, fanno da cornice alla proposta musicale della band. Mi appresto quindi ad intraprendere l’ascolto di questo album senza un’idea ben che minima di cosa mi aspetti. L’intro passa liscia all’orecchio, non particolarmente malinconica, né lugubre, né bizzarra...e si passa così al vero e proprio contenuto dell’opera. Bam! entrata a piè pari sui timpani del malcapitato ascoltatore! Appare subito evidente il range, la categoria a cui la band appartiene. Si tratta di una miscela di crust e mathcore, o almeno fa figo oggi giorno chiamarlo così. Stiamo parlando di quel thrash tecnicissimo, iperviolento e freddo, portato in auge nel cuore degli anni '90 dai Meshuggah con quel capolavoro di 'Destroy Erase Improve'. I Dirt denotano una pregevole perizia tecnica, una padronanza degli strumenti innegabile e possono senza dubbio piacere a tutti gli amanti del genere. Io ho ascoltato il cd ripetutamente, lasciandomi pervadere dalla glacialità industriale della loro musica, e cercando nell’album quel “quid” che mi potesse emozionare o rimandare quantomeno a qualcosa di intimo. Ebbene, duole ammetterlo, questo “quid” non è mai giunto. Al di là della parossistica ossessività e del furore post-umano non ho purtroppo trovato alcunché degno di menzione. Ritmiche sghembe, tempi dispari ( mi raccomando eh, MAI e dico MAI un tempo pari adatto ad un sano headbanging!!!) e urla lancinanti procedono senza soluzione di continuità per l’interezza delle tracce presenti. Davvero il cd risulta monocromatico e stantio, sterile e sordo ad ogni coinvolgimento lirico o esistenziale. Agli amanti dei tecnicismi, del freddo mathcore e del heavy-listening questo album potrà anche piacere, la preparazione tecnica dei Dirt è fuori discussione. Per qualcosa di più profondo, coinvolgente ed emotivo...next please! (HeinricH Della Mora)

domenica 2 luglio 2017

Yugal – Chaos and Harmony

#PER CHI AMA: Thrash/Deathcore
Hanno cercato il salto di qualità necessario per farsi notare e ci sono riusciti. La band bretone degli Yugal, sotto le ali protettrici della Dooweet Records e dopo un paio di buoni EP, arriva finalmente al full length in ottima stato di forma, affilando le armi in maniera più che perfetta e aggiustando la mira sul sound ricercato. La scrittura dei brani non varia molto dai precedenti lavori ma qui s'intensificano le belle parti acustiche usate spesso per tagliare l'aria opprimente di un pesantissimo metal dai tratti moderni e di matrice thrash. Il risultato è un convincente miscuglio di chiaroscuri musicali, ben calibrato e progettato a dovere. Un ordigno sonoro carico e pronto ad esplodere, dove le capacità tecniche della band si sentono ma non si sporgono mai ad inutili manierismi virtuosi e dove l'equilibrio tra esotica, mistica, melodia etnica medioorientale e metal estremo è sempre dietro l'angolo, come in "From This Day I Will Rise" che potrebbe essere imparentata con i Sepultura di un tempo rivisitati da un'angolatura etnica diversa, oppure gli Orphaned Land rivisti in salsa e violenza che collima col thrash dei Testament. Il suono di 'Chaos and Harmony' si snoda nervoso e frastagliato lungo l'intero cd, pieno di cambi di direzione e atmosfere pesanti e violente, sfoggiando una batteria stellare e composizioni ricche di particolari venature in territori sonori tutti da scoprire. Dieci brani per qualcosa in più di una mezz'ora di musica compatta ed intelligente, per farci innamorare di una band matura e preparata. L'artwork suggestivo è degno di nota, cosi in perfetta sintonia con la musica della band. Alla conclusiva title track va poi tutta la mia ammirazione per gusto, sensibilità, potenza e aggressività. Yugal, una band sicuramente da tener d'occhio! L'ascolto consigliatissimo! (Bob Stoner)

Afraid of Destiny - Agony

#PER CHI AMA: Depressive Black, primi Katatonia
A marzo lo avevo annunciato che il nuovo album degli Afraid of Destiny sarebbe uscito quest'anno, d'altro canto ce l'aveva confermato lo stesso frontman Adimere durante un'intervista con la band. Eccoci quindi accontentati, 'Agony' è il secondo disco per la band trevigiana, che nel frattempo sembra aver abbandonato il suo status di one man band per divenire un trio. Il processo di stesura dei brani è durato parecchio, se pensate solo che le canzoni sono state scritte tra il 2013 e il 2014 e le voci sono state registrate successivamente, a cavallo tra 2016 e 2017. Insomma tante riflessioni hanno portato a questo nuovo esempio di black depressive, che riprende là dove aveva lasciato con un sound desolante di scuola burzumiana. Quello che balza però subito all'orecchio durante l'ascolto di "A Journey into Nothingness (Part 1)", è un maggior lavoro a livello di arrangiamenti, con il sound molto meno secco e stringato che in passato, sebbene anche qui la produzione si confermi non propriamente bombastica. Le ritmiche sono lente e compassate e lo screaming del frontman è probabilmente la cosa più degna di nota della prima song (esclusa la lunga intro) a cui è collegata la seconda parte, ancor più lenta, carica d'atmosfera e che chiama in causa in un paio di frangenti un che dei Katatonia di 'Dance of December Souls' e dei Novembre di 'Wish I Could Dream it Again...'. La musica è rilassata, decadente, atmosferica e nell'arpeggio iniziale di "Rain, Scars, and the Climb', rievoca nuovamente la band capitolina e non posso che esserne felice, in parecchi si sono dimenticati infatti da dove arrivano Carmelo Orlando e soci. Le linee di chitarra sono malinconiche e nel loro semplice incedere, nascondono una vitalità inaspettata che emerge come lo sbocciare di un fiore in primavera, il tutto dopo un atmosferico break centrale. La musica mi piace, è interessante, carica di significati e induce a pensieri, belli o brutti che siano. È riflessione, poesia, dramma, pace e un'altra moltitudine di sensazioni che si spengono solo con il suono del temporale in sottofondo e che introduce a "Autumn Equinox", song più minimalista ma che vede una guest star alla voce, A. Krieg, vocalist teutonico tra gli altri di Eternity, Darkmoon Warrior e ora anche dei Lugubre. È una song che vede peraltro per la prima volta nel disco, un'accelerazione post black, che comunque trova il suo perché nel contesto disperato del disco. "Hatred Towards Myself" compariva già nel precedente EP omonimo come traccia oscura e paranoica, e forse è quella che ora ha meno a che fare con le rimanenti tracce incluse in quest'album; resta comunque apprezzabile. C'è ancora tempo di ascoltare "Into the Darkness", song dall'approccio vocale iniziale un po' più diverso, ma di cui va apprezzata sicuramente una coralità a livello vocale e di cui sottolineerei ancora una volta il buon lavoro fatto a livello di arrangiamenti, con il sound decisamente più pieno. C'è ancora ampio margine di manovra per migliorare sia chiaro, vista peraltro la presenza di un bell'assolo nella traccia che conferma una maggiore maturità acquisita dall'ensemble veneto. A chiudere il disco ci pensa la cover dei Lifelover, "Sweet Illness of Mine": gli va male agli Afraid of Destiny, visto che non sono mai stato un fan dell'act svedese. Tuttavia, devo ammettere che il brano si mantiene piuttosto fedele all'originale soprattutto per le vocals pulite, mentre non mi fa impazzire la batteria, qui troppo sintetica. Insomma, un gradito ritorno per la compagine di Treviso che è sulla strada giusta per trovare ed affermare la propria personalità e che nel frattempo ha anche avuto modo di piazzare una ghost track finale in acustico, tutta da gustare. (Francesco Scarci)

(Razed Soul Productions - 2017)
Voto: 70

https://afraidofdestiny.bandcamp.com/album/agony-2

HgM ‎– Sintered Chrome

#PER CHI AMA: Noise/Ambient
Ambient/noise per questa one man band italiana, facente parte della squadra di musicisti estremi e terroristi sonori DIY, che sfilano per la gloriosa Human Cross Records, etichetta bosniaca. L'enigmatico musicista che si cela dietro all'acronimo HgM (in realtà (H)organismo. (G)ravemente. (M)alato), è in realtà Massimiliano Mercurio, che in passato è stato recensore per due importanti webzine. Il mastermind torinese in questo malato 'Sintered Chrome' si esprime in un monolitico attacco sonoro di oltre trenta minuti dai tratti omogenei e dalla voglia di sconvolgere e intorpidire i pensieri degli ascoltatori. Ambient siderurgico e industriale senza la benché minima sorta di percussione, figlio di un connubio tra onde marine scagliate verso di uno scoglio, sentore cosmico ed il rumore odioso di una fabbrica metallurgica udita dall'esterno ed in lontananza. Una continua diramazione dello stesso tema/rumore/ambiente sonoro fa nascere questa suite che per certi aspetti affascina e ammalia con la sua incessante ed oppressiva ripetitività, dall'altra fa nascere il desiderio più acuto di fuggire lontano da tutto ciò che potrebbe essere espresso in questa musica torturatrice se messa in parallelo alle prigioni del nostro essere. In questa mezz'ora o poco più, rischierete di vedervi crollare il mondo addosso, imprecare, riflettere e alla fine impazzire senza nemmeno darvene un motivo. Tutta quest'opera rasenta la follia ma si apre alla geniale ispirazione artistica tout court. L'unica nota negativa va ad un artwork che non dà il giusto supporto al calibro dell'opera, un vero peccato. 'Sintered Chrome': un lavoro esclusivo in sole 30 copie per misantropi intellettuali, rumorosi ed illuminati. (Bob Stoner)

(Human Cross Records - 2017)
Voto: 70

https://hgmmusic.bandcamp.com/track/sintered-chrome

Dead Season - Prophecies

#PER CHI AMA: Thrash/Progressive, Nevermore, Anacrusis
Francia, tanto per cambiare. Questa volta però non siamo al cospetto di una qualche band di black metal avanguardista, visto che i Dead Season propongono un concentrato sonoro che volge il proprio sguardo ad un thrash sicuramente robusto ma dai tratti progressivi. Questo è certificato dall'iniziale "The New Man", apripista del secondo album 'Prophecies'. L'approccio del quintetto di Lille evidenzia immediatamente quanto i nostri siano potenti musicalmente, innalzando un muro sonoro enorme, allo stesso tempo rivelando di essere dotati di una certa vena prog. Da un punto di vista vocale poi c'è un'alternanza tra cantato growl, scream ed uno pulito di "arcturiana" memoria. A livello ritmico, oltre a quello dei chitarroni, è notevole anche il lavoro del bassista e del fantasioso apporto del drummer. Mi aspettavo qualcosa da un punto di vista solistico, ma qui non è pervenuto. I riffoni di "Blood Links Alienations" ci introducono ad una canzone di per sé oscura, che evidenzia ottime melodie di fondo con un lavoro in background delle chitarre davvero maestoso, che tra cambi di tempo, ceselli vari, stop'n go, il tutto viene poi esaltato dalla performance vocale del carismatico leader, a rendere la proposta di questi cinque musicisti, di assoluto valore. Se devo trovare qualche punto di contatto della band transalpina con altre in giro per il mondo, i primi nomi che mi vengono sono sicuramente i Nevermore e gli Anacrusis. Mi lamentavo di una penuria di assoli, ma l'attacco di "Prohibition of God" non può che rendermi felice: i nostri danno infatti prova di come si possa coniugare thrash metal con sonorità alternative, con echi di Faith No More e Korn che si combinano con un rifferama a tratti devastante, ed un finale affidato al ruggito delle chitarre e ad un poliedrico cantato che nello stesso frangente, utilizza growl, scream e clean vocals. Dirompenti, non c'è che dire, anche in versione più dark, come nella successiva più compassata "Homogenetic", una traccia che sembra evolvere verso lidi math con ritmiche schizofreniche e pattern jazzati inseriti in un contesto death metal. Imprevedibili, ecco un altro aggettivo da aggiungere alla sfilza di complimenti che si potrebbe attribuire al combo transalpino, visto che in un bridge atmosferico di basso, fa capolino anche una voce femminile. Poi i Dead Season ripartono per la tangente con suoni deviatissimi, che innalzano ancora il livello qualitativo di un disco che forse corre il solo rischio di essere un po' troppo lungo e complesso. "Guidestones" è una funambolica traccia che si muove tra speed metal, alienanti rasoiate black/death, progressive e tanto tanto altro. Di carne al fuoco qui ce n'è parecchia, tra l'altro in grado di soddisfare tutti i palati, dai più raffinati e delicati amanti dell'heavy prog, fino ad arrivare ai fan più scatenati di sonorità estreme, il sottoscritto in primis, rimasto letteralmente folgorato dalla proposta dei Dead Season. L'unico problema che vedo è quello di non riuscire forse a completare l'ascolto dei 60 minuti di 'Prophecies' in un'unica botta. La strumentale "The Four Minutes of Hate" intanto corre nel mio lettore e i riferimenti ai Cynic e a tutto il movimento techno metal, si sprecano. Un po' di calma in apertura ad "Endless War", giusto il tempo di acclimatarsi per poi rilanciarsi nei tortuosi giri chitarristici di questi fantastici musicisti, di cui mi preme sottolineare nuovamente la prova dei due funamboli, bassista e batterista. Potrei scrivere ancora a lungo visto che i brani si susseguono a ripetizione e allora mi soffermo solo per segnalarvi un altro paio di brani: la forza arrembante di "Sexual Binging" e la spettrale "Ministry of Truth", assai intrigante nei suoi break acustici di chitarra e basso e nei suoi epici cori. Alla fine 'Prophecies' è un lavoro granitico, complesso, maturo e dinamico, semplicemente eccellente. (Francesco Scarci)

giovedì 29 giugno 2017

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Framheim - Demo 2017

#PER CHI AMA: Black Old School, Burzum
Interessante sapere che il moniker della band di quest'oggi sia anche il nome della base antartica posta dall'esploratore Roald Amundsen sulla Barriera di Ross nel 1911, come punto di partenza per la conquista dell'Antartide. È forse un interesse storico al limite del morboso quindi a portare i nostri a definire il proprio sound quale "Polar Black Metal". Sicuramente, l'approccio musicale proposto dai Framheim è glaciale, testimoniato non solo a livello lirico ma anche da quel vento sferzante che apre "Lu Fredd", opening track in grado di palesare fin da subito le influenze ancestrali della band italica, che ci riconducono direttamente ai primordi del black, quello che vedeva nelle cavalcate soniche di Burzum un prototipo da seguire, con quei contrasti fra un rozzo e minimalista riffing e quelle parti più atmosferiche guidate da un uso massiccio di sintetizzatori, in grado di rendere la proposta in un qualche modo affascinante. I Framheim seguono quel filone, forti di una registrazione casalinga che sprigiona un mood atavico che farà certamente la gioia di coloro che rimpiangono gli anni '90. Heliogabalus e F. imbastiscono la loro architettura sonora in ugual modo anche in "San Giuseppe Due" (il motoveliero italiano della storica spedizione in Antartide), poggiando su delle chitarre in tremolo picking accompagnate da una furente batteria e con le screaming vocals in sottofondo che fanno percepire appena la loro presenza. Riascoltando l'EP, non ho potuto che apprezzare inoltre il tentativo dei nostri di proporre una forma più primitiva del black metal moderno espresso dai Progenie Terrestre Pura, attraverso il loro sound desolante e al contempo atmosferico. Chiaro, con sole due tracce non è cosi semplice fornire un giudizio strutturato, ma per lo meno è sufficiente per farsi un'idea iniziale di quello che sono e forse diverranno i Framheim. (Francesco Scarci)

(Xenoglossy Productions - 2017)
Voto: 65

https://framheimblackmetal.bandcamp.com/releases

mercoledì 28 giugno 2017

Antipathic - Autonomous Mechanical Extermination

#PER CHI AMA: Slam Brutal Death, Osiah
Un tre tracce piuttosto stringato quello dei brutal deathsters italo-americani Antipathic, ensemble che raccoglie la performance di due musicisti provenienti dagli statunitensi Human Repugnance e dai nostrani Zora. Comunque i sei minuti a disposizione del duo formato da Tato e Chris, lascia intravedere ottime sonorità estreme, con gli elementi tipici del genere brutal americano, ma con qualche deviazione al tema. Nella opener ad esempio, "Apparatus", accanto alle ritmiche tiratissime e al classico cantato in pig squeal, i nostri si lasciano andare per alcuni secondi ad un rallentamento da brivido in stile Disembowelment. La registrazione è corposa e bombastica, mentre la ritmica in "Molecular Deviations" assomiglia piuttosto ad una mitragliata affidata ad un M60, dove i proiettili sembrano i vocalizzi isterici del bravo Tato. Ultima è la title track, anche la traccia più lunga, visto che occupa metà tempo dell'EP: l'inizio raccoglie rumori di battaglia, poi si scatena il riffing vetriolico, a sprazzi molto ritmato con la timbrica maialesca del frontman a completare la prima battaglia targata Antipathic. Da monitorare. (Francesco Scarci)

martedì 27 giugno 2017

Left Sun - S/t

#PER CHI AMA: Prog Rock, A Perfect Circle, Porcupine Tree
I Left Sun hanno debuttato per la Ethereal Sound Works con il loro disco omonimo nel 2016, anche se il loro self-titled non rappresenta però il debutto assoluto per il cantante/chitarrista portoghese Flavio da Silva, già sulla scena progressive metal con il suo precedente progetto Oblique Rain. Il disco graficamente si presenta in maniera molto sobria, satinato in nero con il logo bianco della band al centro, all’interno anche il cd è monocromatico, ad eccezione di quella che sembra una mezzaluna grigia che ricorda vagamente le lune degli A Perfect Circle; il booklet infine è anch’esso totalmente nero e reca la scritta “fear is digging deeper”. Una scelta sicuramente studiata ma che, pur conferendo un’aria professionale al disco, penalizza l’immaginario che con una copertina più “parlante”, avrebbe preparato meglio l’ascoltatore alla musica dei nostri, peraltro davvero di ottima caratura. Tuttavia il caption proposto fa pensare. La paura è scavare più a fondo, nulla di più vero, chi oggi ha il coraggio di andare oltre la superficie e tuffarsi nel subconscio più oscuro? Magari proprio i Left Sun. Premiamo play e ci immergiamo nel primo pezzo, "Water Under the Bridge". Un intro di arpeggi sospesi sull’orlo di un buco nero si apre su uno sciabordare di accordi dissonanti che anticipano una strofa che richiama il suono di un vecchio carillon che offre anch’esso l’effetto di essere sospesi sul bordo di una cascata, “all things pass” dice la voce di Flavio, a richiamare il titolo del brano e a ricordarci che la vita è troppo corta per non lasciar andare. Subito dopo la voce s'inerpica su un ritornello decisamente aggressivo e grattato senza mai sfociare su suoni troppo disperati, rimanendo sobrio ma perentorio e deciso. Il pezzo prosegue con mille e una ambientazioni che comprendono grossi riff di chitarra e parti strumentali caleidoscopiche. L’intenzione è sicuramente prog, a richiamare lo stile dei Porcupine Tree ma anche le tecniche sonore degli A Perfect Circle, come giustamente suggerito dalla grafica del disco. Ci troviamo davanti ad un lavoro forse più variegato e osato di ciò che siamo abituati a sentire nel prog, si passa da scenografie prettamente "toolliane" a stacchi di assoli che ricordano gli ambienti dei Pink Floyd, fino ad arrivare a stanze arredate con santini della madonna del Guadalupe e che fanno pensare vagamente a ritmi che si sentono in 'Abraxas' di Santana. Il disco in toto è pervaso totalmente di queste sonorità e le canzoni scorrono senza intoppi lasciando una piacevole reminiscenza di musica del passato ma dal sapore nuovo, esotico ed energico. Da notare l’interlude a metà album che contiene vocalizzi, virtuosismi chitarristici e soluzioni ritmiche sospese nel vuoto oltre che interventi di fiati a richiamare ancora una volta i dischi che ci hanno cresciuto, uno su tutti 'The Wall'. In conclusione, questo disco dei Left Sun ci offre uno spettacolare viaggio nell’inconscio, passando attraverso ogni tipo di scenario fantastico e convincendoci ancora una volta, che il rock non è per niente morto, sta benissimo, scalcia, urla e irrompe prepotente nell’anima. (Matteo Baldi)

(Ethereal Sound Works - 2016)
Voto: 75

https://www.facebook.com/LeftSunOfficial/?ref=br_rs

The Pit Tips

Francesco Scarci

White Ward - Futility Report
Kynesis - Pandora
Sorrow Plagues - Homecoming

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Don Anelli

Deathinition - Online
Lectern - Precept of Delator
Marche Funebre - Lebavoid

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Matteo Baldi

Pelican - Australasia
Sumac - What one becomes
Oranssi Pazuzu - Värähtelijä

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Kent

Offthesky & Pleq - A Thousand Fields
Valery Gergiev & London Symphony Orchestra - Prokofiev: The Complete Symphonies
Darkspace - Dark Space I

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Five_Nails

Suffocation - ...of the Dark Light
Canvas Solaris - Sublimation
Nephilim's Howl - Through the Marrow of Human Suffering

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Michele Montanari

Elder - Reflections of a Floating World
Dynatron - The Rigel Axiom
Steak - No God To Save

15 Freaks - Stuntman

#PER CHI AMA: Heavy/Hard Rock, Iron Maiden
Welcome back to Ethereal Sound Works, ovvero l'etichetta portoghese che mette il Pozzo dei Dannati in cima alle testate musicali a cui spedire gli album delle proprie band. Nel nutrito roster della casa discografica lusitana, oggi abbiamo i 15 Freaks, un quintetto fondato nel 2012 e che ha il quartier generale a Sintra, una delle città più belle del Portogallo poiché caratterizzata da lussuosi e stravaganti palazzi colorati costruiti su verdi colline, e atti ad ospitare la nobiltà. Capirete perché il fu Lord Byron la definì il giardino dell'Eden. Ma come sappiamo le anime tormentate degli artisti non trovano mai pace, che vivano nel sobborgo più triste di qualche austera città dell'est Europa o a ridosso di una spiaggia dalla sabbia abbagliante e acque cristalline. Questo dimostra come l'uomo cerchi in tutti i modi di raccontare la propria verità, scavare nel profondo dei sentimenti, gridando e mettendo in musica le ingiustizie a cui siamo sottoposti ogni giorno. Dopo un po' di elucubrazioni mentali torniamo alla band, nata più di quattro anni fa, ma che solo alla fine dell'anno scorso è riuscita a dare alla luce l'EP di debutto, questo 'Stuntman' appunto. Le tracce sono cinque e sono il prodotto di musicisti che hanno divorato la musica di Iron Maiden, Led Zeppelin, The Cult, Aerosmith e quant'altro, quindi quando ascolti tanto buon hard rock, che cosa può nascere durante le sessioni in sala prove? Lascio a voi l'ovvia risposta e passiamo in rassegna le canzoni: "Time Flies" è una song costruita su riff orecchiabili, ritmica trascinante e tutti gli orpelli del genere, come assoli e cantato potente. La title track cambia registro e mette una marcia in più alla band, che dopo un pieno di adrenalina ad alto numero di ottani, decolla e si lancia in picchiata. Le chitarre sono ben suonate, il suono convince e si amalgama bene con la tumultuosa sezione ritmica ed il basso pulsante. Un tuffo nel passato che ti fa venir voglia di prendere il gilet in pelle e rispolverare la vecchia Harley riposta in garage. Quasi cinque minuti di hard rock che si concludono con un finale in stile live con la classica gran rullata. "15 Freaks" è l'omonima traccia dal groove assai orecchiabile, con quel tanto di hair metal e glam che si intrufola nel cervello e si attacca al vostro tronco celebrale per restarvi a lungo. Ben fatti anche gli arrangiamenti che a fine ritornello danno un tono oscuro al sound, mostrando le altre sfaccettature del brano e della musica prodotta dalla band portoghese. "Crazy Randy" sembra uscita direttamente da un side project degli Iron Maiden, con una progressione strumentale ed un cantato che si avvicinano molto alla band di Steve Harris e soci. La canzone è anche la più lunga dell'EP e qui la band infonde tutto il proprio bagaglio artistico, dando fondo al repertorio di assoli e riff senza bisogno di alcun break per sostenere una traccia corposa e solida. I 15 Freaks non vincono sicuramente il premio come miglior band innovativa, ma dimostra tuttavia che l'attitudine ad un genere che tanto ha dato alla musica, regala sempre grandi emozioni. Speriamo solo che i nostri possano ricevere le soddisfazioni che si meritano. (Michele Montanari)

(Ethereal Sound Works - 2016)
Voto: 70

https://www.facebook.com/15Freaks/

lunedì 26 giugno 2017

Debeli Precjednik / Mašinko - Godina Majmuna / Majmun Godine

#PER CHI AMA: Post Punk/Hardcore
La Moonlee Records, già etichetta dei conosciuti Repetitor e di altre ottime band slovene/croate, collabora da tempo con i Debeli Precjednik/Fat Prezident (DP), band punk rock/hardcore, attiva dal lontano 1994. Da allora la band è sempre stata costantemente attiva, con circa nove tra album ed EP, rimanendo sempre fedele alle sue origini (il cantato è molto spesso in croato) ma che strizza l'occhio al punk della West Coast, quello alla Bad Religion per capirci. Il quintetto è la prova vivente che se suoni e credi in quello fai, la sacra fiamma del rock alimenterà la tua musa per sempre, o per lo meno per un bel pezzo. I DP sono a pieno titolo la miglior band dell'area balcanica, con alle spalle centinaia di concerti, e tornano dopo un paio di anni di pausa con questo split insieme ai Mašinko, altra band croata d'indubbio talento. Quest'ultimi nascono nel 2010 e la line-up è composta da sei elementi che prediligono il punk rock scanzonato ed ironico che ha lo scopo di entrare subito in testa e rimanerci a lungo. La copertina dello split è una bellissima rappresentazione grafica della nostra società, vista come un treno a vapore carico di scimmie che viaggia su binari pieni di rifiuti, il tutto capeggiato da un grasso capitalista in completo che ghigna soddisfatto. Il cd all'interno contiene dodici tracce, sei per band, quindi trattamento equo per le parti in questione anche se con una visibilità ben diversa. "Surrender Now" dei DP è la prima traccia che ci catapulta immediatamente sulle coste della California con un sound perfetto per il genere: la song è veloce come ci si aspetta e scivola giù facilmente come una birretta fresca in una giornata afosa. La struttura è la classica ripetizione strofa/ritornello con tanta energia e groove, mentre il cantante ha la timbrica che calza a pennello, squillante per quasi tutto il brano, ma verso la fine mostra quanto possa essere graffiante e potente. Il breve assolo di chitarra funge da bridge per cui si arriva presto alla fine ed è chiaro perché la band riscuota tanto successo ai concerti. Immaginatevi un live nelle verdi terre dell'est dove il pubblico balla e scalcia come fosse su una dorata spiaggia americana. Passiamo a "Zbogom Svi" e la band torna a cantare in croato, il che si presta benissimo al genere per sua cadenza e inflessione, mentre i musicisti aumentando ancora di più i bpm ed insieme a cori e riff di chitarra e basso, confezionano un altro brano assai godibile. Ma i DP non sono solo dei ragazzacci dallo sguardo beffardo e malizioso, infatti si sono anche messi in gioco con una brano profondo e introspettivo come "Subotom Kićo, Nedjeljom Slabinac (Crimson remix)" fatto di chitarra acustica, pianoforte e violini. Lontanamente può richiamare i lenti dei Green Day, ma il quintetto riesce nell'impresa e noi non possiamo che dire grazie. Dopo i brani dei DP tocca ai Mašinko che come detto, sono più grezzi e cacciaroni, infatti i sei brani grondano punk rock vecchia scuola, tanto che loro stessi dicono di dovere molto ai grandi Atheist Rap che hanno gettato il seme punk in Serbia già negli anni ottanta. "Srkijev San 21" apre le danze e lo fa con stile: il brano sembra registrato live con tanto di pubblico che acclama la band prima che i musicisti inizino con l'attacco. Le ritmiche sono già sentite come i riff, ma il tutto è ben arrangiato con suoni ruvidi al punto giusto; bravo peraltro il cantante che dimostra la sua esperienza e di dimena tra i velocissimi riff con disinvoltura. "041" riprende le fila e come un filo conduttore ci porta sempre più in profondità nel mondo dei Mašinko, veri animali da palco che vivono il punk rock come vuole la tradizione. Brani serrati, veloci e quasi sempre sotto i tre minuti di esecuzione. Arriviamo alla penultima traccia e ci imbattiamo in "Monumentalna" che probabilmente rappresenta l'opera magna della band. Dopo i suoi primi centottanta secondi cala di tono e permette al sestetto di lanciarsi poi in una nuova folle corsa con tanto di assolo di chitarra. Non finisce qui e con un breve break in stile folk, si ritorna al tema iniziale per portare il tutto a conclusione. 'Godina Majmuna / Majmun Godine' alla fine è uno split interessante che mette insieme due band simili, ma non troppo, ci regala così uno spaccato dei Balcani e della sua ricca scena punk rock/hardcore, lasciando lustrini e poser ad altre scene musicali sparse nel mondo. Qua si suona e si suda ancora come trent'anni fa, rispetto! (Michele Montanari)

domenica 25 giugno 2017

Steam Morrisler - Odds & Ends

#PER CHI AMA: Glam Rock, Motley Crue, Aerosmith
Un'altra band arriva da oltralpe, dalla sempre più prolifica terra dei nostri cugini galletti. Si tratta questa volta dei Steam Morrisler a proporci il loro EP di debutto, 'Odds & Ends', che include quattro pezzi all'insegna di un rock che sa tingersi di pop ma anche di stoner psichedelico. Se la opener "Red Voodoo Babe" riesce a strizzare l'occhiolino ad un certo rock'n roll anni '70 che chiama in causa gli Aerosmith, riletti ovviamente in una chiave contemporanea, la successiva e mia preferita "Under Acid Elephants", mette in scena i riferimenti psych stoner del quartetto di Parigi. Pur non proponendo certo musica originalissima, gli Steam Morrisler hanno da offrire una proposta godibilissima che in questa seconda song evoca, nel suo azzeccatissimo andamento tribale, anche un che degli Alice in Chains. "Hoodoo Tale (How The Devil May Care)" è una traccia dall'andamento strano: inizia fiabescamente quasi fosse la colonna sonora di "Fantasilandia", per poi muoversi con un andamento un po' psicotico tra voci pazzoidi, sonorità imprevedibili, stacchi rock'n roll e riffoni più pesanti. A chiudere il dischetto arriva "Heroin Jenny", forse il brano meno azzeccato dei quattro, che ricorda quanto i nostri siano anche legati al glam rock americano di Motley Crue e soci. Lavoro divertente per una ventina di minuti votati al rock'n roll. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 65

http://www.steammorrisler.com/

Kynesis - Pandora

#PER CHI AMA: Experimental Post Metal
Il roster dell'Argonauta Records si arricchisce di un'altra interessantissima band, peraltro italiana, e solo per questo non posso che esserne felice. I Kynesis arrivano da Torino, e sono un quintetto che con 'Pandora' arriva alla loro seconda fatica. Ipotizzo che i testi vertano sull'omonimo mito, purtroppo non sono disponibili; per quanto riguarda il genere proposto, direi che un primo riferimento potrebbe vagamente ricondurre al post metal, però c'è qualcosa nella musica dei nostri che mi spinge altrove, ma non ho ancora ben realizzato dove esattamente. L'ascolto di "Risveglio", opening track della prima parte dedicata all'inconsapevolezza, strizza sicuramente l'occhiolino a sonorità post, vuoi per la profondità delle chitarre o per le desolanti aperture malinconiche, ma le derive in cui la band va incontro, non sono propriamente quelle di Neurosis o Isis, almeno in questo punto. Se proprio dovessi scegliere un nome di riferimento, citerei i Cult of Luna, ma credo sia piuttosto dettato dalla presenza di Magnus Lindberg alla consolle anziché per una reale influenza della band svedese. Anzi ne sono fermamente convinto, ascoltando e riascoltando il cd, i Kynesis mostrano infatti una personalità ben definita che lungo le otto tracce di questo lavoro, ha modo di convogliare verso lidi progressivi, dark ed alternativi (penso a Tool e Deftones a tal proposito), non disdegnando tuttavia qualche rarissima accelerazione in territori post black. Ascoltando la seconda traccia, "Insidia", non si può rimanere insensibili agli innumerevoli umori messi in scena dall'ensemble piemontese, che si configurano attraverso cambi di tempo e d'atmosfera, ma anche dal modo di cantare del vocalist Ivan Di Vincenzo. Nella traccia troviamo alla fine un po' di tutto, addirittura echi di un suono mediterraneo che chiama in causa anche gli In Tormentata Quiete. E andando avanti nell'ascolto di 'Pandora' non si può rimanere che affascinati da un sound in continua progressione, capace di regalare sempre più spunti di originalità. Notevoli le divagazioni noise droniche di "Tentazione", un brano in stile Infection Code, che aveva in realtà aperto con una vena punk. La voce di Ivan di certo contribuisce a creare un po' di disordine cosmico tra urla sempre intellegibili ma quasi soffocate, ed un cantato pulito più meditativo. Un intermezzo ci accompagna alla seconda parte del disco dedicato alla perseveranza e aperto da "Illusione", una traccia che sin dall'inizio si rivela ombrosa, con il frontman che nella sua veste più decadente, ha modo di gridare in ogni modo, pulito, sporco, gutturale e soffocato, e presenta poi un riffing qui davvero volto al post metal, anche se privo di una vera linearità. Forse nell'elevata imprevedibilità della band giace il reale punto di forza del quartetto italico e ad una capacità di mettere in scena svariate idee, anche solo attraverso il suono di un improvvisato dung-chen, la tromba telescopica tibetana simile al suono del didgeridoo ("Cenere"), accompagnato da un parlato freddo e angosciante, da una ritmica tanto minimalista quanto eterea e suggestiva, e da un cantato, sempre in lingua madre, che forse qui trova il suo punto più alto, sia in chiave pulita che urlata. Le chitarre nel frattempo brandiscono riff più esasperati anche se poi è l'egregio lavoro ai synth ad impreziosire la performance dei nostri che quando pestano sull'acceleratore, sanno anche far male, ma che a mio avviso risultano poi più efficaci (e ribadirei originali) nelle parti più cerebrali. Vuoi per il titolo, ma "Catarsi" esplora quei territori darkeggianti che menzionavo poco sopra, con il basso che gioca un ruolo importante nell'equilibrio di una song che vive ancora una volta di saliscendi umorali che ci accompagneranno fino all'epilogo finale, "Sospiro", l'ultimo atto di un disco entusiasmante che vive il suo ultimo sorprendente slancio, con una song in bilico tra shoegaze e post rock, in cui compare anche una voce femminile, ma non aspettatevi nessuna voce eterea, ricordatevi che i Kynesis sono fatti a modo loro, dannatamente originali e... Sublimi! (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2017)
Voto: 80

https://kynesisband.bandcamp.com/album/pandora-2

sabato 24 giugno 2017

Scream Of The Soul - Children of Yesterday

#PER CHI AMA: Hard Rock
Puntualmente la prolifera Ethereal Sound Works ci recapita materiale delle sue band e dall'ultimo stock estraiamo dalla busta il lavoro di debutto degli Scream Of The Soul (SOTS), band hard rock portoghese. La band in realtà è uscita con un EP parecchi anni fa, probabilmente molte cose sono cambiate da allora e considerano probabilmente questo album come l'inizio di un nuovo progetto. I brani contenuti nel jewel case, dalla grafica semplice e disegnata a mano, sono sette, in un perfetto mix di sonorità anni '70/80 con influenze moderne, soprattutto nei suoni di chitarra. Queste strizzano l'occhio a qualche decade più in là, introducendo fraseggi metal, prog e pure un po' grunge. Pur avendo un ruolo fondamentale come vuole il rock, anche basso e batteria non sono da meno, con ritmiche incalzanti senza tanti fronzoli che conquistano subito per il groove. La voce del frontman nonché chitarrista, ha la timbrica giusta, squillante e potente, ed in più viene usata sapientemente lasciando spazio agli strumenti quando è il momento dell'assolo o del classico stacco. D'obbligo l'uso della lingua inglese e anche qui niente da dire, pronuncia impeccabile. Ultimo, ma assolutamente non meno importante, è sua maestà l'hammond, l'organo che ha profondamente cambiato il rock e che in 'Children of Yesterday' ci trasporta negli anni che hanno segnato la storia del rock. Difficile dire se sia il vero originale oppure un'ottima emulazione digitale, sta di fatto che il risultato è pressoché perfetto e noi comuni mortali possiamo solo che apprezzarne il suono. "Oblivious Waters" apre le danze con tanta grinta e voglia di riscatto, veloce e grondante di groove in stile Judas Priest con un missaggio che predilige la voce, ma che permette di gustare tutti gli strumenti. Una traccia veloce e relativamente breve che si ferma ai blocchi con uno stacco di tastiere a dare pochi secondi di respiro per poi ripartire. Il batterista trova molto spazio con i suoi fill classici ed ottimamente eseguiti, con un sapiente uso dei fusti per dare profondità e potenza nei punti giusti, sempre in perfetta sintonia con il basso. Niente assoli per la chitarra in questa prima traccia, infatti tutto il groove viene dai riff che trainano la melodia e amalgamano alla perfezione la struttura del pezzo. Visto che abbiamo già decantato le lodi del mastro hammond, "Brothers in Heart" lo vede elemento portante di questa ballata con il suo tono vibrante, come il testo del brano. Il mixing lo lascia purtroppo in secondo piano per far spazio alle chitarre, ma alla fine il risultato è abbastanza bilanciato e regala forti emozioni. In questi sei minuti abbondanti i SOTS si destreggiano su diversi livelli di intensità, confermando la taratura degli artisti presenti nella line-up. Grande prova del vocalist che riesce nell'intento di completare l'opera dei suoi colleghi, ossia trasmettere all'ascoltatore ogni singola sfumatura di un brano così complesso a livello emotivo. Dopo il momento introspettivo, il quartetto riprende in mano le redini e si getta a capofitto in "Spectrum", un brano prettamente hard rock fatto di palm mute e assoli che appagano il cuore di tutti i nostalgici del genere. L'hammond qui lascia spazio a tappeti di tastiere che perdono smalto, avremmo voluto qualcosa di più personale e meno banale per dare un tocco particolare ad una composizione più che classica. Alla fine di un disco del genere non si può che rimanere soddisfatti, se si ascolta una band come i SOTS è perché si cerca potenza e melodia fuse in un album fatto con cuore e passione. Ottima la prova dei nostri amici portoghesi che hanno saputo essere fedeli a se stessi facendo quello che gli riesce meglio, ovvero scrivere e suonare ottimo rock. (Michele Montanari)

(Ethereal Sound Works - 2016)
Voto: 75

https://screamofthesoul.bandcamp.com/

venerdì 23 giugno 2017

Lectern - Precept of Delator

#FOR FANS OF: Brutal Death Metal
Italian brutal death metallers Lectern have stayed true to their roots and kept their steadfast tradition to mixing a brutal variation of the Floridian variety of death metal with a much harsher, more Satanic bent to their music that makes it more devastating. The main feature to be found here is the rather sharp, brutal riff-work, managing to work through a strong series of rhythm patterns that showcase a tight foundation with short rhythms and deep, churning grooves. That the vast majority of tracks in this section are built around a thrashing mindset means that they’re fast, vicious and really exploit the fine precision displayed throughout here as the up-tempo tracks and short rhythms give this a distinctly Floridian feel utilizing those similar tactics in their work. This one though adds on a far more blistering and twisting series of riffing over that which adds a frank brutality to the rhythms in this, and given that the riffing still adds a rather old-school vibe to the material is a fine touch. For the most part, it doesn’t have much wrong here beyond the need for repeating the same riff-work and arrangements at the varying tempos, but that’s overlooked with efforts like opener ‘Gergal Profaner,’ ‘Fluent Bilocation’ and ‘Distil Shambles’ all frequently showcase. The longer efforts like ‘Palpation of Sacramentarian’ and ‘Pellucid’ also offer more a traditional old-school death metal feel, but on the whole are more than enjoyable enough throughout here to give this one a lot to really like here for brutal and old-school death metal fans. (Don Anelli)

giovedì 22 giugno 2017

Comity - A Long, Eternal Fall

#PER CHI AMA: Crust Black/Post Hardcore
Caos e disagio. Sono queste le sensazioni ad emergere dopo l'ascolto di 'A Long, Eternal Fall' (A.L.E.F.), ultima fatica dei francesi Comity. La band parigina, attiva dal 1996, propone in sintesi un estreme rock sperimentale. Il lavoro in questione affonda le proprie radici nel metal estremo incorporando tuttavia numerose altre influenze, echi prog, rallentamenti doom e contaminazioni post rock (solo per citare le principali). A livello sonoro ci si trova davanti ad un buon prodotto, il sound ruvido e crudo dona al lavoro in questione una piacevole dimensione live, purtroppo va anche riscontrato che la voce di Thomas risulta eccessivamente penalizzata dalla differenza di volume, resta infatti troppo "sotto" al resto degli strumenti. Dal punto di vista tecnico-compositivo si nota subito una buona padronanza degli strumenti ed un invidiabile cultura musicale, ottime credenziali per esprimere appieno le proprie potenzialità. Le 8 tracce di 'A.L.E.F.' dipingono un'atmosfera malata, con l'intero album che risulta permeato da una costante sensazione di disagio e angoscia (sembra veramente di cadere da un'altezza vertiginosa senza arrivare mai al momento dell'impatto). Complice un ottimo uso delle dissonanze e un gran lavoro delle chitarre di François e Yann che dimostrano di essere a proprio agio e di saper esprimere una grande quantità di idee attingendo agli stili più disparati. Il drumming di Nico fa da degno contraltare, spaziando da tempi serrati tipici del metal estremo a soluzioni talmente inusuali da riuscire a stupire, il tutto condito da cambi di misura schizofrenici. Tuttavia 'A.L.E.F.' è un lavoro difficilmente assimilabile, se da una parte riesce a passare una certa emozionalità, dall'altra va riscontrata una certa amusicalità. Gli otto pezzi in questione mancando infatti di struttura logica, rendendone talvolta assai difficile l'ascolto. In sintesi, un lavoro che offre moltissimi spunti interessanti ma che obbliga a pensare. Consigliato a chi è curioso, ha una buona apertura mentale ed una buona dose di pazienza. (Zekimmortal)

mercoledì 21 giugno 2017

Nagaarum - Homo Maleficus

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Thy Catafalque
Della serie one mand band crescono, trasferiamoci quest'oggi in Ungheria, a Veszprém per l'esattezza, dove vive tal Nagaarum, che negli ultimi sei anni ha fatto uscire una cosa come 14 album. Prolifico il ragazzo, soprattutto se stiamo parlando di produzioni di una certa rilevanza, almeno gli ultimi cinque lavori che ho avuto modo di ascoltare. E allora 'Homo Maleficus', che arriva a distanza di un anno dai due lavori usciti nel 2016, si fa notare per i suoi contenuti black sperimentali. Tralasciando il bruttissimo artwork di copertina che mal si adatta alle sonorità del mastermind magiaro, muoviamoci all'ascolto di questa release, che si apre con i suoni insani di "A Befalazott", una traccia che miscela un black mid-tempo con il suono in tremolo picking delle chitarre, che contribuiscono a generare un certo mood malinconico. Le harsh vocals si alternano alle voci pulite, mentre un'intrigante linea melodica di sottofondo può evocare quanto fatto recentemente da un'altra geniale band ungherese, i Thy Catafalque. Sebbene le chitarre mostrino una ruvidezza di fondo nel loro incedere, ciò che impreziosisce la performance del musicista è una continua ricercatezza di un effetto, un'atmosfera particolare che sappia essere un po' inquietante in taluni momenti (e penso a "Az Elvhű", song post black doom, meritevole soprattutto nella seconda metà), oppure che offra una melodia vincente che sovrasti la furia generata dal black ("Vassal Nevelt", vera top song del cd) o ancora che sappia creare delle atmosfere lugubri e psichedeliche al tempo stesso, quasi surreali ("Cipelők"). Aggiungerei poi che la peculiarità di Nagaarum sta anche nell'iniziare un brano in un modo e concluderlo in maniera totalmente diversa, generando pertanto la percezione di aver gustato in 5-6 minuti, tutte le catartiche suggestioni sonore dell'artista ungherese. A tal proposito penso anche agli sperimentalismi di "Mens Dominium" o al doom dronico iniziale di " Dolgunk Végeztével", una song irrequieta, irrazionale, tribale, con dei vocalizzi stralunati cosi come con la sua ritmica che si muove tra punk, thrash, psych, industrial, avantgarde, black, doom e quant'altro, sorprendendo ancora una volta per un eclettismo sonoro che trova pochi eguali nella scena odierna. Dieci minuti di questo tipo lasciano addosso la sensazione di trovarsi sotto l'effetto di una qualche sostanza psicotropa, di essere avvinghiati da un senso di paranoia, di vedere ragni mostruosi che si muovono sul soffitto o vedere ombre minacciose laddove non ve ne dovrebbe essere traccia. La complessità musicale di questo 'Homo Maleficus' ha un che di portentoso ed entusiasmante. Si giunge ahimè al capolinea con l'ultima "Kolontár", cinque minuti di sonorità al rallentatore capaci di produrre quell'ultimo stato di angoscia che via via si trasformerà in quiete. Gran bell'album (ma mezzo punto in meno per la cover), ora fate come me, andatevi a riscoprire i precedenti lavori. (Francesco Scarci)

(Grimm Distribution/NGC Prod. - 2017)
Voto: 75

https://nagaarum.bandcamp.com/

Alchimia - Musa

#PER CHI AMA: Gothic/Doom, Novembre
La scena italica si arricchisce di un'altra vibrante realtà, gli Alchimia, che per vena artistica gothic dark doom, potrebbe accostarsi a Novembre, Plateau Sigma e Artic Plateau. Tralasciando che tra i numerosi ospiti che popolano questo disco ci siano proprio membri di alcune di queste band, appare lampante, sin dall'incipit "Orizzonte", quanto abbiano inciso proprio le influenze dei Novembre nell'architettura musicale dell'act campano. Emanuele Tito, il mastermind che sta dietro agli Alchimia, deve aver amato alla follia album come 'Novembrine Waltz' e 'Materia' e come dargli torto d'altro canto. Si tratta di dischi che penso di aver consumato a suo tempo e che ora sento riecheggiare nei solchi di questo album. Sebbene l'essenza derivativa, 'Musa' è un lavoro che francamente mi piace parecchio, mi permette di chiudere gli occhi e lasciarmi trascinare da sonorità delicate, suadenti, avvolgenti e tremendamente calde, coadiuvate dalla bella voce di Emanuele, una sorta di Carmelo Orlando in versione quasi costantemente pulita. E cosi il flusso malinconico percorre brani assai riusciti come "Lost" o "My Own Sea", con altri in cui lo strizzare l'occhiolino ai Novembre diviene quasi scopiazzamento e penso a tal proposito al chorus di "Exsurge et Vive (Alchemical Door)" che richiama palesemente 'Everasia' del già citato 'Novembrine Waltz' o il break acustico+voce di "My Own Sea" che ricorda non so quale altra canzone dell'infinita discografia della band romana. Poco importa, non so qui a fare il processo alla band, ma semplicemente a riportare pregi e difetti di una release che vede comunque interessantissimi picchi: la flamencheggiante “Whisper Of The Land” è una breve traccia che introduce a quella che è forse la song più bella del disco, "Waltz of the Sea", una song che miscela il sapore folklorico della tradizione partenopea con suoni tipicamente mediterranei, in una trama musicale soffusa e assai melodica. In "Leaves" ecco apparire i vocalizzi growl del cantante, e qualche riffone più death doom oriented, retaggio non ancora dissoluto del passato del musicista sorrentino che comunque trova modo di imbastire anche qui melodici break acustici, vero punto di forza di 'Musa'. Un altro pezzo interlocutorio e arriviamo alle conclusive "The Fallen One" e "Assenza (Memory)". La prima forse è il pezzo meno riuscito del disco, anche se la sua chitarra spettrale incunea il suo riff nella mia testa. L'ultimo brano invece mostra il bel basso di Fabio Fraschini in sottofondo con tutto l'armamentario ritmico completato da Gianluca Divirgilio alla chitarra e David Folchitto dietro alle pelli a congedarsi con l'ultima avvincente melodia di questo interessantissimo album ispirante, 'Musa' appunto. Bravi, ma ora cerchiamo di affrancarci dai grandi classici. (Francesco Scarci)

(Buil2Kill Records/Nadir Music - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/alchimia0/

lunedì 19 giugno 2017

Suffocation - ...Of the Dark Light

#FOR FANS OF: Brutal/Techno Death
Intricate, polished, and devastating, Suffocation has consistently stood at the helm of the most brutal ship in the death metal armada with mind-bending complicated riffing semaphore, tight ropes of musicianship and production, and an ever-focused eye on what maneuver will cause the most mayhem in the fewest measures. This death metal institution has kept many a fan enamored with its unabashedly aggressive music and innovatively skewed approach that mimicked its insane, slaughterous, and gratuitously gory lyrics. Alongside Immolation, Suffocation formed New York's barbaric response to Florida's death metal monopoly in a jarring outpouring of concrete rhythm, creating an offshoot that abandons the search for melody in favor of a gritty texture on which to flatten its audience.

As Suffocation's eighth full-length, '...Of the Dark Light' is from an era somewhat removed from the seminal '90s albums. The album cover is merely a person being atomized in open space rather than a monstrous machine consuming a victim. The monsters have all but disappeared from the band's contorted universe. Changing form to become either metaphysical torments in a balanced domain where they could be deserved punishments or appearing as inhabitants of an unforgiving universe where such pain is predetermined.

Musically striking out from its tremendous template, Suffocation's '...Of the Dark Light' continues the legacy that the band has laid out over nearly thirty years to further explore this expansive evolution. Massive sounding open and palm muted guitar notes lead erupting double bass bursts in the stunning opener, “Clarity Through Deprivation”. Breakdowns are a staple feature of Suffocation's sound and in these early few minutes the desolate atmosphere leaves large spaces for a head-crushing delivery. Unlike the numerous bands it has inspired, Suffocation uses breakdowns more sparingly and with great impact to absolutely demolish a structure and drive home the intensity and immensity of the aesthetic for which it aims. The polished production doesn't diminish the impact of bass as the thumping energy patters against a chest in anticipation of the pummeling it will receive at a live show. The guitars clasp together in horror-striking harmony without blending while maintaining the down-tuned vibrations that tear at the sanity of a listener with the psychotic sincerity that the twisted mind narrating each song projects, instilling sense and rationale for its malicious universe.

The rip-roaring tremolo riff in “Some Things Should be Left Alone” displays the evolution well as the band showcases its incredible talents in spurts between meditative and sensible stomps into the death metal pit. “The Warmth Within the Dark” is the catchiest song on this album with a most melodic moment when a riff rises in an almost metalcore fashion, dancing its way across a long looping bridge that crumbles beneath the weight of the ensemble's backlash against such an out-of-place moment of hope. Suffocation betrays to its listener how conscious and dulcet its music is within immense, brash, and frantic structures. The calm of “Caught Between Two Worlds” is as delicate as it is intense when delirious guitars start screaming against the percussive weight tumbling down upon them. The bass comes through beautifully in the re-recording of “Epitaph of the Credulous”, rounding the album out with an homage to the lesser-known album “Breeding the Spawn”.

As Suffocation has been reminding its audience of the 1993 album on every new album since 2006, with “Prelude to Repulsion” appearing on the self-titled album, “Marital Decimation” on “Blood Oath”, and “Beginning of Sorrow” on “Pinnacle of Bedlam”, these re-recordings show how much the band's sound has changed from its bouncier beat-'em-up template in 1993 to the uncompromising assaults that this 2017 iteration offers. The little bits of personality found throughout the masonry of such imposing musical constructs keep this album fresh. An upward driving scale in “Some Things Should Be Left Alone”, a sitar-sounding riff adorning “Return to the Abyss”, and an extra tier to a by-the-numbers breakdown in “Your Last Breaths” enhance the multi-dimensional approach that Suffocation used to make a name for itself. '...Of the Dark Light' is no 'Pierced from Within'. Rather than shove its every fluctuation down the listener's throat, there is a nuance to this album that can easily go unnoticed in the first listens, something that shows its fury as one that burns for longer, not to be taken lightly, for each assault is coldly calculated, premeditated. While the lyrics are doomed to their confinement, the sophisticated exploration of the guitars, like a British expedition into the untamed heart of darkness, show a smarter and faster band, versatile enough to endure a drastic lineup change and still succeed. Listening to Suffocation is like attending Hell's opera. The masquerade is a refinement of tone within a frantic and chaotic tableau. Each intensely crafted scene has an air of improvisation while simultaneously featuring tightly-crafted choreography, displaying exceptional musicianship and a professionally cultured finishing, betrayed only by the casual cursory first glance that seems base and barbaric.

Suffocation has been around the bend throughout the outfit's twenty-nine year history and has consistently come out on top delivering an impactful sound, even as its members' passions may have fluctuated. As one of the originals of its day this band still creates the signature churn of complex sounds that metalheads have grown to love, a rare cacophony that has inspired death metal offshoots that explore and expound upon certain moments of Suffocation songs in order to write their own full albums. Being a fan of Suffocation is a privilege, exploring its music is a joy, and having the chance to do the band some justice through a fan's words is something that I see as a necessary homage to this all-powerful pioneering group. '...Of the Dark Light' is no 'Pierced from Within', it is a maturation bred of those fundamental days and an expansion of the band's instrumental path, ever seeking excellence and without such smug satisfaction in itself that the chase is ever done. Suffocation has soldiered on since the 1990s to corrupt any sense of propriety in favor of indulging our most basic human desire, murder. Death can deal with its namesake, Akercocke can have all the sex it wants, but Suffocation has always explored the why and how while innovating a direction so obtuse and multi-faceted that new techniques had to be invented in order to achieve these ambitions. (Five_Nails)

(Nuclear Blast - 2017)
Score: 90

https://www.facebook.com/suffocation

domenica 18 giugno 2017

Interview with Lectern


Follow this link to read the interview done with the Italian brutal band, Lectern: 


Sula Ventrebianco - Più Niente

#PER CHI AMA: Alternative/Indie Rock
Un rock ruvido e fuzzy (pensate al quasi-punk strafottente primi Marlene di "Wormhole", quasi al confine col groove, oppure della stessa "Arkham Asylum" più avanti. Oppure alle suggestioni deserto["Merak"]-sabbatiane["Batticarne"] o ancora al riffone piombo-zeppeliniano di "Dubhe") eppure gloriosamente eutettico, intenzionalmente pronto a liquefarsi nell'elettronica anni zerozero ("Diamante", la stessa "Merak", i Tool in gelatina di "Attraverso") o in certi ritornelli pop-oriented ("Sale in Sogno", i Tre allegri ragazzi strafatti di "Subutecs", o ancora certo brit-punk graham-coxoniano ("Metionina", la stessa "Subutecs"). L'attitudine progressive de "L'Ade a Te" potrebbe ricordarvi i Quintorigo di De Leo, o forse i Pain of Salvation più roadsaltizzati, ma abbinati a un, diciamo così, espressionismo vocale tutto partenopeo (avete in mente quel diavolo di donna che di nome fa Teresa de Sio?). Quarto album in otto anni. Una produzione intrigante e orgogliosamente analogica coordinata da Alberto Ferrari (Verdena), mirabilmente sintetizzata nella fischiettante "Yellowstone" in apertura e nella conclusiva, dissolvente, "Amore e Odio". (Alberto Calorosi)

(Ikebana Records/Goodfellas - 2017)
Voto: 75

http://www.sulaventrebianco.net/

sabato 17 giugno 2017

Viscera/// - 3 | Release Yourself Through Desperate Rituals

#PER CHI AMA: Black/Post Metal
Decisamente un album controverso e dalla duplice anima, la nuova release targata Viscera///. '3 | Release Yourself Through Desperate Rituals' è un disco che può essere idealmente suddiviso in due tronconi: una prima parte comprendente i primi tre pezzi, urticanti e rabbiosi, che mantengono un certo punto di contatto con il passato estremo della band ed una seconda metà relativamente più accessibile. "Uber–Massive Melancholia", la opening track, è un assalto di musica anarco punk, come solo gli Impaled Nazarene agli esordi hanno saputo fare, muovendosi poi in territori sludge/doom, da cui ripartire con accelerazioni isteriche affidate ad un riffing di matrice post black ed una cavalcata che viene interrotta da una deriva lisergica che ha il grande merito di spiazzare chiunque si avvicini all'ascolto di questo nuovo delirante lavoro. Tra grida e caustiche vocals sempre e comunque intelligibili, si arriva dopo oltre undici minuti, a "Martyrdom For The Finest People", con il riffing iniziale che sembra prepari al peggio: e difatti si parte subito con un'altra cavalcata punk black, nei cui accordi di chitarra si nasconde una melodia che si insinuerà ben presto nella mia testa. Nel frattempo i nostri si divertono giochicchiando con ritmiche dai battiti accelerati, che finiscono per rallentare e cedere il passo a passaggi post rock laddove il vocalist modula la propria voce su toni più pacati ed intimistici. Una brevissima parentesi perché l'incedere punkettone tornerà a materializzarsi in pochi secondi, sebbene la seconda parte della song rallenti paurosamente fino ad impantanarsi nelle sabbie mobili del post metal di scuola Neurosis. Poi, un altro break di un minutino che ci consente giusto il tempo di riprendere fiato prima dello strappo conclusivo, in cui qualcosa sembra stia per cambiare e donare una nuova forma musicale. "Tytan (Or The Day We Called It Quits)" forse funge da ponte di collegamento tra la prima e la seconda metà del disco (forse anche per un cantato pulito simil Novembre), essendo assai più breve delle due precedenti e preparatoria per “In The Cut”, dodici minuti di un sound pur sempre abrasivo ma apparentemente più orientato verso lidi rock, per cui mi sembra quasi di aver a che fare con un'altra band, complici vocals ora pulite, ritmiche che potrebbero tranquillamente stare su un disco dei Katatonia, giri di chitarra più morbidi e quella vena punk che contraddistingueva il cd fin qui, praticamente scomparsa, lasciando posto ad un mood malinconico più orecchiabile. L'ultimo scoglio da superare è rappresentato dagli ultimi venti minuti di "Anxiety Prevails", una traccia che vede la partecipazione in veste di guest vocals di Kevin K. (parecchi sono gli ospiti nel lavoro) e che esordisce su linee di chitarre quasi deathcore, decisamente dirette nel volto, in una song a tratti furente (bella a tal proposito la cavalcata post black dopo cinque minuti) capace di mettere a segno anche un bell'assolo. Dopo un vorticoso approccio iniziale, la tempesta sonora sembra placarsi e lasciare posto solo al suono dei tuoni in lontananza e ad un lungo parlato, presente peraltro solo nella versione cd (un po' troppo lungo a dire il vero) che prepara agli ultimi sei minuti del disco, affidati alla cover "True Faith" dei New Order, un pezzo del 1987, all'insegna di una forma sonora moderna e pop che potrebbe stonare per chi fino a pochi minuti prima stava ascoltando un ibrido tra Napalm Death, Impaled Nazarene e Neurosis. Sicuramente una provocazione della compagine italica, contraddistinta anche in sede di artwork scelto per la cover dell'album, con lo sguardo psicotico di Jim Jones, colui che si è reso responsabile del suicidio di massa di Jonestown nel 1978. Lavoro di grande fattura per una delle band italiane dal respiro europeo, anzi mondiale. (Francesco Scarci)

(Drown Within Records/Wooaaargh/Unquiet Records - 2017)
Voto: 75

https://viscera3stripes.bandcamp.com/album/3-release-yourself-through-desperate-rituals

mercoledì 14 giugno 2017

Dö - Astral: Death / Birth

#PER CHI AMA: Stoner Death, Ufomammut
Dopo aver affrontato il tema della distruzione in 'Tuho', tornano i finlandesi Dö, questa volta con una tematica delicatissima, incentrata su un argomento che da millenni cruccia l'uomo, la morte e la nascita. Tuttavia, approfondendo maggiormente le liriche, capisco che il tema dei nostri è ben più ampio e verte piuttosto sull'incerto futuro del genere umano, mai cosi nebuloso come in questi difficili tempi. Il terzetto di Helsinki prosegue il proprio discorso musicale all'insegna dello stoner death doom sempre contraddistinto da granitici chitarroni sui quali si stagliano i vocalizzi mortiferi di Deaf Hank. Due le tracce a disposizione in questo 'Astral: Death / Birth', appunto "Morte" e "Nascita", per una durata complessiva di venti minuti tondi tondi. I nostri non si scomodano più di tanto dal precedente lavoro, ed imperterriti proseguono nel generare quelle atmosfere pachidermiche, in un sound che essi stessi definiscono döömer e che a livello ritmico, nell'iniziale "Death", richiama irrimediabilmente i Black Sabbath a cui aggiungerei io, anche i nostrani Ufomammut e gli immancabili Cathedral degli esordi. Non male l'assolo che trancia la song a metà, contraddistinto da un tipico feeling settantiano. La band finlandese infarcisce il proprio sound con una sublime componente esoterico psichedelica che esplode nella tribalità ossessiva di "Birth", con i vocalizzi arcigni del frontman che cedono questa volta a chorus che sembrano provenire da un qualche rituale catartico, mentre la voce dello stesso Deaf Hank abbandona il suo torvo growling per un litanico parlato, tutto questo almeno nella prima metà. I restanti cinque minuti della song infatti si imbastardiscono e con essi anche la voce del carismatico cantante che torna oscura e possente, cosi come il downtuning chitarristico sempre più ancorato ad abissi death doom, enfatizzati peraltro da una registrazione lo-fi ottenuta durante una sessione live, volta a catturarne lo spirito indomito dei nostri. Splendidi gli assoli posti ad un terzo e a due terzi del brano, con la chitarra sorretta da un buon lavoro al basso dello stesso vocalist. Insomma, graditissimo ritorno, peccato si tratti solo di un paio di brani, che abbassano di mezzo punto la mia valutazione conclusiva. Ne vogliamo di più!! (Francesco Scarci)