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martedì 15 maggio 2018

Indicative - III _ awake | existence | decline

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Post Rock strumentale
Si muovono tra gli Shellac, i My Sleeping Karma e i Tool questi Indicative, formazione palermitana post math rock, attiva dal 2010. Arriva a noi il disco 'III _ awake | existence | decline' grazie alla Qanat Records, realtà che si occupa di scovare e conservare le perle musicali dell’underground palermitano e alla Pistacho, label indipendente anch’essa attiva sul territorio palermitano. Quest'ultima prova in studio ha le sembianze di un flusso di coscienza ruvido e intenso, pochi spiragli di luce filtrano da un cielo di nuvole bianche che ondeggiano sornione spinte dalle correnti d’aria. È come un collage di paesaggi sonici, accostati per forma, colore e sensazione e intervallati da sporadici interventi di sample vocali e registrazioni di parlato. Gli ambienti più dilatati possono sembrare quasi free jazz come nella ben riuscita "We Get What We Deserve", mentre le parti più intense possono arrivare a cavalcate stile crossover a ricordare i Deftons e gli Incubus come in "Human Consciousness". Anche se il progetto è strumentale, una menzione merita l’utilizzo delle voci a supporto delle canzoni: principalmente si tratta di suoni eremitici di stampo mistico, oppure delle sbraitate piene di dolore a disturbare l’armonia delle epiche composizioni degli Indicative che ne guadagnano in varietà sonora ed espressività. Le chitarre sono aggressive e taglienti e il ruolo del basso è quasi a sostituzione della voce solista mancante; le ritmiche invece sono forse le più variegate a livello creativo, non si risparmiano tempi dispari, sincopi e doppio pedale. Il pezzo più interessante per quanto mi riguarda è "Dissolution" che vede l’utilizzo di ritmiche elettroniche, oltre alle suddette voci e al metodo compositivo a “landscape”, caratteristico della band. Siamo di fronte ad una realtà valida e collaudata, formata da elementi caparbi e prolifici, convincono le skill tecniche e compositive della band seppur creda che gioverebbe una contaminazione più pensante con altri tipi di strumenti, magari che non ricadano nei canoni del post rock, come in parte già fatto nel disco, per arricchire i già variegati soundscapes e renderli ancor più unici. In conclusione, gli Indicative sono una band italiana che può distinguersi e far parlare di sé, vi consiglierei di tenere gli occhi aperti nel caso doveste vedere locandine che riportano il loro nome; vivamente consigliati agli amanti del post rock e progressive atmosferico. (Matteo Baldi)

lunedì 14 maggio 2018

Mormânt de Snagov - Depths Below Space and Existence

#PER CHI AMA: Black/Death
Terzo album dal 2010 a oggi per i blacksters finlandesi Mormânt de Snagov, quartetto originario di Turku, messo sotto contratto dalla label rumena Pest Records. Chissà se c'è una qualche correlazione tra il monicker proprio in lingua rumena che sta per "la tomba di Snagov" (dove Snagov è la città rumena che ospita le spoglia di Vlad Tepes) e la scelta dell'etichetta di assoldare questi paladini del black. A parte le mie digressioni mentali, andiamo a commentare questo 'Depths Below Space and Existence', nuovo capitolo di una discografia che vanta anche un paio di split album, un EP e una compilation. Beh, chi come me si aspettava una forma di black originale, date le origini della band, verrà un po' deluso, visto che la proposta dei nostri è in realtà piuttosto convenzionale, con otto brani diretti e veloci che sembrano essere influenzati dal black di stampo svedese (per ciò che concerne linee di chitarra taglienti e screaming vocals), sbecchettato da attacchi di death assai aggressivo di scuola americana (la ritmica in stile Suffocation di "Stories Untold" lo dimostra) e da contaminazioni più sperimentali ("Resist" e la stessa "Stories Untold" nel suo break acustico centrale, ma anche nelle sue schegge impazzite di jazz). Poi il resto del disco scivola su pezzi tipicamente black, con uso e abuso di blast beat, chitarre in tremolo picking, qualche fortunosa variazione al tema, come la doomish "Battle Neverending", il mio pezzo preferito, cosi carica di atmosfere spettrali e la conclusiva "The Roots of Grief", un altro brano in cui le velocità non sono fini a se stesse e che mi danno una visione dei nostri più distaccata dagli stilemi e dai cliché tipici del black made in Sweden. C'è certamente ancora tanto da lavorare, ma idee buone, sparse qua e là nel corso di questo 'Depths Below Space and Existence' ce ne sono, basta solo cercarle con attenzione e assoluta cautela. (Francesco Scarci)

mercoledì 9 maggio 2018

Gigantomachia - Atlas

#PER CHI AMA: Epic Death Metal, Bolt Thrower
"La Tauromachia" inneggiava un De Luigi un bel po' di anni fa quando impersonava il cinico Guastardo. Perché questo incipit? Perché leggendo il monicker di questi italiani, ossia Gigantomachia, il primo assurdo pensiero che mi è venuto in mente è stato quello del comico italiano a Mai Dire Gol. Certo il significato dei due termini è piuttosto simile, nel primo caso si riferiva al combattimento tra bovini e uomini, nel secondo a quello dei Giganti contro gli Dei dell'Olimpo. Me ne rendo conto, sto digredendo e sottraendo tempo prezioso ai frusinati Gigantomachia che arrivano al loro debutto grazie al supporto dell'Agoge Records, attraverso un disco potente di death (piro)tecnico, epico e potente, volto a raccontare la rivolta dei Giganti contro gli Dei. 'Atlas' apre con un'intro che ci conduce proprio a questo tema, "Rise of Cyclop", e che prepara il terreno alla prima tempesta affidata all'oscura "Eye of the Cyclop", una traccia arrembante che mette in mostra le caratteristiche del quintetto di Alatri: ritmica pesante ma dotata di un discreto pattern melodico, la coesistenza tra growling e screaming vocals, una cupa atmosfera di fondo creata da ottimi arrangiamenti. Si passa a "Liberate the Titans", song spigolosa, complice una matrice ritmica il cui suono è assai vicino a quello del cingolato di un carro armato. La traccia è pachidermica nel suo incedere, sebbene i cambi di tempo dovrebbero aiutare a renderla più leggera, niente da fare, è solo l'assolo finale a sollevarci per una ventina di secondi dalla monoliticità di un suono davvero pesante, che per certi versi sembra richiamare quello degli inglesi Bolt Thrower. E che continua ad essere pesante e minaccioso anche nella successiva "Immortal", in cui il giro di chitarra iniziale si rivelerà piuttosto ipnotico e ridondante almeno fino a quando strali di luce nella notte (le chitarre) prendono il sopravvento e rompono ancora una volta una proposta che rischia di peccare in eccessiva coriaceità. Più convincente "Aldebaran", un po' più dinamica e carica di groove, e comunque sempre brillante in fase solistica. "Leviathan" è un'altra song che evidenzia suoni solidi e pesanti, che peccano ancora un pochino in fase costruttiva ma che nella fase solista, trovano invece ottimi spunti. La title track è decisamente più compassata, anche se il riffing "panteroso" conferisce una certa verve al brano che comunque non travalica mai in fatto di velocità. Ultimo plauso per la conclusiva "Scylla & Cariddi", ove ancora una volta, la mitologia si mette a disposizione della musica per un'ultima cavalcata di progressive death dalle tinte epico-sinfoniche che sigilla una performance più che soddisfacente da parte di questa neo band italica. (Francesco Scarci)

Confine - Incertezza Continua

#PER CHI AMA: HC/Punk/Grind, Negazione, Napalm Death, Rostok Vampires
Dieci canzoni in poco meno di 15 minuti? O è grind in stile 'Scum' dei Napalm Death o poco ci manca. Quello proposto dai Confine in questa 'Incertezza Continua' è un bell'esempio di hardcore italico, di quello che richiama i Negazione di fine anni '80 ("La Favola di Dio"), di quello cantato in italiano e che vede scorrere nelle vene una bella dose di punk ("La Tesi" mi ha peraltro ricordato i teutonici Rostok Vampires) e che non si nega nemmeno una qualche scheggia grind in tributo ai paladini inglesi di Birmingham (ascoltare "Pargolo" per capire) o che evoca un certo thrashcore marcione (tipo nel riffing corposo di "Franco"). La band veneziana alla fine cattura la mia attenzione con quei pezzi brevi, diretti, talvolta anche carichi di una buona dose di groove (leggasi il chorus di "Infamia" o "Magone"), sprigionando tutta la loro rabbia attraverso testi incazzati e ritmiche coriacee o al fulmicotone ("Maurizio IV" e "Pozzo Strada"), non disdegnando poi nemmeno momenti più ritmati ("La Mia Recita" o la conclusiva title track). Al termine dei dieci brani, la sensazione è quella di essermi ascoltato un disco di durata normale (diciamo sui 40 minuti), complice un'intensità e densità di fondo sorprendente e invece no, non siamo andati oltre al quarto d'ora. Incredibile. (Francesco Scarci)

(Disimpegno Records/Dischi Bervisti - 2018)
Voto: 70

https://confinehc.bandcamp.com/album/incertezza-continua

Emphasis - Black Mother Earth

#PER CHI AMA: Post Metal/Post Rock
Giusto per confondere, la introduttiva "Muna" erompe con discrezione carsica, successivamente conturbata da un coro femminile ultraterreno, invero collocabile tra goth, doom e il coro delle voci bulgare per come abbiamo imparato a conoscerlo nel pippero. La tavolozza post rock inzaccherata di stilemi mostrata invero con una evidente baldanza, in "Captains of North" rivela invece pregi e difetti di una composizione sì consapevole (le tinte epiche di "The Quiet Roads" sono indiscutibilmente efficaci), senz'altro trascinante (è il caso, ammettiamolo delle progressioni black-imperatoriali di "Black Slit", poi convergenti asintoticamente verso la successiva "Rivers Unders", assieme alla quale compone una sorta di mini-suite) eppure solo saltuariamente originale. Semplicemente disdicevoli le due voci: un growl pre-adolescenziale la prima e una specie di gorilla con una cassaforte sulla pancia (la stessa timbrica del Fantozzi antifrastico che che esclama "Ma com'è umano lei...", se avete modo di ricordarvela), la seconda. L'album, eminentemente strumentale, sarebbe una sorta di messa in scena musicale delle atmosfere dell'omonimo romanzo dello scrittore croato Kristian Novak, conterraneo della band, e sarebbe stato realizzato nientemeno che col contributo del Ministero della Cultura croato. E sti cazzi non lo vogliamo aggiungere? (Alberto Calorosi)

martedì 8 maggio 2018

Misanthropic Existence - Death Shall Be Served

#PER CHI AMA: Death/Black Old School
Altro "ripescaggio" da parte della Aesthetic Death che ripropone un disco degli inglesi Misanthropic Existence uscito originariamente autoprodotto nel gennaio 2017. Ultimamente però le scelte dell'etichetta britannica non mi stanno del tutto convincendo e la riproposizione di questo lavoro bestiale, la trovo francamente superflua. Come mai sono cosi tranchant nei confronti di quest'album? Perchè 'Death Shall Be Served' non aggiunge assolutamente nulla ad una scena davvero stantia come quella estrema: 64 minuti sparati a mille, votati ad una violenza primordiale che un tempo faceva clamore, notizia e forse destava un bel po' d'interesse, ma che oggi, in tutta sincerità, trovo obsoleta, old-school e alquanto noiosa. Se il disco fosse durato una mezz'ora, probabilmente sarei qui a parlarvi di una promettente band proveniente da Worchester che ha provato ad emulare col loro debut, gente del calibro di Slayer o Marduk, nelle loro opere più famose e decisamente dalle brevi durate. Invece mi ritrovo a commentare un lavoro monumentale di death/black/grind della durata che supera di gran lunga l'ora, no grazie è troppo. Mi limiterò a dire che il sound del terzetto inglese è ignorante in tutte le sue 11 tracce incluse. Sono estremi, blasfemi, marcescenti, probabilmente anche beceri nei testi che sembrano orientati al più ovvio e scontato dei temi, il satanismo. Le velocità sono sparate ai mille all'ora, sovrastate nel loro caos sonoro da uno screaming indiavolato che non lascia scampo. Difficile identificare un brano piuttosto di un altro, data la monoliticità in toto di un cd a dir poco brutale che affonda le sue radici nel death metal svedese di metà anni '90. Potrei dirvi solo che sorbirsi pezzi come "War-Torn Earth and Blood Soaked Skies" (che va oltre i 12 minuti) e "Humanicide" (quasi 8) è impresa non indifferente. Only the braves! (Francesco Scarci)

Anathema - The Optimist

#PER CHI AMA: Experimental Rock, Radiohead
Vostra nonna sa bene che se il sugo è un po' balordo, bisogna abbondare col soffritto. E sa anche che se viene a mancare l'ispirazione, l'artista avveduto abbonda col mestiere. Agli Anathema riconoscono anche i detrattori una formidabile versatilità stilistica (cfr. la notturno-strombettante coda simil-jazz di "Close Your Eyes", dove la ialina Lee Douglas trova stavolta la sua migliore dimensione), una crescente abilità atmos/tronica (le grossolane intemperanze EDM della introduttiva "Leaving it Behind"; le goffe j-m-jarrettate del pessimo strumentale "San Francisco", vagamente reminescente della comunque eccellente "Endless Ways") e soprattutto la capacità di creare certe emozionali-emozionanti progressioni intrise di tensione (di nuovo "Endless Ways"; il pianoforte che muta in chitarra elettrica nel narrare il tema di "The Optimist", inizialmente me-tapino-sospirante poi astutamente ed efficacemente progr/essiva; il manieristico quasi-interamente-strumentale "Springfield", avveduto primo singolo dell'album). Per tacere poi del tanto vituperato pop da classifica, saggiamente dosato, giusto per mettere al sicuro il risultato (cfr. gli Spandau Ballet abbagliati di "Can't Let Go" o la Enya che visita uno zuccherificio di "Ghosts"). Sarebbe stato avventato aspettarsi altro da questo. Ma di più, un poco di più, quello sì. Del tutto pretestuosi gli accostamenti ad 'A Fine Day to Exit', di cui questo 'The Optimist' sarebbe un sedicente sequel. (Alberto Calorosi)

CodeRed - Dominions of Our Deceitful Beliefs

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death, Morbid Angel, Nile
Uscito originariamente autoprodotto nel 2013, 'Dominions of Our Deceitful Beliefs' rappresenta l'album di debutto dei CodeRed, combo proveniente dalla Transilvania. Se la label rumena Loud Rage Music lo sta riproponendo rimasterizzato, un perchè ci deve pur essere, e allora lanciamoci all'ascolto di un lavoro che affonda le proprie radici nel death di scuola americana, quella che rincorre un nome su tutti, i Morbid Angel, non tralasciando poi Nile e Suffocation. È proprio da qui che il quartetto di Braşov parte, srotolando nove tracce (rispetto all'originale c'è una bonus track, "I'm the One") all'insegna di tecnica, brutalità ed improvvisazione, dato che già dalla seconda "Symptoms of General Decay" (ma anche successivamente in "Crowd Control") emergono chiari riferimenti al jazzato di Atheist e Pestilence, qui deprivati di quella forte componente melodica che regnava nei migliori album di quelle due mitiche compagini. Il sound proposto dai CodeRed è generalmente più dritto, affidandosi a ritmiche serrate, vocalizzi aspri in stile Vader e al classico sound chitarristico a la Morbid Angel: vi basti ascoltare l'opener "At His Appearance Dark Red" o la terza "Way of Nibiru" per trovare i punti di contatto con la band floridiana e quel sound tanto in voga a metà anni '90, ma quando poi si arriva alla porzione solistica, ecco che anche echi dei primissimi Cynic emergono forti e chiari dal nevrotico caos sonoro generato dai quattro musicisti rumeni. Ora mi è più chiaro il motivo per cui la Loud Rage Music ha voluto riproporre questo cd, perderlo probabilmente sarebbe stato davvero un grosso peccato. (Francesco Scarci)

lunedì 7 maggio 2018

Spectral - Neural Correlates of Hate

#PER CHI AMA: Techno Death, Spawn of Possession, Pestilence
Formatisi nel 2007, i rumeni Spectral arrivato all'agognato debutto sulla lunga distanza addirittura dopo oltre dieci anni, grazie al supporto dell'attivissima Loud Rage Music. Le coordinate stilistiche lungo le quali si muove il trio di Piteşti, formato peraltro da un membro dei CodeRed (che presto leggeremo su queste pagine), sono quelle del techno death, grazie a nove brillanti tracce che iniziano ad incendiare l'aria già con "Artificial Storage, una song che chiama in causa Pestilence e Necrophagist, giusto per fare un paio di nomi. Le linee di chitarra sono vertiginose, la voce di Andrei Calmuc bella abrasiva, e il comparto affidato alla contraerea di Romain Goulon, il batterista, davvero notevole. Non dovete immaginare però un campionario di velocità furibonde o ritmiche super-pestate perché i nostri sciorinano un bel po' di tecnica a completamento del proprio assetto da guerra. Splendida a tal riguardo la porzione acustica di "Ashes to Dust", cosi come la sua parte solistica, una song da paura che merita tutto il vostro ascolto e rispetto in una cavalcata di quasi nove minuti di montagne russe, certo non la più semplice delle passeggiate, considerato il genere. Il disco continua poi offrendo questo campionario di soluzioni artistiche tra stop'n go da lasciare senza fiato, elevatissime dosi di tecnica individuale, incursioni brutal death di scuola Spawn of Possession o annichilenti partiture di ultra techno death che evocano anche gli Obscura. Alla fine, 'Neural Correlates of Hate' è francamente un ottimo album di fresco ed intenso techno death metal che oltre a protendersi verso il brutal (nella title track ad esempio), arriverà anche a sconfinare nel progressive deathcore, offrendo la raffinata proposizione del genere dalle sapienti ed allucinate (ascoltatevi "Hallucinatory Authorization") menti di questi Spectral. (Francesco Scarci)

Gold Miners Night Club - S/t

#PER CHI AMA: Punk/Hard Rock
Una manciata di rocchenroll energetici ("Rock'n'Roll Song", appunto), polleggiati (la flessuosa "Everybody Want to Be Like Me" è ahimè intercalata da piuccheopinabile interludio quasi-rnb con tanto di autotuning), funkeggianti (più precisamente fukkeggianti: "Shut the Fuck up", appunto) o ancora aromaticamente punk n'roll ("I Live My Life", ma perché quella batteria così sintetica?): non è difficile ipotizzare che tra i più assidui frequentatori del malandato night club dei minatori bresciani vi sia un certo Billy Gibbons (tutto l'album, ma forse "I Wanna Fah" e "Gummy Eyeball" sono i brani maggiormentte ZZ-eggianti). A tratti meccanico e privo di corpo il suono, è senz'altro frutto della (coraggiosa seppure eccessiamente diffusa) scelta di esibirsi in duo. Indubbiamente da sistemare l'accento anglofono nelle parti cantate. Si raccomanda l'esecuzione a cappella di "Subterranean Homesick Blues" per almeno cento volte. E tre paternoster. (Alberto Calorosi)

venerdì 4 maggio 2018

Himsa - Summon In Thunder

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Metalcore/Death, Arch Enemy, Carnage
Era il 2007 quando uscì l'ultimo vagito degli Himsa, un vero assalto sonoro ai timpani. Forti di una super produzione ad opera di Steve Carter (per ciò che concerne la musica), Devin Townsend (per la voce) e Tue Madsen (per il mixing e la mastering), 'Summon in Thunder' rappresenta sicuramente il top della carriera per il quintetto di Seattle, anche se le critiche all'album furono piuttosto esagerate. Le undici straripanti tracce svelano il dinamico thrash/death metal, ricco di melodie ma anche di tanta furia, una miscela di vecchio speed metal unito ad un suono moderno, rabbioso e senza compromessi. Riff rocciosi (di scuola svedese) avviluppano le menti, con la batteria sempre precisa di Chad Davis che pesta che è un piacere e la voce di Johnny Pettibone a vomitare tutto il suo odio. Il platter della band statunitense non lascia tregua, è una cavalcata continua in cui trovano sfogo gli ottimi assoli delle due asce (influenzati dai solo dei fratelli Amott degli Arch Enemy). Se devo indicare un brano che mi ha colpito più degli altri, cito la quinta traccia “Skinwalkers”, che inizia con un buon arpeggio, prosegue su un mid tempo fino ad esplodere a metà circa in un attacco convulso, ma sempre ben ragionato, per poi concludersi con una raffinata scarica chitarristica. Una citazione spetta anche alla successiva “Curseworship”, per la sua capacità di non darci modo di pensare e non annoiare. Forse proprio in questo sono migliorati questi ragazzi: alla fine del cd, pur rimanendo quella sensazione di già sentito, non sono assolutamente annoiato e ne vorrei ancora. Tecnica inoppugnabile, melodie accattivanti, niente di originale sia chiaro, però l’headbanging è garantito per tutti gli amanti di questo genere di sonorità e non solo. (Francesco Scarci)

giovedì 3 maggio 2018

Swans - Deliquescence

#PER CHI AMA: Rock Sperimentale
...ancora mantiene qualche cronosoma di "Bring the Sun" e compie definitivamente la sua exuvia su 'Deliquescence'. Deliquescenza inversa: l'entrata di "Frankie M" (diciotto minuti: appena un pelino autoindulgente chioserebbe non senza una parte di ragione qualche maligno brufoloso affetto da alitosi) sarà ampiamente ridimensionata su 'The Glowing Man' (che si tratti di una seconda deliquescenza di "The Apostate"?). Deliquescenza retroattiva: "Just a Little Boy" nella versione 'The Gate' appare stranamente intermedia tra le due precedenti live ('Not Here/Not Now') e studio ('To be Kind'), perlomeno negli intenti. Deliquescenza assente, già, nelle (non troppo) sorprendentemente identitarie "Cloud of Forgetting" e "Screen Shot", guarda caso entry-track dei rispettivi album. Deliquescenza della deliquescenza: è ipotizzabile che lo stesso Michael Gira sia a conoscenza dell'impossibilità di oltrepassare la (a tratti prosaica) magniloquenza di "The Knot" (quasi quarantacinque minuti) senza apparire autocaricaturali (cfr. il Neil Young di "Driftin' Back") e, per questa medesima ragione, abbia annunciato lo scioglimento della band. 'The Gate': centocinquanta minuti, tre canzoni da T-B-K, una da T-S e quattro inedite (poi su T-G-M). 'Deliquescence': centocinquantacinque minuti, tre canzoni da T-G-M, una da T-B-K e tre inedite. La deliquescenza live impeccabilmente testimoniata su questi monumentali e autocompiaciuti live è senz'altro parte imprescindibile del processo creativo e compositivo successivamente formalizzato in studio. Ma nove ore tra live e studio per assommare ventuno canzoni in poco più di due anni (la discografia dei prolificissimi Beatles totalizza poco più di otto ore e centottanta canzoni in nove anni) sembrano un cicinino troppe. Ma soltanto nella patetica opinione di qualche qualche gibbuto detrattore affetto da psoriasi. (Alberto Calorosi)

(Young God Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/SwansOfficial/

Clawfinger - Life Will Kill You

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Alternative/Nu/Rap
A distanza di due anni dal fortunato e incazzato 'Hate Yourself with Style', i leggendari nu/rap metallers svedesi Clawfinger hanno rilasciato il settimo album della loro discografia. Come sempre ci hanno abituato, il trio scandinavo ci spara un lavoro in grado di miscelare suoni provenienti da più disparati ambiti sonori, sempre capace di shockarci con la loro proposta fuori dal comune, per la presenza del cantato rap, che li ha resi famosi nella scena metal mondiale. Continuando il discorso intrapreso nella precedente release, che rappresentò il debutto per la potente Nuclear Blast, 'Life Will Kill You' contiene 11 arroganti e irriverenti songs, che non potranno non piacere ai fan di sempre della band, e potranno anche catturare l’attenzione di nuovi adepti e curiosi. L’album si apre con “The Price We Pay”, esaltante nel suo incedere, grintosa, melodica; bella song davvero, caratterizzata anche dalla presenza di archi. Segue la rappeggiante title track, forse il pezzo più ballabile dell’album, in grado di scatenare con il suo ritornello una delirante danza selvaggia. Il sound del combo, lungo gli 11 pezzi, si dimostra sempre sperimentale nella sua proposta, ed è bello constatare che dopo vent’anni di onorata carriera, la freschezza e l’entusiasmo dei nostri, si sia confermata al top anche in quello che è rimasto l'ultimo full length della loro discografia, ormai datato 2007. Zak, Bard e Jocke ci regalano alla fine ottimi brani, sempre orecchiabili (“Prisoners” e “It’s Your Life” sono le song che preferisco), tosti, talvolta danzerecci (ma nel senso che vi si può scatenare un pogo violentissimo sopra); samples elettronici, vocals femminili, influenze grunge e hardcore, completano un lavoro multi sfaccettato che mi sento di consigliare un po’ a tutti, dagli amanti del rock più classico ai metallari estremisti più incalliti. Le liriche trattano, al solito, temi scottanti quali la politica e il razzismo. 'Life Will Kill You" è un melting pot di stili, musica heavy metal a 360° di cui se ne sentiva la mancanza. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2007)
Voto: 75

http://www.clawfinger.net/

Minneriket - Anima Sola

#FOR FANS OF: Black Viking
Minneriket is a solo project created by the Norwegian musician Stein Akslen, who is well known in the Norwegian underground black metal scene (Blodsgard, Vakslen, Æra). His music has been featured on several underground compilation albums, as well as in several independent short-films. Prior to the inception of this project, Stein has been involved in several other bands, all of them related to black metal, so it’s not a surprise that also this one, which was founded in 2014, is solidly related to this genre. Lyrically, Minerriket´s music deals with paganism, existentialism and melancholy, which is not a surprise taking into account his profound interest in old mythologies and alternative spirituality. In only four years, Minnerriket has released four albums, including a tribute to Burzum. 'Anima Sola' is the new opus by Stein and I must admit that I was initially slightly confused with the album artwork, which reminds me some gothic meta/rock albums. The used artwork is a little bit misleading, but 'Anima Sola' is just another step in the evolution of the previous works and it is firmly rooted in a traditional black metal style. Sonically, this new work sounds more aggressive than the previous one, but it also has an occasional dense melancholic and mournful sound, which makes this album a hypnotic experience. The album flows between the most atmospheric tracks and the rawer ones being the winners, in my humble opinion, the mid-tempo tracks like the album opener “Tro, Håp Og Kjærlighet”. I like the slower riffing which sounds more intriguing and hypnotic, rather than the more straightforward sections contained in tracks like “An All Too Human Heart”. Those rawer and, occasionally, faster tracks are good but I think they can sound as too standard in comparison to those which recreate melancholic sonic landscapes. As usual, the longest tracks offer the chance of enjoying both aspects, and this time is no different with the sixth song entitled “Det Lyset Jeg Ikke Kan Se”. This song contains some of the best riffs of the album, which appear in the slowest and darkest sections, once again those parts are the most interesting ones, because they create an engrossing atmosphere. Another standing out track is “Sorger Er Tyngst I Solskinn”, due to its slightly experimental nature. It contains some sections with weird riffs and an initial choir with male clean vocals, which remind me the classic Viking metal choirs. A strange combination for sure, but it somehow can work if you like this sort of experimentations. In conclusion, Minneriket has released an album which can please the average black metal fan who wants a release with a raw and a traditional sound at the same time, but also with room to slight experimentations and variations in the pace. 'Anima Sola' is mainly a mid-tempo work with occasionally faster and furious sections. Anyway, this cd has its best moment when Stein focus his efforts on creating hypnotic and mid-tempo riffs, which make the album a more unique listening. (Alain González Artola)

(Akslen Black Art Records - 2018)
Score: 70

https://minneriket.bandcamp.com/album/anima-sola

martedì 1 maggio 2018

Hacride - Amoeba

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash Progressive, Meshuggah
'Deviant Current Signal' è stato il debut album dei transalpini Hacride, esempio eclatante di come fosse ancora possibile suonare death thrash senza essere assolutamente banali. Già con il loro album d'esordio, si erano rivelati band dall’enorme fantasia compositiva e dalle spiccate doti tecniche. 'Amoeba', il loro secondo lavoro del 2007, non fece altro che consolidare le certezze acquisite da quel primo lavoro, e proiettare il quartetto francese nell’olimpo delle band dedite a questo genere di sound, affiancando i maestri di sempre Meshuggah, ed esplorando inoltre territori cibernetici (Fear Factory docet) e, udite udite, grazie alla collaborazione con la band di flamenco, Ojos de Brujo, proporre anche una cover di folle “death flamencato”; esperimento quanto mai riuscito, pur ammettendo una certa diffidenza iniziale. Come sempre il punto di partenza della band è il death/hardcore dalle ritmiche sincopate, ricco di stop’n go, in cui s’insinuano frangenti acustici, sfuriate brutal, ambientazioni industriali e passaggi in cui un sound, carico di groove, ha la meglio sulla nostra psiche, e, impossessandosi dei nostri corpi, ci impedisce di stare fermi. Dieci tracce che ci schiacciano come piccole formiche, dieci tracce che fanno saltare come pazzi furiosi. Il vocalist, Samuel Bourreau, prende spunto dai vocalizzi del suo esimio collega svedese, cercando spesso di travalicare gli schemi, proprio come accade in “Zambra”, la cover a cui accennavo precedentemente, in cui canta addirittura in stile ska. L’intero disco, nonostante la sua monoliticità, viaggia su questi binari, regalandoci perle assai interessanti di un death/thrash futuristico per quegli anni. Da sottolineare l’ottima parte centrale del disco che si conclude con la graffiante “On the Threshold of Death”, brano che ci consegna una band matura e consapevole delle proprie potenzialità. Un’eccellente produzione, presso “L’Autre Studio”, chiude un disco dalle enormi capacità distruttive. Gli Hacride, pionieri del death del futuro? Credo proprio di si. (Francesco Scarci)